All’interno del pensiero di Heidegger, indubbiamente, quello relativo alla Kehre è sempre stato oggetto delle più numerose critiche, in particolare relativamente ad un ritorno – dai tratti considerati spesso esoterici – al pensiero dei primi pensatori, i presocratici. La recente traduzione italiana del xxxv volume della Gesamtausgabe, intitolata L’inizio della filosofia occidentale. Interpretazioni di Anassimandro e Parmenide, edita da Adelphi nel 2022, per molti versi, permette un diverso approccio.Innanzitutto,il corso del 1932 su Parmenide ed Anassimandro si colloca in una posizione importante all’interno del Denkweg heideggeriano: è subito successivo ad alcuni importanti testi che segnano il passaggio al pensiero della Kehre; soprattutto, nei due anni precedenti, Heidegger scrisse la conferenza del 1930 Dell’essenza della verità (Heidegger 1987, pp. 133-57) da cui poi trasse il corso dell’anno successivo (Heidegger 1997). Ma il testo è anche precedente a quello del 1935, Introduzione alla metafisica (Heidegger 2014a), il quale rappresentava finora la prima e decisiva presa in considerazione del pensiero pre-platonico, in particolare di Parmenide ed Eraclito. Prima di questo testo, come nota il curatore all’edizione italiana (Heidegger 2022, p. 14) i riferimenti sono brevi e sporadici, risalenti principalmente ad un corso del 1922 (Heidegger 2005a, pp. 209-31) e ad uno del 1926 (Heidegger 2000, pp. 137-46; 331-33). Se il pensiero heideggeriano fino al 1927, con Essere e Tempo, si muove nei riguardi della filosofia antica principalmente seguendo le orme di Aristotele (Volpi 2010), e se la Kehre inizia a partire dal 1930 in direzione dell’ἀλήθεια ( Heidegger 1987, pp. 133-157) con la critica alla dottrina platonica (Heidegger 1987, pp. 184-192), in L’inizio della filosofia occidentale Heidegger mostra l’aspetto più prettamente positivo della Destruktion della storia dell’ontologia (Heidegger 2005b, pp. 33-40), aprendosi per la prima volta ed in maniera decisiva al pensiero di Parmenide e Anassimandro, che ritorneranno spesso nei testi successivi.
Il testo consta di tre parti di cui la prima e la terza consistono nelle interpretazioni puntuali rispettivamente di Anassimandro e Parmenide, mentre l’esegesi svolta nella sezione centrale, di natura più ampia, offre la prospettiva da cui inquadrare le altre due. Della lettura di Anassimandro – qui interpretato per la prima volta –, ciò che risulta particolarmente interessante è la trattazione più ampia e piana dei frammenti rispetto al Detto di Anassimandro, comparso solo nel 1946, contenuto in Holzwege (Heidegger 2014b, pp. 379-441). In quest’ultimo testo, infatti, Heidegger si concentra solamente sulla parte centrale del frammento – «κατὰ τὸ χρεών· διδόναι γὰρ αὐτὰ δίκην καὶ τίσιν ἀλλήλοις τῆς ἀδικίας» (A 1 DK) – ritenendo le altre non affidabili (pp. 402-3); in L’inizio della filosofia occidentale il commento è completo (Heidegger 2022, p. 32), aprendo interessanti possibilità di confronto tra i due testi. Nel Detto di Anassimandro l’intero lavoro ermeneutico ottiene una propria dimensione nella traduzione di “τὸ χρεών” – «il primissimo nome per il pensato ἐόν degli ἐόντα» (p. 429) – in Brauch, pensando attraverso di esso l’Evento, la dinamica che rapporta l’Essere e l’uomo. Nel nostro testo, invece, la parte su Anassimandro si conclude sull’ultima parte tràdita del frammento, quindi sul concetto greco di χρόνος, un tempo che «non è per nulla solo la cornice dell’ordine della successione» (Heidegger 2022, p. 48) – ossia il risultato di una comprensione dell’essere a partire dalla sua sostanzialità semplicemente-presente – ma al contrario come ciò che è capace di «assegnare di volta in volta all’essere la sua “sistemazione” (Taxe)» (p. 51), cioè l’essere dell’ente. Questo aspetto rimanda all’ultimo termine analizzato del pensatore di Mileto, “τὸ ἄπειρον”, che – in un interessante utilizzo della semantica del Riß (pp. 58-64) centrale nell’Origine dell’opera d’arte (Heidegger 2014b, pp. 5-89) – riconduce alla dinamica della differenza ontologica, «la più originaria che in assoluto possa darsi» (Heidegger 2022, p. 64).
La parte dedicata a Parmenide, la terza, assume un ruolo ancora più importante per quando riguarda i successivi sviluppi del pensiero heideggeriano: rispetto agli altri due “pensatori iniziali”, Eraclito e Anassimandro, Parmenide è sicuramente quello che avrà una rilevanza maggiore, sia per numero di testi dedicatigli, sia per la sua presenza in quelli più teoreticamente decisivi, tutti incentrati principalmente sul frammento «τὸ γὰρ αὐτὸ νοεῖν ἐστίν τε καὶ εἶναι» (fr. 3 DK), tramite cui Heidegger tenterà di illuminare la co-appartenenza di essere e pensiero (Heidegger, 2009; 2014c pp. 158-75; 1999). Ciò che risulta interessante della parte dedicata a Parmenide è che qui Heidegger traduce e commenta tutti i frammenti superstiti del poema del filosofo di Elea, elaborando una struttura interpretativa che, seppur guidata dalle necessità di un corso universitario, colpisce per la complessità e il respiro ampio, elementi che nelle interpretazioni successive rimarranno in ombra. Di fronte all’impossibilità di un riassunto esaustivo di questa parte, che si mostrerebbe incapace di offrire l’esperienza di un tale lavoro, risulta più proficuo illuminare alcuni aspetti centrali. In particolare, il lavoro si muove inizialmente a partire da quella che Heidegger chiama «la tesi originaria» (Heidegger 2022, p. 208) di Parmenide – appunto il fr. 3 – già in queste pagine esplicitamente interpretata alla luce della reciproca co-appartenenza di essere e pensiero (pp. 224-5). Questo aspetto, quasi trent’anni dopo, assumerà una centralità fondamentale, in quanto riletto alla luce dell’Evento e alla sua connessione con il Ge-stell (Heidegger 2009, pp. 27-51). Oltre a questo primo aspetto, centrale come si è potuto vedere, per comprendere la genesi di alcuni dei concetti centrali dei testi dell’ultimo Heidegger, meriterebbero ulteriori analisi – qui impossibili da approfondire ma tuttavia importanti da rilevare – le due seguenti tesi che Heidegger evince dal testo: quella “essenziale”, secondo cui «l’essere è assolutamente non-nullo» (pp. 203-4); ed infine quella “temporale”, per cui l’essere, senza «parlare di atemporalità o di eternità […] sta in relazione con il presente, e solo con esso» (p. 207). Il tentativo che si prospetta in queste pagine sarà proprio quello di comprendere il legame reciproco tra queste tesi, attraverso un’analisi che culminerà nella problematizzazione dei concetti di presente e presenza, Gegenwart e Anwesenheit, i quali necessiteranno, come si è mostrato con Anassimandro, di un confronto con la temporalità. Che l’obbiettivo teorico di Heidegger sia quello di sottrarre Parmenide alla tradizionale interpretazione che lo vede come il sostenitore di un’ontologia statica ed immobile, risulta chiaro, oltre che dallo sviluppo delle tre tesi, soprattutto da un ulteriore aspetto che vale la pena di approfondire brevemente. Come appare nelle annotazioni redatte per la preparazione del corso (p. 310) Heidegger sottolinea molto spesso il legame tra ἀλήθεια e δόξα, anch’esso aspetto che non ricomparirà nei lavori successivi. Nonostante nel testo la dea intimi a Parmenide di evitare la via dell’opinione a favore di una verità fuori dal tempo, Heidegger rilegge i passi alla luce di una «coappartenenza essenziale» (p. 153) dei due termini: «chi vuole comprendere concettualmente la verità deve comprendere la non-verità, non può eluderla, bensì accogliere entrambe nel loro più intimo confronto reciproco» (p. 152). Tale è esattamente la dinamica che Heidegger cercherà di chiarire con il termine ἀ-λήθεια, dis-velamento. L’importanza di Parmenide dunque si mostra soprattutto in quest’ultimo passaggio: «la via di Parmenide conduce fuori all’Aperto, in quel Libero dove si libera anzitutto e per la prima volta l’intera antiteticità di verità e non-verità» (p. 153).
Ciò mostra come la lettura dei presocratici – seppure nell’aspetto didattico di un primo passo – rappresenti non solo una continuazione, come affermato in precedenza, del progetto mai smentito della Destruktion, ma altresì un approfondimento del problema della verità su cui si innesta la Kehre, tema la cui importanza veniva già sottolineata in Essere e tempo – in particolare nel paragrafo 44, il quale non a caso si apre con Parmenide – insieme alla necessità di un ritorno al pensiero pre-platonico (Heidegger 2005b, pp. 258-77). L’inizio della filosofia occidentale inoltre, proprio per il suo carattere di inizio, contiene un’ulteriore parte, quella intermedia, qui lasciata volutamente per ultima, che affronta in maniera esplicita numerose delle aporie e problematiche in seguito riconosciute in questo ritorno agli inizi. In fondo, questo tentativo di ritorno all’inizio, ha spesso suscitato il seguente interrogativo: «non si tratta forse di dogmi calati dall’alto, capricci di un incontrollabile arbitrio […]?» (p. 67). Come Heidegger stesso aggiunge poi: «due millenni e mezzo non si possono certo saltare semplicemente tenendo un corso universitario» (p. 68). L’idea di un restauro dell’origine e di un culto dell’autentico – seppur molto presenti nella critica (Adorno 2016) – non sono mai stati lo scopo del pensiero di Heidegger: «l’accesso all’“inizio” ci rimane sbarrato […]. Non v’è arte dell’interpretazione che ci consenta di superare l’abisso dei millenni» (p. 70) o, come ripeterà pochi anni dopo a riprova dell’importanza di questo aspetto: «sottrazione di un mondo e dissoluzione di un mondo non sono mai reversibili» (Heidegger 2014b, p. 34). Il tentativo di pensare la storia dell’essere non si riduce ad una storia del suo allontanarsi da un’origine piena, disponibile, a cui bisognerebbe fare ritorno attraverso pochi frammenti di un pensatore di cui ciò che abbiamo «è poco, e quel poco è incompleto» (Heidegger 2022, p. 32), bensì sta nella sfida rischiosa, che il testo incarna in pieno, di riscoprire nuove strade per il pensare, un pensare «non dell’uomo in assoluto e in generale – che non c’è mai e in nessun luogo» (Heidegger 2022, p. 89), bensì quello di un’esistenza concreta, storica, che prende le mosse sempre Aus der Erfahrung des Denkens (Heidegger 1986), dall’esperienza del pensiero.
di Pietro Prunotto
BIBLIOGRAFIA
Adorno, T.W. (2016). Il gergo dell’autenticità. Sull’ideologia tedesca. Trad. it. di P. Lauro. Torino: Bollati Boringhieri.
Heidegger, M. (1986). Aus der Erfahrung des Denkens. Stuttgart: Neske.
Id. (1987). Segnavia. A cura di F. Volpi. Milano: Adelphi.
Id. (1997). L’essenza della verità. Sul mito della caverna e sul «Teeteto» di Platone. A cura di F. Volpi e H. Mörchen. Milano: Adelphi.
Id. (1999). Parmenide. A cura di F. Volpi. Milano: Adelphi.
Id. (2000). I concetti fondamentali della filosofia antica. A cura di F. Volpi. Milano: Adelphi.
Id. (2005a). Phänomenologische Interpretationen ausgewählter Abhandlungen des Aristoteles zu Ontologie und Logik, in Gesamtausgabe (LXII). A cura di G. Neumann. Frankfurt a.M.: Klostermann.
Id. (2005b). Essere e Tempo. A cura di F. Volpi. Milano: Longanesi.
Id. (2009). Identità e differenza. A cura di G. Gurisatti. Milano: Adelphi.
Id. (2014a). Introduzione alla metafisica. A cura di G. Vattimo. Milano: Ugo Mursia.
Id. (2014b). Holzwege. Sentieri erranti nella selva. A cura di V. Cicero. Milano: Bompiani.
Id. (2014c). Saggi e discorsi. A cura di G. Vattimo. Milano: Ugo Mursia.
Id. (2022). L’inizio della filosofia occidentale. Interpretazione di Anassimandro e Parmenide. A cura di P. Trawny e G. Gurisatti. Milano: Adelphi.
Volpi, F. (2010). Heidegger e Aristotele. Roma-Bari: Laterza.
Dal momento in cui la pratica discorsiva del filosofo si è imposta come forma di sapere superiore a tutte le altre la metafora è stata vista come un semplice ausilio al quale ricorrere quando la teoria non funziona nel modo in cui è supposta funzionare. Non sono mai mancati, tuttavia, coloro che ritenevano la dimensione del concetto incapace di saturare il senso rendendo possibile eliminare del tutto il metaforico. Sarà Novecento che il discorso filosofico supererà ogni pregiudizio nei confronti della figuratività, dell’iconico, del narrativo integrandoli quali parte integrante dell’argomentazione filosofica. Nel presente numero si farà riferimento ad alcuni autori utili ad illustrare in modo paradigmatico lo scenario appena delineato.
From the moment the discursive practice of the philosopher emerged as a form of knowledge superior to all others, metaphor was seen as a mere aid to be resorted to when theory does not work the way it is supposed to work. There has never been a shortage, however, of those who considered the concept dimension incapable of saturating the meaning, making it possible to eliminate the metaphorical. It would be during the course of the 20th century that philosophical discourse would overcome any prejudice against figurativeness, the iconic, the narrative, integrating them as an integral part of philosophical argumentation. In this issue, reference will be made to a few authors useful in illustrating the scenario just outlined in a paradigmatic manner.
Scopo dichiarato dell’ultima opera di Rossella Fabbrichesi, Vita e potenza. Marco Aurelio, Spinoza, Nietzsche (Cortina 2022), non è tanto una ricostruzione storiograficamente rigorosa quanto la delineazione (e la messa in atto di un pensare-con) di un canone filosofico alternativo a quello, maggioritario, che ha tradizionalmente separato la filosofia dalla pratica di vita. Proprio questa impostazione rende il lavoro meno disponibile a essere recensito e più atto – in una compulsione al pensare, e dunque al vivere, che è tra i maggiori pregi del libro – a suscitare ulteriori interpretanti che spazino sull’uso delle sue idee.
I tre nomi che corredano il titolo e che scandiscono il succedersi dei capitoli – Marco Aurelio (adottato come simbolo dello stile di pensiero stoico), Spinoza e Nietzsche – infondono a questo rimando un carattere marcatamente etico: non si tratta di ottenere qualche conoscenza filologica, ma di saper incorporare una certa comprensione della verità, di «dare uno stile» al proprio pensiero e quindi alla propria vita, nella convinzione – trasudante già dalle pagine del lavoro precedente di Fabbrichesi, Cosa si fa quando si fa filosofia? (Cortina 2017), ma qui portata a tema e sviluppata attraverso il confronto con le sue radici più autentiche – dell’inseparabilità di filosofia ed ethos. La pratica filosofica è intesa come askesis, esercizio al servizio della vita. Con un termine foucaultiano che ricorre in queste pagine, la filosofia è prima di tutto etopoietica. In due passi che sintetizzano efficacemente il tono generale del pensiero di Fabbrichesi: «il fine della vita, la massima felicità (eu-daimonia), è lavorare a costruirsi un carattere (ethos), riconoscendo, affermando, volendo ciò che in esso è destinato (il proprio daimon)» (p. 21); «La filosofia come modo di vita orienta dunque verso uno strenuo lavoro di rimodellazione del sé, una trasformazione che sappia creare soggetti non più assoggettabili, soggetti che sappiano disporre dei dispositivi che normalmente li incatenano» (p. 58).
Del suo maestro, Carlo Sini, l’autrice mantiene l’idea che il rapporto col mondo consista in una ripetizione e modulazione a partire da qualcosa che ereditiamo e che ci dà forma in maniera essenziale: non è il pensiero a essere nella nostra testa, siamo noi a essere nel pensiero. A questa consapevolezza, Fabbrichesi affianca però la lezione di una tradizione filosofica che – sulla scorta di intermediari ermeneutici come Hadot, Foucault e Deleuze – sottolinea il ruolo che la potenza può ricoprire nel superamento della dicotomia tradizionale tra soggetto e assoggettamento, polo, il secondo, sul quale Sini tende ancora ad ancorarsi. Il concetto di potenza è ciò che rende l’agente non solo soggetto alle pratiche, ma anche, in una misura che si tratta di scoprire volta per volta, soggetto delle pratiche, che possono essere modificate, progressivamente e con un duro esercizio, proprio perché esse hanno bisogno di passare attraverso l’agente per perpetuare la propria realtà. Pratica non è più solo l’insieme di dispositivi nel quale siamo immersi, ma un compito che può riarrangiare questo stesso campo. La potenza è qualcosa che innanzitutto troviamo come dato, su cui dobbiamo lavorare, che infine raggiungiamo in maniera nuova.
Il cuore teoretico del libro potrebbe essere localizzato in una rilettura etica della massima pragmatica di Peirce, pensatore cui Fabbrichesi ha dedicato i suoi primi anni di studio: stando a Peirce, un’entità (un’idea) è identica a quell’insieme di effetti condizionali che possiamo immaginare seguano dalla sua esistenza (dalla sua assunzione). Leggere eticamente questa massima significa prescrivere che questa somma condizionale di effetti (che, con la mediazione di Spinoza, divengono piuttosto affetti) venga spostata nella direzione che più si accorda a un aumento di potenza dell’entità considerata. Ciò significa che, Peirce con Spinoza, il conatus curvato verso l’habitus, la potenza diventa il dispositivo ontologico fondamentale, sostituendo la forma come il concetto definente le entità nel modo più profondo, in un rovesciamento, silenzioso ma totale, del modo di pensare maggioritario (quello di matrice aristotelica) all’interno della tradizione occidentale. Il «pragmatismo raffinato» (pp. 42, 103) che l’autrice ascrive agli autori di questo canone è un pragmatismo etico, che mira all’esercizio delle nostre possibilità vitali più profonde. L’idea non è più un generale, come in Peirce, ma un’essenza singolare e vitale, la cui determinazione, rimandata a «una visione intrecciata a una pratica» (p. 120), va intesa meno in termini descrittivi che di sperimentazione e scoperta. Un’etologia che è inseparabile da una trasformazione, che riguarda non «un’essenza pensata come avviluppata in possibilità inespresse, riferita a un generale universale cui conformarsi, ma […] un’essenza che non è che singolarizzazione in un’espressione costantemente attiva e in via di definizione» (p. 111). Si tratta, con le parole dell’autrice, di «trasformare gli affetti passivi in affetti attivi, ampliare le zone di dominio, anzitutto su di sé, ordinare gli spazi passionali dove fluttuiamo in un mare di oscurità e ambiguità» (p. 82).
Dal punto di vista storiografico, il grande spostamento individuato da Fabbrichesi riguarda il nodo problematico che si forma tra la dialettica libertà-necessità – gli autori di riferimento, come noto, tendono a vedere la prima come consentimento alla seconda – e la gestione delle passioni. La tendenza, di cui Fabbrichesi mostra tutta la bontà nonché una sorta di inevitabilità evolutiva, sta nello scivolamento dalla recisione stoica delle passioni, viste con tinte quasi tumorali come un intralcio alla conformazione al logos, alla via spinoziana della selezione, tra le passioni, di quelle che sono atte ad aumentare la nostra potenza. Dalla battaglia quale modello di rapporto al mondo si passa alla danza; dall’imperturbabilità quale fine ultimo della pratica filosofica si passa alla gioia. Lo spostamento è del massimo peso teoretico per quanto riguarda l’immagine della libertà che ne emerge. Il paradigma stoico – ben reso dall’immagine aureliana della «cittadella interiore», che Fabbrichesi evoca spesso insieme a Hadot – vedeva l’animo umano come qualcosa che, pur partecipando della corporeità universale, restava in qualche modo separato da essa: proprio nell’identità tra separazione (imperturbabilità) e conformazione stava l’ideale del saggio stoico, il suo consentire al fatalismo cosmico. Da questo punto di vista, i sostenitori del fatalismo e quelli del libero arbitrio di matrice cristiana mostrano la stessa ingenuità nel ritenere l’agente in qualche modo un’eccezione rispetto al resto del cosmo, pur in due direzioni opposte: i secondi assegnano un’agency completa al soggetto proprio come i primi lo privano di ogni possibilità fuori da quella di acconsentire a un divenire di matrice esterna. La teoria stoica, mai sviluppata con rigore, dei «confatali» puntava già nella direzione che poi sarebbe stata sviluppata da Spinoza: proprio perché l’agente non è un’eccezione rispetto al resto del cosmo, esso non è del tutto libero, ma è una parte di quella libertà cosmica che forma la necessità individuale, e può pertanto interferire, curvare, selezionare: come spiega Fabbrichesi, «nel senso etimologico del termine, de-cisione è taglio, una selezione» (p. 47). L’agente non è una cittadella che deve tagliarsi fuori dal mondo esterno; esso è piuttosto una membrana che può filtrare una concatenazione di eventi, che vengono così a dipendere, in una misura e solo se questi sarà in grado di rendersi «causa adeguata», anche da lui. Per Spinoza, non si tratterà per nulla di «non farsi toccare»: «gli Stoici operano attraverso una sospensione del rapporto difettivo con il mondo, Spinoza attraverso un’immersione totalmente affettiva in esso» (p. 116). L’individuo, lo sottolineerà efficacemente Deleuze, non ha rapporti, ma è esso stesso un avviluppo di rapporti; la gioia individuale, come spiega Fabbrichesi, va intesa allo stesso tempo come una forma di «autoerotismo» dell’unica sostanza, come il mondo che guarda se stesso compiaciuto (p. 121). La ragione non può lavorare in assenza di un supporto emotivo – meglio ancora, come vedrà Nietzsche, la ragione non ha valore che quello che le deriva dall’essere «l’affetto più potente» (p. 54). È questa con-fatalità a rendere il paradigma dell’imperturbabilità ancora in qualche modo un fraintendimento rispetto a quello della gioia; conclude Fabrichesi, mostrando quanto indistricabilmente vadano concepiti agente e mondo: «Vi è un intreccio avviluppante di decisioni che vengono consapevolmente operate e di esseri che strenuamente decisi ad agire. Ma l’essere decisi affonda le radici in una serie di concatenamenti che non si possono conoscere, se non cogliendo l’invito della filosofia a divenire saggi» (p. 48).
Alberto Giacometti: Three Men Walking II. The Metropolitan Museum of Art
Ricomposta l’estraneità di facciata tra ragione e affetto, la potenza acquisisce il ruolo di autentico sostrato, se di sostrato si può ancora parlare, del diventa ciò che sei: l’indagine di Fabbrichesi potrebbe intendersi anche come una grande riflessione attorno a questo precetto dal carattere storicamente problematico, caratterizzato da una ricchezza semantica che appare inesauribile da ogni trattazione unilaterale. Tra i grandi meriti di Fabbrichesi v’è anche quello di lasciar emergere a turno, attraverso i tre capitoli del libro, le accezioni che esso può assumere, e che serve sempre tenere presenti con uno sguardo sinottico, per riequilibrare le problematiche di un uso del linguaggio ricalcato su un’esistenza diacronica, che non può che tradire un pensiero che cerca di cogliere il punto di vista dell’eterno (la scienza intuitiva, l’eterno ritorno). Prolungando le linee tracciate da Fabbrichesi, potremmo analizzare questa concettualità inviluppata scomponendola in quattro fattori problematici, quattro fonti classiche di equivocità che non sono in realtà che i diversi aspetti di quest’unica natura solo apparentemente antinomica del precetto.
Primo: l’autrice richiama spesso alla necessità, scoperta dagli stoici, di «imparare a vivere secondo natura» (pp. 24, 173), di scoprire nella fondamentale consonanza col cosmo la nostra potenza più propria. Quello che, così formulato, potrebbe apparire come un grido quasi reazionario è in realtà il più radicale e materialista dei punti di vista, il più lontano da un appello meramente normativo a una supposta natura cui adeguarsi coattamente. Seguire la natura è anche seguire la propria natura, è affermare la superiore originalità della physis immanente rispetto a un nomos spesso imposto, l’anteriorità della potenza sulla forma; è affermare il diritto dell’esistente, anche di quello singolare, in rapporto a ogni ideale estrinseco, poiché non c’è ideale che quello immanente al singolo esistente. Il nietzschiano «diventa ciò che sei» significa proprio, al di là di ogni «dover essere», elevare a potenza questa physis che troviamo come data.
Secondo: può essere una preoccupazione legittima che questa prospettiva appaia come una giustificazione dell’irresponsabilità. In un libro recente (Sulla viltà, Einaudi 2021), Peppino Ortoleva si domanda ad esempio se davvero si possano mettere sullo stesso piano Don Abbondio, che non fa che realizzare la propria natura di pavido, e personaggi come Fra Cristoforo e l’Innominato, la cui grandezza starebbe proprio nell’andare contro se stessi, dominando il proprio temperamento quasi criminale. A sua volta, il precetto di ripetere potenziata la propria essenza prima non deve trasformarsi in un nuovo asserto normativo che impedisca il lavoro su di sé e la trasformazione, e anzi l’intero percorso filosofico tracciato da Fabbrichesi tende nella direzione inversa. Ciò che sentiamo come più autenticamente nostro può spesso non coincidere con la nostra potenza, ciò che possiamo non è sempre identico ai nostri abiti immediati. Il «cammino del consentimento», come lo chiama Paul Ricoeur nella sua Filosofia della volontà, a condizioni che non abbiamo scelto, come il nostro carattere, l’inconscio, le condizioni biologiche, è un cammino che può essere completato, persino deviato, accogliendo influenze esterne e metabolizzandole affettivamente. L’amor fati è inseparabile da una «trasvalutazione degli affetti» (p. 171), e il «ciò che sei», lungi dall’essere dato dall’inizio e una volta per tutte, comprende anche tutte quelle cose che abbiamo reso nostre.
Terzo: anche così, sembra impossibile appianare del tutto la tensione tra il punto di vista dell’accettazione piena – la prospettiva stoica, l’amor fati nietzschiano – e quella del divenire gioioso – la gioia di Spinoza, la volontà di potenza, che sembra in qualche modo incitare alla lotta per il miglioramento delle condizioni vitali. Amor fati non significa solo acconsentire a tutto quanto ci accade; significa altresì, e forse soprattutto, dare forma a un destino che possiamo amare. Come recita un meraviglioso aforisma postumo di Nietzsche citato dall’autrice, l’eterno ritorno non insegna che a «vivere in modo tale che tu debba desiderare di rivivere» (p. 174). Gli stoici certo insegnano a non «digrignare i denti» contro quanto il destino ci riserva, ma altrettanto «contro natura» sarebbe forzare noi stessi all’accettazione di tutto quanto viene da fuori. Il consentimento è sempre trasformazione del consentito; il suo vero significato è ben reso da Fabbrichesi: «Rassegnarsi, nel senso etimologico di ri-assegnarsi: fare sì che il destino divenga una destinazione desiderata, assunta, guadagnata come un proprio movimento libero […] Libertà diviene allora sinonimo di potenza: capacità di conoscere e ri-conoscere ciò che accade» (p. 46).
Quarto: l’intero lavoro di Fabbrichesi si lascia consapevolmente attraversare da un grido lanciato da Spinoza ed esaltato dalla lettura deleuziana: non sappiamo cosa può un corpo. Ogni singolo affetto è determinato da una rete relazionale così complessa che nessuna mente finita potrebbe prevederne con esattezza l’esito. Da qui l’imperativo di non dire in anticipo – in termini deleuziani, non giudicare, ma lasciar esistere, vale a dire sperimentare. È questo corredo a privare il «diventa ciò che sei»di ogni contenuto normativo determinato, convertendolo piuttosto in una disposizione alla creazione di un essere nella cui realizzazione il nostro carattere possa scoprire la gioia. Non c’è modo di sapere ciò che siamo se non attraverso una lunga e rischiosa sperimentazione. Cos’era la follia di Nietzsche se non l’estremo amor fati applicato a questa sperimentazione? Cosa sono i richiami di Deleuze alla necessaria prudenza richiesta dalla sperimentazione, se non un orrore ammirato al pensiero di una vita piena che, come quella di Nietzsche, è stata dilaniata dal coraggio di un’assenza di misura? Il concetto di limite invocato da Fabbrichesi attraverso Deleuze serve proprio a questo scopo: la potenza è un tendere che deve contenersi un passo prima del proprio disfacimento, è sprigionamento di forze ma anche mantenimento di un’organizzazione minimale che ne assicuri il funzionamento coordinato. Non un rigido «limite-cornice», ma un «limite-tensione» (pp. 113-4) che col giusto lavoro può sempre essere spostato un passo più in là. L’esercizio spirituale è sempre un bilanciamento di forze centrifughe o espansive, espressive di potenza, e di forze centripete e contenitive che danno forma a un nucleo che fa da aggancio sempre metamorfico agli accidenti del mondo e del carattere.
Tutte queste difficoltà vengono insomma dalla necessità di cogliere il precetto sinotticamente, sia dal punto di vista temporale e umano, che da quello dell’eternità, dal punto di vista dell’esercizio che si dispiega e di quello dell’essere. La stessa essenziale duplicità si ritrova nel concetto di vita, altro polo della diade che fa da protagonista al libro. Esso si identifica da una parte come il flusso, impersonale e in questo senso atemporale, che definisce la potenza. Ma vita è anche la vita vissuta, ad un livello non riducibile a quello meramente personale o impersonale – una vita, diceva Deleuze –, e che acquisisce definitezza attraverso le pagine di una scrittura ancorata allo stesso svolgimento narrativo del vissuto. L’ultimo capitolo del libro è fondamentale alla comprensione complessiva del lavoro non solo in quanto ai contenuti, ma per la sua stessa forma: proprio l’approccio biografico a Nietzsche – o meglio, a «Friedrich» – eleva a potenza l’identificazione della filosofia con la sua pratica. Di Nietzsche, Fabbrichesi non presenta la dottrina o la teoria, ma «la potenza pratica di lavoro su di sé» (p. 127) con cui egli annullò la differenza tra la sua vita attuale, perlopiù derelitta e impotente, e la realizzazione della sua potenza più propria. Un divenire-Friedrich (avrebbe detto Deleuze), dell’autrice quanto del lettore, viene messo in atto attraverso le vicende e le lettere, in particolare quelle relative al tormentato rapporto con Lou Salomé. Pochi pensatori esemplificano quanto Nietzsche la solidarietà tra vita e pensiero evidenziata da una tradizione che da Diogene Laerzio va fino a Sini; se questa solidarietà si integra tanto bene al tono più ermeneutico-testuale dei primi due capitoli, è soprattutto perché Nietzsche mostra quanto la scrittura della propria vita possa configurarsi anch’essa come un esercizio volto all’aumento della potenza. Fabbrichesi suggerisce anzi che solo tramite tale esercizio Nietzsche fu capace di vedere la grandezza insita nella propria esistenza. L’auto-bio-grafia come askesis consiste, si potrebbe dire, nel saper cogliere gli eventi marchiati dal proprio nome, finanche gli eventi più tragici e sciagurati, da quel punto di vista che permette di vederli come tasselli del compimento di un destino. La «grande salute» non è uno stato, ma quel punto di vista dal quale la malattia si può narrare come identica alla salute, la sventura come identica alla realizzazione di sé, la disperazione più profonda alla gioia più alta. Potremmo parlare, facendo confluire Nietzsche, Peirce e Sini nella lente di Fabbrichesi, di un interpretante auto-bio-grafico finale, della scoperta di quel punto vitale che permetta una risignificazione integrale degli eventi come passi sul cammino della potenza di una vita.
Vita e potenza è anzitutto – lo prospetta la stessa autrice rifacendosi nelle prime pagine a Rachel Bespaloff – un incontro in forma di libro. Il suo pensare-con gli stoici, con Spinoza e Nietzsche è un generatore di ulteriori compulsioni a con-pensare – e ciò significa, seguendo l’equazione tra pensiero e vita, che il percorso tracciato da Fabbrichesi attraverso il suo canone di autori diventa anche un’esperienza vitale trasformativa. La contagiosità dell’urgenza personale espressa dal libro fa sì che lettura ed esercizio vengano a coincidere. Si tratta già di un aumento di potenza.
Esiste un elemento in comune tra una passeggiata, un viaggio in treno o una visita al museo: il paesaggio. Guardato, rappresentato, vissuto, il paesaggio, come da definizione, restituisce e precisa tanto una porzione di territorio quanto un’immagine. Ma dov’è allora la differenza – e quale la sua natura - tra un paesaggio dipinto da Cézanne e un paesaggio che si erge all’orizzonte e si percorre con i sensi durante un’escursione? Questo il primo quesito con cui si apre il libro di Justine Balibar, dottoressa e professoressa di filosofia, Qu’est-ce qu’un paysage?, edito da Vrin nel 2021.
Il termine paesaggio è intendibile in due sensi: uno realista, l’altro iconico. La differenza sostanziale, specifica nelle prime pagine Balibar, è data dalla « situazione spaziale del soggetto percettore in relazione allo spazio percepito » (trad., p.8). Nel caso del paesaggio rappresentato, il soggetto si posiziona in uno spazio distinto rispetto a quello che percepisce; una fotografia, un quadro e, più generalmente un’immagine, racchiudono uno spazio a due dimensioni – delimitato da un’eventuale cornice o bordo – sottolineandone la lontananza e l’inaccessibilità fisica e ontologica; « noli me tangere » sarà l’ordine costitutivo del paesaggio rappresentato. Al contrario, il paesaggio reale circonda il soggetto che si situa e si muove all’interno dello spazio percepito, trovandosi in una relazione di continuità con esso. Ne consegue dunque, seguendo il ragionamento di Balibar, che il paesaggio rappresentato e quello reale rilevano due spazialità distinte da cui dipendono due esperienze estetiche differenti: « da una parte, spiega la filosofa, l’esperienza contemplativa della percezione di uno spazio separato dal nostro, uno spazio al di fuori del quale siamo situati, dall’altro l’esperienza immersiva o integrativa della percezione di uno spazio in continuità con il nostro, uno spazio in cui siamo situati.» (trad., p.11). Inoltre, rispetto al paesaggio rappresentato, quello reale mette in gioco non soltanto un’esperienza estetica della percezione – dall’aisthésis greca, esperienza fondata sulla percezione sensibile – ma anche da un’esperienza pratica del movimento, dell’attività fisica del corpo nello spazio.
Poste queste prime differenze, quali rapporti intrattengono il paesaggio reale e quello rappresentato? Si possono pensare a dei legami di interdipendenza tra questi due paesaggi? Per rispondere a queste domande, Justine Balibar ripercorre la storiaetimologica della parola ‘‘paesaggio’’ cercando di contestualizzarne l’uso lessicale e di comprendere l’origine della confusione contemporanea tra i sensi, realista e iconista, del termine. Per una curiosa inversione del rapporto che vorremmo spontaneamente instaurare tra la realtà e la sua rappresentazione, ai nostri giorni, osserva Balibar, l’idea di paesaggio, inteso nel suo senso realista, è stato contaminato dall’idea della rappresentazione « come se il paesaggio reale dovesse essere sempre compreso e percepito in termini di paesaggio rappresentato, o addirittura come se, alla fine, esistesse solo un paesaggio rappresentato » (trad., p.12). L’origine? Il topos iconista, secondo cui il paesaggio rappresentato eserciterebbe un’ascendenza sul paesaggio reale. Complici di questo pensiero sono la teoria settecentesca del pittoresco e, nell’età contemporanea, i teorici del paesaggio come Augustin Berque (1995), Anne Cauquelin (2004) e Alain Roger (1978 ; 1997). Questo primato tradizionalmente attribuito al paesaggio rappresentato rispetto al paesaggio reale è inteso nel senso di una precedenza cronologica e logica. Secondo Alain Roger l’esistenza di rappresentazioni paesaggistiche, nella sua prima formulazione rinascimentale, avrebbe permesso la costituzione di un metodo di percezione e apprezzamento dei paesaggi reali in natura; un fenomeno che l’autore chiama “artialisation”, sottolineando il ruolo cruciale dell’arte nella formazione del nostro modo di osservare e considerare il paesaggio. Sulla stessa linea di pensiero, la teoria di Anne Cauquelin sostiene che il Rinascimento ha visto l’avvento di un nuovo genere pittorico - la pittura di paesaggio - che avrebbe sviluppato il nostro senso e la nostra cultura del paesaggio, determinando così la nostra capacità a percepirli e apprezzarli. Un po’ provocatoriamente, si potrebbe ribattere, con Justine Balibar, che prima della comparsa della pittura di paesaggio, non ci sarebbe stato alcun paesaggio nel mondo reale; detto altrimenti, non saremmo stati in grado di sperimentare i paesaggi nel mondo fisico né tantomeno di apprezzarne la bellezza.
Per discutere e confutare la teoria del primato del paesaggio rappresentato su quello reale, Balibar inizia con il criticare la teoria dell’anteriorità cronologica del paesaggio rappresentato rispetto al paesaggio reale. A difesa della teoria viene spesso avanzata un’argomentazione di natura lessicale, che relaziona l’origine del paesaggio con l’origine della parola “paesaggio”, nata durante il periodo rinascimentale nel gergo pittorico, per designare innanzitutto una rappresentazione del territorio prima del suo aspetto reale. Una prova argomentativa di duplice debolezza : in primo luogo, afferma l’autrice, questa teoria semplifica eccessivamente il complesso sviluppo etimologico della parola “paesaggio” e, in secondo luogo, ne riduce il concetto al suo corrispettivo terminologico.
Per rispondere a questa argomentazione, Justine Balibar si sofferma, per diverse pagine, a seguire la storia etimologica, complessa e intricata, del termine “paesaggio”, comparandolo ai suoi equivalenti europei, occupandosi poi di distinguere il livello lessicale da quello concettuale. Esistono, infatti, altre parole oltre a ‘‘paesaggio’’ che traducono il concetto, sia in francese che in altre lingue europee: l’inglese ‘‘prospect’’, il francese ‘‘contrée’’, l’italiano ‘‘contrada’’, tutti termini che designano inequivocabilmente il territorio così come si dispiega davanti a noi e si offre alla nostra vista. Non c’è bisogno, quindi, della parola ‘‘paesaggio’’ per esprimerne il concetto e neanche di parole o espressioni legate ad un contesto pittorico : né ‘‘prospettiva’’, né ‘‘contrée’’ o ‘‘contrada’’, né ‘‘facies locorum’’ o ‘‘forma regionis’’ provengono originariamente dal registro della rappresentazione pittorica. Inoltre, il ricorso all’argomento lessicale tende a nascondere tutto ciò che è paradossale nell’affermazione di un’anteriorità cronologica del paesaggio rappresentato rispetto a quello reale. Questa affermazione sembra controintuitiva perché contravviene al rapporto che siamo spontaneamente tentati di stabilire tra realtà e rappresentazione, tra modello e copia; non dovremmo essere in grado di percepire e apprezzare i paesaggi nel mondo reale, prima di poterli rappresentare su una tela? Si chiede Balibar. E ancora, un paesaggio non dovrebbe esistere realmente prima di poterlo fotografare?
Riprendendo gli esempi descritti da Philippe Joutard (1986), Balibar ricorda l’abbaglio di Dürer, durante il viaggio a Venezia del 1494, davanti alle forme e ai contrasti delle Alpi, che gli fornirono numerosi soggetti per disegni e dipinti. Allo stesso modo Brueghel, al tempo del suo viaggio in Italia del 1551, si soffermò tra i paesaggi alpini che ispirarono la valle montana ne Cacciatori nella neve. E lo stesso Leonardo da Vinci, con la sua profonda conoscenza del paesaggio dell’Italia settentrionale, dalla campagna agricola della pianura padana alle montagne lombarde, evoca nei suoi scritti le contemplazioni paesaggistiche.
Di fronte a questi esempi, si potrebbe certamente obiettare che se Dürer, Brueghel o Leonardo si dimostrano capaci di vedere e apprezzare paesaggi reali, è proprio perché li vedono con ‘‘l’occhio del pittore’’. Sembrerebbe non esserci una via d’uscita: chiedersi se viene prima il paesaggio reale o il paesaggio rappresentato, è il paradosso dell’uovo e della gallina. Per risolvere la questione, Balibar si discosta da una prospettiva unicamente cronologica e storica, interrogando in modo approfondito la natura del concetto di paesaggio. Porre la questione in termini genealogici, scrive la filosofa, « porta a un vicolo cieco, perché la questione è insolubile a meno che non si difenda una posizione ingenua - i pittori devono aver percepito i paesaggi reali prima di rappresentarli nei loro dipinti - o paradossale - nessun paesaggio reale prima del Rinascimento e dello sviluppo della pittura di paesaggio » (trad., p.23).
La seconda parte del riflessione di Balibar, inizia riproponendo la distinzione con cui esordiva il suo testo: il paesaggio rappresentato è un’immagine, il paesaggio reale è un ambiente fisico. Considerazione che permette di evitare di cadere nell’illusione iconista e confondere il paesaggio reale con le sue rappresentazioni, « la chose avec l’image de la chose » (p.30). A questo proposito, l’estetica ambientale che si è sviluppata nel mondo anglosassone a partire dagli anni Sessanta con autori come Ronald Hepburn (1966), John Baird Callicott (1983; 1994), Allen Carlson (1979; 1981), Emily Brady (1998; 2003), Arnold Berleant (1992) e Noël Carroll (1993), offre preziose risorse teoriche per pensare al paesaggio come ambiente e al tipo di esperienza estetica a cui si presta. Il gesto decisivo dell’estetica ambientale consiste nel difendere una definizione naturalistica dell’ambiente, riconoscendolo come uno spazio fisico polisensoriale e tridimensionale, radicalmente distinto da un’immagine. Tuttavia l’estetica ambientale non è un’estetica del paesaggio: « Per comodità, spiega Balibar, i filosofi dell’estetica ambientale, preferiscono parlare di ‘‘ambiente’’, di ‘‘natura’’ o di ‘‘territorio’’ piuttosto che di ‘‘paesaggio’’, il quale possiede ancora connotazioni artistiche o iconistiche, marcate » (trad., p.35). La nozione di paesaggio reale non si sovrappone a quella di ambiente, ma vi è inclusa. Il paesaggio è infatti un tipo di ambiente con determinate caratteristiche proprie che lo distinguono da altri tipi di ambienti.
Se i teorici dell’estetica ambientale non si sono interessati alla specificità degli ambienti paesaggistici in relazione ad altri tipi di ambienti, altri autori, provenienti da diverse tradizioni teoriche, hanno preso in considerazione questa questione. È il caso del filosofo italiano Rosario Assunto, che definisce i paesaggi reali come ambienti la cui caratteristica principale è l’apertura spaziale : gli ambienti paesaggistici sono ambienti aperti, in contrapposizione ad ambienti chiusi e confinati come un giardino o un sottobosco. Al contempo, l’apertura si oppone all’illimitatezza o a tutto ciò che, per immensità, supera le capacità di sintesi percettiva di un soggetto umano: l’Universo, la Terra, un Paese intero o persino un’immensa regione sono ambienti troppo vasti per essere percepiti nel loro insieme, ossia per poter costituire un paesaggio in sé. L’apertura che caratterizza in modo specifico l’ambiente paesaggistico lo colloca in una posizione intermedia tra gli ambienti chiusi e confinati e gli ambienti sproporzionati o illimitati. Continuando l’analisi di Assunto, possiamo dire che l’apertura non è la semplice dimensione spaziale. Affinché uno spazio sia aperto quest’ultimo deve estendersi tra due punti: tra il vicino e il lontano, tra il punto di vista a cui è ancorato il soggetto che percepisce e il punto di fuga fino al quale la sua percezione può spingersi. Il paesaggio si apre fino al punto in cui lo si può attraversare (visivamente o fisicamente), ma anche dal punto in cui ci si colloca nello spazio e lo si percepisce.
Date queste condizioni, il paesaggio, come ambiente aperto, presuppone un tipo particolare di esperienza, sia dal punto di vista del funzionamento percettivo che dell’articolazione della percezione rispetto al movimento. Il corpo è coinvolto interamente nella misura in cui è in grado di muoversi e percepire il paesaggio attraverso una pluralità di sensazioni, non solo visive, ma anche tattili, cinestesiche, olfattive e uditive, persino gustative. Nel momento in cui il corpo del soggetto che percepisce è in movimento nello spazio che contempla, la visione del paesaggio non è più autonoma: il movimento rende possibile una variazione costante degli angoli di visuale e, di conseguenza, una moltiplicazione indefinita delle vedute del paesaggio. I punti di vista si susseguono fondendosi l’uno nell’altro senza determinazione di un punto di vista privilegiato; il paesaggio reale, basandosi su una percezione in movimento, non è una vista o una serie di viste discontinue come il paesaggio rappresentato, ma è un continuum visivo. Il movimento è quindi una condizione specifica della visibilità del paesaggio reale e della sua leggibilità per lo sguardo del soggetto che percepisce. Per riassumere, citando la filosofa Balibar : « L’esperienza dei paesaggi reali lascia una grande libertà estetica al soggetto, a differenza del paesaggio rappresentato, che impone una cornice e un atteggiamento. Spetta al soggetto comporre la propria esperienza, nella molteplicità delle possibilità che gli vengono offerte. Tuttavia, una maggiore attenzione permette di determinare modalità di movimento e di sperimentazione più appropriate di altre, a seconda della tipologia di paesaggio - camminare o arrampicarsi in alta montagna, utilizzare l’automobile nei grandi spazi delle Badlands americane » (trad., p.57).
Come ogni esperienza, anche quella del paesaggio reale è condizionata da un certo contesto culturale, non esclusivamente di natura artistica. La cultura che guida e modella la nostra comprensione dei paesaggi reali non è fatta solo di immagini di paesaggi, ma comprende anche un’intera gamma di altre pratiche non artistiche e non rappresentative, a partire dalle tecniche e dalle pratiche fisiche che ci permettono di muoverci all’interno dei paesaggi, fino alle conoscenze teoriche che ci permettono di capire e interpretare le percezioni di un paesaggio. Le rappresentazioni del paesaggio sono quindi solo un aspetto di una cultura del paesaggio più ampia ed eterogenea, e sembra difficile in queste circostanze concludere che i paesaggi rappresentati abbiano una precedenza assoluta sui paesaggi reali.
Per concludere la sua riflessione sulle differenti declinazioni del concetto di paesaggio, Justine Balibar si allarga a delle problematiche che trascendono quelle puramente estetiche. A questo proposito intraprende un’analisi del ciclo di affreschi di Ambrogio Lorenzetti Allegoria ed effetti del buono e del cattivo governo (1338) considerato da taluni come il primo paesaggio dell’arte occidentale, esempio della circolazione tra reale e rappresentazione, che caratterizza l’estetica paesaggistica occidentale, e interessante in quanto introduce un’altra dimensione fondamentale e costitutiva del concetto di paesaggio: la sua dimensione socio-politica.
Situato in un luogo pubblico e politico, al Palazzo Pubblico di Siena, seggio del governo della commune, l’affresco è di chiara vocazione politica e non meramente estetica. L’affresco, richiesto a Lorenzetti dalla governo dei Nove in un momento di grande instabilità politica e sociale, rende pubblico e accessibile a tutta la popolazione un messaggio politico complesso sulla questione del bene comune. Con il suo affresco, sottolinea Balibar, Lorenzetti presenta il paesaggio come « l’incarnazione territoriale di una politica, di un governo, di un vivere insieme » (trad., p.67). Il paesaggio diviene cosi non solo uno spazio particolare da percepire, ma soprattutto uno spazio particolare da vivere, abitare e modificare all’interno di una comunità attiva. La cultura del paesaggio è infatti cultura del façonnement (Jackson, 2003; Besse, 2009): il paesaggio si modifica attraverso tutte le attività che costituiscono la nostra cultura e, molto spesso, sono il risultato di scelte politiche. Le trasformazioni del paesaggio dipendono da decisioni politiche di una collettività più o meno grande, tanto sul piano sociale che sul piano economico o ambientale.
Da questo punto di vista allora, specifica Balibar, il paesaggio rappresenta una necessaria articolazione tra la contemplazione estetica e l’interesse pratico. La filosofa conclude la sua riflessione con una citazione di Rosario Assunto : « “il paesaggio è una realtà estetica che contempliamo mentre viviamo in esso”. Perdere questa dimensione d’attività vitale e pratica all’interno del paesaggio, vorrebbe dire prendere il rischio di impoverire considerabilmente l’esperienza estetica del paesaggio » (trad., p.69). Dovremmo forse considerare nelle attuali politiche ambientali e nel nostro modo di concepire il paesaggio, la suggestione del Lorenzetti e del suo “buon governo”.
In appendice, Balibar inserisce e commenta due testi che risultano essenziali per comprendere meglio il significato, per la cultura occidentale, del concetto di paesaggio, e le tensioni tra quello reale e rappresentato, offrendo due modelli esemplificativi presi da due contesti storici molto lontani tra loro. Il primo è “La Promenade Vernet” Ruines et paysages. Salon de 1767 di Diderot, un testo che, per riassumere, lontano dal ridurre il paesaggio all’arte del paesaggio secondo un’ottica “artialisante”, propone un’estetica pittoresca, stabilendo un rapporto di reciprocità tra pittura e realtà, « un passaggio poetico dall’uno all’altro e viceversa, poiché si può passare dal modello pittorico alla visione della realtà e da quest’ultima al disegno» (trad., p.100).
Il secondo testo, invece, è tratto dal primo capitolo del volume di Rosario Assunto, Il paesaggio e l’estetica (2005), in cui il filosofo definisce il concetto di ‘‘metaspazialità paesaggistica’’, riassumibile in tre caratteristiche: da un punto di vista puramente spaziale, il paesaggio è uno spazio contemporaneamente limitato e aperto; questo spazio è iscritto in una temporalità naturale e non storica e la sua percezione estetica coincide con quella ecologica (inteso in senso largo), nella misura in cui il soggetto è tanto attore quanto spettatore del paesaggio in cui vive. L’idea che sviluppa Assunto sotto il termine di metaspazialità è, secondo Balibar “essenziale e inevitabile”, per tutta l’estetica dei paesaggi reali : il paesaggio è un ambiente con qualità estetiche che si rivolgono alla nostra sensibilità, ma è soprattutto realtà nel quale e grazie al quale viviamo. Ed è in questa intersezione che la posizione estetica ed ecologica si raggiungono: « la realtà da contemplare è anche realtà vitale, da preservare » (trad., p.124). In conclusione alla sua riflessione filosofica, Justine Balibar sottolinea quanto la critica del paesaggio contenga le possibilità di sviluppare un’attitudine etica orientata alla salvaguardia dei paesaggi. Fare allora della critica paesaggistica una militanza in favore del paesaggio o, per utilizzare un’espression di Brunon (2002), proporre una «critica in azione» (trad., p.124).
Non è certo facile restituire la complessità e la densità del volume di Maurice Merleau-Ponty, Il mondo sensibile e il mondo dell’espressione(Mimesis 2021), recentemente tradotto e curato per il pubblico italiano da Anna Caterina Dalmasso, senza dubbio una delle studiose più autorevoli del pensiero del filosofo francese (suo l’importante saggio di Introduzione, pp. 17-52). Non è facile innanzitutto per la stessa natura di questo (non) libro, che raccoglie il materiale del filosofo prodotto in vista del suo primo corso al Collège de France dell’a.a. 1952-53. Il volume contiene tanto l’effettivo materiale utilizzato dal filosofo nelle sue esposizioni orali, quanto appunti che ne ampliano e approfondiscono l’orizzonte teoretico.
L’opportunità per il pubblico italiano di studiare e apprezzare il pensiero di Merleau-Ponty svolto al Collège si amplia così, dopo la traduzione di altri corsi avvenuta a cavallo tra la fine del secolo scorso e l’inizio del millennio: La nature (Seuil, 1995, tr. it. Cortina, 1996) e Notes de Cours 1959-1961 (Gallimard, 1996; tr. it. Cortina, 2003). Quello che qui discuteremo è stato pubblicato nel 2011 dall’editore svizzero MētisPresses[1] sotto la direzione scientifica di E. de Saint Aubert e di S. Kristensen e la traduzione italiana permette di accedere a un materiale teorico molto fecondo, sia per chi si occupa direttamente di Merleau-Ponty sia per chi sia interessato al pensiero francese del Novecento. In queste quattordici lezioni, infatti, si anticipano o si sviluppano in modi originali piste che attraversano, carsicamente a volte, altre in superficie, una tradizione di pensiero gravida ancora oggi di ampi sviluppi teorici.Lungi dall’essere una pubblicazione per soli addetti ai lavori, questo volume può essere di grande aiuto a chi volesse comprendere meglio alcuni intrecci - sia detto solo a titolo di esempio non esaustivo — tra Gestaltpsychologie e filosofia dell’esistenza, tra bergsonismo e fenomenologia, nonché — come segnala la Prefazione di Mauro Carbone (pp. 9-16) foriera di stimolanti riflessioni sull’arte e l’estetica. Insomma, pur non essendo di facile accesso — e tuttavia l’ottimo lavoro di Dalmasso aiuta chi non fosse specialista — il volume non potrà che trovare interesse in molti ambiti degli studi filosofici contemporanei.
Qui ci proponiamo di tracciare una possibile via d’accesso in questo universo filosofico ancora da esplorare anche da parte di chi, da molti anni, vi si dedica con studio attento. Come ogni pista d’accesso, non ne impedisce di altre e non può essere pienamente esaustiva della ricchezza contenuta nelle quasi trecento pagine del volume. Tuttavia, può essere utile a meglio orientarvisi. Come segnala la curatrice, il volume ha il merito di offrire «un punto di vista privilegiato» (p. 17) sul back-office della produzione di Merleau-Ponty, un vero e proprio laboratorio artigianale di concetti situato al fondo del lavoro pubblicato in vita dall’autore.
A differenza degli altri corsi già tradotti per il lettore italiano, la peculiarità de Il mondo sensibile e il mondo dell’espressione consiste nel fatto che esso ci mostra un Merleau-Ponty sul punto di farsi, che non è più quello della Fenomenologia della percezione e non è ancora quello de Le avventure della dialettica, un Merleau-Ponty per così dire “intermedio”, in divenire (Lanfredini 2011): «Le note del corso del ’53 — continua Dalmasso — offrono un insieme di argomentazioni e di fonti in grado di gettare luce su alcuni punti più oscuri o anelli mancanti della riflessione merleau-pontiana successiva» (p. 18). Insomma, il corpus magmatico di questo volume permette, a chi voglia avventurarvisi, di «cogliere “un filosofo al lavoro” e di “accompagnare Merleau-Ponty” nel farsi del suo lavoro» (p. 20). Una vera e propria avventura filosofica che permette al lettore di oggi di risemantizzare molte antinomie che nel nostro presente appaiono ovvi se non addirittura vetusti. Del resto, non siamo noi oggi figli di quella temperie culturale che genericamente potremmo definire post-moderna e che ha fatto della lotta al manicheismo dualistico la sua pars destruens ? È un pensiero non dualistico, senza per questo, vedremo, rinunciare alla duplicità, quello che l’autore — che ovviamente di post-moderno non sapeva nulla — prova a mettere in forma, e che noi abbiamo occasione di studiare proprio nell’atto del suo generarsi.
Mondo sensibile e mondo dell’espressione definiscono un’antinomia che trova le proprie radici, a voler estremizzare, quanto meno nella distinzione platonica tra mondo ideale e mondo sensibile. Se si volessero fissare delle tappe a noi più vicine — come sempre troppo semplicistiche, ma utili a orientarsi — sensibile ed espressione rimandando alle distinzioni moderne di Descartes (quella tra materiaestesa e pensiero inesteso) e di Kant (mondo sensibile della natura e mondo intelligibile dei valori) generalizzabile nella distinzione del pensiero antropologico tra natura e cultura (Lévi-Strauss 1969 pp. 39-52; Descola 2005). Già dunque nel tema stesso delle lezioni contenute in questo volume si comprende lo sforzo teorico che le sottende, un lavoro filosofico e fenomenologico che chiama in causa le principali architravi del nostro sensus communis moderno.
Potrebbe essere utile contestualizzare brevemente queste note di corso (si rimanda all’introduzionedella curatrice per i dettagli). L’anno accademico, come detto, è il 1952-53 ed è l’esordio di Merleau-Ponty al Collège de France, dopo che ha già tenuto il suo Elogio della filosofia nella lezione inaugurale (Merleau-Ponty, 2008) e mentre sta aprendo il cammino che lo consacra ai livelli più alti della cultura e della filosofia francese e forse mondiale. Non sono anni facili, gli anni Cinquanta, sia a livello storico (sono gli anni della guerra fredda, delle prime notizie in occidente del regime staliniano, della guerra di Corea, ecc.) sia a livello personale (Merleau-Ponty ha in cantiere La prosa del mondo che resterà incompiuto, sta rivedendo le sue posizioni rispetto all’URSS espresse in Umanismo e terrore del 1948, ma, soprattutto, sta per rompere il grande sodalizio filosofico e affettivo con J.-P. Sartre). Sul piano scientifico ha qualche sassolino nelle scarpe dopo la conferenza del 1946 presso la Société de philosophie dal titolo Il primato della percezione e le sue conseguenze filosofiche (Merleau-Ponty2004) nella quale presentava davanti a un pubblico composto dalle migliori menti filosofiche del tempo i risultati conseguiti con Fenomenologia della percezione. Amici e colleghi (Hyppolite, Bréhier, Lachièze-Rey per citarne alcuni) accolgono in maniera polemica e critica la tesi di fondo di quel libro accusandolo in alcuni casi di sensismo e positivismo. La sensazione di non essere stato compreso si radica nel filosofo e sette anni dopo è proprio da quella discussione che, con certosina attenzione, riparte (p. 61). Il primato della percezione diventa un punto di partenza ottimale per penetrare nel fitto bosco del sensibile e dell’espressione.
Alberto Giacometti - L'uomo che cammina (Fondation Maeght Saint-Paul de Vence)
Sin dalla prima lezione, quasi un brevissimo compendio di Fenomenologia della percezione, emerge il tema cruciale con un gusto programmatico. Si tratta, cioè, di pensare l’unità del mondo percepito tale che questa unione non sia la “sintesi determinante”, la sintesi intellettuale, cioè, di una molteplicità sensoriale di stimoli empirici. L’unità cercata nella sua opera principale (ma anche in La struttura del comportamento del 1942) non era una sintesi del giudizio, ma di ordine “percettivo”. Si può dunque capire come qui emergano molte ambiguità che il filosofo dovrà in qualche modo dipanare.
Primato della percezione non significa postulare l’esistenza delle cose fuori di me o la corrispondenza oggettiva di mondo e conoscenza né di opporre a una filosofia intellettualista un empirismo sensista à la Hume, bensì di «fare una teoria concreta dello spirito» (p. 59). Il primato della percezione non postula «un primato del sensoriale, del dato naturale» (p. 60), ma è ricerca di un piano originario che non sia né empirico né trascendentale in cui il sensibile e l’espressione possano divenire indiscernibili: è lo statuto stesso della fenomenologia a modificarsi con questo primato. Fenomenologia della percezione non sta ad indicare solo che è possibile trattare la percezione come “noema”, ma che nel farlo si segue il divenire della percezione nel suo stesso attuarsi, ossia che la percezione indica un piano ontologico intermedio tra l’essere oggettivo e l’essere soggettivo. Si può trattare fenomenologicamente la percezione solo se essa non è né l’oggetto di un sapere né il soggetto della sensazione. È questo né né a non essere stato compreso alla Société nel ’46 (pp. 61-62). Il punto è che la percezione non rimanda solo al mondo del sensibile, ma implica anche un carattere espressivo: «Intenderemo qui per espressione o espressività la proprietà che ha un fenomeno, per la sua organizzazione interna, di farne conoscere un altro che non è dato o che non è mai stato dato. […] È in questo […] senso che la percezione è espressione, espressione del mondo» (pp. 62-63).
Fare una fenomenologia della percezione è studiare il farsi del mondo, una fenomenologia che acquista sempre più caratteristiche “hegeliane” (Vuillerod, 2018) risemantizzando il concetto di coscienza. Se c’è percezione, infatti, non è detto che vi sia necessariamente soggetto (nel senso del Cogito trascendentale che accompagna ogni io empirico), ma vi è senz’altro coscienza, che non è il pieno possesso di sé che la tradizione cartesiana e kantiana ci ha consegnato. La coscienza percettiva non è esterna alle cose, si situa tra di esse, ma non è cosa estesa tra cose estese: essa si fa negli scarti, nelle differenze (cromatiche, uditive, sensibili…) tra le cose, è trans-individuale (Ruyer 2018; Simondon 2011), passività creativa (Ménasé 2003). A differenza di quella trascendentale, essa «non ha a che fare con valori […], ma con esseri esistenti» (p. 64). Potremmo dire, cioè, che attraverso il primato della percezione Merleau-Ponty intraveda la possibilità di emancipare la coscienza percettiva dalla sovranità dell’intelletto dell’estetica trascendentale e di riscoprire nella materialità il suo proprio valore/valere.
L’espressività della percezione — il suo “primato” — è dunque ontogenetico, essa non è la facoltà inferiore della coscienza — come all’origine dell’estetica riteneva, ad esempio, A.G. Baumgarten (1993: 41) — ma la sua espressione “sensibile”, è «configurazione, struttura» (p. 65). Ecco un secondo termine fondamentale nel lessico merleau-pontiano che richiama il suo primo grande libro, La struttura del comportamento. Il primato della percezione implica una materialità della coscienza percettiva da intendersi come processo di strutturazione. Se la percezione non è (solo) la passività di un soggetto empirico, ma l’attività — quantunque “passiva” — di una coscienza “materiale”, allora essa è a tutti gli effetti concepibile nei termini di un comportamento (nel senso, ad esempio, in cui quantisticamente una particella ha un comportamento), un’attività vincolata ad un mondo-ambiente. L’espressione percettiva non è un atto puro, ma una prassi “situata” in uno “sfondo” di passività. Il richiamo è qui alla Gestaltpsychologie, che Merleau-Ponty aveva studiato attentamente nel libro del 1942 (e che nel corso affronta tra la settima e la nona lezione). Ogni coscienza percettiva è una figura (Gestalt) che emerge da uno sfondo e «vi è sempre qualcosa di inarticolato e di sottinteso in ciò di cui vi è coscienza» (p. 67). Lungi dall’essere un’astratta sensazione senza soggetto, l’espressione sensibile è un processo di figurazione (Gestaltung) e la coscienza percettiva è una figura o forma materiale. La coscienza percettiva non è un cogito ma un corpo, non un’anima che emerge e s’innalza dalla materia, ma l’individuazione, l’attività immanente, la configurazione sensibile e materiale di un corpo. Il primato della percezione è il primato del corpo sull’anima, non nel senso “empiristico-naturalistico” di un primato dell’esteso sull’inesteso, ma di una indiscernibilità tra il mondo sensibile della corporeità e la sua espressione animale.
Allora fenomenologia diviene sinonimo di strutturazione ontologica — «non vi è differenza tra ontologia e fenomenologia» (p. 61) — e il primato della percezione conduce a una ontologia dinamica e processuale (Vanzago, 2001). Il mondo dell’espressione non è riducibile a un mondo formale, ha una sua materialità; il sensibile non è inerte o passivo. C’è espressività sensibile tanto quanto vi è sensibilità “spirituale”. Né inerte né formale: l’espressività del sensibile è movimento e la fenomenologia della percezione è manifestazione non richiudibile negli steccati formali dell’estetica trascendentale, poiché non vi è più un primato del formale estetico (dello spazio e del tempo formali). Si avvia qui quello che con Husserl (1991) potremmo chiamare rovesciamento della rivoluzione copernicana: è il movimento a determinare le forme del tempo e dello spazio, non il contrario. Anzi: spazio e tempo non sono più forme, ma figure (Gestalten). Il movimento (si veda in particolare la sesta lezione) è il fenomeno espressivo per eccellenza, tutt’altro dunque che l’esito di una rappresentazione soggettiva. Come la percezione, esso non è l’oggetto di un sapere né l’attributo di un cogito (p. 99), ma è qualcosa che può essere solo sentito, in cui si manifesta il movente. Non è neppure un mero accidente che capita a un oggetto empirico, non è, cioè, la variazione di luogo nel tempo di una “cosa” (Sache), ma il fenomeno per il quale “qualcosa” (Ding) si esprime, emerge spazialmente e temporalmente (geograficamente e storicamente) in quanto figura su sfondo.
Il movimento espressivo è l’installazione sensibile di una coscienza percettiva nel cuore dello spazio e del tempo, il suo modo di abitare lo spazio e il tempo (p. 103), i quali non sono relazioni formali né empiriche, bensì modali. C’è movimento, ovvero qualche cosa appare, c’è della percezione, c’è del comportamento, c’è della coscienza, c’è figurazione: espressione di un’immagine materiale. Il movimento espressivo (siamo alla quarta lezione del corso) è «spirito che si fa corpo e corpo che si fa spirito […] una logica del funzionamento percettivo» (p. 105). Rovesciamento della fenomenologia hegeliana: fenomenologia e logica della percezione; il corpo è lo spirito, il mondo sensibile esprime il mondo spirituale; l’unione non è sintesi assoluta, ma l’affinità trascendentale (p. 107) dello spirito col sensibile in sopravanzamento (overlapping) l’uno sull’altro, «sintesi di enjambement» (p. 109).
Il movimento espressivo è la sintesi senza concetto di spazio e tempo. La mente va a Bergson che più di chiunque altro nel Novecento si è sforzato di pensare il soggetto implicato nel movimento (pp. 119-125). Dopo aver esposto, all’inizio della sesta lezione, gli «argomenti di Zenone» (p. 118) sull’impossibilità ontologica del movimento, Merleau-Ponty vi si richiama: «Per lui quello che rende impossibile il movimento nel pensiero di Zenone è la divisione infinita e attuale del tempo e dello spazio, […] per rendere possibile il movimento occorre che il tempo e lo spazio siano divisibili, ma non divisi, che, posti a partire dal tutto, ammettano uno spazio “tra” le posizioni e gli istanti, cosa che non è possibile nell’in sé. È quindi necessario che il movimento , che è fatto del mondo, sconfini su di me come durata, sia anche fatto di coscienza» (p. 119). Tuttavia, Bergson nel cercare un tout indivisé del movimento è ancora troppo intellettualista, «resta coscienziale» (p. 121). Occorre essere, si legge tra le righe delle note di lavoro, più bergsoniani di Bergson, il quale «trionfa su Zenone mostrando che il tempo non è fatto di istanti né lo spazio di limiti di spazio, ed è vero. Ma resta da esplicitare la conseguenza […] crede che il problema sia concluso» (p. 239). Diventa necessaria «una teoria del corpo percipiente» (p. 240), un paradigma del corpo (Iofrida 2019) che troviamo tra l’undicesima e la tredicesima lezione (nel cuore, dunque, del corso): il movimento è sì un dato immediato della coscienza, ma di una coscienza percettiva, una coscienza-immagine che sia la sintesi esistenziale (materiale) della durata, la quale viene così reinterpretata come espressione sensibile, immagine-spaziotempo, figurazione espressiva.
La durata bergsoniana è “astratta” e manca, agli occhi di Merleau-Ponty, la “e”tra sensibilità ed espressività, una unità (dodicesima lezione) non teoretica, ma pratica, «unità dello schema corporeo […] unità di un’azione sul mondo, di una prassi» (p. 187), non nel senso di un pragmatismo utilitaristico (che per Merleau-Ponty manterrebbe la sussunzione dell’azione sensibile a uno scopo sovrasensibile), ma come attività passiva di creazione di immagini, una prassi che «comporta una teoria [Theoria] o gnosis che ne è lo sfondo, che essa modifica e che a sua volta la modifica» (ibidem). La durataespressiva è unità di teoria e di prassi, una praktognosia che non è un pragmatismo — esiste una materialità dei valori — né un empirismo — c’è, come rileva Dalmasso, una intenzionalità del sensibile (pp. 46-52). La durata come congiunzione del mondo sensibile e del mondo dell’espressione, una unità che si può a buon diritto definire estetica (se con Kant intendiamo “estetica” l’unità senza concetto, pre-logica).
Non è un caso che i corsi del ’53 si chiudano (quattordicesima lezione) con delle considerazioni sull’Arte in generale, e sul cinema in particolare. Le considerazioni estetiche di Merleau-Ponty sul cinema meriterebbero ben altre analisi (si rimanda ai lavori di Carbone e di Dalmasso), qui ci limitiamo solo a trarre una brevissima conclusione. Il cinema è la “prova ontologica” del primato della percezione e del movimento espressivo. Esso è una ritmologia della durata dell’immagine, un contrappunto di punti di vista, di immagini che sopravanzano l’una sull’altra. Nell’arte cinematografica si realizza l’unità di sensibile ed espressione, il vinculum substantiale di una molteplicità di immagini sensibili senza sussunzione entro i decreti formali dell’intelletto trascendentale. Nel movimento cinematografico appare una vera e propria monadologia sensibile (p. 64) che si insinua nel mezzo dei due mondi, che sono “separabili” ma non separati e nelle cui pieghe emergono molteplici mondi intermedi. Come scrive Carbone, nel cinema «si celebra il venire ad espressione […] del mondo sensibile» (p. 16).
Questi mondi intermedi sono il legame tra mondo sensibile e mondo dell’espressione e costituiscono l’ambiente originario nel quale la nostra capacità creativa di corpi animali o anime materiali riesce a trovare spazio per esprimersi e manifestarsi attraverso un’inaspettata fenomenologia dello spirito-carne che solo un primato della percezione può rendere visibile. Già solo questa breve conclusione a cui perviene Merleau-Ponty nei corsi dedicati alla duplicità sensibile/espressione, forse, vale da sola lo studio attento di questo volume.
di Gianluca De Fazio
[1] L’editore continua ancora oggi il suo lavoro di pubblicazione dei corsi al Collège de France di Merleau-Ponty. Si segnala il numero monografico dedicato al Mondo sensibile e mondo dell’espressione della rivista Chiasmi International (n. s. 12-2010).
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Se nel 1977 Michel Foucault, nella sua prefazione alla prima edizione statunitense de L’anti-Edipo, scriveva che tale testo altro non fosse se non «un libro di etica» (p. xiii), ci sembra che un giudizio complessivo analogo si possa dare anche a L’intollerabile. Aristotele dopo Deleuze (Mimesis, 2022), terza monografia di Fabio Treppiedi. Discostandosi in parte dai due lavori precedenti (Treppiedi 2015 e Treppiedi 2016), l’autore sceglie questa volta di ibridare il pensatore parigino con un autore quale Aristotele, in un gesto teoretico singolare se si considera come Deleuze sia tradizionalmente accostato a un panthéon filosofico ben definito, tra i cui rappresentanti – da Bergson a Nietzsche, dagli stoici a Spinoza – Aristotele non figura affatto. Come anzi precisa lo stesso Treppiedi, «non sarà difficile considerare nemici Aristotele e Deleuze» (p. 14), dal momento che lo Stagirita rientra a pieno titolo tra i rappresentanti di quell’«Immagine dogmatica e moraleggiante del pensiero» (Deleuze 1997, p. 186) presa di mira nella terza sezione di Differenza e ripetizione.
Lungi dal configurarsi come una ricostruzione di taglio storico o filologico del rapporto tra i due pensatori – l’autore non fa mistero di volersi discostare da una simile impostazione: «va da sé, con buona pace degli specialisti, che Aristotele e Deleuze parlino in modi differenti di princìpi a loro volta differenti» (p. 17) – il saggio di Treppiedi mira a offrirne una lettura squisitamente teoretica, con particolare attenzione, come accennato, al côté etico e politico implicato da tale congiuntura. L’autore non fa mistero di come i tre capitoli del suo libro «propongano altrettante variazioni sul tema della metafisica in direzione di problemi che ci toccano da vicino: disillusione, perdita di socialità, crisi e apatie del presente, rapporti tra soggetti e potere» (p. 9). Muovendo dalla «posta in gioco dell’interrogarsi sul presente a partire dal passato inquieto della metafisica» (p. 98), che assurge così a principale asse portante del testo, e tenendo presente la distinzione deleuziana tra princìpi e concetti, Treppiedi precisa più nel dettaglio il senso in cui tale espressione va intesa: «diremmo che uno dei significati di metafisica […] sta proprio nella forza esercitata sul pensiero da un principio che spinge al di là del comune le capacità del pensatore» (p. 18).
A riprova della tesi di Differenza e ripetizione secondo cui «c’è nel mondo qualcosa che costringe a pensare» (Deleuze 1997, p. 182), si può dunque rilevare come in gioco vi siano al contempo la genesi del pensiero e la problematica dell’afferrabilità di ciò che costitutivamente vi sfugge: in questo senso, «metafisica è sperimentare la portata di un principio che infrange il pensiero e che i filosofi ci restituiscono a frammenti, attraverso concetti, cocci di un intero, l’intollerabile, che di qua dal suo collidere col pensare e rifrangersi in immagini resta impensato» (pp. 129-130). Ecco qui fare capolino l’intollerabile, nozione che non a caso compare nel titolo del saggio di Treppiedi; ed è proprio la metafisica, con i suoi “sforzi immani” (p. 95), a doversene far carico: se in Pourparler leggiamo che «si percepisce qualcosa d’intollerabile, d’insopportabile, persino nella vita più quotidiana» (Deleuze 2000, p. 73), ecco che la storia della metafisica si configura allora come una “polifonia dell’intollerabile” (p. 130), volta ad articolare il rapporto tra princìpi e concetti anche laddove i due stridono, delineando una traiettoria che ha luogo ai bordi del pensiero, poiché «il principio spinge infatti il pensiero al limite, come un suo perno internamente dinamico e variabile, agitato da sussulti che espongono il filosofo alla prova dell’intollerabile» (p. 14).
Qual è dunque il rapporto tra princìpi e concetti? In che misura l’intollerabile trova spazio a partire dalla loro disgiuntura? A tali domande sembra offrire una risposta il primo capitolo del testo, intitolato “L’attaccamento alla vita”, il quale mira a offrire un’originale lettura di quella dicotomia tra ϑεωρία ed ἐπιστήμη, tra βίος ϑεωρητικός e βίος πολιτικός, che la metafisica, sin dagli albori della sua storia, ha stabilito come uno dei propri temi privilegiati di riflessione.
Muovendosi entro le maglie di una variegata griglia di riferimenti (Aristotele 1966, Aristotele 2000, Bergson 2006), Treppiedi delinea i contorni di «una filosofia battagliera, che s’installa al cuore dei problemi da cui procedono le differenze ridotte dal tempo a mere contrapposizioni» (p. 24). La tesi di fondo, secondo cui «l’esperienza della realtà necessita dell’illusione» (p. 34), con quest’ultima a venire esplicitamente ricondotta a quella che, ne Le due fonti della morale e della religione, Bergson chiamava “fabulazione”, viene trattata soprattutto per quanto concerne il suo aspetto più concreto e pragmatico, ovvero a partire da quella «discrepanza tra il vivere acquietato sui ritmi collaudati della società e il vedere quanto d’intollerabile c’è in essa» (p. 34), in linea con quella «violenza di ciò che costringe a pensare» (Deleuze 1997, p. 184) già segnalata in Differenza e ripetizione. Procedendo da variazioni sul celebre tema del soldato in fuga dalla battaglia nei Secondi analitici, Treppiedi si sofferma sulla distinzione tra attenzione alla vita, ovvero «la tendenza a mantenere vivo il rapporto con la comunità in cui ci si ritrova» (p. 35), e attaccamento alla vita, ovvero «il “principio attivo” […] del vivere lì dove difficoltà e pericoli fanno oscillare la linea di confine tra chi sta bene e chi sta male» (p. 35). Grazie alla messa a fuoco dello spostamento che qui si genera, ovvero di quell’«andare e venire incessante dal concetto di attenzione alla vita al principio dell’attaccamento alla vita nei termini di un intimo differenziarsi della medesima ζωή, “una vita” secondo l’ultimo Deleuze» (p. 62), l’autore offre una disamina del rapporto tra comunità e società in chiave prettamente politica e dunque – come già rimarcato – per forza di cose etica. Ne risulta allora una messa a fuoco della difficile relazione tra ϑεωρία ed ἐπιστήμη, la cui gestione rientra a pieno titolo tra il gravoso compito della metafisica: se la ϑεωρία indica quella «capacità di considerare i concetti nella loro problematica unità con i princìpi» (p. 26), ne consegue che «chiedersi cosa ne è del concetto laddove lo si separa dal principio, che senso abbia il canto senza il grido che lo accompagna, […] vuol dire anche chiedersi cosa ne è della ϑεωρία laddove si eccede con l’ἐπιστήμη» (p. 33).
Il dissidio tra princìpi e concetti è anche il punto di partenza della seconda sezione, intitolata La farmacia di Aristotele, la quale si focalizza maggiormente sui due autori al centro del lavoro di Treppiedi, nella convinzione che Aristotele sia «il filosofo di cui Deleuze esplicita più volte il grido, facendone il paradigma dei gridi filosofici» (p. 66). La discrepanza tra princìpi e concetti troverebbe, per lo Stagirita, una formulazione apparentemente conciliatoria intorno alla nozione di ἀρχή: «in risposta all’impatto intollerabile col principio, Aristotele fa di questo un concetto e lo nomina ἀρχή», compiendo dunque «un’operazione che gli darà modo di arginare l’insorgere convulso e insostenibile del principio nella ϑεωρία mediante l’isolamento in essa di un apposito dinamismo, l’ἀρχή, un dispositivo capace di dirottare verso l’ἐπιστήμη la densa sperimentazione implicita nell’intuire il principio» (p. 74). Ben presto, tuttavia, il capitolo torna ad assumere una connotazione decisamente etica: quell’«atteggiamento di sfiducia e di scetticismo» che Treppiedi etichetta come “delusionismo” (p. 77), figlio in ultima analisi dell’aristotelismo – «è effetto collaterale del dispositivo aristotelico di potenza e atto, di un φάρμακον cui il nostro pensare si è nel tempo assuefatto» (p. 79) –, viene correlato dall’autore a una classica aporia aristotelica, ovvero al «problema del movimento e della sua indefinibilità, che costituisce per Deleuze il grido di Aristotele» e che «emerge effettivamente come la bestia nera dello Stagirita, un elemento ribelle e inaffidabile che sfugge ad ogni tentativo di definizione» (pp. 81-82). La concettualizzazione aristotelica della κίνησις ha come effetto la subordinazione della potenza all’atto; ne consegue, secondo l’autore, «è quindi la rappresentazione aristotelica del movimento che incide sul nostro pensare» (p. 83). È questo il φάρμακον aristotelico in opera per quanto concerne il delusionismo, un dispositivo che sorge da una μετάβασις εἰς ἄλλο γένος tra principio e concetto: «il φάρμακον aristotelico determina il riflusso del canto sul grido, un raggelarsi del concetto alla superficie del principio che ci fa rappresentare il primo come identico in tutto e per tutto al secondo» (p. 85). Ancora una volta si tratta di rendere più accettabile, più “digeribile”, l’intollerabile del titolo – un’operazione di fabulazione, direbbe Bergson –, esattamente come fa Aristotele con «quanto vi è di più intollerabile», ovvero con «quell’indefinibilità estrema del movimento» (p. 86) di cui si è detto. La soluzione, suggerisce Treppiedi richiamandosi ad Agamben 2005 e Stiegler 2014, è quella di provare ad «accorgerci che è la potenza ad aggiungere qualcosa all’atto» (pp. 90-91) e non viceversa, ovvero di provare a ripensare il movimento senza snaturarlo: «seppure in grado di sospendere la κίνησις […] quanto basta per immetterla nel circuito dell’ἐπιστήμη, l’ἀρχή non può nulla contro la prepotenza della κίνησις stessa, unico elemento che per Aristotele resta ἀόριστον – “indefinibile” si legge nella Fisica – e che per ciò stesso costituisce in tutto il suo sistema non il canto più incisivo, l’ἀρχή, ma il principio più intollerabile, il grido che lo Stagirita contiene nell’ἀρχή» (p. 91). È il ritratto della fabulazione di “un altro Aristotele” quello che qui emerge, un Aristotele «combattuto tra una ϑεωρία del movimento che lo obbligherebbe al silenzio e l’ipotesi di una ἐπιστήμη che lo costringe a sacrificarne una parte» (p. 92). Ancora una volta, ci accorgiamo di come l’intollerabile costituisca il cardine dell’oscillazione tra questi due poli.
Il terzo capitolo, "Rispondere all’intollerabile", spezza tuttavia una lancia in favore dello Stagirita: in lui «non si dovrà vedere solo l’avvelenatore, il responsabile del nostro delusionismo cronico», trattandosi al contrario di «una figura a metà tra il medico e il taumaturgo», siccome «è sempre tra gli scaffali della sua farmacia che troveremo l’antidoto al delusionismo» (p. 96). Aristotele sembra infatti poter offrire anche la necessaria griglia teorica atta a offrire una risposta all’intollerabile: facendo appello a Simondon 2006 e Stiegler 2005, Treppiedi mette in luce come la fabulazione dia prova di quanto l’uomo «sia capace di resistere, di scorgere l’intollerabile e rispondervi» (p. 104). L’indagine prende una svolta esplicitamente politica, poiché infatti «la metafisica dovrà arrivare […] a farsi lotta politica contro tutto ciò che rallenta la κίνησις» (p. 104), con il nesso tra filosofia e politica che sarebbe opera dello stesso Deleuze – «al cuore della filosofia vibrerebbe per Deleuze qualcosa di politico, talmente radicato in essa da imporsi come impensato» (p. 106). Se Treppiedi si spinge a dire che, a partire già dalla lotta iconoclasta all’“Immagine del pensiero”, «il concetto di resistenza è quello che […] Deleuze ha intesi più di altri lasciarci in eredità», la ragione sta appunto nel côté etico-politico qui racchiuso: «il potere è sempre minacciato non tanto da ciò che vi si contrappone quanto piuttosto da un’alterità irrappresentabile, ad esso profondamente immanente e tuttavia estranea» (p. 112), dal che segue che esso «opera come un’ἀρχή nella misura in cui non fa che negare, impedire e confinare», dando vita cioè a «un operare in cui riecheggia il più potente e ingannevole dei canti aristotelici» (pp. 115-116). La radicalizzazione del potere in controllo, denunciata, tra gli altri, dallo stesso Deleuze, ci impone però una riflessione sulle modalità di resistenza, riflessione che si può leggere «come il monito a dare una possibilità alla metafisica, a un discorso sui princìpi che è forse il più improbabile – inattuale? – degli approcci al presente» (p. 120). Per illustrarlo, Treppiedi fa leva sulle riflessioni deleuziane sul maggio 1968: attingendo a Pourparler (pp. 126-127), egli insiste infatti sulla necessità di «riprendere il concetto bergsoniano di fabulazione e dargli un senso politico» (Deleuze 2000, p. 229) – «la sola possibilità degli uomini è nel divenire rivoluzionario. Solo così possono scongiurare la vergogna o rispondere all’intollerabile» (Deleuze 2000, p. 225). Per questa ragione, dunque, la metafisica, «da astratta quale può sembrare, trapassa fulminea in una politica dell’impensato» (p. 135).
Il giudizio complessivo sul libro di Treppiedi non può che essere positivo. Benché di lettura non agevolissima, dal momento che, pur nella sua brevità, tende – come si è accennato – a tralasciare le ricostruzioni storiche o didascaliche a vantaggio di un impianto esclusivamente teoretico, con il rischio forse di disorientare il lettore che vi si approccia ricercando una ricostruzione del rapporto tra Deleuze e Aristotele che L’intollerabile. Aristotele dopo Deleuze programmaticamente non offre, tale testo può, a nostro avviso, rientrare a pieno titolo in quella rinnovata fioritura dei lavori marcatamente interpretativi dell’opera deleuziana cui sembra di assistere negli ultimi anni. Non ci sembra fuori luogo sostenere che la ricezione del variegato pensiero del filosofo parigino, dopo i fasti interpretativi degli anni novanta, che hanno in qualche modo tracciato le principali diramazioni ermeneutiche a venire – da Mengue 1994 e Zourabichvili 1998 a Badiou 2004, passando per Alliez 1995, Alliez 1998 e Hardt 2000 –, stia conoscendo oggi una nuova linfa teorica, dando vita a nuovi itinerari di pensiero – da Ronchi 2015 a Lapoujade 2020 – in cui anche il più recente lavoro di Treppiedi potrebbe senz’altro essere iscritto.
di Davide Pilotto
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Zourabichvili, F. (1998). Deleuze: una filosofia dell’evento. Trad. it. di F. Agostini. Verona: Ombre Corte.
La filosofia sociale del pragmatismo di Matteo Santarelli (Clueb 2021) offre uno spaccato sui temi e problemi della filosofia sociale partendo da una impostazione pragmatista; il perno teorico attorno a cui ruota l’argomentazione del testo si identifica nella critica alle dicotomie. Come specifica l’autore, il problema non sta nelle dicotomie in sé ma sorge quando due termini opposti si irrigidiscono fino a cristallizzarsi e ad acquisire lo statuto di sostanze contrapposte. La struttura del testo si articola in sei nodi dicotomici (fatti/valori, concetti e non-concetti, individuale e sociale, ragione e sentimento, abiti e intelligenza, conflitto e integrazione) che, attraverso le prospettive di filosofe e filosofi pragmatiste/i, vengono via via discussi, sciolti e riarticolati.
Innanzitutto, vorrei soffermarmi un poco sulla seconda parte del titolo, che recita appunto Un’introduzione. Solitamente un’introduzione non è né più né meno di un accenno ad alcuni autori che hanno discusso una tematica specifica. Più che di un’introduzione, credo che questo testo si ponga il compito di un vero e proprio inizio, e questo per due motivi. Il primo motivo è di natura storica e riguarda la relativa giovinezza della filosofia sociale all’interno del più generale sapere filosofico. Il secondo motivo concerne invece una questione teoretica: mentre un’introduzione tende spesso a voler risultare neutra per offrire un resoconto in terza persona di un determinato argomento, qui ci sono invece dei presupposti a partire da cui si domanda: “C’è una filosofia sociale? E più nello specifico, si può parlare di una filosofia sociale del pragmatismo?”. E ovviamente la domanda solca già il terreno della risposta: ‹‹la filosofia sociale pragmatista è una filosofia sperimentale e valutativa, che intende proporre una specifica ontologia sociale›› (p. 19).
Il capitolo introduttivo espone i nuclei teorici che intonano – pur nella varietà delle dissonanze – il coro di voci della filosofia pragmatista. In primo luogo l’idea che il processo scientifico sia orientato in senso fallibilista e che dunque ogni nostra teoria o credenza sia infinitamente correggibile e rivedibile. In secondo luogo la formulazione della massima pragmatica, secondo cui il significato di un concetto risiede nei possibili effetti pratici, nelle pratiche concepibili e nella condotta in futuro. Dicevamo un coro di voci, vicine e lontane. Lontane sono infatti le voci che provengono da quel primo mormorio originatosi attorno al Metaphysical Club – così benraccontato da Louis Menand – di cui facevano parte Chauncey Wright (corifeo del Club e collaboratore di Darwin), Charles Sanders Peirce, William James e altri; c’è poi un coro di voci vicine, che, facendo tesoro dei principi elaborati in quelle prime occasioni, si incarna nelle figure di Jane Addams, Mary Parker Follett, William Du Bois – filosofe e filosofi che godono ancora di scarso interesse in Italia e che hanno sviluppato queste tematiche in chiave sociale –, ma anche di George H. Mead e John Dewey (a cui Santerelli dedica un cospicuo numero di pagine), sino ad arrivare alle soglie della contemporaneità con Hilary Putnam e Richard Rorty.
Soffermarsi nel dettaglio su ognuno dei sei capitoli sarebbe un’operazione che richiederebbe ben più dello spazio concesso a
una recensione. Per questo motivo ho deciso di attraversare più agilmente alcuni capitoli, dando più attenzione ad altri. Occorre tenere a mente che i singoli capitoli non trattano uno specifico autore ma che in ognuno di essi risuona la voce di filosofe e filosofi, rendendo complesso e articolato il ventaglio di variazioni sul tema scelto.
Nel primo capitolo, Fatti/valori, si assiste all’elaborazione di un dibattito che comincia con Humee che si alimenta attraverso la riflessione di Dewey, Mead, e Putnam (solo per fare alcuni nomi). Il capitolo inizia sottoponendo al lettore un avvenimento che accade nelle vite di tutti noi: ‹‹Capita a volte di trovarci di fronte a una situazione in cui non è così facile separare nettamente fatti e valori›› (p. 26). Si parte proprio da qui, e cioè da un’attenzione radicale al piano dell’esperienza, per elaborare una vicenda che non coinvolge solo l’esperienza dei singoli nel rapportarsi a valori, valutazioni e desideri, perché anche il procedere della scienza, come fa emergere Santarelli, con le sue pratiche strumentali sedimentate nel corso di una storia, mostra di essere intessuta di valori che le consentono di seguire determinati percorsi e di effettuare scelte specifiche. Come emerge attraverso la lettura della Teoria della valutazione di Dewey e di Come nascono i valori di Joas, Santarelli chiarisce come i valori non vadano intesi né come mere esperienze soggettive né come entità assolute slegate dal controllo razionale – per questo non possono coincidere con le norme – ma vadano situati all’interno di un processo relazionale che si articola a partire dall’interazione con gli altri, con l’ambiente di cui siamo parte e con la specificità della situazione in cui di volta in volta ci troviamo.
Chicago Philosophy Club, 1896. In piedi: Cora A. Allen, Hermann Charles Henderson, Faith Benita Clark, Louis Grant Whitehead, George Herbert Mead, John Dewey, Amy Eliza Tanner, Kiichi Tanaka, Addison Webster Moore, Jacob Dorsey Forrest. Seduti: unknown, Edward Scribner Ames, Albertina A. Forrest, Simon Fraser MacLennan, James R. Angell, Ella May Flagg, Helen Thompson Wooley. University of Chicago Library, Special Collections (Wikicommons)
Il secondo capitolo, Concetti e non-concetti, ha come protagonista William James e credo sia la chiave di volta di questo testo. Vorrei dire così almeno per due ragioni. La prima è che qui Santarelli prende sul serio alcuni interrogativi che espandono l’orizzonte riguardo a come debba essere intesa la filosofia sociale in un senso ampio. La seconda è che viene introdotto un concetto, quello di articolazione, che si rivelerà essere uno strumento teoretico fondamentale lungo tutto il percorso del testo. A partire da Some Problems of Philosophy di James, l’autore si chiede quale sia lo spessore e lo statuto dell’attività concettuale e offre due possibili paradigmi con cui interpretare la pratica concettuale. Il paradigma della traduzione ritiene che l’attività concettuale sia slegata dall’esperienza e che ne tradisca, traducendola, la continuità. Accanto a questo vi è poi il paradigma dell’articolazione, secondo cui ‹‹i concetti possono aiutarci ad articolare alcuni aspetti ancora parzialmente indeterminati dell’esperienza e del reale›› (p. 62). Il contenuto dei concetti presenta dunque degli elementi vaghi che ci permettono di articolare, in determinate situazioni, alcune possibilità ancora involute dell’esperienza: ‹‹La teoria pragmatista muove dunque da un atto di onestà politica ed epistemologica: il riconoscimento di un livello ineliminabile di vaghezza, e quindi del carattere contingente dei nostri tentativi di articolazione›› (p. 66). Lungi dall’essere elementi disturbanti e sfavorevoli, l’incompletezza, l’indeterminatezza e la contingenza sono il marchio del nostro essere già da sempre presi in una situazione. La prospettiva pragmatista offre un quadro teorico nel quale, da un lato, si contesta la sacralizzazione dei concetti mentre dall’altro si promuove l’aspetto creativo della pratica concettuale, senza che venga intesa come creazione dal nulla, ma piuttosto come sviluppo e articolazione a partire dall’esperienza stessa.
Con il terzo capitolo, Individuale e sociale, si ritorna sul piano più strettamente sociale con la teoria del Sé di George Herbert Mead. Come nei capitoli precedenti, anche qui si assiste allo sfibrarsi progressivo di una dicotomia: quella tra individuo e comunità. Dire questo non significa né attribuire maggiore importanza alla condotta sociale e condivisa (come invece facevano i comportamentisti) né focalizzarsi esclusivamente sull’esperienza soggettiva e introspettiva. Individuale e sociale sono due fasi dell’esperienza che si costituiscono assieme: non ci sono Sé già formati che solo in un secondo momento entrano in relazione condividendo gesti e pratiche comunitarie. Al contrario, ‹‹il Sé non è qualcosa di dato, ma è qualcosa che emerge e che ci costituisce›› (p. 87) attraverso un processo di interiorizzazione che articola, mediante e all’interno di pratiche sociali, una sfera biologica ancora parzialmente indeterminata.
Ragione e sentimento è il titolo del quarto capitolo che mette a tema la questione delle emozioni e dell’affettività. Ma di che cosa parliamo quando parliamo di emozioni? James, Dewey e Mead, pur con diverse sfumature, offrono degli strumenti per chiarire innanzitutto che le emozioni sono un fatto corporeo (non sono l’effetto di uno stato mentale), hanno una struttura triadica (affect, attitudine, oggetto), sono relazionali, intersoggettive e situate. Dopo aver discusso le posizioni dei tre autori, Santarelli si sofferma sul concetto di interesse, come luogo teorico in cui le emozioni giocano un ruolo fondamentale. Gli interessi non sono un tentativo di dare ordine al caos delle passioni quanto piuttosto un modo di incanalarle e organizzarle. In Dewey ‹‹l’interesse integra noi stessi e il nostro ambiente, e allo stesso tempo integra mezzi e fini›› (p. 126): l’interesse è quello strumento che dà forma alla nostra vita pulsionale e che si articola in una pratica. In questo senso, ogni interesse è nello stesso tempo soggettivo e oggettivo. Anche qui la teoria pragmatista ci consente di tenere assieme la situazione particolare in cui di volta in volta ci troviamo e la tonalità emotiva che ci connota, senza che questi aspetti vengano ridotti a un soggettivismo atrofizzato; il valore della contingenza si misura nell’essere-proprio-qui, ed è solo a partire da questa indeterminata determinatezza che diventa possibile articolare la sfera cognitiva, il processo dell’indagine e della ricerca e insieme un’etica della condotta.
Graduation portrait of W.E.B. Du Bois, a member of Harvard College Class of 1890. Photos by Kris Snibbe/Harvard Staff Photographer; courtesy Harvard University Archives
Uno studio sulla filosofia sociale del pragmatismo non poteva certo lasciare fuori dalla sua trattazione il concetto di habit, concetto cardine nel pragmatismo e che negli ultimi tempi è diventato un crocevia tra scienze cognitive, filosofia della mente, semiotica, filosofia politica e sociale. Il quinto capitolo, Abiti e intelligenza, mostra come per i pragmatisti, ‹‹mettere gli abiti al centro della nostra concezione dell’essere umano significa sottolineare l’importanza della dimensione pre-riflessiva del nostro comportamento, senza con ciò sminuire l’importanza della nostra intelligenza e della nostra capacità riflessiva›› (p. 148). Santarelli riprende le pagine di James dedicate al carattere plastico e dinamico degli abiti e le sviluppa integrandole con la prospettiva deweyana. L’abito, come ha detto Peirce, è un general e proprio per questo non può rappresentare un’azione singola ma piuttosto un modo di fare generale. Dewey approfondisce il quadro teorico, aggiungendo che ‹‹l’abito è una modalità relativamente stabile di relazione tra organismo e ambiente, che in alcune specifiche situazioni si articola in un’azione specifica›› (p. 153). Non mancano in questo capitolo alcune note critiche che Santarelli fa emergere in relazione alla dimensione inerziale e conservatrice degli abiti, con le conseguenti ricadute sul piano politico e sociale: accade infatti che alcuni abiti sopravvivano in condizioni in cui siano però sfavorevoli ai nostri attuali bisogni e interessi.
L’ultimo capitolo, intitolato Conflitto e integrazione, sviluppa una possibile critica che si potrebbe rivolgere all’approccio anti-dicotomico pragmatista, nel momento in cui ‹‹sembra mancare il ruolo costitutivo del conflitto all’interno delle nostre vite sociali›› (p. 177). Se così fosse, scrive Santarelli, il progetto di una filosofia sociale del pragmatismo sarebbe destinato a collassare. Per questo motivo, l’autore si sofferma su tre “faglie di conflitto”: la razza, la classe e il genere. La questione della razza e della classe è affidata alle riflessioni di William Du Bois, intellettuale afro-americano, che, nelle Anime del popolo nero, articola il concetto di “doppia coscienza”. Con doppia coscienza Du Bois intende l’interiorizzazione di rotture e contrasti sociali che ‹‹toccano e plasmano l’individuo dall’interno›› (p. 181). La figura di Jane Addams viene ripresa per quanto riguarda l’identità sessuale e di genere, nella consapevolezza che l’attività di Addams non si è limitata a questo. Come sottolinea l’autore, Addams viene spesso identificata con la nascita della Hull House, dove si riunivano le attiviste per dar vita a numerose attività sociali e politiche, sminuendo però in questo modo la portata teorica del pensiero di Addams e il suo rapporto con Dewey e Mead. L’ultima parte del sesto capitolo ha come voce principale Mary Parker Follett. Follett è una teorica sociale che si è occupata di questioni legate all’educazione, al lavoro, al salario minimo e al management ed è proprio qui che nasce il suo interesse per il conflitto. Il conflitto, dice Follett, può attuarsi in tre modalità: dominazione, compromesso e integrazione. Dominazione e compromesso sono polarità opposte che non riescono a risolvere il conflitto se non a un livello superficiale; entrambe presuppongono una logica a somma zero: se guadagno una cosa, la sto togliendo a un altro. L’integrazione ‹‹chiama in causa una soluzione creativa e innovativa, all’interno della quale le due parti non devono necessariamente rinunciare ai propri interessi›› (p. 188). Attraverso l’integrazione, gli interessi e i desideri vengono riorganizzati per farne emergere di nuovi. Questi nuovi interessi non nascono dal nulla, ma vengono articolati a partire da quelli presenti nella situazione di partenza. Gestire il conflitto in maniera integrativa non è una riflessione astratta ma una pratica collettiva ed è solo nel fare assieme, nel fare comune, che vi può essere quell’aggiustamento qualitativo che permette l’articolarsi di nuovi desideri, interessi e valori.
Lungo il suo itinerario, La filosofia sociale del pragmatismo, mostra come per il pragmatismo, ‹‹la verità non sta nel mezzo, ma al di là della stessa rappresentazione dicotomica›› (p. 196).Per concludere, vorrei aggiungere che oltre a essere un testo utile agli studi specialistici – che intendano conoscere e dialogare con il punto di vista pragmatista sul tema del sociale – e a offrire un contributo italiano alla storia del pragmatismo, riesce a non rimanere vincolato a un settore specifico. Santarelli, pur appoggiandosi alle analisi dei pragmatisti classici e contemporanei, scavalca la particolarità dei testi, introducendo concetti come quelli di situazione, novità, articolazione, vaghezza, emergenza, continuità che sono e continuano a essere il punto di forza della filosofia pragmatista.
Alla fine del secolo scorso, l’idea che la storia fosse finita fu salutata con fiducia da molti, nella speranza che la scomparsa dell’Unione Sovietica e il trionfo del capitalismo sancissero l’inizio di una fase di stabilità e armonia in cui l’umanità avrebbe trovato il suo compimento definitivo. Negli anni a venire, quell’idea si è così radicata da diventare di senso comune: il nostro è il migliore dei mondi possibili, mentre il solo pensare a un cambiamento dell’organizzazione politica e istituzionale appare, se va bene, come un anacronismo, se va male, come un rifiuto della realtà. Logica e Tumulti. Wittgenstein filosofo della storia (Quodlibet, 2021) di Marco Mazzeo si oppone con fermezza a questa narrazione. Col pretesto di uno studio sul più grande filosofo del Novecento, l’autore combatte una lotta senza quartiere in difesa della dimensione storica dell’esperienza umana.
Per prima cosa bisogna fugare un equivoco: storia non è il mero scorrere del tempo, il costante succedersi degli eventi. Non va dunque confusa con la filogenesi, né con la deriva dei continenti. È invece «l’insieme delle trasformazioni istituzionali e produttive grazie alle quali gli esseri umani riescono a salvare la pelle. La storia indica, in primo luogo, il modo nel quale i sapiens producono le condizioni di possibilità della propria vita» (p. 10). Indica quei cambiamenti «imprevedibili» – perché non riconducibili a un repertorio d’istinti – e «necessari», senza i quali non riusciremmo a produrre i mezzi della nostra sussistenza. Mentre il tempo dei fenomeni naturali è continuo, storia è sinonimo di discontinuità e fa rima con improvvisi tumulti repressi nel sangue o con una nuova tecnologia che sconvolge l’organizzazione della vita.
Tuttavia, in questa operazione di salvataggio, Wittgenstein non è un alleato. La diagnosi del libro è netta: il filosofo è cieco alla storia. Con un apparato filologico che lascia poco spazio a dubbi (vengono classificati tutti i termini riconducibili alla famiglia della «Geschichte» presenti nel lascito testamentario), Mazzeo dimostra che l’autore delle Ricerche filosofiche prospetta un’«antropologia senza storia» (p. 38): offre istantanee dirompenti, ma non vede la differenza tra il tempo umano e i mutamenti geologici. In questo è un degno «allievo di Spengler» (p. 55), una tra le sue fonti più importanti. Nel secondo capitolo del libro viene soppesato il debito di Wittgenstein con l’autore del Tramonto dell’Occidente il quale, sulla scorta di Goethe, paragona le epoche storiche alle fasi di sviluppo di organismi viventi come le piante, riconducendo la temporalità umana all’andamento ciclico che caratterizza la vita naturale in generale. E così una rivoluzione può diventare un’escrescenza da tagliare, un governo autoritario la piena maturazione di una cultura.
Nell’ipotesi interpretativa di Mazzeo, la discussa amicizia di Wittgenstein con Sraffa (a sua volta amico di Gramsci) sarebbe giunta al capolinea proprio in virtù di questa ritrosia nei confronti della storia. Il primo capitolo è dedicato a una ricostruzione del rapporto tra il logico e l’economista, il quale, oltre a ritenere «insopportabile» che l’amico abbia in Spengler un «punto di riferimento», nei suoi appunti denuncia «in modo esplicito» la «scarsa presenza della dimensione storica» (p. 30) nelle riflessioni dell’interlocutore.
Wittgenstein può però venirci in soccorso quando meno ce lo si aspetterebbe, cioè quando si occupa di matematica. Nelle sue annotazioni sul calcolo e sui teoremi trapela una nozione, quella di storia naturale, che può essere promettente approfondire. È quello che fa Mazzeo nel vertice teorico del volume, il terzo capitolo, in cui propone «una riflessione circa l’intreccio tra natura e storia umana, a prescindere dalla filologia wittgensteiniana» (p. 94) (la filologia tornerà presto, nelle due appendici, dedicate l’una a un confronto tra l’uso filosofico degli scacchi in Saussure e Wittgenstein, l’altra al poco studiato rapporto del filosofo austriaco con la fotografia). L’espressione «storia naturale» è gravata da una lunga tradizione che impedisce di coglierne appieno la portata teorica, e di cui l’Historia naturalis di Plinio il Vecchio costituisce l’illustre testo fondativo. Il paradigma tradizionale, che nel corso dei secoli ha avuto grande fortuna, consiste in una sorta di modello enciclopedico, il cui obiettivo è raccogliere e descrivere gli oggetti che appartengono al regno della natura. La ricerca è simile a quella del collezionista che punta a reperire quanti più documenti possibile, ma senza un vero criterio di selezione. Motivo per cui vi si possono trovare aneddoti circa i lupi mannari accanto a descrizioni di cercopitechi, oppure ipotesi sul senso del pericolo degli elefanti, ma anche cataloghi delle tecniche di cattura da parte degli esseri umani. In tempi recenti questo genere letterario è entrato in una seconda giovinezza: il lemma «storia naturale» figura nel titolo di studi eterogenei, che possono riguardare la morale umana da una prospettiva evoluzionistica, oppure «il profumo, gli alberi, la birra», fino ad arrivare al «concetto di distopia» (p. 83). Al netto delle evidenti differenze tematiche, i corpi che popolano questo variegato firmamento sono accomunati dalla «temporalizzazione dei fenomeni naturali senza un confronto esplicito con la dimensione storica. Si tratta di una disposizione spaziale del sapere scientifico» (p. 87). La temporalità tipicamente umana viene eliminata, annacquando la specificità della nostra forma di vita in un generico calderone in cui tutte le vacche sono nere. Mazzeo propone, al contrario, di prendere sul serio la dicitura «storia naturale», la quale, oltre che un ossimoro, contiene anche un guanto di sfida: come tenere insieme «natura (ontogenesi, filogenesi) e storia (le trasformazioni istituzionali di lingue, riti, forme della tecnica, modi di produzione)» (p. 87)? È possibile un «naturalismo non rinunciatario» (p. 87), che non ceda alla tentazione di nascondere sotto al tappeto le continue trasformazioni culturali che sembrano segnare così profondamente la nostra specie?
La domanda è retorica, alcuni suggerimenti per provare a rispondere ce li fornisce Mazzeo in un elenco di «paradossi» (p. 94), anche se forse sarebbe più corretto chiamarli «tesi sul concetto di storia naturale». Non è in questa sede possibile ripercorrerne l’andamento con dovizia di particolari, mi limiterò a riprendere un punto particolarmente degno di nota, la critica al concetto di adeguatezza. Bersaglio polemico è l’idea ingenua, ma non per questo non diffusa, secondo la quale le condotte umane possono venir lette nei termini di «risposte perfezionate a esigenze precedenti» (p. 98), come se le vicende storiche – ivi comprese le trasformazioni dell’assetto produttivo – non fossero altro che una serie di graduali adattamenti in direzione di una fitness completamente realizzata, di una suprema armonia tra l’anthropos e i suoi bisogni. Wittgenstein è polemico con questa concezione e si chiede, non senza ironia: «viviamo perché è pratico vivere? Pensiamo perché è pratico pensare?» (Wittgenstein 1978, V, § 14) E poi: «è adeguato ai nostri bisogni che noi contiamo come contiamo» (Item 163, p. 30r), cioè in base dieci e non in base sessanta (come, per esempio, facevano i babilonesi)? Il fatto che si calcoli così, o che, più in generale, si viva così, implica che si faccia così e non altrimenti: è sempre possibile una strada alternativa. In altri termini,
«l’insistenza di un gesto che indica cosa facciamo "qui e ora" non esorta a contemplare la bellezza di una sovrapposizione perfetta e atemporale tra la vita e la sua forma, tra la natura e la cultura. Punta a far emergere il carattere contingente di quel che potrebbe essere completamente diverso perché non è chiamato a rispondere a criteri di adeguatezza. Questa contingenza, adeguata solo a cose fatte, si chiama "storia" (p. 99)».
In altri termini ancora, questa volta più filosofico-linguistici, le regole che guidano la nostra prassi – in modo eminente quella verbale – non possono essere considerate alla stregua di leggi biologiche o chimiche. Tra regola e applicazione vi è uno scarto tale che niente obbliga a rispondere a un insulto con un pugno e non con una frase sardonica, a un comando con obbedienza e non con sdegnata insubordinazione.
La storia naturale di Mazzeo è, insomma, un concetto con cui combattere una battaglia ideologica contro una precisa narrativa del potere. Uno strumento di difesa nei confronti di chi fa sua un’idea di natura per nulla innocua, che in fin dei conti uccide una croce, ma anche una delizia, tipica della vita umana, la contingenza. Infatti, se ciò che i sapiens fanno è motivato esclusivamente da un criterio di adeguatezza, da una fatale tendenza all’adattamento, allora è inevitabile che le cose vadano così e non altrimenti, angusto lo spazio per mettere in discussione l’organizzazione della vita caratteristica del mondo contemporaneo. Per chi condivide una simile battaglia, varrà la pena di dare uno sguardo alle criptiche riflessioni del filosofo viennese sulla matematica. Chissà che questo Wittgenstein non possa fornire un prezioso antidoto contro la rassegnazione allo status quo.
di Adriano Bertollini
Bibliografia
Mazzeo, M. (2021).Logica e tumulti. Wittgenstein filosofo della storia. Macerata: Quodlibet.
Wittgenstein, L. (1988). Osservazioni sopra i fondamenti della matematica. Trad. it. di M. Trinchero, Torino: Einaudi.
Wittgenstein, L. Wittgenstein’s Nachlass, Electronic Bergen Edition, Oxford University Press, Oxford
La pubblicazione di Philosophie du végétal. Botanique, épistémologie, ontologie. Textes réunis par Q. Hiernaux conferma le attese suscitate dalla dicitura della collana che la casa editrice Vrin (Parigi) propone per la collocazione del volume: trattasi davvero di un testo chiave di filosofia del vegetale. E lo è almeno per due semplici motivi. Primo, l’antologia – questa è la natura del volume – mette a disposizione in traduzione per un pubblico francofono brani di undici opere di filosofia vegetale e di botanica filosofica: opere che possono ritenersi rilevanti o perché storicamente influenti per lo sviluppo degli studi botanici, o perché significative per le posizioni e le prospettive sugli studi in oggetto, o perché corroboranti alle linee di ricerca in corso. Secondo, l’operazione di cernita e raccolta dei brani operata da Quentin Hiernaux rappresenta un tentativo organico e ragionato di messa a punto dello stato dell’arte di un ordine di saperi, se non si vuole osare con ‘disciplina’, attualmente molto operosi che, oltre a offrire un numero crescente di pubblicazioni, sembrano cercare una propria definizione (filosofia vegetale, filosofia della biologia vegetale, botanica filosofica ecc.) e una loro costituzione disciplinare (si pensi all’ormai nemmeno troppo recente manifesto, scritto nei primissimi anni Duemila, per inaugurare la cosiddetta Neurobiologia vegetale), fornendo così il doppio servizio d’evidenziare le radici storico-teoriche dei dibatti attuali (p.e. l’intelligenza vegetale o la domanda sui diritti per le piante) e di dare consistenza storica, teorica ed epistemologica ai dibattiti stessi.
Per il fatto che il curatore sembra avere sotto gli occhi sia la totalità del quadro filosofico e scientifico entro cui le ricerche sul vegetale si sono, nel corso dei secoli, talvolta manifestate o talaltra inabissate, sia la posizione da cui, oggi, i sostenitori e i detrattori prendono parola, destinare il volume ai soli specialisti o aspiranti tali è un’operazione editoriale comprensibile, per non dire scientificamente necessitata dalla “proliferazione” di nuovi settori all’interno della classificazione deweyana, ma decisamente riduttiva. Decidere su quale scaffale della biblioteca collocare un libro, con la titubanza o la risolutezza che si dà di caso in caso, è l’ultimo (oppure il primo?) momento delle fasi di realizzazione del libro stesso, e non è mai un’operazione neutra: incide sui percorsi di ricerca e decide il destino di una disciplina, comprese le relazioni che essa intrattiene con le altre. Ora, il fatto che una lettura attenta del volume faccia pensare che la dicitura “filosofia vegetale”, pur necessitata come ho detto, non renda del tutto merito alle varie ratio che si possono rintracciare percorrendo i diversi piani di lettura (cui a breve accennerò) dice forse qualcosa sui contorni e sull’autonomia dell’insieme di questi saperi, e interroga, al di là delle contingenti divisioni in settori disciplinari, sulla bontà del farne una disciplina a parte, a discapito della conoscenza nel suo complesso. Philosophie du végétal è sì un’antologia di filosofia vegetale, ma è anche e variamente, soprattutto in base alle competenze e alla provenienza di chi la legge, un’antologia di storia del pensiero scientifico (in filigrana: l’istituirsi della botanica vs la medicina, la farmacologia e lo studio delle piante medicinali, l’intermediazione araba nella conservazione e nello sviluppo delle scienze, lo sviluppo del metodo scientifico moderno e la storia dei metodi di classificazione delle specie), un’antologia di filosofia della scienza (p.e. ci sono cenni al dibattito sull’anima e sul calore come principio vitale, alla nascita della biologia moderna, allo sviluppo del pensiero trasformista ed evoluzionista) e, percorso ancora più interessante, un’antologia di storia della filosofia (un esempio su tutti: la ricezione pervasiva dell’aristotelismo) – soltanto per limitare la restituzione all’esperienza del lettore che io incarno. Perché, allora, verrebbe da chiedere, dedicare a un (s)oggetto escluso una disciplina a parte se l’intento di partenza è quello di toglierlo dallo sfondo e dargli spessore, invece di procedere a una riscrittura dall’interno delle discipline? Perché il bordo, e non la piega?
Il lettore si trova tra le mani un volume compatto di oltre quattrocento pagine che rappresenta uno degli esiti della ricerca di Hiernaux, sapientemente istruttivo nei confronti del lettore anche meno avvezzo e teoreticamente generoso verso l’intero dibattito. Infatti, l’“Introduzione generale” e le “Introduzioni” specifiche alle singole sezioni, così come la ricca “Bibliografia”, pur corredando il volume come vere e proprie mappe a uso e consumo di tutti, affinché ciascuno possa attraversare il testo con il proprio passo – l’antologia si presenta così come uno strumento fruibile più volte e secondo le diverse intenzioni –, sono anche dei saggi a sé stanti, delle opere dentro l’opera, in grado di far intravedere, per quanto discretamente, la postura filosofica del curatore. Postura la cui cifra potrebbe essere restituita sotto la forma del tentativo teorico attento e delicato, al limite dell’equilibrismo, di non agire alcuna cattura del fenomeno, ma di lasciarlo proliferare: per paradosso, stare fermi per lasciare che sia il vegetale a venirci incontro, lasciare che sia lui, “senza volto e senza sguardo” (p. 7), a guardarci. Un simile equilibrismo è tutt’altro che una fascinazione che lascia il tempo che trova: è piuttosto e innanzitutto la manifestazione di un’etica ecologica rispetto ai rapporti che intratteniamo con altre specie e altri regni, cioè con altri modi di fare mondo. Ancora di più, è l’indice di un’ecologia epistemologica che riguarda il rapporto tra soggetto di conoscenza e oggetto conosciuto, e il riconoscimento dei limiti, intesi anche come vie di uscita, dati dal fatto di trovarsi irrimediabilmente in una posizione di partenza che insieme ci condanna e ci salva, se si è disposti a lasciarsi catturare. Accostandoci, infatti, alle sempre più numerose pubblicazioni che si annoverano nell’elenco della filosofia del vegetale, per usare la dicitura di Vrin, viene spesso da chiedersi che cosa rappresenti, nell’economia del discorso, il vegetale: se il reale tentativo, per quanto possibile, di mettere scientemente a tema una forma di vita altra o il rinnovarsi del discorso sull’umano che, normalizzando le altre forme di vita, non fa che trovare nelle differenze di grado le ragioni della propria ratio, eludendo così la differenza di naturapalesata dall’altro e il problema da essa posto. Se è vero che la filosofia ha sovente indagato il rapporto costitutivo di attività e passività, tema che è anche della filosofia del vegetale, quanto è a suo agio quando tale rapporto riguarda prima di tutto sé stessa e la propria costituzione? A intendere che, forse, un contributo filosofico sugli studi clorofilliani potrebbe arrivare solo dopo un momento di esposizione alla passività, solo dopo che i suoi capisaldi mereologici e assiologici si sono fatti attraversare.
Fotografia di Igor Orizzonte
Hiernaux sceglie di ripercorrere l’intera storia delle nostre conoscenze filosofico-scientifiche: dal III sec. a.C. agli ultimi decenni degli anni Duemila, e si serve di rappresentanti proveniente da botanica, biologia e filosofia, di diverse regioni dell’“Occidente”, confermando così l’operazione critica di stabilizzazione della disciplina vegetale proprio all’interno di quel paradigma scientifico ed epistemologico che lo ha escluso, il nostro, e che – aggiungo – si è costituito anche in virtù di questa esclusione. Si tratta, va detto, di un’operazione ben consapevole, come dimostra il fatto che, qui (p.e. p. 258) e in altri luoghi (penso a Du comportement végétal à l’intelligence des plantes ?, Quæ 2000), la più ampia ricerca di Hiernaux restituisce notizia di altri paradigmi di cui, per esempio, l’antropologia ci dà conto e che la nostra filosofia non dovrebbe più trascurare, in cui il vegetale non ha mai avuto il ruolo di sfondo, come Bruta Natura, e nei quali la separazione con l’umano, per non parlare della sua subalternità, non è stata nemmeno lontanamente contemplata.
I brani presentati sono suddivisi in tre sezioni: 1. Storia filosofica della botanica e statuto della pianta; 2. Epistemologia delle scienze vegetali; 3. Ontologia ed etica del vegetale. L’obiettivo della sezione 1 è di «riscrivere la problematica della trattazione delle piante nella sua dimensione storica» «raggruppando i testi dedicati alla storia filosofica della botanica e allo statuto della pianta», con il corollario non secondario di «mostrare il potenziale filosofico della botanica» (p. 9, trad. mia). Interpellate le voci del coro composto da Teofrasto (371-288 a. C.), Andrea Cesalpino (1519-1603), Julien Offray de la Mettrie (1709-1751) e Agnes Arber (1979-1960), veniamo a conoscenza delle ricezioni e dei commenti alle opere di Aristotele, Cartesio, Goethe – per citare i più noti. Ciò che lega i primi quattro capitoli della HistoriaPlantarum diTeofrasto, ritenuto il fondatore della Botanica nella sua prefigurazione di scienza sperimentale, giacché le sue ricerche «s’ispirano all’esigenza di tener conto dei fatti e di limitare la trascendenza» (cfr. nota introduttiva di J. Tricot all’edizione de La Métaphysique, Vrin 1948, p. 534, trad. mia), il divin parlatore come lo ebbe a soprannominare il maestro Aristotele, di cui Teofrasto coniuga l’approccio naturalista alle influenze filosofiche del pitagorico Menestore di Sibari e dei fisiologi greci, Anassagora, Empedocle e Democrito; i primi cinque capitoli del De PlantisLIBRI XVI di Cesalpino, botanico, medico, anatomista e filosofo, allievo di Luigi Ghini e suo successore alla cattedra di botanica e al ruolo di prefetto dell’orto botanico dell’Università di Pisa (cfr. C. Colombero, Il pensiero filosofico di Andrea Cisalpino, «Rivista Critica di Storia della Filosofia», 32 (3), p. 270), perfetto rappresentante della tensione tra la tradizione dei saperi compilativi medievali sulle piante e la botanica teorica moderna su base fisiologica, cui si deve il contributo per la fondazione teorica della scienza botanica emancipata da medicina e farmacologia, pur nel solco della ricezione di Aristotele e Teofrasto; il breve testo del botanico, medico e filosofo de la Mettrie, Homme-Plante, esempio di riaffermazione della gerarchia del vivente di stampo aristotelico entro la cornice del meccanicismo cartesiano, espresso fedelmente dall’accostamento della pianta alla macchina; il capitolo quinto di The Natural Philosophy of the Plant Form della botanica Arber, allieva della botanica Ethel Sargant, traduttrice di Versuch die Metamorphose der Pflanzen di Goethe, prima donna botanica a essere accolta dalla Royal Society e prima donna insignita con la medaglia d’oro dalla Linnean Society of London per i suoi studi in anatomia e morfologia vegetale, che prendono posto accanto ai suoi studi di storia della botanica e di filosofia botanica, influenzati da Aristotele e Cisalpino, come pure da Spinoza, Bacone e de Condolle (cfr. per approfondire la figura di Arber, il saggio premessa di L. Tongiorgi Tomasi in A. Arber, Erbari. Origine ed evoluzione 1470-1670, Aboca 2019): è il tema dell’“ordinamento generale del mondo” o della continuità tra i regni, o per meglio dire delle forme di vita, a partire dalle determinazioni comuni che, da una parte, hanno accostato le forme di vita mostrandone la similitudine (fino ad arrivare all’idea trasformista delle variazioni individuali in seno a una norma o a un tipo specifico) ma che, dall’altra, hanno generato gerarchie pregiudizievoli circa la positività di cui ciascuna forma si fa portatrice. Se l’impronta zoomorfica che ha connotato, fin dal battesimo aristotelico, gli studi naturalistici (non solo quelli sulle piante!) sembrerebbe inevitabile, oltre che metodologicamente giustificata dal bisogno di spiegare ciò che è meno noto per mezzo di ciò che è più noto, è quantomeno opportuno considerare il rischio di distorsione che comporta prendere il modello animale come riferimento per gli studi dedicati ad altre forme di vita e per la conoscenza del vivente in generale (p.e. p. 25). «Fino alla fine del XIX secolo, la botanica si è presentata come scienza dei viventi non-animali, raggruppando indifferentemente lo studio delle piante e delle alghe, quello dei funghi, dei licheni, e anche dei coralli o dei batteri. Questi esseri, al di là o più tradizionalmente “al di qua” dell’animale che non sono, possono anche essere avvicinati in maniera non gerarchica e positiva, cioè secondo le loro specificità e i modi di vita propri» (p. 11, trad. mia). Dei tentativi erano stati fatti: già da Teofrasto si rintraccerebbe l’esercizio di studiare le piante “per sé stesse”: non secondo la caratterizzazione difettiva, secondo mancanza, rispetto al modello delle forme animali, ma per la positività che caratterizza specificamente la forma di vita vegetale, ovvero la capacità di variazione e l’elevata plasticità. «Quindi, che cosa significa, per la pianta, avere un corpo?» (p. 11, trad. mia; la formulazione fa venire in mente l’articolo: P. Calvo, What is it like to be a plant?, «Journal of Consciousness Studies», 24, 2017, 205–227). Quello che unisce «il pensiero naturalista della tradizione, almeno dopo Teofrasto, passando per la botanica moderna, per arrivare alla morfologia goethiana di Agnes Arber [è che] il corpo della pianta mette sottosopra l’organizzazione animale del tutto e della parte» (p. 12l, trad. mia). Sembra essere già percezione aristotelica che la differenza tra forme di vita animali e forme di vita vegetali stia nel fatto che le prime sono di tipo gerarchico e finalista, le seconde sono, per dirla à la Mancuso, organizzazioni orizzontali, poiché la loro crescita iterattiva e indefinita rende difficoltosa, se non impossibile, la delimitazione delle loro parti. Da una simile differenza di organizzazione, che altro non è che un differente rapporto organo/organi-organismo, segue un diverso senso della totalità: indivisibile per le forme animali, divisibile per le forme vegetali; un diverso senso dell’autonomia o dell’individualità, cioè dell’uno.
Fotografia di Igor Orizzonte
La sezione 2, su epistemologia e filosofia della biologia vegetale, è attraversata da due domande: «quale posto il vegetale occupa nello sviluppo della biologia del XX secolo?», «su quali principi e metodi si basa l’approccio scientifico del vegetale?» (p. 12, trad. mia). Per districarsi, Hiernaux seleziona due temi conduttori: il comportamento e l’individualità. «Dal XVIII secolo, i progressi sperimentali delle scienze naturali danno l’impressione che il concetto di anima possa essere abbandonato a profitto di un meccanismo per comprendere la vita delle piante. Dalla fine del XIX secolo, la concezione del vivente basata sull’anima fa progressivamente spazio alla biologia contemporanea. Poco a poco, s’impone il paradigma evoluzionista. La fisiologia inaugura importanti scoperte sperimentali sul funzionamento delle piante che rivoluzionano la botanica. Questa nuova disciplina di laboratorio, con protocolli e strumenti propri, si diffonde per tutta l’Europa. […] Gli sviluppi della fisiologia vegetale cambiano il rapporto verso la sensibilità delle piante. […] L’esclusività del registro delle spiegazioni causali e meccanicistiche non può essere ormai considerato legittimo» (pp. 127-128, trad. mia). Si affina così un’attenzione sempre maggiore verso la possibilità di rintracciare un ordine psichico o cognitivo anche nelle forme vegetali. Autrici e autori principali di questa sezione sono Léo Errera (1858-1905), Anthony Trewavas (1939), Fatima Cvrčková – Helena Lipavská – Viktor Zársky, Ellen Clarke; con loro si offre l’occasione di richiamare anche la scuola tedesca di J. von Sachs e W. Pfeffer, il lavoro di R. Francé, gli studi di Linneo e di Darwin, ma anche Porfirio, Duns Scoto, Leibniz, financo Simondon. Attraverso la proposta del dattiloscritto della conferenza del 1900 Les Plantes ont-elles une âme? di Errera, professore di botanica con formazione filosofica, fervente evoluzionista, istitutore del primo laboratorio belga di anatomia e fisiologia vegetale presso l’Université Libre de Bruxelles, già attento alle ricerche sui fenomeni di variazione elettrica rintracciabili nei vegetali tanto quanto nei fenomeni nervosi, che andrebbero a sostenere, in un quadro darwiniano, la continuità tra forme di vita oltre le fratture ontologiche tra regni, ricerche al centro dei dibattiti contemporanei; del capitolo nono di Plant Behaviour and Intelligence di Trewavas, fisiologo vegetale impegnato nel campo della segnalazione chimica delle piante, esponente della Neurobiologia vegetale, sostenitore dell’irriducibilità della spiegazione dei comportamenti a un ordine esclusivamente genetico o chimico aprendo così alla possibilità di una comparazione etologica con gli animali più semplici, osservatore e teorizzatore della comunicazione elettrica nelle forme vegetali spiegata in termini di “cognizione minima”; dell’articolo Plant Intelligence Why, why not or where? dei biologi praghesi Cvrčkovà, Lipavská e Zársky, che introducono il lettore alla domanda sull’intelligenza vegetale, contribuendo a fare ordine in vista della costruzione di una discussione scientifica sul tema: si delinea come il dibattito sul comportamento vegetale sia vincolato ad altri due aspetti che, nel corso dei secoli, sia in filosofia sia nelle scienze sperimentali, hanno pregiudicato la stessa ricerca fisiologica vegetale: 1) la mancanza negli organismi clorofilliani di un sistema nervoso, 2) la difficoltà di circoscrivere in essi l’individuo. Quello che preme sottolineare, per mostrare il dialogo tra le due sezioni del volume, è che la disquisizione tra sostenitori e detrattori del comportamento vegetale intelligente – ci sia perdonata la ridondanza – si gioca all’interno e nel confronto con un paradigma, il nostro, figlio, da una parte, della vulgata della tradizione aristotelica dell’anima (si noti il passaggio e l’evoluzione storica del concetto di “anima”, attraverso quello di “calore”, fino a quello di “comportamento”) e, dall’altra, della tradizione cartesiana del dualismo mente-corpo. Com’è possibile attribuire un’intenzionalità a un essere privo di mente? E anche, come circoscrivere e attribuire comportamenti a una soggettività che non è un individuo? Gli studi sul comportamento vegetale, allora, rappresenterebbero il viatico per proporre un altro paradigma metafisico (e un’altra assiologia) alternativo a quello di matrice zoocentrica. Sulle difficoltà, e i paradossi che ne conseguono, di far combaciare l’organismo verde e il concetto d’individuo delle scienze biologiche, ricade la scelta dell’articolo Plant individuality: a solution to the demographer’s dilemma di Clarke, filosofa ed epistemologa della biologia che «trae le conclusioni biologiche del problema della grande plasticità e della variabilità delle piante, [lasciato irrisolto] da Teofrasto e da Aristotele» (p. 137, trad. mia). Dalla lettura del contributo di Clarke si evince il circolo vizioso in cui ci si trova se non si possiede un concetto chiaro di individuo vegetale in seno alla teoria evoluzionistica.
La sezione 3 è dedicata interamente all’ontologia e all’etica, che si palesano, nel quadro del volume, indiscernibili. «La riflessione ontologica sul vegetale consiste da una parte nell’interessarsi ai suoi modi di esistenza […], dall’altra ci conduce a ripensare il modo di avvicinare il mondo, l’anima, il divenire ecc. nella loro relazione con le piante»; «l’etica, invece, s’interessa al modo in cui diamo valore a certe entità o azioni nel quadro dei nostri diritti, responsabilità e doveri verso le piante» (p. 247, trad. mia). L’articolo Plant-Soul: The Elusive Meanings of Vegetative Life di Michael Marder, filosofo dell’Università dei Paesi Baschi Vitoria-Gasteiz, che, all’incrocio tra fenomenologia, ecologia e pensiero politico, attribuisce al vegetale un’intenzionalità originaria non cosciente, tentando di sottrarlo sia alla definizione di essere mancante (tipica della svalutazione metafisica) sia a quella di essere indicibile (della feticizzazione pagana); e il prologo al libro La vie de plantes. Une métaphysique du mélange di Emanuele Coccia, filosofo italiano, formatosi anche sulle pagine della filosofia medievale, da cui egli deriva l’attenzione per la riflessione sulle diverse concezioni di “mondo”, lavorano entrambi per la formulazione di un paradigma maggiormente ecologico rintracciabile nel cosiddetto biocentrismo, rispetto al quale il contributo specifico del pensiero sul vegetale risiede nell’invito a ristrutturare ancora più marcatamente l’ontologia nei termini di “processo”, a detrazione di quelli di “sostanza”. Verrebbe da pensare che i concetti di “condivisione” di Marder e di “mescolanza”di Coccia vadano nella stessa direzione: mettono l’accento sulla continuità piuttosto che sulla frattura tra ordini del reale e sottolineano come il reale sia composto da intricate relazioni, se non vere e proprie relazioni di dipendenza, che riguardano anche l’umano rispetto al vegetale. “Le piante sono il mondo”, scrive Coccia, che in altri scritti arriva a radicalizzare fino al paradosso l’immagine delle piante giardinieri del giardino che siamo noi. In virtù del ripensamento delle relazioni tra mondo umano e mondo vegetale, chiude l’articolo Beyond “Second Animals”: Making Sense of Plant Ethics di Sylvie Pouteau, biologa vegetale, attiva nel dibattito sull’etica delle piante, diritti compresi. Con Pouteau, l’invito è di rivalutare il modo in cui letteralmente ci serviamo delle piante, giustificati da una visione gerarchica del mondo, alimentata a sua volta dall’ordine delle scienze naturali, per immaginarealtri rapporti possibili in cui l’utilità non sia l’unico e il solo. E, tuttavia, giunti alla fine del volume, come sollevati da una rivoluzione finalmente pensata, una frase scritta nell’“Introduzione” alla terza sezione rimette in gioco quelle che sembrano le nuove conclusioni cui siamo arrivati, e invita a ripercorrere il volume da capo, come un’ultima mano di carte sul tavolo riapre la partita: «Porsi la questione dell’autonomia della pianta verso il suo ambiente ha senso solo nella misura in cui siamo prigionieri dei nostri dualismi. Le piante, che sia per la loro cognizione senza cervello o per il loro metabolismo aperto sull’ambiente, rimescolano le carte dell’ontologia [ancora fin troppo, NdR] classica» (pp. 253-254, trad. mia).
Fotografia di Igor Orizzonte
Indizio per frequentare le pagine, sembrerebbe che l’obiettivo minimo dell’autore sia che, una volta chiuso il libro, il lettore trattenga che il vegetale sia più di una cosa inerte e meno di una cosa a disposizione (p. 19). Il che significa riconoscere al vegetale una propria agentività, financo una propria soggettività, secondo la logica per cui liberare dall’eteronomia implica riconoscere l’autonomia. Tuttavia, si tratta di un obiettivo troppo modesto alla luce dell’accuratezza con cui Hiernaux, che dà prova di essere un abile dissezionatore, taglia e ricompone i nessi alla base delle nostre conoscenze (e della nostra identità). Allora, altrove, a mio avviso, si rintraccia la vera domanda che dà l’avvio all’immaginazione di quest’antologia, declinata per la filosofia ma valida anche per gli altri saperi: «Si tratta di domandarsi non più come la filosofia ci permetta di comprendere le piante, ma come la comprensione delle piante possa trasformare la filosofia» (pp. 16-17, trad. mia). Che cosa succederebbe se un esile cirro iniziasse ad arrampicarsi su secoli e secoli di storia, pratiche e biblioteche, e con i suoi rami e germogli iniziasse a crescere e a scriverci sopra: saremmo in grado di reggere all’immagine di quella proliferazione clorofilliana o finiremmo per assomigliare di più a un edificio abbandonato?
«È ampiamente riconosciuto che per noi, membri delle società moderne, il lavoro conta molto […] Sapere per quali ragioni, è una domanda a cui rispondere è molto meno agevole». H-C., Schmidt Am Busch
Histoire philosophique du travail (Vrin, 2022), curato da Frank Fischbach, Anne Merker, Pierre-Marie Morel ed Emmanuel Renault, è uno dei risultati del progetto di ricerca «Approches philosophiques de la centralité du travail» diretto da Fischbach e Renault tra il 2014 e il 2017. A loro due si deve l’interessante introduzione, a cui seguono sedici saggi (per i titoli e gli autori, rinvio all’indice) organizzati in due sezioni, la prima dedicata alla filosofia antica, la seconda, più ampia, dedicata alla filosofia moderna. Completa il volume, una bibliografia che amplia i riferimenti proposti dai singoli saggi e che si rivolge quasi esclusivamente alla filosofia contemporanea, in particolare ai più recenti sviluppi della Teoria critica francese, di cui, d’altronde, Fischbach e Renault sono esponenti.
Histoire philosophique du travail non ambisce a proporsi come una «storia della filosofia» sul tema del lavoro. I curatori non hanno ricercato né la sistematicità né la completezza che avrebbe richiesto una simile opera: rimandano ai sette volumi curati da Antimo Negri (Negri 1980-1981) e al progetto in fieri di Jean-Philippe Deranty. I saggi, infatti, sono stati scelti tra gli interventi di tre diverse giornate distudio, tenutesi, tra il 2015 e il 2017, nell’ambito di suddetto progetto di ricerca, e presentano, pertanto, una certa aleatorietà. Così, sebbene i curatori stessi riconoscano che mancano, ad esempio, la filosofia medioevale e quella contemporanea (cfr. p. 11), nondimeno va notato che la selezione dei saggi riduce la filosofia antica a quella greca da cui, però, è escluso Platone (che pure era oggetto di più di una conferenza). Al contempo, occorre segnalare la pubblicazione dell’antologia curata dagli stessi Fischbach e Renault (Fischbach, Renault 2022) con cui integrano Histoire philosophique du travail della parte mancante sulla filosofia contemporanea (nell'indice, ad esempio, si trovano Simone De Beauvoir, Adina Schwartz e Elizabeth Anderson).
Alle mancanze contenutistiche, si può forse aggiungere una mancanza di tipo pratico, quella di un indice analitico. Componendo una mappa del nutrito elenco di termini che gravitano attorno al lavoro e che ricorrono nell’arco del volume, un indice analitico avrebbe certamente agevolato il lettore a muoversi trasversalmente tra i saggi e sarebbe stato coerente con un interesse teorico che i curatori sottolineano nell’Introduzione (cfr. pp. 12-13), cioè seguire le inflessioni di significato che, nel corso della storia della filosofia, i concetti che si riferiscono al lavoro hanno assunto. Inoltre, tanto più in un volume come questo, che presenta una notevole varietà tra gli autori trattati, ciò avrebbe reso possibile reperire i diversi fili rossi che s’intessono nelle riflessioni filosofiche sul lavoro. Piacere, macchina, corpo, dignità, ma anche democrazia, salute, tempo, solo per ipotizzare alcune delle possibili voci.
Tuttavia, non si può additare come lacunosa questa Histoire philosophique du travail, poiché si tratta di un progetto pionieristico e poiché presenta, comunque, una certa organicità. Sin dall’Introduzione, intitolata Historicité et centralité du travail, Fischbach e Renault fissano ed esplicitano il fulcro del volume, che è la centralità del lavoro. A quest’ultima è legato il chiaro obiettivo teorico a cui essi mirano, cioè favorire una rivalutazione delle «risorse» che la storia della filosofia mette a disposizione «per pensare l’importanza delle diverse poste in gioco del lavoro» (p. 9). L’intento è invitare a «rivisitare la storia della filosofia occidentale dal punto di vista del lavoro e così elevare il tema del lavoro alla dignità filosofica che merita e che raramente gli è stata riconosciuta dalla storia della filosofia» (p. 10).
Questo è il tono che i curatori danno al volume e a cui tutti i contributi s’accordano. Gli autori e le autrici si propongono di rileggere tale filosofo o filosofa o una certa tradizione, per dimostrare il valore euristico di tematizzare il lavoro all’interno della loro produzione. Pertanto, per una valida recensione dei singoli saggi, servirebbe l’intervento di altrettanti specialisti. Ad esempio, Morel (Démocrite et le travail technique. Comment produire en régime atomiste?)sceglie di interrogare «la coerenza globale della filosofia di Democrito» non sulla pista più battuta dell’etica bensì «per quanto riguarda l’attitudine umana a modificare la natura attraverso il lavoro» (p. 88), mentre Frédéric Porcher (Nietzsche, penseur du travail?) intende mostrare che in Nietzsche è possibile individuare una nozione positiva di lavoro su cui egli sviluppa la sua critica, alla quale, invece, si fermano normalmente i suoi interpreti.
È possibile, quindi, definire una prima portata dell’espressione «centralità del lavoro». Bisogna intenderla come il tentativo di contrastare l’idea che il lavoro sia un tema poco rilevante nella storia della filosofia o che ha acquisito interesse solo recentemente, con la modernità. Fischbach e Renault vogliono, invece, «rendere manifesta la presenza costante del tema del lavoro, rendere percettibili un più ampio numero delle sue implicazioni, e far apparire la ricchezza dei concetti e delle problematiche attraverso le quali esso è stato pensato» (p. 11). In altri termini, si tratta di affermare la centralità del lavoro per smuovere la filosofia dalla sua posizione affine alla «lunga tradizione di svalorizzazione delle attività lavorative» (p. 9).
È un obiettivo piuttosto urgente per Fischbach e Renault. Infatti, la filosofia, dopo aver assecondato il primo discorso sulla fine del lavoro (cfr. Rifkin 1995), potrebbe assecondare anche il nuovo discorso sulla fine del lavoro che si sta diffondendo e che si basa sull’intelligenza artificiale e il machine learning. Riprendendo le analisi di A. A. Casilli (cfr. Casilli 2020), i curatori sottolineano che anche questo nuovo discorso è solo un nuovo capitolo dell’«occultamento del lavoro, della sua cancellazione nei fatti e della sua svalorizzazione nelle norme […], e dell’estensione e della diffusione del regno della produzione di merci» (p. 7). È evidente, quindi, che la «centralità del lavoro» ha una portata che tracima i limiti della storia della filosofia.
Con la «centralità del lavoro» Fischbach e Renault, infatti, non intendono soltanto opporsi alla perifericità o alla trascurabilità del lavoro quale tema filosofico, bensì vogliono affermare una tesi a pieno titolo. L’espressione indica più propriamente l’opzione teorica su cui la Teoria critica di stampo francese si sta spendendo negli ultimi anni (cfr. Dejours et al. 2018), cioè affermare «il potere strutturante, tanto socialmente quanto psicologicamente, tanto individualmente quanto collettivamente» (p. 16) del lavoro. Contro certe critiche del capitalismo che considerano che il lavoro sia diventato centrale solo con l’avvento della modernità (cfr. Postone 1993), inoltre, ritengono che la svolta che quest’ultima rappresenta consiste nel fatto che il lavoro ha assunto una centralità ulteriore, quella sociale: «La centralità del lavoro diventa così essa stessa sociale nelle società moderne, nel senso che il lavoro vi diventa socialmente strutturante, di modo tale che questa nuova centralità sociale riconfigura completamente e di riflesso le modalità secondo cui il lavoro è e resta strutturante anche sui diversi piani economico, psicologico e politico» (p. 19).
L’articolo di Renault su John Dewey (Dewey, l’anti-Arendt) è quasi un prolungamento dell’Introduzione. Infatti, ricostruendo l’argomentazione del tutto originale del pragmatista americano a proposito della centralità del lavoro, Renault offre una lucida esposizione dell’articolazioni delle «dimensioni» di tale problema. La prima è quella epistemologica, ovvero l’estensione da assegnare al concetto di lavoro. La questione è decisiva perché, come spiega Renault, una «concezione ristretta» esclude la possibilità di riconoscere la centralità del lavoro, laddove una «concezione allargata» la ammette (cfr. p. 369). Tra l’altro, questo spiega perché in Histoire philosophique du travail, a dispetto del fatto che il primo tipo di definizioni siano quelle più diffuse nella storia della filosofia - le rappresenta, ovviamente, Arendt, qui discussa da K. Genel (Hannah Arendt, une critique du travail: comment sortir de «la triste alternative de l’esclavage productif et de la liberté improductive»?) -, sia il secondo tipo di definizioni a prevalere: oltre a quella di Dewey (cfr. pp. 359 e sg.), si veda, per esempio, quella di Weil, esaminata da M. Labbé (Le travail chez Simone Weil: réalité, subjectivité, liberté, cfr. pp. 309-312).
Posta in via preliminare tale questione, la centralità del lavoro si decide propriamente sotto tre riguardi, cioè decretando la sua posizione dal punto di vista antropologico, dal punto di vista psicologico e dal punto di vista della teoria sociale. A tal riguardo, secondo Renault, l’originalità di Dewey consiste nel fatto che la sua argomentazione investe tutti e tre gli ambiti congiuntamente, laddove altri autori e autrici sostengono la centralità del lavoro sotto uno solo di questi aspetti. Infine, vi è la questione della «diagnosi storica» della centralità del lavoro che riguarda il ruolo del lavoro nelle varie società, in particolare in quella contemporanea.
Negli articoli che compongono Histoire philosophique du travail, se ne può quindi individuare una serie che, mentre contribuiscono ad affermare l’interesse filosofico del tema del lavoro, alimentano la prospettiva «forte» della centralità del lavoro e la esplorano secondo le diverse prospettive degli autori che vengono discussi. A proposito della centralità del lavoro dal punto di vista antropologico, ad esempio, sono di grande interesse le pagine del ricco esame che Merker dedica alla concezione aristotelica di schiavitù (L’esclave-Organon d’Aristote: entre machine-outil et homme augmenté). L’inattesa conseguenza delle riflessioni di Aristotele sullo schiavo e il lavoro, infatti, è la sanzione dell’«inclusione indelebile della problematica del lavoro nella condizione umana» (p. 154). H.C. Schmidt Am Busch, invece, esaminando i Lineamenti di filosofia del diritto di Hegel (La valeur du travail: sur l’actualité de la théorie hégélienne de la société moderne) si propone indagare «il valore non monetario del lavoro» (p. 213) tanto per l’individuo quanto per la società.
Tra gli autori che compongono suddetta serie, ha un peso specifico Marx, in quanto è uno degli autori di riferimento per chi sostiene le «obiezioni storicistiche» alla centralità del lavoro (cfr. Deranty 2013). Dapprima, J. Quétier (Marx et le travail) ricostruisce la posizione di Marx a proposito della centralità del lavoro: essa è cruciale tanto per la sua antropologia quanto per la sua analisi del capitalismo e le sue prospettive emancipative. Per riprendere le parole di Quétier, la centralità del lavoro è per Marx «problematica: da una parte perché occultata, dall’altra perché incompleta» (p. 233). Quindi, Fischbach (Le salariat Le salariat doit-il quelque chose à l’esclavage? Capitalisme, esclavage et salariat selon Marx) si concentra su questo secondo aspetto, cioè sulle ragioni per cui, secondo Marx, la centralità del lavoro non può essere realizzata nel capitalismo. Quest’ultimo, infatti, non solo conserva la schiavitù ma ha «una tendenza permanente» (p. 345) a reinventarla e congiungerla con il salariato e con nuove forme indirette di subordinazione del lavoro.
In definitiva, grazie al consistente novero dei filosofi e delle filosofe che sono prese in esame, Histoire philosophique du travail persegue l’obiettivo di rendere meno «fantasmatica» l’esistenza del tema del lavoro nella storia della filosofia (cfr. p. 10). D’altro lato, Histoire philosophique du travail segnala l’interesse e l’urgenza di ampliare e sviluppare, se si accetta la metafora, il cantiere del «potere strutturante» del lavoro ovvero della sua centralità.
di Armando Arata
Bibliografia
Casilli, A. A. (2020). Schiavi del clic. Perché lavoriamo tutti per il nuovo capitalismo?, Feltrinelli, Milano.
Dejours, C., Deranty, J-Ph., Renault, E., Smith, N. H. (2018). The Return of Work in Critical Theory. Self, Society, Politics, Columbia University Press, New York.
Deranty, J-Ph. (2013). Cartographie critique des objections historicistes à la centralité du travail, in «Travailler. Revue internationale de Psychopathologie et Psychodynamique du Travail», 30, pp. 17-47.
Fischbach, F., Renault, E. (2022). Philosophie du travail. Activité, technicité, normativité, Libraire Philosophique J. Vrin, Paris.
Rifkin, J. (1995). La fine del lavoro. Il declino della forza lavoro globale e l'avvento del post-mercato, Baldini & Castoldi, Milano.
Negri, A. (1980-1981). Filosofia del lavoro. Storia antologica (7 volumi), Marzorati Editore, Milano.
Postone, M. (1993). Time, Labor and Social Domination: A Reinterpretation of Marx's Critical Theory, Cambridge University Press, New York and Cambridge.
Mai nella storia si è scritto tanto, e mai, in proporzione, letto così poco. Nel vortice delle pubblicazioni, in una sempre più faticosa ricerca di una (supposta) scientificità fatta di riferimenti e citazioni, in una sempre più marcata parcellizzazione dei campi operativi, in una sempre più feroce protezione di nicchie di competenza esclusiva e autoreferenziale, spesso dimentichiamo che la ricerca è, sempre e di nuovo, una esplorazione.
Naturalmente, le esplorazioni sono faticose e, soprattutto, pericolose. Non sempre portano a qualche risultato e, spesso, ciò che si trova non è ciò che si stava cercando. Ma sono ciò che davvero consente l’avanzamento del pensiero e delle pratiche. Esplorare richiede la capacità di andare oltre il già noto, il coraggio di osare una strada alternativa, la propensione a non dare per scontato esiti e significati, l’attitudine a evadere dalle logiche iterative delle odierne pubblicazioni. Insomma, è una attività rara.
E a questa attività, Philosophy Kitchen ha deciso di dedicare un numero – il primo di una serie, in effetti. È un numero particolare perché non è monografico in senso stretto, cioè “dedicato a un argomento specifico”: anzi ambisce ad avere un’apertura massima verso tutti quei pezzi che, fin troppo spesso, nei casellari delle monografie non riescono a trovare posto. Quegli scartamenti, quei sondaggi dell’inesplorato che hanno davvero il coraggio di proporre interpretazioni inconsuete, ipotesi non scontate e letture transdisciplinari.
Nessuna rilettura, nessuna applicazione su nuovi casi di vecchi metodi, nessun pezzo compilativo, nessun riaffermazione di concetti già diffusi o discussi: solo coraggiose fuoriuscite dai canoni consolidati.
Le strade possono essere molte e riguardare tutti gli ambiti di cui Philosophy Kitchen normalmente si occupa:
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- Scienze dell’antichità, filologico-letterarie e storico-artistiche
Procedura: si prega di inviare, all'indirizzo redazione@philosophykitchen.com, entro il 30 novembre 2022, un abstract di massimo 6000 caratteri, indicando il titolo della proposta, le modalità in cui si intende sviluppare il tema e l'argomentazione, una bibliografia essenziale e ragionata nonché una breve biografia dell’autore o dell’autrice. L'abstract dovrà essere redatto secondo i criteri scaricabili qui [Template Abstract], pena esclusione. Le proposte verranno valutate dai curatori e dalla redazione. Gli esiti della selezione verranno resi noti, via mail, entro il 16 dicembre 2022. I contributi selezionati dovranno poi essere inviati entro il 30 aprile 2023 e saranno sottoposti a double-blind peer review. La pubblicazione del volume è prevista per settembre 2023.
In una scena molto nota di Lost Highway – che costituisce forse l’indizio più evidente della maniera con cui dovrebbe, o perlomeno potrebbe, essere interpretata l’intera pellicola – David Lynch allestisce un dialogo tra il protagonista, il sassofonista Fred Madison, e due agenti di polizia. Poche battute. «I like to remember things my own way» – dichiara Madison. «What do you mean by that?» – domandano gli agenti. «How I remember them. Not necessarily the way they happened». Come me le ricordo. Non necessariamente nel modo in cui sono accadute.
Accantonando, anche se non del tutto, la lettura più probabile di quest’affermazione, nonché la più coerente con lo sfondo teorico dell’intera produzione cinematografica lynchiana, vale a dire quella di ascendenza psicoanalitica (focalizzata sull’altalena immaginaria contenuto latente-contenuto manifesto sulla quale Freud ci ha mostrato consistere l’attività del lavoro onirico), è possibile, a nostro avviso, estrarre da essa, alla maniera dell’epoché fenomenologica, una sorta di metodo autenticamente speculativo tramite cui interrogare filosoficamente la storia di qualcosa (o qualcuno). Che cosa può voler dire, infatti, ricordare le cosecome ce le si ricorda e non necessariamente nel modo in cui sono accadute? Può volere dire, innanzitutto, ricordare le “cose” e non i “fatti” o, meglio, ricordare i fatti nella loro “cosalità” e non nella loro “fatticità”. E poi, può voler dire, soprattutto, collocare queste cose/fatti non all’interno di una rimemorazione fine a se stessa e, in un certo senso – che chiariremo immediatamente – nemmeno oggettiva, bensì radicalmente interessata dal problema che costituisce la ragione della sua scaturigine; l’atto traumatico che ci costringe a “ricordare”, in una maniera che, tuttavia, non ha più molto a che fare con il registro passivo della rimemorazione, ma abbraccia, piuttosto, il registro attivo – inventivo, creativo – dell’immaginazione, nel suo senso più alto.
Gilbert Simondon
Assumiamo, pertanto, che ricordare le cose come ce le si ricorda, non necessariamente nel modo in cui sono accadute significhi, innanzitutto, ricordare l’accadere di un accaduto, piuttosto che l’accaduto ritagliato dalla sostanza del suo accadere; il «senso del problema»[1] – per dirla con Bachelard – da cui è scaturita una specifica e provvisoria soluzione, piuttosto che quella soluzione in quanto tale; la congiuntura che l’ha resa possibile e che rimane attiva e questionabile al di là dell’itinerario di cui è stata oggetto questa o quella specifica soluzione a essa connessa. Si tratta di un’operazione che «disegna un processo piuttosto che indagare un oggetto»[2]. Deduciamo, poi, da tutto ciò, che tale ricordare non consiste in una tanto lineare, quanto oggettiva e neutrale registrazione, ma piuttosto in un «potere di selezione delle forme, di schematizzazione dell’esperienza»[3]. Un’operazione tutt’altro che neutrale, tutt’altro che oggettiva – dicevamo. È a causa di un’interpellazione specifica – un sentimento superficiale e visibile del problema – che cominciamo a ricordare; a ricavare da questo sentimento un senso più profondo ed opaco; a ricercare la presenza di questo senso nel suo continuo riaffioramento sotto una coltre di soluzioni più o meno luminose; infine, a ri-vivificarlo – rendendo disponibili le sue virtualità per ulteriori e differenti forme di attualizzazione.
Interrogare filosoficamente la storia di qualcosa (o qualcuno), di conseguenza, vorrà dire scrivere una storia ratificante, normativa, giudicata, per dirla ancora una volta con Bachelard; radicalmente orientata al presente, «illuminata dalla finalità del presente»[4]. Significherà fare riaffiorare faticosamente il senso di un problema non immediatamente visibile, poiché spesso rimosso, quando non del tutto forcluso, dallo spazio del pensiero.
È in una direzione siffatta – per quanto, in questo contesto, solamente abbozzata – che potrebbe, a nostro avviso, apparire produttivo interrogare filosoficamente la stessa storia della filosofia, insieme o accanto – perché no? – alle vite dei filosofi stessi. Ed è con i medesimi propositi che vorremmo provare a dialogare con i due ultimi libri di Giovanni Carrozzini, pubblicati entrambi per Castelvecchi e intitolati, rispettivamente, Variazioni su Simondon (2020)e Gilbert Simondon. Del modo di esistenza di un individuo (2021).
A Carrozzini dev’essere riconosciuto, innanzitutto, il merito di essere stato tra i primi ad avere riservato un’attenzione rigorosa al pensiero di Simondon all’interno del dibattito italiano (e in italiano.) A una ricognizione della filosofia di Simondon nel suo complesso ha, infatti, dedicato un primo volume nel 2006, Gilbert Simondon: per un’assiomatica dei saperi. Dall’“ontologia dell’individuo” alla filosofia della tecnologia (Manni, San Cesario) e un secondo volume nel 2011, Gilbert Simondon filosofo della mentalité technique (Mimesis, Milano-Udine). Il tutto inframezzato dalla curatela di un importante numero monografico della rivista Il Protagora (Gilbert Simondon filosofo delle tecniche, 2008) e dalla traduzione della versione integrale della tesi di dottorato principale di Simondon (L’individuazione alla luce delle nozioni di forma e d’informazione, Mimesis, Milano-Udine 2011). Anche negli anni successivi, tanto il pensiero del filosofo francese, quanto il suo “modo di esistenza” in quanto “individuo” (o, meglio sarebbe dire, forse, in quanto “processo di individuazione”)[5] hanno continuato a rappresentare un polo di attrazione/attenzione preferenziale per Carrozzini – cosa che lo ha reso, a tutti gli effetti, uno dei maggiori studiosi del filosofo di Saint-Étienne.
Variazioni su Simondon [VS] e Gilbert Simondon. Del modo di esistenza di un individuo [GS]rappresentano, in questo senso, una sorta di crocevia all’interno della produzione dell’autore. Nel secondo – che anche una lettura superficiale consente di identificare come la prima biografia organica di Simondon, fatta eccezione per il breve, ma rilevante ritratto a firma di Nathalie Simondon a cui Carrozzini non manca di rinviare[6] – precipitano una serie di ricerche d’archivio che hanno accompagnato sin dall’inizio lo studio del filosofo francese da parte di Carrozzini. Una «biografia intellettuale» che, lungi dall’esaurirsi in una «raccolta di dati relativi alla vita e al pensiero del soggetto prescelto» (GS, 5), costituisce piuttosto uno strumento utile a cominciare quantomeno a collocare Simondon nella storia della filosofia. Tanto quella a lui contemporanea, rispetto alla quale conservò sempre una – per molti versi – produttiva distanza, nella misura in cui «non palesò mai una qualche condivisione e neppure un vero e proprio confronto delle/con le filosofie “alla moda” dell’epoca» (GS, 45), quanto quella più estesa e classica con la quale, al contrario, non cessò mai di confrontarsi in modo singolare. “Confronto singolare” che, invece, costituisce la sostanza del primo – e i cui modi trovano una concrezione nell’interrogazione del rapporto diretto tra Simondon e i fisiologi ionici, Lucrezio, Aristotele, Descartes, Spinoza e Pascal, da un lato, e di quello indiretto (o parzialmente tale) tra il filosofo francese e von Uexküll, Teilhard de Chardin e Santayana, dall’altro. Al suo interno precipitano, in questo caso, una serie di riflessioni e intuizioni più o meno elaborate che sembrano tracciare i confini di un lavoro in corso (è in termini di una serie di “ipotesi di ricerca” che si esprime, talvolta, l’autore stesso), teso a riflettere sul rapporto tra Simondon e la storia della filosofia. Un campo già parzialmente battuto, certamente, ma che contiene, a nostro avviso, un ventaglio di potenziali inespressi – tanto in relazione alla sostanza qua talis, quanto ai suoi modi –, che Carrozzini ha il merito di cominciare ad attualizzare, fornendoci, al contempo, qualche indicazione utile circa le maniere di trattarli.
Ostentando un’ultima volta una certa dose di spregiudicatezza e assumendo che ricordare le cose come ce le si ricorda, non necessariamente nel modo in cui sono accadute possa essere anche un buon modo di fare storia della filosofia, cominciamo allora con il domandarci se anche Simondon – come il sassofonista Fred Madison – abbia questo tipo di rapporto con il passato; un passato che, confidando di essere riusciti almeno un po’ a chiarire in che senso, non è mai solamente “passato”, ma è sempre, al contempo e piuttosto, un «passato-nel-presente»[7], un «passato attuale»[8]. Allo stesso modo, potremmo cominciare col dire che, per Simondon, anche la “storia” della filosofia è sempre orientata al “presente” della filosofia. «In tal senso – scrive Carrozzini –, il lavoro sulla storia della filosofia non risulta disgiunto da quello autenticamente filosofico e lo sforzo reale risiede proprio nel coniugare in modo inventivo queste due dimensioni» (VS, 55). La storia della filosofia agisce, in questo senso, come carburante, sia nella misura in cui è causa – in almeno un senso, aristotelicamente parlando – del «lavorio alacre del pensare filosoficamente» (VS, 55-56), sia nella misura in cui «come energia in entrata nel sistema filosofico simondoniano appare, in uscita, profondamente trasformata dal contatto con questo sistema, alimentando un’autentica “invenzione”» (VS, 55). A tal proposito, è a nostro avviso opportunamente che Carrozzini propone, sulla scorta di Ludovic Duhem[9], di leggere tale “restituzione” nei termini di una trasduzione – «[u]na significativa restituzione “trasdotta”, ovvero amplificata e trasformata […]» (VS, 58). È quanto accade – come ci mostra sempre opportunamente l’autore – i) con le riflessioni dei fisiologi ionici (e in particolare di Talete e Anassimandro) sull’“archè quale principio ed elemento”, l’“entità pre-elementare” e “il divenire e il movimento” e di Lucrezio sulla natura, che, per stessa ammissione di Simondon, hanno occupato un ruolo di rilievo nei processi di elaborazione di alcune delle sue categorie più note: il preindividuale, la visione operatoria del reale che sarà a fondamento dell’allagmatica, il/i potenziale/i, etc. (VS, 56-68); ii) con le nozioni aristoteliche di forma/materia e atto/potenza, di cui, come noto, Simondon denuncia contraddizioni e limiti, preferendo loro una lettura radicalmente differente della “presa di forma” come processo di individuazione di una forma-materia alla luce della nozione di informazione e una categoria constatabile come quella di “potenziale”, appartenente al dominio della realtà piuttosto che a quello della virtualità (VS, 68-74); iii) con le “idee chiare e distinte” di Descartes, che assumono il carattere di «strutture dotate di potenziale informativo atte all’innesco di processi di amplificazione» (VS, 76); il suo tentativo di combinare res cogitans e res extensa, tramite cui avrebbe «esaminato lo sviluppo delle conversioni fra strutture e intuito la loro possibile commutabilità in operazioni» e così contribuito a «una prima, aurorale, elaborazione dell’allagmatica» (VS, 78); la maniera con cui ne Le passioni dell’anima declina la “vera Generosità” che influenza la categoria simondoniana di atto morale; iv) con la «stringente coincidenza fra la filosofia della Natura e l’etica» (VS, 81) in Spinoza, che trova una ripresa in Simondon attraverso la categoria di “assiontologia”; v) con, infine, «le strategie logiche attuate da Pascal nei suoi Pensées» (VS, 83) – descrizione di un ente a partire dagli estremi del dominio da cui emerge, attenzione per le differenze che specificano un ente e un dominio in rapporto a un altro, approccio analogico alle realtà esaminate – e l’influenza che, nel loro complesso, esse avrebbero esercitato sull’allagmatica simondoniana e, in particolare, sull’utilizzo singolare dell’analogia posto in essere dal filosofo francese. E, similmente, è anche quanto Carrozzini fa accadere, orchestrando una serie di incontri fra von Uexküll e il suo concetto di Umwelt e Simondon e la sua categoria di ambiente associato (VS, 109-128); Simondon e Teilhard de Chardin, alla luce dei loro sistemi (129-147); e, infine, Simondon e Santayana in relazione agli Stati Uniti d’America, come – potremmo dire, sulla scorta di Deleuze e Guattari – “luogo concettuale” o “soglia geofilosofica” (149-161).
"Early Scheme for a circular Feedback Circle" da Jakob Johann von Uexküll, Biologia Teoretica (1920)
E, tuttavia, è proprio sul carattere singolare di questi confronti che vorremmo provare a incalzare ulteriormente la riflessione di Carrozzini, non tanto – lo si comprenderà immediatamente – nei termini di una critica, quanto piuttosto in quelli di un’amplificazione prospettica.
Un’obiezione che potrebbe essere rivolta al carattere peculiare di fare storia della filosofia di Simondon è, infatti, quella di compiere un uso radicalmente personale, quando non del tutto relativistico, delle fonti. Si tratta di una critica che viene rivolta in modo ricorrente a molti filosofi francesi contemporanei e che, tuttavia, crediamo sia importante – per molti versi decisivo – rinviare al mittente, provando a spiegare il perché. Potrebbe essere sufficiente, a questo proposito, fornire due dati: uno biografico e uno bibliografico. Da un lato, infatti, tra i maestri, più o meno diretti, di Simondon figurano alcuni segnavia canonici della storia della filosofia francese, come Martial Guéroult, Jean Hyppolite e Henri Gouhier, il cui influsso sul filosofo di Saint-Étienne, malgrado sia ancora poco indagato, è facilmente constatabile (GS, 12-13). Dall’altro, tra i suoi lavori, troviamo, ad esempio, una Storia della nozione di individuo, che passa in rassegna l’intera storia della filosofia occidentale[10]. E, tuttavia, reputiamo importante non fermarsi a quanto è più superficialmente constatabile e, piuttosto, concentrare l’attenzione sulla differenza che corre tra un utilizzo relativistico degli archivi della storia della filosofia e una sua interrogazione – riqualifichiamola ancora una vola in questi termini – ratificante, normativa, giudicata. Il fatto che Simondon non si limiti a una ricostruzione del pensiero degli autori che prende in considerazione, ma ne proponga una restituzione, non apre le porte al relativismo, quanto piuttosto alla problematizzazione. Nell’ultima fase della sua riflessione, Foucault utilizzava questo termine proprio per identificare il modo di esistenza di un pensiero che fosse costitutivamente in rapporto con un impensato. In modo per certi versi simile, provando a pensare con Bachelard e Simondon, intendiamo la problematizzazione come la ri-vivificazione e la riattivazione del senso di un problema nella forma dei suoi potenziali, mai del tutto assorbiti nelle soluzioni che da esso sono scaturite[11]. In questo senso, potrebbe essere utile affinare ulteriormente gli estremi dell’analogia avanzata da Carrozzini tra il lavoro storico-filosofico di Simondon e la trasduzione, pensando il carattere amplificante e trasformativo di quest’ultima proprio nei termini di una problematizzazione. A nostro avviso, infatti, la riforma simondoniana della storia della filosofia potrebbe essere fatta procedere di pari passo con la sua riforma della nozione (cibernetica) di informazione. «[...] l’information n’est pas une chose – afferma Simondon –, mais l’operation d’une chose arrivant dans un système et y produisant une transformation»[12]. Un sistema – tale è ciò che qualifica secondo Simondon, qualsiasi realtà che potrebbe virtualmente costituire un recettore d’informazione – «qui ne possède pas entièrement en [lui]-même la détermination du cours de son devenir»[13]. È esattamente in questi termini – vale a dire come un sistema che si trova in uno stato di equilibrio metastabile – che Simondon considera la storia della filosofia o, meglio, la filosofia che si trasduce nella sua storia, la quale è sempre storia di un farsi, mai storia di un fatto. Filosofare, per Simondon – ci invita a considerare Carrozzini –, «significa creare e riflettere sul processo di creazione» (GS, 29). Ed è proprio nei termini di un’operazione che interessa un sistema e vi produce una trasformazione che agisce anche l’operare (storico-)filosofico di Simondon[14]. Dovrebbe essere chiaro, a questo punto, in che cosa un’operazione problematizzante differisce tanto da un uso relativistico della storia della filosofia, quanto da un suo uso canonico – nel senso più proprio del termine –, caratterizzato da una proiezione diplopica sul passato di un qualche senso dai contorni ben definiti, che riduce il primo a un processo continuo e coerente di inveramento della sua essenza, di esibizione delle prove della sua verità. Non è tanto sulle strutture locali di questo o quel sistema, sulle forme di questo o quel pensiero, che agisce l’operazione problematizzante, quanto piuttosto sulla serie dei loro potenziali: incompatibilità interne, indeterminazioni parziali, problematiche. Tutti sintomi del persistere, all’interno di ogni individuo, di quello che Simondon chiama preindividuale, che esiste sempre come «potenza del divenire risolutivo», «fonte di futuri stati metastabili dalla quale potranno sorgere nuove individuazioni»[15]. A interessare Simondon non sono tanto le soluzioni, quanto il senso del problema che brilla, più o meno sintomaticamente, sotto di esse – in una posizione di «sì-e-no», di «partecipazione departecipata» – e che, spesso, può valere la pena riattivare, tramite un’«azione risolutiva», per provare a ri-articolare in una direzione differente[16]. È quanto notoriamente accade con la nozione aristotelica di forma, che, una volta interessata dall’“informazione incidente”-Simondon, fa brillare il senso di tutti i problemi che essa, da secoli, porta con sé: rapporto potenza/atto, forma/materia, individuo/processo di individuazione, etc. Ma è anche quanto accade – meno notoriamente – con tutta un’altra serie di nozioni su cui Carrozzini ha il merito di porre l’attenzione proprio in questi termini. Si pensi all’unilateralità tanto di posizioni come quelle dei fisiologi ionici che enfatizzano il ruolo del movimento e del divenire a discapito delle strutture, quanto di posizioni come quelle dei filosofi atomisti (o anche di Platone) che difendono la rilevanza della stabilità a discapito del movimento. Un’opposizione – la stessa che, mutatis mutandis, ritroveremo anche qualche secolo più tardi, tra l’«oggettivismo fenomenista di Kant e di Auguste Comte» e l’«intuizionismo dinamico di Bergson» (o di Deleuze, VS, 66, n. 27) – che se interrogata da una certa prospettiva, mostra una tenuta precaria e, a partire da ciò, la necessità di essere riarticolata in una direzione altra, che per Simondon ha significato provare a pensare, contro il «monismo epistemologico della struttura o dell’operazione»[17], il problema della conversione della struttura in operazione e dell’operazione in struttura all’interno di un medesimo tempo logico. Ma si pensi anche a Descartes – a cui Carrozzini dedica un’intera appendice (VS, 88-107) segnalando, tra le altre cose, i contorni di un’indagine che, a opinione di chi scrive, sarebbe estremamente produttivo approfondire ulteriormente – la cui (pseudo-)“mentalità tecnica”, riscontrabile in molte delle nozioni che egli mette in campo e a cui si rivolge l’orecchio attento e ratificante di Simondon, rimane problematicamente attiva (e, pertanto, ri-attivabile) anche sotto la coltre dell’«impostazione sostanzialista e continuista del suo sistema» (VS, 78), che, rispetto ai potenziali di tale tecnologia generale o riflessiva, agisce come un vero e proprio ostacolo epistemologico. O allo stesso Pascal – «sorprendente filosofo della pratica scientifica, quasi un materialista»[18], come lo definisce Althusser – nei confronti del quale potrebbero essere fatte valere considerazioni simili. In questi termini, inoltre, anche gli altri tre autori convocati da Carrozzini – von Uexküll, Teilhard de Chardin e Santayana – potrebbero rappresentate un buon banco di prova della proficuità, anche al di là della lettera di Simondon, di una modalità specificamente simondoniana di fare storia della filosofia. La già ampia analisi di Carrozzini dei rapporti tra Umwelt e ambiente associato potrebbe essere ulteriormente arricchita, per esempio, da una problematizzazione simondoniana dello sconfinamento ideologico attuato da von Uexküll quando estende il concetto di Umwelt oltre i suoi confini specificamente biologici, ipotizzando l’esistenza di un Bauplan interspecifico, che, a opinione di chi scrive, appare – soprattutto quando si prendono in considerazione le Umwelten umane – come la soluzione ideologica a una questione – ancora una volta, un problema – tutt’altro che di poco conto e che potrebbe essere indentificato con la domanda riguardo alle fattezze e la singolarità dell’ambiente sociale o, più semplicemente, della società. Lo stesso si potrebbe dire di Teilhard – «palentologo in abito talare»[19], lo definiva, provocatoriamente, ancora una volta Althusser –, alla cui superfetazione teologica sopravvive il problema del sistema, rispetto al quale Simondon avrebbe, a nostro avviso, da dire molto più di quanto, fino ad ora, gli è stato fatto dire dai suoi commentatori. O di Santayana, la cui cartografia concettuale degli Stati Uniti sembra, per certi versi, prendere in carico il senso di un problema che fu di Tocqueville, riattivandolo in direzioni sicuramente discutibili, nei due sensi propri del termine, che riassumono bene quanto abbiamo provato a dire fino a questo momento: meritevoli di essere discusse, da un lato, e problematiche, dall’altro.
È all’interno di questi interstizi che il posto occupato da Simondon nella storia della filosofia assume una veste peculiare a partire dal rapporto che egli instaura – e ci consente di instaurare – con la storia della filosofia. Su un piano generale, infatti, il filosofo francese ci insegna a pensare l’indagine storico-filosofica (nonché, per certi versi, la stessa storia della filosofia) come una trasduzione; su un piano particolare, ci fornisce, direttamente o indirettamente, più di qualche strumento per mettere in atto tale trasduzione. Variazioni su Simondon ha senza dubbio il merito di fare luce, all’interno di un insieme discorsivo coerente, su entrambe queste serie convergenti: sui loro punti di connessione e sulle loro possibili linee di fuga. Gilbert Simondon. Del modo di esistenza di un individuo costituisce, in questo senso, un elemento di tale insieme, che, in quanto elemento – è sempre Simondon a insegnarcelo – possiede una sua forma singolare di concretezza e trasmissibilità. La vita stessa del filosofo di Saint-Étienne appare, in tal senso – questo è un grande merito di Carrozzini, la cui ricercatezza di dettaglio non cede quasi mai il passo all’agiografia, nemmeno nell’utilizzo delle numerose testimonianze dirette che è riuscito a reperire (GS, 49-62) –, essa stessa una continua trasduzione – professionale e teorica e professionale-e-teorica – e traccia, contemporaneamente, il piano materiale a partire da cui provare ad operare una problematizzazione più accorta anche dei limiti della riflessione dello stesso Simondon. In tale andirivieni continuo, questi due lavori inaugurano così – in maniera molto differente l’uno dall’altro – un cantiere certamente dotato di una propria autonomia, ma, che individua, al contempo, una serie di soglie metastabili, contribuendo a rendere possibili altre e nuove trasduzioni e collaborando, in questo modo, «alla faticosa impresa di costruzione del sapere» (GS, 5).
di Marco Ferrari
[1] G. Bachelard, La formazione dello spirito scientifico. Contributo a una psicoanalisi della conoscenza oggettiva, tr. it. a cura di E.C. Gattinara, Cortina, Milano 1995, p. 12.
[2] P. Macherey, La filosofia della scienza di Georges Canguilhem. Epistemologia e storia delle scienze, in Da Canguilhem a Foucault. La forza delle norme, tr. di P. Godani, introduzione di V. Fiorini e P. Savoia, Ets, Pisa 2011, pp. 35-69, qui p. 67.
[3] G. Simondon, Del modo di esistenza degli oggetti tecnici, tr. it. di A.S. Caridi, Orthotes, Napoli-Salerno 2020, p. 139.
[4] G. Bachelard, L’attività razionalista della fisica contemporanea, tr. it. a cura di F. Bonicalzi, tr. di C. Maggioni, rev. sc. di G. Mattace Raso, Jaca Book, Milano 2020, p. 56.
[5] Si vedano, a tal proposito, in particolare le sezioni monografiche da lui curate dei numeri 23-24 (2015) e 29-30 (2018) della rivista Il Protagora.
[7] S. Bachelard, Epistemologia e storia delle scienze, in F. Bonicalzi, La ragione cieca, Jaca Book, Milano 1982, pp. 117-131, qui p. 121.
[8] G. Bachelard, G. Bachelard, L’attività razionalista della fisica contemporanea, cit., p. 55.
[9] Cfr. L. Duhem, Apeiron et physis. Simondon transducteut des présocratiques, in «Cahiers Simondon», 4, 2012, pp. 33-66.
[10] Più in generale, non è superfluo sottolineare come una serie di riferimenti organici alla storia della filosofia siano presenti in molti dei corsi e degli scritti “minori” (conferenze, abbozzi e appunti non pubblicati, etc.) di Simondon. Si vedano, a titolo di esempio, Les grands courants de la philosophie française contemporaine [1962-1963], Sciences de la nature et sciences de l’homme, entrambi in G. Simondon, Sur la philosophie (1950-1980), Éditions établie par N. Simondon et I. Saurin, Préface de F. Worms, Puf, Paris 2016, pp. 131-150 e 219-321. Ma si tenga in considerazione anche il corso, tutt’oggi ancora inedito, intitolato Quelques éléments d’histoire de la pensée philosophique dans le mondo occidental, richiamato da Carrozzini sulla scorta di una testimonianza di Vincent Bontems (GS, 95, n. 229).
[11] La categoria di problema è, a nostro avviso, tanto centrale, quanto ancora poco discussa, in tutta la riflessione di Simondon. È particolarmente indicativo, a questo proposito, quanto il filosofo francese scrive nella conclusione de L’individuazione: «Il presente dell’essere consiste nella sua problematica in via di risoluzione, essendo, in quanto tale, bipolare secondo il tempo, proprio perché problematica. L’essere individuato non consiste nella sostanza, bensì nell’essere posto in questione, nell’essere attraversato da una problematica, diviso, riunito, portato all’interno di questa problematica che si pone per mezzo di lui e lo fa divenire nel modo in cui diviene» (G. Simondon, L’individuazione alla luce delle nozioni di forma e d’informazione, tr. it. a cura di G. Carrozzini, Mimesis, Milano-Udine 2011, pp. 436-437). Siamo convinti che una riflessione organica attorno a questa categoria potrebbe mostrare l’esistenza di un legame più solido di quanto fino a questo momento si è ammesso tra il filosofo di Saint-Étienne e non solo alcuni dei suoi maestri – come Canguilhem e, più indirettamente, Bachelard –, ma anche la “tradizione” a cui si è soliti ascrivere questi ultimi, ovverosia quella della cosiddetta epistemologia storica. In questo contesto ci limitiamo ad affermarlo, a nostra volta, come segnale di un lavoro in corso.
[12] G. Simondon, L’amplification dans les processus d’information [1962], in Communication et information. Cours et conferences, Édition établie par N. Simondon et présentée par J.-Y. Chateau, Les Éditions de la Transparence, Paris 2010, pp. 157-176, qui p. 159.
[14] Sull’attitudine riflessiva della filosofia, intesa, per certi versi, proprio come «un cas particulier de relation entre une problématique et les différentes opérations par lesquelles elle peut être résolue», si veda: G. Simondon, «Introduction» (Note sur l’attitude réflexive, autour de 1955), in Sur la philosophie…, cit., pp. 19-25, qui p. 23.
[15] G. Simondon, L’individuazione…, cit., p. 440 e 39.
[16] Id., Per una nozione di situazione dialettica, tr. it. a cura di G. Carrozzini, in «Il Protagora», 5/5 (2005), pp. 105-119, qui p. 113 e 115.
[17] Id., Allagmatica, in L’individuazione…, cit., pp. 769-779, qui p. 776.
[18] L. Althusser, Filosofia e filosofia spontanea degli scienziati e altri scritti, tr. it. di F. Fistetti, De Donato, Bari 1976, p. 80
Come l’essere, anche l’amore si dice in molti modi. Diverse sono le grammatiche dell’amore, e diverse sono le fenomenologie dell’esperienza amorosa. Complicati sono pure i fili che annodano le grammatiche dell’amore, che permettono cioè di raccontare le storie d’amore, con le esperienze amorose, le quali, anche quando si dicono nella parola non pronunciata dell’estasi erotica o nel silenzio che accompagna il lutto dovuto alla perdita dell’oggetto amato, sono sempre tese verso il loro dirsi, verso una narrazione possibile. Purificare, o emendare, tali grammatiche non è impresa facile, ma, riconoscendo che in molte di esse si cela la presenza – a volte nemmeno tanto nascosta – del dominio maschile o patriarcale, è per lo meno auspicabile fornirne una decostruzione.
Like being, love is said in many ways. There are different grammars of love, and different phenomenologies of love experience. The threads that bind the grammars of love are also complex, and even when they are said in the unspoken words of erotic ecstasy or in the silence that accompanies the mourning due to the loss of the beloved object, they are always stretched towards their own saying, towards a possible narration. Purifying or amending these grammars is not an easy task, but recognising that many of them conceal the presence - sometimes not even so hidden - of male or patriarchal domination, it is at least desirable to provide a deconstruction.
Non c’è evoluzione tecnologica senza che, nel più profondo, avvenga una mutazione del capitalismo
G. Deleuze, Proscritto alle società di controllo
Per cogliere il senso complessivo del denso lavoro di Bernard Stiegler, La miseria simbolica. L’epoca iperindustriale 1(Meltemi, 2021) iniziamo con l’interrogare i termini che compongono il titolo dell’opera. In cosa consiste per l’autore “la miseria simbolica” che caratterizza le nostre società in quella che egli definisce l’“epoca iperindustriale?”
«La nostra epoca – scrive Stiegler – si caratterizza come presa di controllo del simbolico da parte della tecnologia industriale, laddove l’estetica è diventata al contempo l’arma e il teatro della guerra economica» (p. 25). L’effetto di un tale conflitto sugli individui è la miseria simbolica, vale a dire «la perdita di individuazione derivante a sua volta dalla perdita di partecipazione alla produzione di simboli, designanti, questi, tanto i frutti della vita intellettiva (concetti, idee, teoremi, saperi) che quelli della vita sensibile (arti, saper-fare, costumi)» (p. 38).
Come l’autore annuncia nella Prefazione, il testo va considerato come un commento al Proscritto sulle società di controllo (in Pourparler, Quodlibet, 2019) di Gilles Deleuze. In quelle poche pagine, com’è ben noto, Deleuze sostiene che le “società disciplinari” analizzate da Michel Foucault, con l’organizzazione dei grandi ambienti di internamento (famiglia, scuola, fabbrica, ospedale, carcere) che caratterizza la loro logica, e storicamente collocabili tra il XVIII e l’inizio del XX sec., siano ormai state sostituite dalle società di controllo, la cui peculiarità consiste nell’estensione, nell’intensificazione e nella complessificazione della logica dei processi distintivi della rivoluzione industriale applicati anche alla sfera simbolica del desiderio. Nell’attuale forma di capitalismo, che Stiegler definisce con Jeremy Rifkin «culturale» (p. 83), la dimensione estetica – qui intesa in senso ampio come dimensione del sentire in generale, e nella quale soltanto è possibile costituire un “io” e un “noi” a partire da un pathos comune – viene sistematicamente presa nelle maglie del calcolo, il cui dominio, anche grazie al recente processo di digitalizzazione, si è esteso ormai ben al di là della sfera della produzione, «nella integralità dei dispositivi caratteristici di ciò che Simondon chiama l’individuazione psichica e collettiva» (p. 82).
Nell’epoca iperindustriale la legge del capitale non è più la produzione, ma «il marketing in quanto controllo dei tempi di coscienza e dei corpi attraverso la macchinazione della vita quotidiana» (p. 83), così come il luogo paradigmatico non è più la fabbrica, ma l’impresa. L’iperindustrializzazione – è questa la tesi di Stiegler – ha dunque un riscontro paradossale: da un lato fa apparire una nuova immagine dell’individuo, il consumatore, dall’altro la generalizzazione del calcolo impedisce, o quantomeno ostacola fortemente, il processo di individuazione stesso che, solo, rende l’individuo possibile.
Del saggio deleuziano, Stiegler non condivide soltanto l’analisi insieme storica e logica relativa all’insediamento progressivo di un nuovo regime di dominazione, quello, cioè, caratteristico delle società di controllo, e che comporta una notevole perdita di individuazione, vale a dire la miseria simbolica, ma fa pienamente suo, se così possiamo esprimerci, anche lo spirito politico battagliero, che anima quelle pagine e che ben si esprime in queste parole, che lo stesso Stiegler cita: «Non è il caso né di avere paura né di sperare, bisogna cercare nuove armi» (Deleuze, 2019, p. 235). Come ben specifica Rosella Corda nell’Introduzione, il lavoro di Stiegler non si limita infatti «alla costatazione sterile o alla rassegnazione diagnostica», ma si pone l’obiettivo di trovare, «proprio in questo disperare, mancare di speranza, un po’ di possibile» (Stiegler, 2021, p. 9)
La questione delle armi, come esplicitamente afferma l’autore, è la «questione della tecnicain generale» – ovvero la questione cardine su cui ruota tutta l’opera di Stiegler fin dal suo primo lavoro La technique et le temps 1. La faute d’Épimethée, –, la quale è anche questione del politico, questione, cioè, «del destino di un noi» (Stiegler 2021, p. 38). La questione della tèchne, che, ricordiamolo, per Stiegler è un pharmakon, vale a dire insieme veleno e antidoto, si articola qui nell’ipotesi di un’organologia generale, la quale si pone l’obiettivo di indagare, dal punto di vista di una prospettiva antropologico-filosofica, la genesi del processo di ominazione. La domanda a cui l’organologia risponde è dunque una domanda sulla seconda natura dell’uomo, vale a dire sulla natura “originariamente” protesica, e cioè tecnica, dell’uomo. Un’adeguata interrogazione della secondarietà che contraddistingue l’umano rappresenta una condizione senza la quale non è possibile comprendere l’epoca attuale e la sua miseria simbolica, né risulta possibile – ed è questo ciò che più conta per Stiegler – indicare delle vie alternative a tale stato di miseria.
Il progetto di un’organologia generale prevede lo studio congiunto di quelle che Stiegler considera le «tre grandi organizzazioni che formano la potenza estetica dell’uomo: il suo corpo con la sua organizzazione fisiologica, i suoi organi artificiali (tecniche, oggetti, utensili, strumenti, opere d’arte) e le sue organizzazioni sociali che risultano dalla articolazione degli artefatti e dei corpi (pp. 31-32)». Il concetto chiave su cui l’autore costruisce tale progetto è il concetto di ritenzione terziaria, il quale, a differenza dei concetti di ritenzione primaria e di ritenzione secondaria con i quali Husserl indicava rispettivamente la dimensione della percezione e la dimensione dell’immaginazione, indica la dimensione artificiale della produzione da parte dell’uomo di oggetti di memoria esteriorizzata, come ad es. lo smartphone, i libri, gli edifici, le targhe commemorative, i film.
Formicaio
Nel terzo capitolo del libro “Allegoria del formicaio. La perdita di individuazione nell’epoca iperindustriale”, Stiegler ricostruisce per tappe storiche il processo di produzione delle ritenzioni terziarie, che egli chiama epifilogenesi. «L’ambiente epifilogenetico – scrive l’autore – come insieme delle ritenzioni terziarie costituisce il supporto dell’ambiente preindividuale permettendo l’individuazione del genere» (p. 89). Essendo l’epifilogensi il «deposito di memoria che è specifico di una forma di vita unica, quella del genere umano» (p. 66), ed essendo la natura dell’uomo già da sempre tecnica, la storia dell’epifilogenesi segna le tappe dell’individuazione dell’uomo, in particolare dell’uomo occidentale. Senza poter approfondire i vari passaggi che caratterizzano questa storia, che è anche la storia di una lotta per la definizione delle criteriologie dei dispositivi ritenzionali («processo di grammatizzazione», p. 90), ci preme mettere in luce il fatto che secondo Stiegler questo processo ha raggiunto un punto limite nell’epoca iperindustriale. Il processo di individuazione rischia cioè di annullarsi in favore di una «ipersincronizzazione» (p. 96) – ben resa dall’allegoria del formicaio – in cui la differenza tra “io” e “noi” collassa nel “si”, ovvero in quella condizione che Stiegler chiama anche di «mal-essere» (p. 98), tale per cui gli individui, non avendo più accesso alla produzione di simboli, perdono la loro singolarità e la correlata possibilità di proiettarsi in un “noi” e, dunque, in una dimensione politica. Privati di singolarità, gli individui cercano di singolarizzarsi mediante gli artefatti che il mercato mette loro a disposizione, il quale sfrutta la miseria propria del consumo stesso, e così facendo fanno esperienza del loro fallimento: «non si amano più e si rivelano sempre meno capaci di amare» (p. 99).
Concediamoci ora una considerazione generale sul senso dell’opera di un autore come Stiegler. Se ci soffermassimo soltanto sul lato diagnostico, sulla pars destruens del suo discorso correremmo il rischio di eludere l’aspetto più rilevante dello sforzo intellettuale – e non solo – dell’opera e della vita di Stiegler, il quale riguarda l’impegno con cui l’autore ha da sempre tentato di rispondere alla domanda: “che fare?”. Se infatti considerassimo solo l’aspetto analitico della sua opera, finiremmo per giudicare Stiegler, come pure è stato fatto soprattutto dopo la pubblicazione de La società automatica. 1. L’avvenire del lavoro (Meltemi, 2019), un autore catastrofista. Per quanto la situazione diagnosticata dall’autore sia effettivamente catastrofica, Stiegler, come si è detto, non cede nemmeno per un attimo al catastrofismo. È questo un punto battuto da tutti i curatori delle edizioni italiane recenti delle opere di Stiegler, sulla cui insistenza, potremmo dire, Meltemi ha costruito la cifra peculiare della sua operazione editoriale, che ha portato alla pubblicazione dei due volumi sulla miseria simbolica (Stiegler, 2021; La miseria simbolica. 2. La catastrofe del sentire) e a quello sulla società automatica (Stiegler, 2019) nella serie “Culture radicali” diretta da Gruppo Ippolita.
Come scrive Giuseppe Allegri in un articolo online su OPERAVIVA dal titolo Dentro, oltre e contro la società automatica, «il ricercare e l’agire di Stiegler si oppone radicalmente a qualsiasi visione apocalittica che altri rintracciano nel suo pensiero, del tutto inspiegabilmente e proprio leggendo il volume sulla Società automatica, mentre la postura del Nostro è anche e soprattutto quella progettuale e sperimentale, per la promozione e il sostegno di collettivi di ricerca che coinvolgano e che già coinvolgono ampi spezzoni di società, associazionismo di base e frammenti di classe dirigente, disposti ad accettare e orientare la trasformazione tecno-digitale e socio-economica nel senso di un ripensamento radicale delle categorie e delle pratiche sociali per maggiore autodeterminazione, dignità, felicità in favore dei molti» (https://operavivamagazine.org/dentro-oltre-e-contro-la-societa-automatica/). Lo stesso Allegri, autore della postfazione al testo qui recensito, e significativamente titolata Ricchezza delle pratiche inventive, fa un lungo elenco delle attività che hanno impegnato Stiegler dalla fine degli anni Novanta fino alla sua scomparsa nell’agosto del 2020, e che lo hanno coinvolto nella fondazione di «nuove istituzioni», quali, tra le molte altre, citiamo Ars Industrialis, «la cui “ragione sociale” è quella di un’associazione europea per una politica industriale delle tecnologie dello spirito», o «IRI – Institute pour la Recherche et l’Innovation presso il Centre Pompidou, all’interno del quale è riuscito a promuovere una rete di Digital Studies inaugurata nel 2012»,o che lo hanno visto collaborare al «progetto avviato nel maggio 2016 di Territoire Apprenant Contributif, che coinvolge i 9 comuni di Paris Nord/Seine-Saint-Denis» (pp. 160-161).
Specificamente per quel che riguarda La miseria simbolica 1. L’epoca iperindustriale, in tutte le pagine che compongono i quattro capitoli del libro, finanche nei punti in cui la disperazione emerge in maniera più forte, e, anzi, soprattutto lì, la domanda sul “che fare?” e la ricerca continua di quella che con una bella espressione Stiegler definisce l’«energia zoppicante della chance» (p. 124) non scompaiono mai dall’orizzonte. In particolare, si ha un riscontro evidente dell’insistenza con cui Stiegler si spende per “cercare nuove armi” nell’analisi dei due film On connaît la chanson di Alain Resnais e Tiresia di Bertrand Bonello, che egli conduce rispettivamente nel secondo (Come se ci mancassimo o di come trovare delle armi a partire da Parole parole parole… (On connaît la chanson) di Alain Resnais”) e nel quarto capitolo (“Tiresia e la guerra del tempo. A proposito di un film di Bertrand Bonello”) del testo.
Alain Resnais: On connaît la chanson (1997)
Nel film di Resnais il nostro autore trova esemplarmente tracciata, nel modo in cui il regista compone e scompone cliché attraverso l’utilizzo della tecnica del sampling e più specificamente attraverso la ripetizione ventriloqua che i personaggi si trovano a fare dei ritornelli di alcune famosissime canzoni francesi, la via «per una nuova capacità di immaginare/sentire» (p. 15), che prenda le mosse proprio da quel processo che fa scomparire la differenza tra “io” e “noi” nel “si”, ma tentando di invertirne la direzione.
Era il Maggio 1942, esattamente ottant’anni fa. A New York si tenne il seminario “Cerebral Inhibition”. Organizzato da Frank Fremont-Smith, allora direttore medico della Josiah Macy Jr. Foundation, il seminario vide tra i partecipanti svariati ricercatori provenienti da diversi ambiti del sapere: oltre agli antropologi Margaret Mead e Gregory Bateson, vi presero parte lo psicanalista Lawrence Kubie, lo scienziato sociale Lawrence K. Frank e due neurofisiologi: Warren McCulloch – che un anno dopo avrebbe pubblicato, insieme a Walter Pitts, un testo pioneristico sulle reti neurali artificiali – e Arturo Rosenblueth. Quest’ultimo, per l’occasione, presentò la ricerca, condotta insieme a Norbert Wiener e Julien Bigelow, che portò alla stesura del celebre articolo Behavior, Purpose and Teleology (1943), nel quale si mostrava l’equivalenza funzionale tra il comportamento finalizzato del vivente e quello esibito dalle macchine auto-regolate tramite retroazione.
Fu da questo nucleo di ricercatori che, finita la Seconda Guerra Mondiale, sotto l’egida della Macy Foundation, prese vita un ciclo di conferenze interdisciplinari con cadenza semestrale, che si tennero dal 1946 al 1953. Dapprima intitolate “Feedback Mechanisms and Circular Causal Systems in Biology and the Social Sciences”, dopo il 1948, con l’uscita di Cybernetics, or the Control and Communication in the Animal and in the Machine di Wiener, le conferenze presero il nome di “Cybernetics: Circular Causal, and Feedback Mechanisms in Biological and Social Systems”. Tra i partecipanti, vi furono matematici, psicologi sperimentali e gestaltisti, fisici, ingegneri, sociologi, ecologi, antropologi, biologi e linguisti.
Come ebbe modo di ribadire Fremont-Smith in occasione del sesto incontro, l’obiettivo delle conferenze era quello di fondare un ambiente di ricerca interdisciplinare in cui, a partire dalla costruzione di un linguaggio comune, si potessero affrontare problemi che, sebbene sorgessero in contesti disciplinari differenti, presentavano degli isomorfismi tali da renderli trattabili tramite modelli operativi condivisi. In estrema sintesi, i cibernetici perseguivano un ideale di unificazione delle scienze facendo leva su fenomeni e processi trasversali ai vari saperi. La storia delle conferenze di cibernetica fu, in buona sostanza, una ricerca incessante di mediazioni. Non a caso, le nozioni che si affermarono in quel contesto, e intorno alle quali ruotò buona parte delle conferenze, fungevano da mediatori: 1) l’informazione, concepita come entropia negativa, prometteva di mediare tra processi fisici, biologici, psichici e sociali; 2) i meccanismi circolari, fondamentali per comprendere tutti quei processi nei quali l’interazione tra sistemi o sottosistemi produce una dinamica omeostatica, promettevano di mediare tra l’ambito ingegneristico, quello fisiologico e quello sociologico; 3) il calcolatore elettronico – allora allo stato embrionale – prometteva di mediare tra processi mentali – ragionamento logico, comprensione degli universali, ecc. – e processi materiali – trasmissione di segnali elettrici in un circuito.
«Ce n’est plus d’une libération universalisante que l’homme a besoin, mais d’une médiation», scriverà Gilbert Simondon (1958, 103) a proposito dell’ideale enciclopedico della cibernetica, cogliendone appieno lo spirito. Questo ideale enciclopedico si accompagnava a una dichiarata volontà di rinnovamento delle categorie filosofiche e di superamento di molte dicotomie metafisiche. Nel primo capitolo di Cybernetics, intitolato “Newtonian and Bergsonian Time”, Wiener sosteneva che grazie alla cibernetica «the whole mechanist-vitalist controversy has been relegated to the limbo of badly posed questions» (Wiener 2019, 63). McCulloch e Pitts affermavano che la loro rete neurale era, di fatto, una risoluzione del mind-body problem: «[…] both the formal and the final aspects of that activity which we are wont to call mental are rigorously deducible from present neurophysiology […]. “Mind” no longer “goes more ghostly than a ghost”» (McCulloch 1988, 38). La macchina astratta di William Ross Ashby, come ebbe modo di notare Mauro Nasti nella presentazione della traduzione italiana di Introduzione alla cibernetica, sconvolgeva «tutta un’impostazione filosofica tradizionale […] con cui si contrapponeva irriducibilmente il mondo “materiale”, fisico, delle macchine a quello “immateriale” e “libero” della mente» (Nasti 1970, xvii-xviii).
L’ultima conferenza di cibernetica (tenutasi nel 1953), lungi dal coincidere con il dissolvimento dello spirito cibernetico, sancì di fatto la sua diffusione pressoché illimitata. Non vi fu campo del sapere in cui le idee cibernetiche non penetrarono, a volte accolte con entusiasmo, altre con riserva, altre ancora apertamente criticate. Dalla filosofia (Ruyer 1954, Jonas 1953) all’economia (Lange 1963); dalla fisica (de Broglie 1951) all’ecologia (Odum 1963); dalla politologia (Deutsch 1963) alla biologia (Monod 1970, Atlan 1972); dalla cosmologia (Ducrocq 1964) alla gestione aziendale (Beer 1964); dalla letteratura (Calvino 1967) al diritto (Knapp 1963); dall’architettura (Alexander 1964) all’etologia (Hassenstein 1966). La cibernetica trasformò il linguaggio dei saperi in cui penetrò, contribuendo alla nascita di nuovi ambiti di ricerca.
Nel contesto delle scienze della cognizione, nel 1968 Marvin Minsky ratificava che la cibernetica si era differenziata in tre programmi di ricerca oramai pienamente autonomi: 1) la teoria dei sistemi auto-organizzati, basata sulla simulazione di processi evolutivi e adattativi; 2) la simulazione del comportamento umano tramite modelli computazionali; 3) l’Intelligenza Artificiale propriamente detta, cioè la progettazione di macchine intelligenti non finalizzata alla simulazione di processi biologici e cognitivi.
Se gli ultimi due programmi si concepivano come corpi maturi e completamente emancipati dal loro passato cibernetico, il primo programma non smise di rivendicarne le radici, che trovarono nel Biological Computer Laboratory dell’Università dell’Illinois, diretto da Heinz von Foerster, un terreno fecondo in cui attecchire. È in questo contesto che poté nascere un’epistemologia cibernetica – la cibernetica di second’ordine, o cibernetica dell’osservazione dei sistemi che osservano – che favorì l’emergere della teoria dei sistemi autopoietici (Maturana & Varela 1980), della neurofenomenologia (Varela, Thompson, Rosch 1991), della teoria generale della società (Luhmann 1984), dell’elaborazione delle logiche polivalenti e delle ontologie trans-classiche (Günther 1962), della pragmatica della comunicazione (Watzlawick, Bavelas, Jackson 1967), del costruttivismo radicale (Glasersfeld 1974), ecc.
Con la chiusura del Biological Computer Laboratory nel 1974, la cibernetica entrò in una fase diasporica, che dura tutt’oggi. Una diaspora che, a differenza della prolificità della prima disseminazione, ha assunto le forme di un graduale dissolvimento. La cibernetica appare oggi come un’entità fantasma infestante una moltitudine di discorsi, le cui tracce possono essere scorte un po’ ovunque, spesso e volentieri non riconosciute come tali.
Tuttavia, a dispetto – o forse in virtù – del suo carattere fantasmatico, l’ultimo ventennio ha visto intensificarsi un interesse storiografico per la cibernetica, con la produzione di lavori che hanno ricostruito la storia della cibernetica americana (Kline 2015), britannica (Husbands & Holland 2008), francese (Le Roux 2018), italiana (Cordeschi & Numerico 2013), sovietica (Gerovicht 2002) e cinese (Liu 2019).
Parallelamente al crescente interesse per la sua storia, si è intensificato anche quello per le sue implicazioni teoretiche e politiche – a testimonianza del fatto che non si è smesso di pensare col suo spettro. Un interesse che ha riguardato, tra le altre cose, il rapporto tra la cibernetica e l’ontologia (Pickering 2010), la metafisica(Hui 2019), la filosofia politica (Guilhot 2020; Bates 2020), l’ecologia filosofica (Hörl 2013), la teoria dei media (Hansen & Mitchell 2010), il post/trans-umanesimo (Malapi-Nelson 2017), la french theory (Lafontaine 2007; Geoghegan 2020), ecc.
È il carattere spettrale e disseminato della cibernetica – il suo insistere negli interstizi dell’enciclopedia – che ci spinge a dedicarle il numero #18 di Philosophy Kitchen. L’obiettivo è quello di cartografare i luoghi del sapere in cui possono ravvisarsi le tracce lasciate dalla cibernetica, seguirne le piste, ricostruirne le trame, farne emergere i modi d’essere, interrogarne l’eredità e l’attualità.
In special modo, le linee che vorremmo esplorare sono:
- Cibernetica nella storia delle idee e nella storia della scienza
- Storia della storiografia cibernetica
- Epistemologia e ontologia della cibernetica
- Teoria generale delle macchine
- Cibernetica e scienza dei sistemi complessi
- Cibernetica nelle scienze biologiche e sociali
- Cibernetica e scienza della cognizione
- Cibernetica nella filosofia contemporanea
- Cibernetica e governamentalità
- Cibernetica, teorie della pianificazione e del progetto
Procedura: si prega di inviare, all'indirizzo redazione@philosophykitchen.com, entro il 30 aprile 2022, un abstract di massimo 6000 caratteri, indicando il titolo della proposta, le modalità in cui si intende sviluppare il tema e l'argomentazione, una bibliografia essenziale e ragionata nonché una breve biografia dell’autore o dell’autrice. Le proposte verranno valutate dai curatori e dalla redazione. Gli esiti della selezione verranno resi noti, via mail, entro il 7 maggio 2022. I contributi selezionati dovranno poi essere inviati entro il 31 ottobre 2022 e saranno sottoposti a double-blind peer review. La pubblicazione del volume è prevista per marzo 2023.
Ciò che più si avvicina all’idea di consapevolezza ecologica è un senso di intimità, piuttosto che il senso di appartenere a qualcosa di più grande: la sensazione di essere vicini, anche troppo vicini, ad altre forme di vita, di averle sottopelle. (Timothy Morton)
I saggi raccolti nella pubblicazione Ecologie complesse. Pensare l’arte oltre l’umano (Meltemi, 2021) a cura di Gabriela Galati, tracciano possibili strade per accordarsi al non-umano, offrendo spunti per un superamento della visione antropocentrica che riguarda nello specifico l’arte, la pedagogia, la musica, la pratica curatoriale e quella archivistica.
La raccolta si apre con “Il curatore animale”, testo in cui Edith Doove propone un curioso rovesciamento di prospettiva: esplorare l’attività umana della curatela di mostre come pratica animale, collocando l’essere umano a livello dell’animale e non viceversa. L’esempio citato dall’autrice è quello dell’uccello giardiniere che assembla rami per costruire pergolati, decorandoli con materiali e scarti variopinti. Diversi zoosemiotici riconoscono infatti che alcuni uccelli hanno un senso estetico, sia visivo sia musicale, che permetterebbe di rompere la presa antroposemiotica sull’arte (G. Genosko, 2002). Questo spostamento è proposto dall’autrice attraverso un’analisi della questione del linguaggio, passando per Jacques Derrida e Cary Wolfe, per approdare al concetto di infrasottile - una presenza che c’è ma sfugge -derivato da Marcel Duchamp e qui suggerito come possibile approccio all’alterità: uno strumento per “vedere artisti e curatori come uccelli”. Il concetto di infrasottile in relazione al mondo animale non-umano mi riporta agli studi sul mimetismo di Roger Caillois. Tra i comportamenti classificati dall’accademico francese, il mascheramento (differenziato dal travestimento e dall’intimidazione) è individuato come l’atteggiamento attraverso il quale l’animale giunge a confondersi con l’ambiente. Particolarmente suggestivo è il caso delle conchiglie della famiglia Xenophoridae (xénos, straniero, estraneo; phéro, portatore) la cui caratteristica è quella di inglobare altri gasteropodi, bivalvi, sassolini e detriti vari, raccolti sul fondo del mare, assumendo su di sé elementi dell’ambiente circostante. Il gasteropode Xenophora attua un comportamento mimetico le cui finalità rimangono ipotetiche, certa è invece l’intenzionalità – potremmo dire la cura - con cui l’animale unisce e dispone sul proprio corpo i materiali scelti.
Non stupisce che sia proprio la tecnica del collage a caratterizzare la ricerca artistica di Eva Kot’átková (Praga, Repubblica Ceca, 1982) citata nel saggio di Federica Fontana: l’artista assembla e ricombina materiali - frammenti di corpi, animali, elementi architettonici, oggetti, sogni – aprendo uno spazio su mondi non antropocentrici. La ricerca di Eva Kot’átková esplora le dinamiche di controllo e di istruzione, il potenziale comunicativo dei gesti e il mondo infantile, trasformando spesso forme oppressive (dispositivi contenitivi o correttivi) in espressive. La capacità di creare e diffondere conoscenza attraverso la comunicazione è da sempre considerata una facoltà esclusiva dell’uomo: l’educazione è ciò che ha distinto l’uomo dal resto del vivente. Federica Fontana suggerisce alcune strade per un decentramento antropologico al fine di sostenere una pedagogia postumanista, che richiede innanzitutto una nuova concezione di soggettività. Il saggio Per un’educazione non antropocentrica. Elementi di postumanesimo nell’arte di Eva Kot’átková ne delinea i tre aspetti fondamentali: la crisi del soggetto-persona, un’inclusione del non umano che non sia più subordinante o strumentale ma paritetica e interconnessa, e una prospettiva che tenga conto delle relazioni simboliche e materiali che l’uomo instaura con ambiente e oggetti. L’idea che sostiene tutte queste teorie è quella di un’educazione concepita come «un assemblaggio socio-materiale complesso e imprevedibile di umano e non umano che genera effetti di strutturazione e de-strutturazione della personalità» (A. Ferrante, 2013). Emblematico in questo senso è il processo di umanizzazione di utensili di uso quotidiano che Eva Kot’átková propone attraverso il lavoro Theatre of speaking objects (2013), un’installazione di oggetti in grado di comunicare con la voce.
L’idea di oggetto come entità transitoria e mutevole è parte della ricerca artistica di Pierre Huyghe (Parigi, 1962), la cui produzione espositiva è concepita come una presentificazione, un esaudirsi, di sistemi viventi: la mostra diviene un organismo pulsante su cui l’artista cessa di avere controllo, aprendo all’incidentale e all’imprevisto. Nel saggio L’esposizione oltre l’umano, coesistenza e simpoiesi nel lavoro di Pierre Huyghe, Vincenzo Di Rosa indaga quella “grammatica” dell’exhibition-making in grado di superare l’antropocentrismo e di abbracciare una forma di relazionalità pienamente postumana. L’autore definisce innanzitutto il concetto di mostra come “dispositivo” in grado di generare un vero e proprio potere espositivo, attraverso la capacità di modellare e orientare l’esperienza spettoriale. Ripercorrendo la definizione di “regime di separazione” di Dorothea Van Hantelmann, come netta opposizione tra soggetti e oggetti all’interno dello spazio-mostra, Vincenzo Di Rosa individua le premesse che hanno condotto a un modello antropocentrico dell’esposizione. Emblema di questo regime è il white-cube modernista, basato sull’esclusione del mondo esterno e sull’annullamento della relazione spazio temporale. La decostruzione del “regime di separazione” è possibile mediante un’opposizione non più gerarchizzata tra i vari elementi dell’esposizione e assegnando al soggetto-spettatore solo un posto tra gli altri (D. V. Hantelmann, 2011). Vincenzo Di Rosa individua nella produzione espositiva dell’artista francese un esempio di superamento del “regime di separazione” e di affermazione di una “scrittura ecologica”, in cui si realizza un generale principio di coesistenza tra entità. La pratica di Huyghe mi consente un breve collegamento con quella “pedagogia del non volere” (Daniel Charles, 1972) argomentata e sperimentata da John Cage attraverso il tema del lasciar-essere, sostenendo un distacco progressivo nei confronti della volontà. Nel settembre 1958 Cage avvia la stesura di un testo per un convegno a Bruxelles, che concepisce come una conferenza di soli aneddoti della sua vita (l’idea è di leggere ciascuna storia in un minuto):
«Mettendo insieme questi aneddoti in maniera non programmata, intendevo suggerire che tutte le cose, le storie, i suoni casuali dell’ambiente, e per estensione gli esseri, sono collegati, e che questa complessità è più evidente quando non è ipersemplificata da un’idea che alberga nella testa di una persona».
Questa riflessione, applicata a qualsiasi interrelazione tra entità, consente di esprime quella condizione di coesistenza su cui si edifica anche il lavoro di Pierre Huyghe, definito da Vincenzo Di Rosa come «un universo senza cose, un enorme campo di eventi a intensità variabile».
Potremmo dire che gli artisti tentano una riconfigurazione dell’esistente permettendoci di accedere a nuove possibilità di relazione con l’altro da noi. Quale ruolo assume la materia all’interno di questo processo di riconfigurazione? Alberto Micali e Nicolò Pasqualini, nel saggio Estetica Posthuman. Percezione e relazionalità, mappare il campo tramite la lente del postumanesimo critico, propongono un approccio all’ambito delle pratiche artistiche da una posizione postumanista attraverso un’analisi guidata dai concetti di relazionalità e percezione.
«Il nostro principale obiettivo è quello di proporre una narrazione, un percorso di possibilità, una mappa per un’estetica posthuman. Una mappa che sia capace di intuire le modalità chiave mediante cui, nel processo artistico-creativo, la materia non-umana trasmuti in un componente attivo e co-determinante anziché passivo e accessorio».
Citando l’indagine di Donna Haraway e di Karen Barad sulla distanza concettuale tra riflessione e diffrazione, Micali e Pasqualini enucleano quelle fondamentali differenze che permettono di non inciampare in un’estetica umanista del post-human, ovvero in un’estetica riflessiva che rifortifica la superiorità dell’animale umano evadendo una possibile contaminazione e mescolanza con l’alterità. Un atteggiamento diffrattivo, anziché rappresentazionalista e riflessivo, permette di evitare il solo apparire delle differenze tra noi e l’altro non umano al fine «di pensare le pratiche socio-culturali in modo performativo» (K. Barad, 2007). Il processo artistico, da manipolazione demiurgica, trasmuta divenendo il deposito enattivo ed emotivo dello stratificarsi, del contaminarsi e del congiungersi di molteplici alterità in rapporto fra loro; molteplicità in relazione che restituiscono una concezione postumanista dell’accoppiarsi tra homo e res (A. Micali, N. Pasqualini).
Eva Kot’átková, Diary n.2 (I-Animal), 2018 (dettaglio). Commissionata e prodotta da Pirelli HangarBicocca, Milano. Courtesy dell’artista. Foto: Agostino Osio
Massimiliano Viel, nel saggio Musica umana, ascolto postumano, pone un quesito fondamentale: cosa riconosciamo come musica che ci parla di un possibile senso del postumano musicale? Partendo da una prima ipotesi di accostamento tra postumano ed extramusicale - in quanto “irruzione della diversità, nella forma di oggetti del mondo introdotti attraverso un processo mimetico sonoro nella pratica musicale” – l’autore smonta e rimonta le possibili strade per un approccio non umanista, attraverso la citazione del lavoro di Eric Satie, Brian Eno, Murray Schafer, Oliver Messiaen, Iannis Xenakis, Karlheinz Stockhausen e uno studio dell’etnomusicologo Anthony Seeger. Ma è svincolandosi dalla definizione di musica – attraverso la pratica di John Cage - che Massimiliano Viel individua un possibile approccio in termini postumani, identificando nel processo di ascolto l’elemento caratterizzante di «tutte le pratiche musicali e di comunione con soggetti di culture lontane, bambini in età prelinguistica e animali non umani». Essendo inoltre l’ascolto un processo di riconoscimento, è intrinsecamente legato al concetto di attenzione e memoria. Ecco allora che un ascolto come eredità della musica umanista, se vuole avvicinarsi al postumano, deve evitare di adagiarsi sulle esperienze d’ascolto accumulate: si tratterà quindi di ricercare un ascolto intransitivo, in grado di riconfigurare attenzione e memoria. Come esempio di una pratica d’ascolto aperta alle tematiche del postumano viene citata la passeggiata sonora (soundwalk) in grado di stimolare nei partecipanti lo sviluppo di una sensibilità verso i suoni circostanti: qui si esaudisce ed esplora la relazione tra orecchio, il nudo orecchio, e ambiente (H. Westerkamp, 2006). Torno qui a Marcel Duchamp e al concetto di infrasottile: tra gli esempi che l’artista cita nel definire questa categoria di elementi al limite del percettibile, vi si ritrovano anche «il rumore o la musica prodotti da un pantalone di velluto a coste mentre si respira».
Il saggio L’archivio come pratica etica del vivente di Gabriela Galati, chiude la raccolta con un’argomentazione attorno al concetto di archivio come pratica che modella la vita (a life-making practice) e strumento di relazione. Il ragionamento si sviluppa attraverso una lettura dei fenomeni di estinzione e di de-estinzione, citando l’approccio femminista di Joanna Zylinska e il suo concetto di “controapocalisse”, per proporre l’archivio come un modo per comprendere la de-estinzione in chiave etica. Citando le considerazioni di Cary Wolfe e di Ashley Dawson, Gabriela Galati articola una riflessione che muove dall’impossibilità di definire il concetto di natura, identificando nella condizione di finitudine legata alla morte l’elemento che accomuna tutti gli esseri senzienti. La precarietà e l’idea di finitudine conducono al pensiero di Jacques Derrida, di cui l’autrice cita nello specifico i due articoli Freud e la scena della scrittura e Mal d’archivio. Un’impressione freudiana, associando archivio-inconscio e ripercorrendo i concetti di “domiciliazione” (che segna la possibilità di accedere all’archivio passando da privato a pubblico) e di “potere di consegna”, non nel senso di depositare ma nel senso di “consegnare riunendo segni” (ovvero di archivio come ri-unione). Il saggio si conclude con un ulteriore passaggio derridiano, volto a riflettere sull’esternalizzazione dell’archivio in termini di memoria protesica, e con un invito dell’autrice a valutare la scena di responsabilità entro cui ci muoviamo: una responsabilità verso la memoria che stiamo preservando e l’agentività dell’archivio stesso, da intendersi come strumento di modellamento della realtà passata, presente e futura.
Pierre Huyghe, Untilled, 2011–2012, veduta della mostra, Kassel, 2012. Courtesy dell’artista; Galerie Marian Goodman, New York /Paris; Esther Schipper, Berlin
Vorrei concludere con una breve riflessione che mi permetta di ricapitolare – e di rilanciare - alcune delle tematiche proposte, attraverso un campo di ricerca non espressamente trattato nella pubblicazione: la fotografia. Quale ruolo assume la riproduzione del reale, attraverso il mezzo fotografico, nel nostro relazionarci con ambiente e oggetti? Riprendendo gli studi di Elio Grazioli sulla relazione tra opera d’arte e immagine, e nello specifico il rapporto tra Duchamp e la fotografia, quest’ultima – accanto al readymade - viene indicata come quel medium capace di “interrogare lo statuto del reale stesso” (E. Grazioli, 2017). In questi termini è molto prezioso il pensiero di Jean-Christophe Bailly (2010), ripreso dallo stesso Grazioli, in merito alla fotografia, definita come «Fragile segno di esistenza, fragile segno indicante che qualcosa è esistito prima che marcasse, la fotografia (…) agisce direttamente e silenziosamente come ciò che sa o può far echeggiare l’intimo delle cose».
L’arte, la pedagogia, la musica, la pratica curatoriale e quella archivistica, la fotografia, sono campi di ricerca e attitudini discrete: come presenze “vicine” ci affiancano, partecipando al quotidiano scambio con l’alterità. Problematizzare, decostruire e ripensare queste pratiche in termini postumani, come proposto nella pubblicazione qui recensita, significa innanzitutto riposizionarsi all’interno di questi sistemi ecologici, con uno sguardo che sappia coglierne la complessità fino a restringere il campo sul piccolo, il microscopico, l’intimo, l’infrasottile.
di Roberta Perego
Bibliografia
Barad, Karen (2007), Meeting the Universe Halfway. Quantum Physics and the Entanglement of Matter and Meaning, Duke University Press, Durham-Londra
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Dal momento in cui la pratica discorsiva del filosofo si è imposta come forma di sapere suprema, in grado di dar conto di se stessa e dei propri metodi, il pensiero metaforico è stato assunto come un procedimento ausiliario al quale ricorrere quando la teoria non funziona nel modo in cui è supposta funzionare – cioè senza buchi e senza sbavature, in grado di cogliere senza residui tutto ciò che c’è e di cui il soggetto fa esperienza. Anche se non sono mai mancati coloro che non ritenevano possibile eliminare del tutto la dimensione del metaforico – coloro per i quali lo spazio discorsivo della filosofia non poteva venir saturato solo facendo ricorso a ciò che coincide con quella forma specifica di cattura del reale che è il concetto – è solo nel corso del Novecento che il discorso filosofico ha superato ogni pregiudizio nei confronti della figuratività, dell’iconico, del narrativo intesi quali parti integranti dell’argomentazione filosofica. Ciò non è accaduto in virtù della volontà di prendere congedo dalla concettualità, bensì in virtù del fatto che quest’ultima, nell’atto del suo porsi, pone anche il proprio altro, di cui il metaforico è attestazione privilegiata. Con ciò, si è resa finalmente obsoleta l’idea secondo cui la metafora servisse al ragionamento filosofico solo quando questo incespica e zoppica, scoprendosi bisognoso di ausili e stampelle. Quattro esempi valgano a illustrare questo scenario filosofico, che costituisce il nucleo teorico del presente call for papers.
Emanuele Tesauro: Il cannocchiale aristotelico, o sia, Idea dell'arguta et ingeniosa elocutione : che serue à tutta l'arte oratoria, lapidaria, et simbolica (1670) - Internet Archive Book Images Flickr [particolare]
Hans Blumenberg non solo ha mostrato che non è possibile scrivere una storia dei concetti senza scrivere anche la storia delle metafore che hanno costellato la discorsività filosofica, ma ha anche offerto un quadro teorico-sistematico generale entro il quale comprendere la necessità del loro intreccio. Generata dal bisogno di tenere a bada la realtà e ciò che in essa resiste a un dominio immediato, la ragione – che co-evolve con Homo sapiens al pari degli altri artefatti di cui questi si serve per plasmare la nicchia ecologica che lo accoglie – produce tanto miti quanto modelli di razionalità e teorie scientifiche, tanto metafore quanto concetti, al fine di rendere più agevole un adattamento che risulta sempre alquanto precario (l’esistenza della specie umana, per Blumenberg, è quanto di più improbabile ci sia nel regno dei viventi). Ne viene fuori non che la metafora compensa ciò che manca al concetto, ma che tutte le misure di prevenzione messe in atto dalla ragione per arginare gli effetti della complessità del reale altro non siano che misure compensatorie.
Jacques Derrida ci ha indicato – una volta per tutte, si potrebbe dire – come la posizione del soggetto che guarda la differenza tra metafore e concetti costituisca la macchia cieca del pensiero: è infatti impossibile dar conto delle operazioni che giustificano tale differenza, essendo questa già da sempre presupposta da ogni pratica filosofica. Il soggetto del sapere filosofico, in altre parole, non si vede mentre opera con – e grazie alla – differenza tra metafore e concetti. Non si può far filosofia se non ipotizzando di sapere cosa differenzi un concetto da una metafora, ma l’articolazione di tale differenza non potrà mai essere maneggiata con i soli strumenti della concettualità. Un residuo metaforico, con tutta la sua impurità, intaccherà sempre la purezza di quella sfera in cui opera la concettualità.
Enzo Melandri, ne La linea e il circolo, ha indicato un percorso sistematico che non solo restituisce piena legittimità alla logica analogica – che non è da vedersi come una logica dimidiata, di secondo ordine – ma ha anche indicato in che senso una teoria dell’analogia aiuti a individuare in modo corretto il posto che il metaforico occupa in seno all’argomentazione filosofica. È vero che gli usi dell’analogia sono pressoché infiniti, ma, come mostra Melandri, le sue funzioni sono ben precise e delimitate: euristica, legata all’inventio, sintetica, quando si passa da un genere a un altro per produrre un sapere unitario e superare pragmaticamente la divisione dei saperi, ed evocativa, quando il valore intensionale o connotativo dell’analogia si autonomizza rispetto al suo valore estensionale e o denotativo. Ora, se si riesce a dimostrare a quali condizioni l’analogia diventi razionalmente possibile tanto come inferenza calcolabile quanto come concettualizzazione dotata di senso – ed era questo lo scopo perseguito da Melandri nel suo monumentale lavoro – allora diviene chiaro che la questione dell’analogia possiede una funzione trascendentale. Si tratta di comprendere non solo in che senso macchie empiriche intacchino sempre la purezza del trascendentale, o in che senso la genesi che conduce all’emergenza del soggetto trascendentale sia sempre una genesi empirica, ma soprattutto di porre a tema la questione della fondazione in termini dialettici, facendo posto al paradosso e alla negatività. Ragionare sull’analogia significa interrogare l’incompletezza del sistema del pensiero, significa cioè indicare come quel negativo che è esteriorità, alterità, rimosso, rientri nel sistema stesso per vie traverse e non dominabili interamente attraverso la concettualità pura.
Nel loro Metafora e vita quotidiana, George Lakoff e Mark Johnson sostengono che la metafora “è diffusa ovunque nel linguaggio quotidiano ma anche nel pensiero e nell’azione”: distinguendo tra tre tipologie di metafora (strutturali, di orientamento e ontologiche), Lakoff e Johnson propongono una teoria complessa la cui tesi fondamentale consiste nell’idea che il linguaggio sia strutturato metaforicamente in quanto il pensiero è strutturato metaforicamente e sottolineano il carattere ambiguo del linguaggio metaforico, che tende a enfatizzare un determinato aspetto concettuale oscurando una serie di altri aspetti non coerenti con la metafora utilizzata. Il meccanismo della metafora fa perno sul nostro essere incarnati, ovvero – ed è un aspetto decisivo – esso è funzione della nostra interazione corporea con il mondo: in questo senso, la metafora riflette la struttura percettiva umana e ritaglia una precisa ed essenziale forma di accesso cognitivo al mondo.
Si sono appena evocati alcuni nomi e autori, ma è chiaro che, evocandoli, lo scopo è quello di circoscrivere possibili aree di pensiero, non di attribuire a questi nomi un ruolo speciale. Grazie a loro, però, si è cercato di isolare il nucleo tematico di questo numero, che consiste nell’isolare, grazie alla messa a tema del ruolo della metafora, quell’oscillazione tra la sfera trascendentale e quella empirica che costituisce il pensiero della fondazione.
A partire da questi snodi il numero intende esplorare il tema della metafora nel discorso filosofico privilegiando i seguenti aspetti:
- l’uso della metafora e dell’analogia nella storia della filosofia: usi, evoluzione, obiettivi;
- crucialità dell’analisi della metafora nel pensiero di Hans Blumenberg nel suo complesso, con particolare riferimento al nesso tra la metafora e l’actio per distans, che Blumenberg individua quale forma precipua di adattamento al mondo;
- centralità della differenza tra metafora e concetto nella decostruzione derridiana della metafisica; valenza trascendentale del discorso derridiano sull’impossibilità di gestire concettualmente l’intreccio tra metafore e concetti;
- rapporto tra metafora e analogia nell’opera di Melandri, analisi degli esiti che assume l’argomentazione trascendentale quando questa ospita al proprio interno un’apertura dialettica nei confronti del metaforico e dell’analogico;
- a partire dall’opera di Lakoff e Johnson, analisi del rapporto tra la metaforicità del pensiero e le attività cognitive in quanto operazioni compiute da un soggetto incarnato, che si orienta nel mondo attraverso costruzioni narrative e concettuali che possono aspirare tanto più all’oggettività quanto più sapranno dar conto del proprio radicamento in una prassi incarnata;
- metafora, analogia e modellizzazione nel pensiero scientifico;
- le relazioni tra metafora e simbolizzazione degli spazi abitati: significati e fenomenologie del monumentale, inteso quale condensazione del metaforico nel linguaggio architettonico;
- rapporto tra funzionamento retorico-semiotico della metafora ed ermeneutica della metafora intesa quale asse portante delle strutture testuali.
Procedura: si prega di inviare, all'indirizzo redazione@philosophykitchen.com, entro il 27 febbraio 2022, un abstract di massimo 6000 caratteri, indicando il titolo della proposta, le modalità in cui si intende sviluppare il tema e l'argomentazione, una bibliografia essenziale e ragionata nonché una breve biografia dell’autore o dell’autrice. Le proposte verranno valutate dai curatori e dalla redazione. Gli esiti della selezione verranno resi noti, via mail, entro il 14 marzo 2022. I contributi selezionati dovranno poi essere inviati entro il 30 giugno 2022 e saranno sottoposti a double-blind peer review. La pubblicazione del volume è prevista per settembre 2022.
Sebbene la questione ecologica sia centrale nel dibattito filosofico e scientifico da oltre cinquant’anni – come «lo studio delle interrelazioni che intercorrono fra gli organismi e l’ambiente chi li ospita […] su tre livelli di gerarchia biologica: individui, popolazioni e comunità» (Treccani) – gli ultimi anni hanno visto una esplosione del tema, entrato a forza nelle agende politiche e soprattutto negli immaginari collettivi. In modi diversi, movimenti come FridaysForFuture ed Extinction Rebellion hanno condensato le energie attiviste di tutto il mondo, ed espanso la battaglia a un livello di tensione e complessità più elevata: dall’ambientalismo si è passati alla questione ecologica, che al momento eccede tutte le rappresentazioni che siamo in grado di darne.
Although the ecological question has been central to philosophical and scientific debate for over fifty years - as "the study of the interrelationships between organisms and their host environment […] on three levels of biological hierarchy: individuals, populations and communities" (Treccani) - recent years have seen an explosion of the topic, which has forcefully entered the political agendas and above all the collective imagination. In different ways, movements such as FridaysForFuture and Extinction Rebellion have condensed activist energies around the world, and expanded the battle to a higher level of tension and complexity: from environmentalism we have moved on to the ecological question, which currently exceeds all the representations we are able to give it.
Un’indagine sui rapporti tra Jacques Derrida e la letteratura sarebbe necessariamente vastissima. Non basterebbe infatti esaminare il modo in cui il filosofo ha letto determinati autori, sia che abbia dedicato ad essi interi volumi (Joyce, Artaud, Ponge, Blanchot, Celan, Cixous), sia che delle loro opere abbia parlato in capitoli di opere saggistiche (è il caso di Baudelaire, Flaubert, Mallarmé, Valéry, Kafka, Genet, Jabès, Sollers, per fare solo qualche nome). Occorrerebbe anche considerare la maniera in cui egli ha rielaborato e messo in discussione, sul piano teorico, nozioni strettamente connesse alla pratica letteraria, come quelle di «genere», «opera», «libro», «titolo», «firma», «traduzione», «metafora». Inoltre andrebbe affrontato il tema degli stili di Derrida, non in quanto il filosofo abbia voluto presentarsi nelle vesti di letterato, ma perché la singolarità della sua scrittura e l’assidua sperimentazione di forme espositive diverse consentirebbero di guardare alle sue opere sotto questa specifica angolazione.
Si può tentare di ridurre il campo di ricerca limitandosi a considerare il modo in cui Derrida ha riflettuto sulla nozione stessa di letteratura. È questa una tematica che si è imposta alla sua attenzione fin dall’inizio. Interessandosi alla fenomenologia di Husserl e avendo notato che negli scritti di quest’ultimo si parla, in maniera quasi incidentale, del ruolo della scrittura nel «costituire degli oggetti ideali comunicabili», Derrida riteneva di poter giungere al punto che più gli stava a cuore, ossia «l’iscrizione letteraria. Che cos’è un’iscrizione? A partire da quale momento e in quali condizioni un’iscrizione diviene letteraria?»[1]. A tale argomento intendeva dedicare un lavoro specifico: «Verso il 1957, avevo dunque depositato, come si dice, un primo soggetto di tesi. Lo avevo allora intitolato L’idealité de l’objet littéraire. […] Questo titolo si capiva un po’ meglio nel 1957, in un contesto più segnato, rispetto ad oggi, dal pensiero di Husserl. Si trattava allora per me di piegare, più o meno violentemente, le tecniche della fenomenologia trascendentale all’elaborazione di una nuova teoria della letteratura, di quel tipo d’oggetto ideale molto particolare che è l’oggetto letterario. […] Poiché, devo ricordarlo un po’ massivamente e semplicemente, il mio interesse più costante, direi anche prima di quello filosofico, se possibile, era rivolto verso la letteratura, verso la scrittura cosiddetta letteraria. Che cos’è la letteratura? E innanzitutto, che cos’è lo scrivere? In che modo esso giunge a disturbare la stessa domanda “che cos’è?”, e perfino “che significa?”? In altri termini […], quando e come l’iscrizione diventa letteratura e cosa avviene in quel caso?»[2].
La tesi su L’idealité de l’objet littéraire non verrà scritta, ma resta comunque significativo il fatto che Derrida l’abbia progettata. E in ogni caso egli non cesserà mai di interrogarsi sullo statuto del testo letterario, e in particolare sul rapporto che si può individuare fra esso e il testo filosofico. Si tratta di un problema che lo riguarda anche in prima persona, perché, date le modalità assai creative che adotta nella scrittura, deve spesso rispondere alla domanda se il suo intento non sia eventualmente di tipo letterario. Alla domanda egli risponde in questi termini: «Dirò che i miei testi non appartengono né al registro “filosofico” né a quello “letterario”. In tal modo essi comunicano, o almeno lo spero, con altri che, per aver operato una certa rottura, continuano ad essere definiti “filosofici” o “letterari” solo per una sorta di paleonimia» (Derrida 1975, p. 102). Egli si sta riferendo agli scritti di autori quali «Artaud, Bataille, Mallarmé, Sollers. Perché? Per una ragione, almeno, che ci spinge a nutrire sospetti verso la denominazione di “letteratura” e verso quanto ne assoggetta il concetto alle belle lettere, alle arti, alla poesia, alla retorica e alla filosofia. Nel loro stesso movimento, questi testi operano la manifestazione e la decostruzione pratica della rappresentazione che ci si faceva della letteratura»[3].
Ciò tuttavia non va inteso nel senso che egli accolga con favore l’idea che sia lecito e auspicabile confondere i due tipi di discorso:
«Io non ho mai assimilato un testo cosiddetto filosofico a un testo cosiddetto letterario. I due tipi mi sembrano irriducibilmente diversi. Inoltre bisogna sapere che i limiti fra loro sono più complessi […] e soprattutto meno naturali, astorici o già dati di quanto si dica o si creda. I due tipi possono intrecciarsi in uno stesso corpus secondo leggi e forme il cui studio è non soltanto interessante e nuovo, ma indispensabile […]. Non occorre forse interessarsi alle convenzioni, alle istituzioni, alle interpretazioni che producono o mantengono in vita questo apparato di limitazioni, con tutte le norme e dunque tutte le esclusioni che comportano? Non è possibile affrontare tale insieme di questioni senza chiedersi, ad un certo momento: “Che cos’è la filosofia?” e “Che cos’è la letteratura?”. Tali domande, difficili e più aperte che mai, non sono esse stesse (per definizione e perlomeno se vengono poste in maniera effettiva) né semplicemente filosofiche né semplicemente letterarie» (Derrida 1992, p. 230)
Chiedersi cosa sia la letteratura non significa però, alla maniera della filosofia tradizionale, andare alla ricerca di una risposta di tipo essenzialistico. Secondo Derrida, infatti, tale risposta sarebbe indebita perché non terrebbe conto dei fattori di ordine contestuale, che sono invece determinanti per stabilire se un enunciato o un’opera si trovino ad essere ascritti alla letteratura:
«Lo stesso testo, la stessa frase, può in situazioni diverse appartenere ora al campo letterario, ora a ciò che si potrebbe chiamare la lingua ordinaria di tutti i giorni. Per conseguenza, non è una lettura interna di un fenomeno linguistico che consente di riservargli questo o quell’ambito. La stessa frase, in condizioni pragmatiche differenti, tenuto conto di altre convenzioni, può essere una semplice frase di giornale qui, e poi un frammento poetico là, o un esempio filosofico altrove. Ciò dipende dal fatto che la determinazione di tali ambiti non è mai decidibile in una lettura interna o un’esperienza interna della lingua, degli enunciati linguistici, ma a partire da una situazione i cui limiti stessi sono difficili da riconoscere e in ogni caso sono molto mutevoli» (Derrida 1990, p. 396)
Conviene precisare che questo non vale unicamente per i testi scritti, ma per le opere artistiche in generale:
«Non si potrebbe dire che il criterio che definisce la traccia come opera sia un criterio interno: non è analizzando la struttura interna della traccia che possiamo decidere se questa sia un’opera d’arte o meno. Credo che nessuna criteriologia interna, nessuna lettura intrinseca della traccia, ci consenta di farlo. Bisognerà piuttosto introdurre dei criteri esterni che coinvolgano delle convenzioni sociali, delle contestualizzazioni […]. Si ha comunque a che fare con un giudizio: si tratta di un giudizio sociale che implica un linguaggio, delle condizioni, una memoria, una storia, ecc. Un giudizio che trasforma la traccia, o un insieme di tracce, dando loro statuto d’opera» (Derrida 1998, pp. 23-24).
Derrida ha ricordato più volte che la nozione stessa di letteratura non è qualcosa di prestabilito, tale da poter attraversare indenne i secoli e i millenni, bensì un prodotto storico. A suo giudizio, per comprendere la concezione tradizionale della letteratura occorre risalire molto indietro, fino alla filosofia greca: «Platone pone la questione della poesia determinandola come mimesis, e aprendo così il campo nel quale la Poetica di Aristotele, dominata per intero da tale categoria, produrrà il concetto di letteratura che regnerà fino al XIX secolo» (Derrida 1989, p. 187). Per Platone, «la scrittura in generale non è certamente la scrittura letteraria. Ma altrove, nella Repubblica per esempio, il poeta non è forse giudicato, e poi condannato, in quanto imitatore, mimo che non pratica la “narrazione semplice”?» (Derrida 1989, p. 210). Il filosofo greco infatti, pur attribuendo costantemente all’arte un carattere mimetico, opera delle distinzioni. A suo giudizio, l’imitazione assume un valore negativo sia quando il poeta riproduce qualcosa di eticamente riprovevole, sia quando svolge il proprio compito in maniera troppo coinvolgente, adottando la voce del personaggio rappresentato (narrazione mimetica) invece di limitarsi a parlarne dall’esterno (narrazione semplice): «Lo si può verificare rileggendo il passaggio della Repubblica sulla narrazione semplice e sulla mimesis». (Derrida 1989, p. 211)[10]. Certo, non bisogna affrettarsi a confondere i vari generi poetici cui Platone fa riferimento con quello che noi siamo abituati a considerare oggi come l’ambito letterario. Derrida, da parte sua, sostiene «che non c’è – o appena, così poco – letteratura; che in ogni caso non c’è essenza della letteratura, verità della letteratura, essere-letterario della letteratura», ma aggiunge subito che ciò «non deve impedire, anzi tutto il contrario, di lavorare per sapere che cosa si è rappresentato o determinato sotto questo nome – letteratura – e perché» (Derrida 1989, p. 253.
Un modo piuttosto diverso di impostare il problema, da parte del filosofo, emerge in testi posteriori di qualche decennio. Nella parte iniziale di Demeure, Maurice Blanchot, egli si confronta con un classico della critica novecentesca, Letteratura europea e Medio Evo latino di Ernst Robert Curtius (Derrida 2001, pp. 99-103 e E.R. Curtius 1992). Nel suo ampio volume, lo studioso tedesco sosteneva la necessità di superare il privilegio, dettato anche da una sorta di miopia nazionalistica, concesso a certi periodi della cultura europea a spese di altri, che venivano per contro ingiustamente trascurati. Di conseguenza, affermava che «solamente chi padroneggia tutte le epoche da Omero a Goethe può acquisire una visione globale della letteratura europea» (Curtius 1992, p. 13). Da parte sua, Derrida ricorda che «letteratura» è una parola latina, quindi ha poco senso far partire, come pretende Curtius, la letteratura europea con Omero (in Grecia non c’era ancora un’istituzione simile a quella che chiamiamo letteratura) né, del resto, farla finire con Goethe. Si chiede pertanto: «Esiste, nel senso stretto e letterale della parola, qualcosa come la letteratura, come un’istituzione della letteratura e un diritto alla letteratura in una cultura non latino-romano-cristiana, e più generalmente, benché le cose siano qui indissociabili nella loro storia, non europea?» (Derrida 2001, p. 100). E pare incline a rispondere negativamente alla domanda.
Secondo lui, infatti, quand’anche esempi di letteratura, nel senso proprio del termine, fossero reperibili in altri continenti, ciò dipenderebbe comunque da un influsso europeo: «Letteratura è una parola latina. Questa appartenenza non è mai stata semplice, essa viaggia, migra, lavora e si traduce. La filiazione latina si esporta» (Derrida 2001, p. 99). Ma in altre occasioni gli capita di esprimersi in termini ancor più drastici:
«Io sosterrò, a rischio di dire una cosa che appaia eurocentrica, che non esiste letteratura non europea. […] Fuori dall’Europa esiste un certo numero di scritti, di opere, che sono forse più interessanti della letteratura stessa, ma non sono, in senso stretto, letterari. […] Ciò che occorre prendere sul serio, non è solo la parola letteratura, ma tutto l’insieme degli assiomi, delle istituzioni, dei presupposti – un certo numero di cose che costituiscono il concetto di letteratura, che non ha alcun senso fuori dall’Europa. Ora, il fatto che oggi, in uno spazio mondiale, abbiamo una letteratura cinese o una letteratura giapponese significa che questo concetto, con tutto l’insieme di assiomi, nomi e presupposti, persino quelli cristiani, sono stati esportati o mondializzati. Ma il concetto, il nome del concetto, di letteratura è, strettamente parlando, non soltanto europeo ma anche cristiano» (Derrida 2007, pp. 406-407)[16].
Tutto ciò rientra dunque, come un caso particolare, all’interno di quel più vasto processo storico che egli designa col neologismo mondialatinisation (Derrida 1995, pp. 3-73).
Non si può certo dire che il suo ragionamento risulti convincente. È vero che parlare della letteratura come si trattasse di qualcosa che è rimasto immutato attraverso i millenni e i continenti (dall’epopea di Gilgameš fino alla poesia e narrativa contemporanee) comporta una forzatura: se lo si fa abitualmente è soprattutto per ragioni di comodo e sulla base di una convenzione. Tuttavia, non appena Derrida si propone di restringere, nel tempo o nello spazio, l’uso che ritiene preciso del vocabolo «letteratura», insorgono problemi di vario genere. Infatti, se si trattasse della parola in sé, non basterebbe neppure lasciare da parte le culture più lontane nel tempo o quelle extraeuropee. Roland Barthes, riferendosi al termine littérature, ricordava che in Francia «l’idea, se non la cosa, non è molto antica; è un’idea storicamente borghese, nata press’a poco al tempo della Rivoluzione (la parola stessa è del 1762 circa)» (Barthes 1966, p. 11). E su questo, come vedremo fra breve, Derrida concorda. Ma se si prende in considerazione, anziché il vocabolo, il concetto di letteratura, secondo lui le limitazioni dovrebbero spingersi ancora oltre: «Sovente io distinguo la letteratura in senso stretto, che è una cosa moderna, relativamente recente, dalle Belle Lettere, dalla poesia, dal teatro o dall’epica in generale» (Derrida 2004, p. 33). Viene allora spontaneo chiedersi perché mai quel che resta della produzione letteraria una volta detratti da essa l’epos, la lirica, il teatro – dunque quasi unicamente i testi narrativi e memorialistici – dovrebbe essere considerato «letteratura in senso stretto», e quale utilità possa avere, sul piano teorico, una simile opzione.
Quanto poi all’idea secondo cui sarebbe stata l’Europa a trasmettere al mondo il proprio sistema di categorie, valori e pratiche, letteratura inclusa, si tratta palesemente, nonostante le denegazioni derridiane, di una concezione eurocentrica, che non manca di precedenti. Ciò vale nel caso che si veda in tale trasmissione una sorta di dono prezioso offerto ai popoli degli altri continenti, secondo le parole di Valéry: «Di tutte queste realizzazioni, le più numerose, le più sorprendenti, le più feconde sono state compiute da una parte piuttosto ristretta dell’umanità, e su un territorio assai piccolo rispetto all’insieme delle terre abitabili. L’Europa è stato questo luogo privilegiato; l’Europeo, lo spirito europeo l’autore di questi prodigi» (Valery 2014, pp. 1426-1442)[20]. Ma vale anche nel caso che, come Heidegger, si guardi con inquietudine all’avvento di «un’epoca in cui devono prepararsi delle trasformazioni, o nella quale, in primo luogo, questo immane processo di europeizzazione del pianeta giunge semplicemente al suo compimento» (Heidegger 1992, p. 203).
Altro tema tipico di Derrida è quello della letteratura intesa come istituzione legata alla democrazia. Il rapporto viene stabilito sulla base del fatto che chi scrive un testo letterario deve poter disporre di una totale libertà enunciativa. Ecco come il filosofo presenta la questione:
«In generale, insisto sulla possibilità di “dire tutto” come diritto riconosciuto in linea di principio alla letteratura, per indicare non l’irresponsabilità dello scrittore, di chiunque firmi della letteratura, ma la sua iper-responsabilità, ossia il fatto che la sua responsabilità non risponde di fronte alle istanze già costituite. Poter dire tutto a titolo di finzione, o perfino di fantasma, significa indicare che […] la letteratura in senso stretto è un’istituzione indissociabile dal principio democratico, cioè dalla libertà di parlare, di dire o non dire ciò che si vuole dire. Naturalmente so che la letteratura non è sempre vissuta in un regime democratico e che rimuovere la censura, massiccia o sottile che sia, è una faccenda molto complicata. Nondimeno il concetto di letteratura è costruito sul principio del “dire tutto”» (derrida 2004, pp. 32-33).
A giudizio del filosofo, dunque, tale concetto e quello di democrazia sono da ritenersi inscindibili: «Non c’è democrazia senza letteratura, non c’è letteratura senza democrazia. Si può sempre non volerne sapere né dell’una né dell’altra, e non si manca di farne a meno sotto tutti i regimi; si può non considerarle come dei beni incondizionati e dei diritti indispensabili. Ma non si può, in alcun caso, dissociare l’una dall’altra. Nessuna analisi ne sarebbe capace. E ogni volta che un’opera letteraria è censurata, la democrazia è in pericolo» (Derrida 2019, p. 85). È interessante notare che Derrida cerca di correlare fra loro l’idea di una letteratura intesa strictu sensu e la possibilità di «dire tutto», a suo avviso tipica della democrazia: «C’è una storia della letteratura, del concetto di letteratura in senso moderno, che si distinguerà forse dalla Poesia o dalle Belle Lettere. In quanto tale, la letteratura è press’a poco contemporanea di una certa autorizzazione a dire tutto e a non cedere a nessuna censura, cosa che non si può scindere da una certa idea della democrazia o dell’Illuminismo» (Derrida 2011, pp. 105-106). Si manifesta qui la coincidenza quasi perfetta fra l’inizio dell’impiego del vocabolo littérature in Francia, la proclamazione di certi valori di libertà da parte dei filosofi illuministi e l’avvio di quella che, secondo Derrida, costituisce la pratica specificamente letteraria.
Il nesso fra quest’ultima e la democrazia non dev’essere pensato soltanto in rapporto agli ultimi secoli, ma va visto anche come proiettato nel futuro. Il «dire tutto» letterario non cessa di far cenno verso possibilità inesplorate. È quanto Derrida afferma in un’intervista, sostenendo che la letteratura è «quell’istituzione della finzione che offre, in linea di principio, il potere di dire tutto, di affrancarsi dalle regole, di spostarle, dunque di istituire, di inventare e persino di mettere in dubbio la tradizionale differenza tra natura e istituzione, natura e legge convenzionale, natura e storia. Occorrerebbe porre qui delle domande giuridiche e politiche. L’istituzione della letteratura in Occidente, nella sua forma relativamente moderna, è legata a un’autorizzazione a dire tutto, e senza dubbio anche al divenire dell’idea moderna di democrazia. Non in quanto essa dipenda da una democrazia già in atto, ma in quanto mi sembra inseparabile da ciò che invoca una democrazia a venire» (Derrida 2009, p. 257). L’idea verrà ribadita, in forma ancor più sintetica, in un volume successivo, Donner la mort: «La letteratura (in senso stretto: come istituzione occidentale moderna) implica in linea di principio il diritto di dire tutto e nascondere tutto, motivo per cui è inseparabile da una democrazia a venire» (Derrida 2002, 184).
Ma come mai il filosofo associa in più occasioni il diritto di dire a quello di tacere, presentando anzi quest’ultimo come uno dei tratti che accomunano la letteratura alla democrazia? Egli chiarisce altrove che solitamente «il concetto stesso di democrazia è basato sulla responsabilità del soggetto, cioè sul suo dovere di rispondere», ma se una democrazia fosse davvero effettiva «dovrebbe garantire, insieme, il diritto di rispondere e quello di non rispondere» (Derrida, Ferraris 1997, p. 24). Per quanto concerne i testi letterari, Derrida si dichiara affascinato dal fatto che implicano cose non dette, che restano segrete: «Se, pur senza amare la letteratura in generale e per se stessa, io amassi in essa qualcosa che soprattutto non si riduca a una certa qualità estetica, a una certa fonte di godimento formale, sarebbe nel luogo del segreto. Nel luogo d’un segreto assoluto. Lì sarebbe la passione» (Derrida 2019, 85). Questo può apparire in contrasto con la totale libertà enunciativa che dovrebbe caratterizzare tali testi, ma secondo il filosofo non è così: «Esiste nella letteratura, nel segreto esemplare della letteratura, una possibilità di dire tutto lasciando intatto il segreto. Quando ogni ipotesi è concessa, senza fondo e all’infinito, sul significato di un testo o sulle intenzioni ultime di un autore […], quando non ha neppure più senso decidere sulla presenza o meno di un segreto dietro la superficie di una manifestazione testuale (ed è tale situazione che io chiamo testo o traccia), quando è il richiamo di tale segreto che […] tiene in sospeso la nostra passione e ci fa dipendere dall’altro, proprio allora il segreto ci appassiona» (Derrida 2019, pp. 87-89).
Esistono un segreto nella letteratura e un segreto della letteratura, che tuttavia in certo modo coesistono: «Come segreto della letteratura, si trova il potere infinito di mantenere indecidibile, e quindi non svelabile, il segreto di ciò che essa, la letteratura, dice […]. Il segreto della letteratura è pertanto il segreto stesso. È il luogo segreto in cui essa si istituisce come la possibilità stessa del segreto» (Derrida 2003, p. 27). Anche quando uno scrittore sembra voler confessare, in un proprio testo, qualcosa che in precedenza aveva tenuto celato, non sapremo mai se ciò che dice è vero o se si tratta di una finzione, e in ogni caso qualcosa di taciuto permane sempre. Il segreto ha dunque a che fare con la letteratura, che lo «custodisce (garde) assolutamente in proprio possesso pur dandovelo da osservare (re-garder), senza lasciarvi la minima possibilità di appropriarvelo» (Derrida 2003, p. 58).
Talvolta, però, il filosofo sembra riferirsi a qualcosa di più o di diverso dal fatto, innegabile, che ogni testo letterario rilevante contiene in sé una riserva di significati e si presta dunque a letture sempre nuove (il che spiega fra l’altro la sua durevolezza attraverso i secoli). «Erede spergiura, in questo, delle Sacre Scritture, erede nel contempo più che fedele e imperdonabilmente blasfema di tutte le Bibbie, la letteratura resta il luogo assoluto […] del segreto come esperienza della legge venuta dall’altro» (Derrida 2003, p. 58). Si ha qui l’impressione che il non-detto inerente alla letteratura si trasformi in qualcosa di mistico o religioso. Ciò comporta dei rischi, poiché se si sacralizza l’opera d’arte anche il compito di interpretarla può suscitare un eccessivo e irragionevole senso di inadeguatezza: «Sono sempre in colpa di fronte a un’opera, […] perché non arriverò mai a esaurirne il senso, in quanto l’opera eccede sempre ogni appropriazione possibile. Per questo spero e desidero che l’opera mi si doni e mi perdoni, là dove ciò è impossibile, là dove io sono imperdonabile. Non posso commisurarmi a essa. Mi eccede infinitamente, e sono colpevole, pur non avendo commesso alcun crimine: sono colpevole a priori» (Derrida 1998, pp. 32-33).
A questo proposito, la posizione di Derrida appare oscillante, perché se da un lato egli dichiara di non voler sacralizzare i testi che commenta, dall’altro ammette, almeno in parte, di farlo: «Beninteso, io tendo a diffidare delle procedure di sacralizzazione, o in ogni caso ad analizzarle, ad analizzarne le leggi e le fatalità. Provo in effetti ad affrontare i testi non senza rispetto ma senza presupposti religiosi nel senso dogmatico del termine. Tuttavia, nel rispetto al quale mi piego, c’è qualcosa che s’inchina davanti a una sacralità, se non proprio davanti al religioso. […] Ho cercato di mostrare, particolarmente in Donner la mort, che la letteratura, nel senso stretto e moderno, europeo, del termine, conserva la memoria (al tempo stesso sacralizzante, desacralizzante, colpevole, pentita) dei testi sacri, in verità biblici» (Derrida 2010, p. 26). Quest’ultima osservazione in certi casi può essere vera, ma resta comunque indebito voler dedurre da essa che chi si confronta con tali opere letterarie debba attribuire loro un carattere di sacralità.
I diversi modi in cui Derrida si rapporta, nei propri libri, alla nozione di letteratura sono senz’altro originali e interessanti, benché risultino spesso poco persuasivi. Un aspetto che appare invece valido e meritorio è la capacità, della quale egli ha sempre dato prova, di saper muoversi «tra filosofia e letteratura, non rinunciando né all’una né all’altra, cercando forse oscuramente un luogo a partire dal quale la storia di tale frontiera potrebbe essere pensata o persino spostata: nella scrittura stessa e non soltanto in una riflessione storica o teorica» (Derrida 2009, p. 254)
di Giuseppe Zuccarino
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[1] Derrida 2004, pp. 28-29; si avverte che i passi delle traduzioni italiane cui si rimanda vengono spesso citati con modifiche.
[2] Derrida 1999, pp. 227-229). Come precisa Benoît Peeters (in Derrida 2010, p. 131), il deposito del titolo era avvenuto nel 1959, non nel 1957.
[3]Ibid., p. 93 (tr. it. pp. 100-101). Saggi su questi scrittori sono compresi nei volumi derridiani L’écriture et la différence (Derrida 1971) e La dissémination (Derrida 1989).
[5] Osservazioni analoghe si leggono in Premier entretien avec Jacques Derrida: «La Solidarité des vivants» (2004), in Derrida 2016, p. 139: «La letteratura, l’invenzione della letteratura, è un fatto europeo, almeno alla sua origine. Non voglio dire eurocentrico, voglio dire che la letteratura in senso stretto è un’invenzione, un’istituzione europea»
[6] Questo passo viene citato in Derrida 1991, p. 20.
Qual è la realtà dei colori? I colori esistono? Sono percezioni? Come è possibile affermare, come il pittore Velasco Vitali, in riferimento al colore giallo: «è il mio autoritratto»? L’indagine sui colori in ambito filosofico è un campo di studi che sta tornado ad essere di grande attualità; le trattazioni a riguardo sono numerose, ricche di spunti e toccano diversi ambiti. Il giallo del colore. Un’indagine filosofica (Jaca Book 2020) si propone di ripercorrere la storia del dibattito, in particolare nella filosofia angloamericana nell’ultimo secolo e non solo, tagliando trasversalmente l’argomento con temi che passano dall’ontologia in senso stretto a questioni epistemologiche e linguistiche, allacciandosi tanto alle moderne e attuali teorie neuroscientifiche, come alla filosofia del linguaggio e alla critica dell’arte.
Nonostante l’argomento di ricerca possa sembrare oltremodo specialistico, l’indagine sul problema del colore si colloca nel contesto più ampio che comprende il mind-body problem, la questione linguistica e più in generale l’infinita battaglia tra idealismo e realismo che la filosofia occidentale, con poche eccezioni, si trascina dall’illuminismo. Così il tema del colore, come caso particolare, in realtà fa eco a quelli che probabilmente sono i più grandi problemi che la filosofia si sia trovata ad affrontare.
Questo saggio è il primo lavoro di Alice barale che abbraccia a così ampio raggio la questione del colore e che si discosta dai suoi riferimenti abituali, comprendendo anche tematiche della filosofia analitica. Alice Barale studiosa di Estetica presso l’università di Milano Statale, è redattrice della rivista «Itinera» e corrispondente di «Aisthesis». Barale si è occupata a lungo di Aby Warburg e di Walter Benjamin. Di quest’ultimo ha curato una nuova edizione e traduzione italiana de L’Origine del dramma barocco tedesco (Carocci, 2018).
Il Giallo del colore può essere diviso in due segmenti: il primo, comprendente i primi due capitoli, ha la funzione di introdurre il lettore alle principali soluzioni che le varie discipline teoriche hanno dato al problema dei colori, individuando, tra le altre cose, la figura di Goethe, sia questa esplicita o meno essa funziona come perno intorno al quale ruotano le teorie presentate. Invece il secondo segmento, che racchiude gli ultimi capitoli, si focalizza da una parte sul colore e il suo legame con l’arte e dall’altra il colore in relazione al linguaggio.
Le prime due sezioni funzionano quindi, nell'organicità del libro, come fondamento delle trattazioni successive e come una vera e propria cartina, utile per muoversi all’interno del dibattito sul colore in ambito analitico. Le principali teorie presentate sono: l’eliminativismo, il relazionismo e il fisicalismo; in queste pagine l’autrice riporta studi e teorie relative al carattere epistemico del colore, avanzando tesi sui due ampi fronti del realismo e dell’idealismo, spaziando da fisiologi tedeschi, come Helmholtz, fino a teorie fisiche, Maxwell, e neuroscientifiche, mettendo in comunicazione teorie scientifiche e filosofiche. Vengono così messe in evidenza le criticità della nozione di colore per il filosofo, che in questo senso si trova separato dalla massa, in quanto la sua idea sui colori deve passare per un’inevitabile problematizzazione dell’esperienza che ne facciamo. Questa scissione tra l’esperienza e l’ontologia verrà messa in discussione dalle tesi presenti nel secondo capitolo che, pur confermando il carattere non semplice del colore in opposizione alla concezione classica delle qualità secondarie, mostrano le concezioni più ingenue, in cui il colore viene riportato su di un piano più vicino a quello dell’esperienza di un soggetto non avvezzo alle circonvoluzioni della filosofia. In questo modo si apre la strada a un campo che fino ad ora è stato escluso dalla ricerca sui colori e che verrà invece inserito nel terzo capitolo, quello della loro componente simbolica.
Inizia così a delinearsi la sagoma di una seconda figura quella di Wittgenstein, forse ancora più esclusa rispetto a quella di Goethe dalla narrazione costruita intorno al dibattito filosofico; questo autore irromperà nell’ultimo capitolo per scardinare le concezioni classiche sul colore. In particolare, il carattere inafferrabile di quest’ultimo appare sempre più evidente man mano che si passano in rassegna le varie soluzioni proposte e questo suo carattere perturbante sarà ciò che più animerà lo spirito del filosofo austriaco.
Osservando le tesi proposte dalla filosofia angloamericana, esposte nei primi capitoli, ci si rende conto che ad essere escluso dal discorso è proprio ciò che verrebbe più semplicemente in mente a chiunque non fosse avvezzo al discorso filosofico, cioè il rapporto che intercorre tra i colori e il loro valore simbolico e artistico. Questa componente mancante viene reintrodotta nel terzo capitolo tramite le trattazioni sull’araldica di Pastoureau e quelle successive su Gage. Questa sezione è ricca di riferimenti artistici contemporanei e non, da William Turner a John Piper, per avvalorare la tesi per cui i colori non solo si esperiscono a livello sensoriale, ma si vivono in un senso più intimo e significativo. Essi non sono semplici astrazioni, stimoli fisici o mentali, ma hanno una componente centrale nella nostra cultura e interpretazione del mondo. Questo tema viene approfondito con la trattazione della teoria di John Gage, il quale non sosteneva l'universalità dei colori, criticando le ricerche di stampo evoluzionistiche dell’epoca, ma optando più semplicemente per delle somiglianze che sussistono tra di essi, che via via si vanno ad assottigliare. I colori vengono così fatti diventare un linguaggio particolare capace di descrivere la realtà, «John Gage contesta alla filosofia la capacità di cogliere questa densità. proprio perché il colore non è traducibile in parole[...]» (p.90). Probabilmente è proprio il carattere non alfabetico di questo linguaggio dei colori, che l’artista conosce bene, ad aver portato all’esclusione della sua non-voce dalla narrazione filosofica sul tema, poiché l’artista non spiega nulla, mostra e gioca col colore. Queste due nozioni: quella di gioco e quella di mostrare non possono che farci venire in mente uno dei più grandi critici del linguaggio del ‘900, la cui presenza si preannuncia numerose volte all’interno dei primi capitoli, ma che, come si è detto, si afferma nell’ultima parte del testo, cioè quella di Wittgenstein. L’indagine sul colore così trattata dischiude la possibilità di un’altra dicotomia fondamentale della storia del pensiero filosofico e psicologico, quella per cui il linguaggio determina o meno la nostra esperienza, dicotomia che nel corso della trattazione del filosofo viennese verrà sempre meno a presentarsi come tale; questo perché si va ad affermare sempre più l’idea che il colore scaturisca dalla sovrapposizione di vari piani della comprensione umana, o come direbbe l’autrice «Il colore appare, ancora una volta, come qualcosa soltanto apparentemente semplice, che si costituisce nell’incontro tra dimensioni diverse» (p.133).
In un primo momento la tematica sui colori non sembra toccare particolarmente il filosofo austriaco (siamo nel periodo del Tractatus), una svista questa che però metterà più avanti in crisi il suo sistema filosofico. Da questa crisi si ha il punto di svolta il secondo Wittgenstein, in cui la questione del colore è centrale. Le considerazioni sul colore lo portano in un primo momento a rivedere le sue tesi sulle proposizioni semplici e le loro relazioni, completamente escluse nel Tractatus in virtù della loro indipendenza. Il tema delle foglie d’autunno, col loro verde che vira sul rosso, scuote profondamente l’animo del filosofo, poiché per esse non sembrano valere i principi logici fondamentali, come quello di non contraddizione, essendo le foglie autunnale sia verdi che rosse contemporaneamente. Successivamente, con la svolta teoretica dei giochi linguistici, già preannunciata nel periodo intermedio, e con la nozione di grammatica, il cui compito è quello di definire l’uso possibile o non possibile di certe proposizioni, il problema viene spostato dal piano logico a quello pratico. Forse l’unica vera pecca di Wittgenstein è, secondo il nostro parare, proprio da rintracciare in questa sua incapacità di emanciparsi dalla questione pratica dell’uso dei concetti, ovvero in quel piano intermedio tra empiria e logica che ora appare come posizione dei colori. Così scardinato il falso dualismo, che voleva il colore come derivato esclusivamente dell’esperienza comune come presente nelle concezioni linguistiche più relativistiche, si apre dunque la possibilità di una trattazione veramente filosofica sul colore. Poiché dove c’è dualismo possono nascere solo scienze particolari e non Filosofia.
Avviandosi verso la fine del libro, vengono poste le somiglianze tra colori come possibile risposta al quesito fino ad ora trattato. Sempre sul solco di Wittgenstein, il colore viene così inserito in questa concezione per cui noi possiamo dire che un colore è tale perché appartiene a un sistema di differenze e «non si può chiamare il rosso un colore, se esso non è inserito all’interno di un sistema di colori diversi» (p.141). Ma è soprattutto con le ricerche successive di Wittgenstein, dove il colore viene ricondotto nella categoria più ampia di gioco linguistico, che appare evidente il legame tra colore e vita, la parola gioco linguistico infatti è destinata a mettere in evidenza il fatto che il parlare sia una forma di attività, o una forma di vita. Il legame indissolubile tra i colori e la vita è evidente nel ruolo che gioca la memoria nella trattazione di Wittgenstein. Al filosofo di Vienna è chiaro che nella memoria di un colore non vi è solo un archivio di colori vissuti, con cui confrontare il colore presente qui ed ora nell’esperienza, ma «qualcosa che suona e che scatta quando vedo il colore giusto» (p.146) una vera e propria via per la ricerca di esso; così colore e memoria entrano a far parte di quella sfera pratica che è la vita. Anche se come giustamente notato dall’autrice, che conosce bene gli scritti di Benjamin su Baudelaire, Bergson e Proust, c’è effettivamente qualcosa che suona, un carattere temporale, lo stesso Wittgenstein sembra rendersi conto di questa peculiarità man mano che le strutture logiche dei primi scritti fanno spazio a un farsi dinamico di un insieme di nessi e di regole. In un certo senso le relazioni tra i colori, che nel Tractatus appaiono come relazioni logiche, vengono ricondotte all’interno di quella sfera temporale da cui erano state escluse. Così attraverso Wittgenstein, si raggiunge il cuore del problema e una sua possibile soluzione, ovvero non ha senso parlare di «un colore reale e un colore apparente, ma esiste soltanto un unico colore, che è il risultato dell’interazione tra i nostri concetti e le situazioni concrete in cui essi si trovano immersi» (p.153). Da questo discorso, quello che più emerge è il carattere perturbante del colore, la sua inafferrabilità, che scuote le elaborazioni classiche della filosofia, costringendoci a ripensare come problematiche le esperienze della vita quotidiana. Così la trattazione del colore fa vibrare le strutture concettuali filosofiche, diventando in questo modo un orizzonte di possibilità per la soluzione dei problemi più fondativi della filosofia.
È noto che Michel Foucault intendeva scrivere un libro sul pittore Édouard Manet, dal titolo Le noir et la couleur, la cui pubblicazione era prevista da parte delle Éditions de Minuit (Defert 2001, p. 41). Egli aveva redatto un gran numero di pagine sull’argomento, senza però consegnarle all’editore. A quanto sembra, dopo aver conservato molto a lungo l’ampio manoscritto su Manet, da ultimo il filosofo ha scelto di distruggerlo (Guibert 2019, p. 27). Tuttavia alcuni segni significativi del suo interesse per l’artista francese sono emersi a più riprese, nel corso dei decenni.
Già in un saggio su Flaubert datato 1964, Foucault ha introdotto un parallelismo fra il narratore e il pittore ottocenteschi: «Flaubert è, rispetto alla biblioteca, ciò che Manet è rispetto al museo. Essi scrivono e dipingono in un rapporto fondamentale con quel che è stato dipinto e scritto – o piuttosto con ciò che della pittura e della scrittura rimane indefinitamente aperto. La loro arte si edifica là dove si forma l’archivio. Non in quanto segnalino il carattere tristemente storico – gioventù diminuita, assenza di freschezza, inverno delle invenzioni – con cui ci piace stigmatizzare la nostra epoca alessandrina; ma essi fanno emergere un fatto essenziale per la nostra cultura: ogni quadro appartiene ormai alla grande superficie quadrettata della pittura; ogni opera letteraria appartiene al mormorio indefinito di ciò che è scritto. Flaubert e Manet hanno fatto esistere, nell’arte stessa, i libri e le tele»[1]. In effetti, lo scrittore – specie in opere come La tentation de saint Antoine o Bouvard et Pécuchet[2] – aveva costruito dei volumi che erano il frutto di innumerevoli letture, così come Manet presupponeva nello spettatore delle proprie tele la capacità di riconoscere analogie e differenze rispetto ai capolavori pittorici dei secoli precedenti, a cui non di rado si ispirava.
Occorre ricordare inoltre che Foucault ha dedicato al pittore una serie di conferenze tenute in vari luoghi del mondo: nel 1967 a Milano, nel 1970 a Tokyo e a Firenze, nel 1971 a Tunisi, nel 1972 a Buffalo. L’esposizione orale di Tunisi, dal titolo La peinture de Manet, ha avuto una storia editoriale piuttosto complessa. Dapprima, per la sua pubblicazione su una rivista tunisina, avvenuta nel 1989, ci si è basati su una registrazione parziale (l’unica disponibile) della seduta. Più tardi, è stato possibile, tenendo conto di una trascrizione che era in possesso di Daniel Defert, ricostruire una versione più fedele del testo, edita nel 2001 nel bollettino annuale della Société française d’esthétique. Infine, grazie al fortunato ritrovamento di una registrazione sonora completa, nel 2004 si è giunti alla pubblicazione integrale della conferenza, in un volume corredato anche da vari interventi di studiosi che la commentano[3].
Nel suo discorso rivolto all’uditorio tunisino, Foucault esordisce scusandosi per il fatto di parlare del grande pittore pur senza essere un esperto d’arte. Aggiunge che non è sua intenzione occuparsi dell’opera di Manet in generale, bensì soltanto di prendere in esame una dozzina di dipinti. In effetti, però, la parte iniziale della conferenza riguarda quelle che, a giudizio del filosofo, sono le intenzioni di fondo del lavoro del pittore. Foucault conferma il giudizio tradizionale che vede in quest’artista il precursore dell’impressionismo, ma si spinge ben oltre: «Mi sembra che Manet abbia reso possibile non solo l’impressionismo, ma tutta la pittura successiva, tutta la pittura del XX secolo, la pittura al cui interno si sviluppa ancora, attualmente, l’arte contemporanea» (Foucault 2005, p. 9-11). Il filosofo non è certo l’unico ad attribuire al pittore francese un ruolo inaugurale. Malraux e Bataille, per esempio, lo avevano già fatto, l’uno sostenendo che «Manet passa dalle sue prime tele romantiche ad Olympia, al Portrait de Clemenceau, al piccolo Bar aux Folies-Bergère, così come la pittura passa dal museo all’arte moderna», mentre l’altro, in maniera ancor più esplicita, scrivendo che «Manet non è soltanto un grandissimo pittore: in rotta con coloro che l’hanno preceduto, ha aperto il periodo in cui viviamo, accordandosi col mondo attuale, il nostro» (Malraux 1999, p. 41: Bataille 2013, p. 11).
E. Manet, Olympia (1863)
Per dimostrare la propria audace tesi, il filosofo passa ad esaminare alcuni dipinti, ben pochi in rapporto alla vasta produzione dell’artista francese, ma comunque rilevanti e rappresentativi[4]. Il primo aspetto che Foucault vuole sottolineare riguarda il modo in cui Manet ha messo in rilievo gli aspetti materiali della tela. Fa dunque notare che in La musique aux Tuileries le teste dei numerosi personaggi raffigurati (ricordiamo per inciso che fra essi ci sono il pittore stesso e alcuni suoi amici, come Baudelaire) sono disposte lungo una linea orizzontale, mentre gli assi verticali vengono indicati dagli alberi. Una composizione simile si ritrova in Le bal masqué à l’Opéra: anche qui, infatti, i cappelli a cilindro indossati dai personaggi maschili sono disposti lungo una linea orizzontale. Tuttavia, rispetto al quadro precedente, vi sono alcune modifiche significative, volte a diminuire la profondità di campo. Dice il filosofo: «Questa profondità è ora chiusa, chiusa da uno spesso muro; e come per segnalare bene che vi è un muro e nulla da vedere dietro, osservate i due pilastri verticali e l’enorme barra orizzontale che incornicia il quadro, che raddoppia in qualche modo all’interno del dipinto la verticale e l’orizzontale della tela. Questo grande rettangolo della tela viene ripetuto all’interno del quadro, lo chiude sul fondo, eliminando così l’effetto di profondità» (Foucault 2005, p. 27). L’unica modesta apertura di campo dovrebbe trovarsi in alto, al di sopra della barra orizzontale (che è una specie di soppalco), ma tale apertura mostra solo i piedi di altri individui, come se la scena fosse raddoppiata, ricominciasse da capo. La tendenziale chiusura dello spazio è ravvisabile anche in un altro quadro, L’exécution de Maximilien, il cui sfondo è quasi interamente costituito da un muro: questo fa sì che i personaggi si trovino confinati su una stretta superficie di terreno. Inoltre essi sono vicini fra loro al punto che i fucili del plotone di esecuzione esplodono i loro colpi quasi a contatto col petto delle tre persone giustiziate. E anche qui non manca l’inizio di una scena ulteriore nella parte alta del dipinto.
L’incrociarsi delle linee orizzontali e verticali è al centro di un’opera, Le port de Bordeaux, in cui le alberature delle navi formano un reticolo talmente fitto da richiamare, secondo Foucault, non soltanto la forma del quadro, ma qualcosa di ancor più concreto, in quanto sono «in certo modo la riproduzione, nella filigrana del dipinto, di tutte le fibre orizzontali e verticali che costituiscono la tela stessa, la tela in quel che ha di materiale» (Foucault 2005, p. 35)[5]. Ciò diviene ancor più chiaro in Argenteuil, dove tale effetto viene ottenuto grazie ai tessuti riprodotti nel quadro, quelli degli abiti indossati dalle due figure in primo piano: il vestito a righe verticali della donna e la maglietta a righe orizzontali dell’uomo che le sta accanto.
Oltre ai due procedimenti citati (restringimento della profondità di campo ed evidenziazione delle linee ortogonali), Foucault ne segnala un terzo, che consiste nel rappresentare dei personaggi che stanno guardando in direzioni opposte, in avanti e all’indietro, come accade in La serveuse de bocks o in Le chemin de fer. Con qualche forzatura, egli ravvisa qui l’intento, da parte del pittore, di richiamare l’attenzione sul fatto che il quadro è un oggetto bifronte, giacché presenta un recto e un verso. Se a ciò si aggiunge che, in entrambe le opere, quel che i personaggi guardano si vede a malapena o non si vede affatto, allora la strategia dell’artista diviene ancor più perversa: «È questo gioco dell’invisibilità, assicurata dalla superficie stessa della tela, che Manet usa all’interno del quadro in un modo che si può comunque definire, come vedete, vizioso, malizioso e crudele; poiché, in fin dei conti, è la prima volta che la pittura si offre mostrandoci qualcosa di invisibile: gli sguardi sono lì per indicarci che c’è qualcosa da vedere, qualcosa che per definizione, e per la natura stessa della pittura, della tela, è necessariamente invisibile» (Foucault 2005, p. 45-46).
Il filosofo passa poi a considerare un altro aspetto del lavoro di Manet, quello che riguarda i problemi legati alla luce. Un primo esempio viene offerto dal quadro Le fifre, che mostra un ragazzino, con un’elegante divisa militare, intento a suonare il piffero. Tuttavia la soppressione della profondità di campo fa sì che il personaggio si stagli su uno sfondo neutro e del tutto vuoto. Solo poche ombre attorno ai piedi suggeriscono che egli si trova su un pavimento, distinguibile a stento dalla parete di fondo. Tale semplificazione è una delle caratteristiche per cui il dipinto, nel 1866, è stato rifiutato dalla giuria del Salon. Ma non è questo ad interessare a Foucault, bensì il fatto che, mentre nella pittura classica l’illuminazione proviene sempre da una certa direzione, e spesso la fonte di luce viene resa esplicita anche quando la scena si svolge in un interno, in Le fifre non si nota nulla del genere. Qui la luce raggiunge la figura di fronte, è un’«illuminazione dunque totalmente perpendicolare, come lo sarebbe l’illuminazione reale della tela se questa, nella sua materialità, fosse esposta davanti a una finestra aperta» (Foucault 2005, p. 50). Ma la tecnica relativa alla luce può essere, in Manet, anche più complessa, come mostra un dipinto celebre, Le déjeuner sur l’herbe. Foucault scorge in quest’opera la compresenza di due diversi metodi di illuminazione. Per quanto riguarda lo sfondo, la luce proviene dall’alto e da sinistra, in una maniera che si può definire tradizionale, mentre i personaggi in primo piano vengono illuminati frontalmente. «Questi due sistemi di rappresentazione, o piuttosto questi due sistemi di manifestazione della luce all’interno del quadro, sono qui giustapposti nella stessa tela, e la giustapposizione dà al quadro il suo carattere discordante, la sua eterogeneità interna» (Foucault 2005, p. 52-53).
Foucault giunge così ad affrontare Olympia, il dipinto forse più famoso di Manet, o se si preferisce il più famigerato, viste le reazioni che aveva prodotto al momento della sua esposizione al pubblico. Il filosofo, che di norma nella sua conferenza sorvola sugli aspetti relativi alla ricezione delle opere dell’artista, in questo caso fa un’eccezione e accenna ai fatti accaduti all’epoca: «L’Olympia, come ben sapete, ha suscitato scandalo quando è stata esposta al Salon del 1865, uno scandalo tale che si è stati costretti a ritirarla. Alcuni borghesi, in visita al Salon, volevano trafiggerla con la punta dei loro ombrelli, tanto la trovavano indecente. Ora, la rappresentazione della nudità femminile nella pittura occidentale è una tradizione che risale al XVI secolo, e se n’erano viste molte altre prima di Olympia […]. Cosa c’era dunque di così scandaloso in questo quadro, da far sì che non si riuscisse a sopportarlo?» (Foucault 2005, p. 53-56)[6]. Una prima risposta, non formulata da Foucault, è piuttosto ovvia: pur ispirandosi a quadri classici, in particolare la Venere di Urbino di Tiziano, l’artista francese aveva scelto di raffigurare non una dea dalle forme perfette e sensuali, bensì una donna dall’aspetto banale e realistico. Ciò viene riconosciuto anche dai rari e coraggiosi difensori di Manet, come Émile Zola: «Quel corpo nudo è parso indecente; così doveva essere, perché è carne, una ragazza che l’artista ha gettato sulla tela nella sua nudità giovane e già appassita» (Zola 1993, p. 27). Infatti il senso della scena rappresentata non sfugge agli osservatori: la donna stesa sul letto è una prostituta, cui la domestica di colore sta consegnando un mazzo di fiori portato da un cliente. Jules Claretie scrive appunto, con tono d’indignazione: «Olympia? Quale Olympia? Senza dubbio una cortigiana» (Claretie in Romano 2004, p. 14). I vari aspetti provocatori del quadro convergono fra loro, come ha notato un amico e ammiratore dell’artista, il poeta Stéphane Mallarmé, ravvisando nell’Olympia «quella cortigiana pallida e scarna la quale offre per la prima volta al pubblico il nudo che sfugge alle convenzioni e alle tradizioni» (Mallarmé 2004, p. 65).
Il filosofo, da parte sua, ricorda che «gli storici dell’arte sostengono, e indubbiamente hanno ragione, che lo scandalo morale era soltanto un modo maldestro di esprimere lo scandalo estetico: non si sopportava questa estetica, queste tinte piatte, questa grande pittura alla giapponese» (Foucault 2005, p. 56). E in ciò anche la luce gioca il suo ruolo: se nella Venere di Tiziano «c’è una fonte luminosa in alto a sinistra che viene a illuminare dolcemente la donna […] e che sembra una sorta di doratura che le accarezza il corpo», nel quadro di Manet la luce, essendo fredda e frontale, produce un effetto assai meno idealizzante. Inoltre, proprio per il fatto che sembra provenire dal luogo stesso in cui si trova l’osservatore del quadro, «è il nostro sguardo che, aprendosi sulla nudità dell’Olympia, la illumina. Siamo noi a renderla visibile» (Foucault 2005, p. 56-57).
Che la luce eserciti il suo pieno effetto solo sulle figure in primo piano trova conferma in un altro quadro di Manet, Le balcon. In esso, oltre al consueto gioco sulle linee orizzontali e verticali, si ritrova, sia pure in maniera diversa, anche il restringimento della profondità di campo. In teoria, oltre ai tre personaggi (uno maschile e due femminili) che si trovano sul balcone, l’illuminazione dovrebbe estendersi anche alla stanza retrostante, ma di fatto ciò non accade, poiché l’interno appare quasi buio. Secondo Foucault, che esagera un pochino, «si distingue solo il vaghissimo riflesso di un oggetto metallico, una specie di teiera, e un ragazzo che la porta, ma è a malapena visibile. E tutto questo grande spazio cavo, questo grande spazio vuoto che normalmente dovrebbe aprire su una profondità, ci è reso assolutamente invisibile, e perché? Ebbene, semplicemente perché tutta la luce è all’esterno del quadro» (Foucault 2005, p. 60-61). In questa scena appiattita, i personaggi appaiono situati tra la luce e l’ombra, quasi fossero al confine tra la vita e la morte. A tal proposito, il filosofo non manca di ricordare che il pittore surrealista René Magritte ha eseguito un’ironica variante di Le balcon, nella quale al posto delle figure umane si trovano altrettante bare[7].
E. Manet, Le balcon (1868)
Riguardo all’ultimo dei temi che è sua intenzione affrontare, ossia quello del luogo assegnato da Manet allo spettatore dei dipinti, il conferenziere sceglie di riferirsi a una sola opera, Un bar aux Folies-Bergère. Si tratta di una tela complessa: mostra infatti una figura centrale, la giovane donna che serve al bancone di un bar, ma dietro a lei si trova un grande specchio, nel quale possiamo vedere riflesso, in maniera più o meno distinta, il resto de locale. Il fatto che nel dipinto lo specchio eserciti un ruolo rilevante richiama alla memoria (benché il parallelismo non venga esplicitato) un celebre quadro che si basava su un dispositivo simile, Las Meninas di Velázquez, al cui minuzioso esame era dedicata l’ouverture di un altro libro del filosofo, Les mots et les choses (Foucault 2012, p. 17-30). Anche se l’inclusione nell’immagine dipinta di un riflesso speculare non costituisce di per sé una novità, Manet adotta ulteriori soluzioni innovative, coerenti col proprio stile. Tanto per cominciare, nel quadro lo specchio occupa interamente lo sfondo, dunque delimita e restringe lo spazio così come un muro lo chiudeva in L’exécution de Maximilien. L’illuminazione, ancora una volta, è frontale, con l’astuzia supplementare data dal fatto che il riflesso mostra i lampadari presenti nella sala, dunque nello spazio antistante rispetto a quello in cui si trova la barista.
Ma il riflesso medesimo offre ben altre sorprese. Osserva il filosofo che, «in linea di principio, questo è uno specchio, dunque tutto quel che si trova davanti allo specchio deve essere riprodotto all’interno di esso […]. In realtà, se provaste a contare e a ritrovare le stesse bottiglie qui e là, non ci riuscireste, perché di fatto c’è una distorsione tra ciò che viene rappresentato nello specchio e ciò che dovrebbe esservi riflesso» (Foucault 2005, p. 68). La distorsione raggiunge il massimo nella figura della donna, la cui immagine riflessa si trova alquanto spostata a destra rispetto alla posizione che dovrebbe logicamente occupare. È come se lo spettatore osservasse la scena da un’angolazione molto laterale, ma se così fosse egli non potrebbe vedere la barista di fronte, come invece il quadro ce la mostra. «Dunque il pittore occupa – e lo spettatore è invitato a farlo con lui – successivamente, o piuttosto simultaneamente, due posizioni incompatibili» (Foucault 2005, p. 68). Non si può neanche ipotizzare che lo specchio sia disposto in obliquo, poiché il suo bordo è perfettamente parallelo al bancone del bar, e alla cornice stessa del dipinto. Non basta ancora: il riflesso rivela un personaggio maschile che sta parlando con la barista, e che dunque dovrebbe trovarsi, fuori dallo specchio, di fronte a lei, mentre in effetti non c’è. Da tutte queste stranezze consegue che Manet «fa giocare la proprietà del quadro di non essere assolutamente uno spazio normativo la cui rappresentazione ci assegna, o assegna allo spettatore, un punto e un unico punto da cui guardare, e il quadro appare come uno spazio davanti al quale e in rapporto al quale ci si può spostare» (Foucault 2005, p. 71). È quel che accade quando osserviamo una tela appesa alle pareti di una stanza o nella sala di un museo. Manet – conclude il filosofo – «è dunque in procinto di inventare, se volete, il quadro-oggetto, la pittura-oggetto, ed è questa senza dubbio la condizione fondamentale affinché, finalmente, un giorno ci si liberi dalla rappresentazione e si lasci giocare lo spazio con le sue proprietà pure e semplici, le sue stesse proprietà materiali» (Foucault 2005, p. 72)[8].
Se il testo completo dell’esposizione tunisina è ora accessibile, lo stesso non può dirsi per quello delle altre conferenze tenute da Foucault sul pittore. Tuttavia nel 2011 è stata pubblicata la riproduzione fotografica (con relativa trascrizione) di una serie di ventiquattro fogli manoscritti senza data su Manet, dal titolo Le noir et la surface (Foucault 2011, p. 378-395). Si tratta di appunti schematici, ma ricchi di riferimenti sia alla biografia dell’artista che, più in generale, alla storia della pittura. Da essi, ci limiteremo a trarre solo poche osservazioni. Il filosofo ricorda che «Manet viene considerato come […] il primo pittore del XIX secolo ad aver attuato, in maniera violenta e scandalosa, una rottura con l’accademismo. […] E non, come Courbet, tramite la scelta dei soggetti, ma per via del modo stesso di dipingere» (Foucault 2011, p. 380). Riguardo all’altra delle definizioni tradizionali dell’artista, visto come antesignano dell’impressionismo, Foucault si mostra invece più cauto: riconosce che «senza dubbio c’era qualcosa, della pittura di Manet, che rendeva l’impressionismo possibile; e qualcosa che resisteva ad esso. Tuttavia ciò che resisteva all’impressionismo non era […] il classicismo della pittura, ma piuttosto qualcosa che doveva apparire in piena luce solo dopo l’impressionismo» (Foucault 2011, p. 380).
L’artista, che da giovane era stato un allievo, ancorché indocile, di Thomas Couture, da lui aveva desunto l’idea di un richiamo non propriamente accademico alla tradizione, per cui i nuovi quadri che venivano realizzati potevano instaurare un nesso, per così dire laterale, con i dipinti del passato. Da qui il fatto che, in Manet, «Le déjeuner sur l’herbeha più rapporti con Giorgione che con una vera colazione. Olympia con la Venere di Urbino» (Foucault 2011, p. 381). Questo e altri insegnamenti di Couture, in parte accolti da Manet, «resteranno in sospeso, inavvertiti, fino a quando la pittura postimpressionista – Cézanne e Gauguin, Bonnard, i Nabis, i Fauves – ne risveglierà per noi i poteri rimasti dormienti» (Foucault 2011, p. 383). Foucault prosegue esaminando alcune opere al livello della composizione e dell’uso dei colori. A tal proposito entra il gioco il nero, che agisce al tempo stesso «come colore e come valore (distinguendosi così dal bianco e dal chiaro, che continuano ad essere assimilati fra loro […])» (Foucault 2011, p. 384). In Le déjeuner sur l’herbe, per esempio, «a partire dal momento in cui il nero funziona come colore, gli altri colori se ne liberano: – il verde acido degli alberi – i volti e i corpi sono assolutamente lisci – il fondo si schiarisce» (Foucault 2011, p. 385).
E. Manet, Le déjeuner sur l'herbe (1863)
Il filosofo appare minuziosamente attento agli aspetti tecnici del lavoro pittorico e ricorre spesso al confronto tra l’artista francese e i suoi predecessori: «Manet abolisce la distinzione scena-ritratto – Gainsborough aveva collocato dei ritratti su un fondo di paesaggio – Courbet e Corot avevano collocato dei ritratti […] nei paesaggi, e l’illuminazione era la stessa per gli uni e per gli altri. Mai erano stati dipinti in un paesaggio ritratti dotati delle dimensioni, dell’illuminazione e del contrasto netto che sono propri di un ritratto. È evidente che nell’evoluzione di Manet (almeno fino al 1870) la tecnica del ritratto prevale sulle esigenze specifiche dei paesaggi» (Foucault 2011, p. 385). Foucault è sempre pronto a cogliere quel che distingue il pittore di cui si occupa dagli impressionisti, anche proprio a livello tecnico. Così, se Manet sopprime «uno degli elementi più importanti della pittura classica: il tono locale (tono dell’oggetto stesso, opposto al tono fondamentale del quadro)», non lo fa in maniera analoga agli impressionisti: questi ci riescono «tramite il colore puro, che è al tempo stesso sostanza della luce e sostanza dell’oggetto», mentre in Manet ciò avviene «tramite l’utilizzo di colori complessi offerti alla luce, ma alla luce che illumina realmente il quadro», vale a dire dall’esterno (Foucault 2011, p. 388). E il filosofo ribadisce nuovamente che, tra i colori, è il più scuro ad avere la prevalenza: «Il nero è sì un colore come gli altri, ma ha una funzione spaziale che gli altri non hanno – si è visto quale ruolo giocava a titolo di linea di contorno – ma gioca anche un ruolo organizzatore in quanto macchia centrale. […] Di modo che, in fin dei conti, lo spazio del quadro s’illumina per effetto del nero, e sembra volatilizzarsi grazie al potere di questa macchia enigmatica. Sorta di macchia cieca che fa scintillare il visibile» (Foucault 2011, p. 389-390).
Un altro metodo usato per ottenere un effetto di apertura o dispersione consiste nel modo in cui è orientato lo sguardo dei personaggi: «A partire dal Rinascimento italiano, la divergenza degli sguardi aveva la funzione di definire lo spazio del quadro, e in certo modo di incorniciarlo, percorrerlo e solidificarlo – in Manet, gli sguardi escono dal quadro, ma in una direzione non valutabile, dunque per rivolgersi non verso lo spettatore, bensì verso qualcosa che contesta il quadro» (Foucault 2011, p. 391). Un risultato analogo viene ottenuto allontanando alcune delle figure umane dal centro del dipinto e rendendole visibili solo in parte: «È in certo modo il quadro stesso ad essersi spostato in rapporto allo spazio che rappresenta. Perciò il fatto che i personaggi non siano al centro della tela non è dovuto a loro, ma a uno slittamento del quadro in rapporto al proprio spazio. Da qui i personaggi tagliati» (Foucault 2011, p. 392).
Proprio come nella conferenza tunisina, anche in Le noir et la surface la conclusione è dedicata all’analisi di Un bar aux Folies-Bergère. Oltre a mettere in evidenza il gioco sulle immagini riflesse dallo specchio, Foucault rende esplicito il rapporto, nel contempo analogico e oppositivo, stabilito dall’artista con Las Meninas di Velázquez (oppositivo perché in Manet i riflessi speculari risultano dislocati). Da ultimo, la forma e il colore del corsetto della barista che vediamo in primo piano acquistano, agli occhi del filosofo, un significato particolare, funereo: «Questa macchia nera in forma di busto ha le stesse linee di una clessidra: è la figura del tempo e della morte, così come la gondola del Grand Canal, errante in uno spazio incerto e decomposto, aveva tutti i poteri della barca dei morti» (Foucault 2011, p. 394)[9].
E. Manet, Le Grand canal de Venis (1875)
Prima di concludere a nostra volta, dobbiamo ricordare che Foucault ha fatto riferimento al pittore francese anche in due interviste. La prima, del 1970, è tuttora inedita, ma un passo significativo di essa è stato citato da Didier Eribon nella sua biografia del filosofo. Parlando del progetto di scrivere un libro su Manet, Foucault spiega di aver scelto di occuparsi dell’artista in quanto rappresenta un «fenomeno di rottura»; infatti «la sua opera è apparsa all’interno di una storia della pittura che era lirica, rappresentativa, spaziale, voluminosa, mentre egli, senza aver coscienza (o avendo scarsa coscienza) della propria stranezza, si è messo a dipingere figure piatte e brutte. Ed è proprio questa distruzione della pittura quale veniva riconosciuta dalle persone del suo tempo che, quindici anni più tardi, diverrà il segno stesso della modernità per altri pittori, gli impressionisti, che del resto non sono fedeli a Manet. È sorprendente…» (Foucault in Eribon 2011, p. 299).
La seconda intervista è datata 1975. A un domanda volta a chiarire se egli sia interessato all’arte pittorica in generale, il filosofo risponde di sì, specificando che, in quell’ambito, «ci sono cose che assolutamente mi affascinano e m’incuriosiscono, come Manet. Tutto mi stupisce in lui. La bruttezza, ad esempio. L’aggressività della bruttezza, come in Le balcon. E poi l’inesplicabilità, tale che lui stesso non ha mai detto nulla sulla propria pittura. Manet ha fatto, in pittura, un certo numero di cose rispetto alle quali gli “impressionisti” erano del tutto regressivi» (Foucault 1974, p. 1574). Spiazzato dall’elogio della bruttezza, l’intervistatore gli chiede di spiegarsi meglio. Foucault precisa che «può trattarsi della distruzione totale, dell’indifferenza sistematica a tutti i canoni estetici, e non solo a quelli della sua epoca. Manet è stato indifferente a canoni estetici talmente radicati nella nostra sensibilità che persino adesso non capiamo perché e come egli abbia potuto far questo. C’è una bruttezza profonda, che ancora oggi continua ad urlare, a stridere» (Foucault 1974, p. 1574). Secondo il filosofo, il carattere urtante di tale pittura, lo choc che (sia pure in forma attenuata rispetto a quanto avveniva nell’Ottocento) essa produce anche adesso sullo spettatore, va considerato come un merito, non come un difetto.
Si può dunque dire che l’analisi condotta da Foucault sull’opera di Manet, nonostante l’indubbia originalità del metodo adottato, perviene a conclusioni piuttosto simili a quelle a cui giungeva Bataille, che a sua volta scorgeva in essa un elemento di mistero e, nel contempo, una significativa anticipazione dell’arte novecentesca. Infatti, nel 1955, Bataille chiudeva il proprio libro con queste frasi: «Ho voluto presentare Manet come uno dei pittori più segreti, più difficilmente penetrabili. Come il più degno di annunciare la nascita di quel mondo favoloso, così fertile di sorprese, che oggi la pittura moderna apre dinanzi ai nostri occhi» (Bataille 2013, p. 90)[10].
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MALRAUX, André, Le Musée imaginaire (prima edizione 1947, edizione definitiva 1965), Paris, Gallimard, 1999.
MENNA, Filiberto, La linea analitica dell’arte moderna. Le figure e le icone, Torino, Einaudi, 1975.
REWALD, John, La storia dell’impressionismo (prima edizione 1946, edizione definitiva 1973), tr. it. Milano, Mondadori, 1976; 1991.
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[1] Testo pubblicato prima in tedesco nel 1964, poi in francese nel 1967 col titolo Un «fantastique» de bibliothèque, ora in Foucault 1971: 139; si avverte che i passi delle traduzioni italiane cui si rimanda vengono spesso citati con modifiche).
[2] Sul nesso fra i due libri, cfr. gli appunti per una conferenza del 1970, Foucault 2019: 265-286.
[3] Su tutto ciò, cfr. Maryvonne Saisonin Foucault2005: 9-11.
[4] I quadri commentati da Foucault vengono riprodotti a colori nel volume La peinture de Manet. Per un esame complessivo dell’opera, si può vedere ad esempio Cachin1991.
[5] Anzi, se si isola la parte del dipinto che raffigura le alberature, diviene legittimo scorgervi un’analogia con «la serie di variazioni che Mondrian ha fatto sull’albero […], il suo famoso albero a partire dal quale – contemporaneamente a Kandinskij – ha scoperto la pittura astratta» (Foucault 2005: 35-36).
[6] Sulle polemiche suscitate dal quadro, cfr. Rewald 1991: 110-113, e Romano 2007.
[7] Anni prima, il filosofo aveva chiesto chiarimenti a Magritte sul suo quadro Perspective: «Le balcon» de Manet (1950), e l’artista belga gli aveva risposto con una lettera del 4 giugno 1966, ripresa in appendice a Foucault 1980: 84-85).
[8] Su come ciò si sia verificato in molte opere novecentesche, si veda ad esempio Menna 1975.
[9] Per Giorgione, il riferimento è al Concerto campestre, uno dei modelli del Déjeuner sur l’herbe.
[10] L’altro quadro di Manet qui richiamato è Le Grand Canal à Venise.
Se si vuol comprendere la posta in gioco del pensiero di Gilles Deleuze, ci sono due luoghi da frequentare, strettamente connessi e corrispondenti in buona sostanza alle sue due grandi opere teoriche degli anni ’60 (Differenza e ripetizione e Logica del senso): nel primo troviamo il progetto di un “empirismo trascendentale” o “superiore”, che non ricalchi più, come nel criticismo kantiano, le condizioni di possibilità della conoscenza sugli atti empirici della coscienza, ma che ci permetta di cogliere in se stessa la genesi trascendentale della differenza, ossia di “ciò per cui il dato è dato” (Deleuze 1997, p. 287). Nel secondo possiamo apprezzare il modo in cui Deleuze cerca di mettere in atto questo progetto, tramite la nozione-chiave di evento: dalla correlazione soggetto-oggetto – vera e propria impasse su cui si è incagliata buona parte del pensiero moderno – si può uscire, sembra dirci Deleuze, mostrando come la ragione trascendentale di entrambi si trovi proprio in una dimensione evenemenziale, ossia in quel vettore che dà conto da un lato di ciò che accade concretamente nella realtà, dall’altro dell’atto processuale che ha portato alla sua stessa realizzazione. L’evento possiede infatti per Deleuze una “struttura doppia”: è tanto “incorporeo” (trascendentale), slegato dalle sue concrete effettuazioni spazio-temporali quanto “incorporato” (empirico), incistato nella singolarità di ogni sua reale occorrenza (Deleuze 1975, p. 135).
Alessandra Campo, in Fantasma e sensazione. Lacan con Kant (Aesthetica Preprint, 2020) si inserisce nel progetto disegnato da Deleuze, percorrendo però una via che potremmo definire laterale. Pur appoggiandosi all’opera deleuziana, Campo tenta di mostrare come l’esigenza di un empirismo trascendentale – di una scienza compiutamente trascendentale del sensibile – abiti alcuni luoghi decisivi della filosofia kantiana e della psicanalisi lacaniana. Si tratta di una prospettiva originale, per almeno due motivi: in primo luogo perché ci costringe a ritornare analiticamente al criticismo kantiano, con cui l’autrice ingaggia un vero e proprio corpo a corpo, mostrandone la straordinaria attualità; in secondo luogo – e soprattutto – perché, ben al di là di un semplice confronto (ormai fin troppo percorso) tra filosofia e psicanalisi, tenta di avvicinare il progetto kantiano – a prima vista così saldo nella sua ricerca della certezza epistemica – alla prospettiva lacaniana, forse troppo frettolosamente autocertificatasi come anti-filosofica. In altri termini, come sembra emergere tra le righe del testo, se è vero che nella domanda kantiana intorno alla conoscenza si può intravedere in controluce un percorso in direzione dell’inconscio, nel reale lacaniano assistiamo altresì a un profondo sforzo speculativo volto a ghermire la genesi della realtà.
Al centro del saggio troviamo l’analisi della sensazione secondo Kant; appoggiandosi in particolare alle letture di Luigi Scaravelli (Scritti Kantiani) e Tommaso Tuppini (Kant.Sensazione, realtà, intensità), Campo mostra come per analizzare a fondo il senso dell’estetica kantiana non ci si debba affatto confrontare, come ci si dovrebbe aspettare, con l’omonima sezione della Critica della ragion pura, quanto piuttosto con quella dedicata alle Anticipazioni della percezione (p. 19), pagine non a caso definite da Deleuze “straordinarie” (Deleuze 2004, p. 81). Qui Kant analizza infatti la sensazione ben prima della sua trasformazione – mediante il decisivo ruolo delle intuizioni – in percezione spazio-temporalmente localizzata, mostrando innanzitutto la sostanziale passività del soggetto, affetto e modificato da un fuori a-dimensionale. Nelle Anticipazioni Kant ci mostra così il modo del tutto peculiare in cui i sensi pensano (p. 57), un modo intensivo che costituisce una sorta di tertium nella distinzione tra fenomeno e noumeno. Per Kant “il reale che è oggetto di sensazione, ha una quantità intensiva, cioè un grado”: prima della realtà estesa, quantificata spazio-temporalmente e in seguito sintetizzata dalle categorie, vi è insomma un reale intenso, graduato e qualitativo, condizione trascendentale di ogni successiva operazione di sintesi.
Parente prossimo – se non omonimo – della sensazione è, secondo Campo, il fantasma freudo-lacaniano. Come la sensazione per Kant, anche il fantasma assurge a condizione trascendentale dell’esperienza. Formatosi come consolazione contro l’angoscia per l’interruzione di un primordiale stato di godimento, il fantasma, secondo il Lacan del Seminario VI, è un’istanza in grado di costituire il soggetto al tempo stesso proteggendolo dall’irruenza del reale. Compito del fantasma è allora quello – come la sensazione kantiana – di rendere la conoscenza possibile, eseguendo una traduzione o un transito tra il reale (intenso) che non è lingua e la realtà (estesa) che lo è (p. 45). Il fantasma, paradossale figura al contempo genetica e di frontiera, è allora, in senso heideggeriano, ciò che a un tempo maschera e rivela la natura dirompente del reale (p. 84). Così come ogni sensazione possiede un grado che permetterà la sintesi operata prima dalle intuizioni e poi dalle categorie, allo stesso modo il fantasma trova la propria condizione trascendentale nell’oggetto a piccolo, argine che impedisce al soggetto di svanire di fronte al reale (p. 86) e che innesca l’impresa conoscitiva.
Nella complessa analogia a quattro termini (sensazione e grado da un lato, fantasma e oggetto a piccolo dall’altro) è la relazione di transizione a fare da protagonista dell’analisi di Campo: tanto per la sensazione quanto per il fantasma si tratta – si è visto – di figure che permettono il transito da una dimensione condizionante intensa che esiste atemporalmente, ma che colpisce e dunque è sentita, a una dimensione estesa che accade, ma risulta inevitabilmente condizionata, derivata. È un passaggio che Campo descrive in vari modi: come “mediatizzazione” tra un “nulla d’origine” a partire da cui sorge il grado/a piccolo e un “nulla di destino” verso cui inderogabilmente si consuma (p. 80); come barra/frazione che genera i poli (esteso e intenso) di un campo (p. 98); come skia-grafie (scrittura d’ombra) che fa transitare la luce verso il buio (p. 51); come abbassamento del profilo cosale dallo choc alla rappresentazione (p. 100). Ciò che emerge è l’idea che esista “un altro modo di ricevere” (p. 19), ossia un modo differente di intendere la passività e l’aisthesis: non più come percezione spazio-temporalmente localizzata e rappresentabile, ma come choc o trauma tale per cui il soggetto viene modificato/toccato proprio là dove non sente e non vede (p. 51), sul crinale tra l’insensibile/impercettibile (a priori) e il sensibile (a posteriori). La sensazione e il fantasma si sviluppano insomma per caduta e annullamento del proprio grado di intensità nell’esteso: l’andare a 0 dell’intenso diventa così paradossale legge di sviluppo (p. 78). Nei più classici termini della metafisica occidentale, si può intendere tale passaggio come transito dall’essere effetto (modificato, colpito) all’essere causa (ossia percipiente).
A questo proposito, il testo di Campo risulta permeato da una polemica nei confronti delle pretese di oggettività proprie di ogni regime epistemico: se tutta la realtà oggettivamente conoscibile va ricondotta in ultima battuta alla sensazione, ecco riemergere l’inquietante quesito che aveva tormentato la filosofia moderna: ciò che garantisce l’esistenza empirica della realtà è la stessa istanza che ne sancisce la dimensione inevitabilmente soggettiva, in quanto modificazione della sensibilità (p. 47). Ciò significa che l’approdo ultimo della sensazione kantiana e del fantasma lacaniano va derubricato nella cornice di un solipsismo senza alcuna via d’uscita? Al contrario: il riconoscimento di un’embricazione costitutiva tra soggettività e oggettività nella conoscenza – discorso che riguarda tanto la psicanalisi quanto la filosofia – rilancia l’opportunità di un empirismo trascendentale, superiore e radicale, capace di ritrovare in una dimensione estetico-cosmologica la ragione stessa della correlazione soggetto-oggetto.
Fantasma e sensazione. Lacan con Kant è un testo che indaga questioni filosofiche profonde e fondamentali con un focus interpretativo efficace. Ha il pregio dell’ambizione e dell’assoluto rigore dell’analisi – specialmente per quanto riguarda la filosofia kantiana – e, forse, il difetto di un’eccessiva densità: l’importanza dei quesiti mobilitati e delle loro implicazioni risulta a volte implicita, a svantaggio in particolare di chi non avesse immediata dimestichezza con molte delle questioni affrontate. Si sarebbe altresì apprezzato qualche approfondimento ulteriore rispetto all’originale tema estetologico che emerge dalle analisi – ossia quello di un’estetica dell’aniconico o di una figuratività non-figurativa (p. 51) – che, tra Francis Bacon e Paul Klee, si sforza incessantemente di rendere visibile l’invisibile. Ciononostante, il saggio di Campo è un riuscito tentativo di afferrare con le armi della speculazione filosofica e in un modo decisamente poco battuto il problema della sensazione e del fantasma. Al di là della doppia neutralizzazione, secondo cui essi sono, nella migliore delle ipotesi, una sorta di trasparente pharmakon propedeutico a più alte e “libere” forme di cognizione oppure, nella peggiore, mera illusione da correggere con i metodi quantitativi della scienza (psichiatrica o fisica), Campo ci mostra in che modo i sensi e l’inconscio “pensano”, cioè – in senso whiteheadiano – esibiscano una qualità (e una logica) che precede la loro “prima quantificazione” (p. 15); soglie atopiche e atemporali capaci di realizzare il campo della conoscenza, essi, proprio nei termini dell’evento secondo Deleuze, non smettono di insistervi.
La pubblicazione degli scritti psicoanalitici di Paul Ricoeur sotto il nome Attorno alla psicoanalisi avviene come una delle tappe di un processo che la casa editrice Jaca Book intende riprendere e portare avanti, alla luce di un ideale antico, circa la trattazione dell’Altro, che la collana Psyché riprende da un suo progetto editoriale risalente agli anni ’60, e tuttavia nuovamente al centro dell’esigenza culturale contemporanea. Non è un caso, nel considerare l’opera complessiva, che il titolo della collana sia lo stesso che Derrida diede a due sue raccolte di scritti incentrati sul tema dell’«invenzione dell’altro». Che si raccolgano molti dei testi psicoanalitici di Ricoeur (attinti dall’omonimo fondo francese) non deve sorprendere in tal senso, poiché proprio la questione dell’emergenza dell’Altro si snoda attraverso essi, divenendo sempre più cruciale.
Tale domanda si pone nel momento in cui Ricoeur s’interroga su cosa sia l’uomo. Domanda centrale e tipica della maturità del pensiero di Ricoeur, dalla cui posizione liquiderà rispettosamente come «fabulatoria» (p. 375) la pretesa foucaultiana della sua morte. L’uomo è sì un sistema metaforico, ma mantiene al tempo stesso una sua dimensione che non viene costruita o decostruita. L’uomo continua a porre e a costituire un problema in quanto tale, che non si può ridurre a un prodotto culturale ottenuto da un certo modo di praticare le forme del sapere. È un problema ancora presente e lo sarà anche in futuro, ancora sempre da analizzare, e che non si trova confinato all’interno di una specifica episteme. Non si riduce solo a un’invenzione enunciativa, ma a un modo di stare al mondo che non può essere decostruito, sebbene, attraverso le sue auto-narrazioni e razionalizzazioni, continui a porre l’esigenza di darsi un senso, agendo sulla causa non propriamente razionale che le motiva.
La raccolta di testi segue un ordine cronologico che risulta efficace per poter seguire il percorso lungo cui si snodano le tematiche e gli interessi di Ricoeur. Ampio e variegato è il lavoro svolto per rendere agibile la fruizione dei testi. Dalla presentazione di Francesco Barale alla postfazione di Giuseppe Martini, nel mezzo di trovano sia scritti della sola penna di Ricoeur, sia discussioni con personalità eminenti, come Enrico Castelli e Jacques Lacan.
La domanda circa l’essenza dell’uomo si trova inizialmente declinata secondo l’ordine di grandezza posto dal fenomeno originario della cultura. La cultura come momento fondativo dell’essere umano. Lo è sia in quanto strumento di difesa contro la natura, sia come particolare e delicato modo di dar forma all’altro, nel momento in cui creazione e rielaborazione di senso tendono a coincidere. Cultura è ciò che risponde, inevitabilmente attraverso la repressione degli istinti, alla gestione simbolica, da parte del soggetto cosciente, delle dinamiche fisico-biologiche che agiscono nell’uomo. Questa trova il suo strumento nel linguaggio (mentre con gli sviluppi successivi alla parola succederà la mera rappresentazione). È l’influenza dello strutturalismo linguistico che gioca la sua presa su Ricoeur, e lo conduce a considerare la questione con il filtro del testo e della parola come elementi primi e irriducibili del senso cosciente di tali forze fisiche. Per come queste si concentrano nell’uomo, configurando desideri e aspettative, azioni e repressioni, ognuna di esse ha in sé il richiamo, rivolto a qualcuno al di fuori da sé, di venir presa in carico, curata e gestita. A tale appello risponde il sistema centrale dato dal Sé, la coscienza.
L’unico espediente che in una prima fase della sua carriera Ricoeur trova adeguato, si è detto essere appunto il linguaggio, il quale si inscrive nelle dinamiche neurologiche, appellandole, e asseconda un dialogo formalizzato e meccanizzato tra i desideri reconditi e il loro centro di gestione cosciente. Il linguaggio è incaricato di dare senso a quanto non ha senso alcuno. Non si tratta di un’imposizione forzata, ma del soccorso dato a una richiesta di senso, di interpretazione. La forza desiderante invoca un riconoscimento dal sistema psichico centrale. Il desiderio è una forza che chiede, invoca di essere presa in carico, ascoltata, «proprio per il suo carattere di indirizzo all’altro» (p. 384). Verso cosa? Verso altro da se stessa. È dunque portatrice di una mancanza costitutiva, e come tale caratterizza il dolore, o quanto meno la condizione bisognosa dell’essere umano.
In tal quadro, l’intero sistema psichico, conscio e inconscio, inizia a funzionare grazie alla moneta corrente costituita dalla parola, e attraverso essa può verificarsi, nei limiti concessi dalle strutture e dalle leggi topiche, una sorta di gestione dell’energia pulsionale da parte dello psichico. In questo assunto trova la sua ragion d’essere la psicoanalisi, che viene intesa, in maniera coerente per tutta la vita dell’autore, come il lavoro tra la forza delle resistenze messe in atto dallo psichico da un lato, e il senso che il soggetto cosciente riesce a dare di se stesso dall’altro, alla luce delle poche conoscenze di sé che può ottenere direttamente. L’altro è sia ciò che va creato sia ciò con cui occorre fare i conti. Non vi è mai univocità nella relazione tra la parola posta e la forza rilevata che domanda ascolto.
Si intuisce dunque come Ricoeur tenti in più modi di attuare una riabilitazione di quel paradigma energetico che tanto ha fatto discutere tra i post-freudiani. L’idea fondamentale è tratta dall’opera freudiana, e occorre rielaborarla. In tal senso vanno le interviste multiple, incluse nell’opera, tra addetti ai lavori di più campi, dalla psichiatria psico-patologica alle neuroscienze, per tentare di ridare spolvero a un paradigma interpretativo che è fruttuoso per certi versi, e pone alcuni problemi ermeneutici per altri. Esso, infatti, non viene ripreso all’interno dello schema più semplice della duplice iscrizione del fenomeno psichico (sia nella mente sia nel corpo), ma come parte integrante e complementare rispetto a quella psichica nello stesso sistema. Si accetta anche la possibilità che si tratti di una metafora, che tuttavia contribuisce a smarcare l’intuizione della nostra archeologia da ogni possibile «idealizzazione» (p. 315 - Questa è l’interpretazione minima che Ricoeur prende in considerazione per concepire l’energetica pulsionale freudiana, che si trova trattata in questa accezione nel testo sulla Tecnica e non-tecnica nell’interpretazione, incluso nella raccolta). La cultura non è dunque un prodotto puro, perché si scopre già da sempre calato nella dinamica reale tra forza e senso. La cultura diviene così la risposta propriamente tecnologica e continua, calata nella carne della neurologia ma declinata diversamente, con cui l’uomo risponde ai bisogni dell’economia energetica. Si tratta di collegare questa ad un sistema simbolico, quanto avviene prima con il linguaggio e in seguito con la rappresentazione.
Non si prenda la presente esposizione come la fotografia teorica di quanto Ricoeur affermi in qualche suo testo. Le questioni si intrecciano e si sciolgono, vengono continuamente riproposte se riconosciute come insoddisfacenti, e approfondite se avvertite come potenzialmente fruttuose. È come se Ricoeur procedesse lungo un sentiero, e si dedicasse ad uno solo dei temi che incontra fino a ritenerlo esausto. Solo a tal punto declina la sua attenzione verso altri sforzi, che approfondiscono e allargano il quadro teorico a cui è pervenuto.
Per quanto concerne lo iato tra «forza e senso», Ricoeur lo disegna e lo pone come punto di opacità del soggetto a se stesso, che viene trattato in diversi saggi. Ne consegue una prese di distanze dall’approccio fenomenologico, da cui pure era partita la sua avventura filosofica, in relazione ai temi della colpa e del perdono. Resosi presto conto dell’insufficienza di una teoria pura della coscienza, Ricoeur non esclude la possibilità di erigere ponti tra fenomenologia e psicoanalisi, mentre viene esclusa in quanto non plausibile ogni teoria idealistica, alla quale tendono ad esempio le Meditazioni Cartesiane di Husserl, colpevoli di non considerare il ruolo specifico dato dall’opacità della coscienza e di non spiegare quindi l’insorgere dell’Altro (p. 368). Ciò nonostante, la fenomenologia rimane sempre un punto di riferimento critico, tendenzialmente oppositivo, con cui confrontarsi per prendere le misure del proprio lavoro (Ciò avviene a partire dal primo dei saggi, su La questione della prova in psicoanalisi, sino al testo dedicato a Kohut). A riprova di ciò, per chi legge il testo di Ricoeur, può risultare affine la critica all’intellettualismo che Merleau-Ponty mosse ai tentativi «intellettualistici» di ridurre la portata ontologica del reale, esterno alla coscienza, a un fattore interno alla coscienza, alla sua relazione con essa. Non è un caso allora che Ricoeur mantenga aperta la finestra del confronto con la tradizione fenomenologica, perché appare evidente una certa somiglianza strutturale nei modi in cui viene trattato il Sé nel rapporto con la forza corporea, che non si riduce a un’emanazione della coscienza.
È così che si trova la possibilità di comunicazione tra i due agenti apparentemente incommensurabili costituiti da «forza e senso», i due veri attori che si trovano in scena nel concerto umano, che si tratti dei sogni, della vita quotidiana o della seduta analitica. Le forze vanno trattate, in sede terapeutica, attraverso il senso che si può loro dare, quindi in forma narrativa. Tale forma non può scindersi dalla caratura emotiva ed empirica che anima le stesse forze, individualizzandole in un contesto storico e concreto. La specificità del tipo di approccio deve allora considerare entrambi i lati della faccenda umana. La forma narrativa, che tende a plasmare le forze che la invocano, si trova al tempo stesso a doversi adattare alla realtà pulsionale, la quale si mostra sempre e soltanto nella sua enigmaticità. Questo senso non si riduce perciò al «segmento intellettuale» costituito dall’analisi razionale del disturbo o della nevrosi, ma indica il punto su cui occorre fare il grosso del lavoro. Un lavoro pratico, fondato su un’intelligenza narrativa che si richiama alla phronesis aristotelica. L’invito è allora indirizzato a un lavoro sporco del soggetto sulle proprie emozioni, a lasciarsi andare all’ermeneutica di sé, per mettere in atto una autentica conversione. Questa è la posta in gioco più alta e decisiva, poiché in questa scommessa, che può essere attuata solo attraverso il dialogo con se stessi e con l’altro da sé, ne va di tutta l’impresa etica, oltre che di quella terapeutica.
Ciò è quanto si trova emblematicamente espresso dal problema della sublimazione, altro grosso tema tipicamente psicoanalitico, e legato al percorso che muove dalla cultura e perviene all’esigenza d ripensare il rapporto tra la gestione delle regole e l’insorgenza del nuovo. La questione si allarga così ad ogni atto umano migliorabile, e quindi si lega direttamente all’antropologia filosofica e al miglioramento di sé. Un esempio è la magistrale trattazione della Monalisa leonardesca, nel saggio luminoso sull’apporto della psicoanalisi all’analisi artistica. In Psicoanalisi e arte, Ricoeur spiega come si tratti di attingere il Nuovo dallo Stesso, attraverso un’ispirazione che al lettore può facilmente richiamare Derrida: nuove forme, un nuovo senso di quanto si crea, senza cadere nel rischio di optare per una genealogia della vita emotiva dell’autore. L’arte non si riduce al percorso analitico che porta alla sublimazione: l’arte è il prodotto libero, in quanto creato, della sublimazione. Ricoeur lo ripete più volte: è l’Altro, inteso come bacino interno di forza e infiniti possibili nuovi sensi da dare al passato in vista del futuro, ciò da cui tenta di attingere l’artista, e ciò a cui è chiamato a rispondere ogni essere umano per tentare di raccontarsi (da leggersi: vivere) sempre meglio. Ciò che viene così prodotto dall’analisi, diventa propriamente la creazione dell’oggetto del desiderio, che si sarebbe voluto trovare tra i propri ricordi, e a cui tende il lavoro dell’immaginazione.
Salvador Dalì - Sogno causato dal volo di un'ape intorno a una melagrana un attimo prima del risveglio (1944)
Innumerevoli sono poi gli spunti che vengono approfonditi di conseguenza. Dalla teoria della civilizzazione freudiana, al nuovo ruolo universalizzabile della psicoanalisi: sia la cultura sia la psicoanalisi agiscono sulla passione dell’uomo, attraverso la gestione «del transfert dai conflitti di forza ai conflitti di senso» (p. 383). Si tratta inoltre dell’autonomia riservata al discorso teologico, proprio grazie ad una presa critica di distanza dall’ateismo di Freud, distinguendo le genesi del fenomeno dal suo fondamento: è il caso del testo L’ateismo della psicoanalisi freudiana. Vi si trova pure un saggio, Il sé secondo la psicoanalisi e secondo la filosofia fenomenologica, che costituisce un unicum, in quanto non ispirato principalmente da Freud, ma dalla Psicologia del Sé di H. Kohut, che viene relazionato a Hegel e a Lévinas nel tentativo di disegnare un discorso sulla dialettica circa la natura della negazione nella dialettica intercalata nell’analisi.
Trattandosi di tutto ciò, il metodo è sempre teso a percorrere a ritroso il cammino fatto dalla lingua e dalla parola per risalire indietro lungo il sentiero costellato su diversi piani di tutti i meccanismi psicologici, fino al gesto creativo. Il non-luogo ove il linguaggio trova il suo insediamento nel desiderio, per nominarlo e per definirlo.
Il percorso ermeneutico conduce da quanto è già psicologico e che ha già un senso, sebbene provvisorio, a ciò che ancora è celato al di sotto del livello della coscienza. Queste due dimensioni rispondono a due sfere dell’umano e del percorso di riconoscimento di se stessi, la prima volta all’esegesi e all’archeologia, la seconda alla teleologia e al suo divenire. Non si possono scindere questi due aspetti, come peraltro Ricoeur stesso aveva fatto nel suo Dell’interpretazione, innalzando il secondo al puro lavoro filosofico. Egli spiega infatti che, come testimonia la terapia analitica, il banco di prova dell’elaborazione meditata del proprio futuro non è esclusiva della filosofia; questa demarche richiede una dinamica spirituale più ampia, che invoca tutto il supporto della psicoanalisi. Sembra in certi punti sentir risuonare il tema del discorso su di sé tipico degli ultimi corsi di Foucault, ma è Ricoeur stesso che si smarca dall’accostamento proposto da Giuseppe Martini nell’ultima intervista presente nel volume, risalente al 2003. Il problema della terapia non può ridursi a una dimensione puramente intellettuale, poiché occorre far sì che il senso del discorso riesca a muovere le montagne poste a protezione dei contenuti e delle dinamiche inconsce. Occorre un paziente e levigato lavoro che consenta all’analizzato, che diventa analizzante in quanto attore, di metter in atto la sua trasformazione di sé, per affrontare le proprie nevrosi o psicosi. Non è una epoché intellettuale, ma un’immersione totale nel vissuto per cercare di raccontarsi altrimenti quanto si riteneva di aver già compreso definitivamente riguardo la storia passata della propria vita. A tal fine, Ricoeur prende prende spesso spunto dalla rilettura di testi più o meno canonici del corpus freudiano, come Analisi terminabile e interminabile, nonché Ripetere, ricordare, rielaborare. Riprendendo la posizione ortodossa freudiana, concorda sul fatto che non vi sia infatti termine possibile all’interpretazione sempre nuova di quanto già si è vissuto, essendo questo costitutivamente aperto alla lettura sotto diverse angolature, e secondo nuovi ritmi o andamenti. Ciò non smetterà mai di fare problema, e Ricoeur continuerà a ripensare i termini di questo problema. Il tema della fine della cura è legato ai motivi presenti nella rielaborazione del vissuto personale, la quale non si definisce mai una volta per tutte.
Ciò ha ampie conseguenze, soprattutto per le conseguenze al di fuori dello stretto campo analitico. L’etica ne viene investita pienamente, e Ricoeur affronta il tema dell’etica e della morale alla luce della psicoanalisi in più saggi.
Il pensiero di Ricoeur muove per decenni alla ricerca di nuove formulazioni di tale operazione ermeneutica. Lungo tutto il percorso di Ricoeur, sono principalmente i tre paradigmi del simbolo, del testo e della traduzione che modificano l’assetto e i metodi di questa sua indagine (Sono ancora la prefezione e la postafazione di Barale e di Martini a riannodare le fila di questi paradigmi). Il fine rimane lo stesso: si richiede che avvenga una sorta di illuminazione retroattiva delle zone non pensate, per riportarle alla luce, intessendole in nuove forme narrative date alla propria persona e al proprio vissuto. Ma il triangolo teorico tra ermeneutica come auto-narrazione, veridicità come chiave dell’accesso al profondo e cambiamento pratico di sé si rielabora ed evolve.
L’accenno alla narrazione e al ruolo costituito dalla traccia non è certo un tema esclusivo degli scritti sulla psicoanalisi, ma si lega con essi inscindibilmente per quella pretesa interminabile del lavoro di rielaborazione del senso e delle dinamiche cui ci si sottopone quasi automaticamente. Si tratta dunque di una lotta contro questi automatismi, e l’unica fonte di innovazione va cercata al di là di essi e delle loro rappresentazioni fantastiche o linguistiche, mirando a ciò che ancora non ha potuto, o non può più venir rappresentato chiaramente alla coscienza. Si tratta di attingere all’intraducibile, che si assume legato alla sorgente del dir il vero su se stessi, per trarre prospettive ed energie nuove per raccontare e vivere altrimenti ciò che rimane chiuso nel segreto della psiche, che è al tempo stesso passato e rivolto al futuro. La veridicità è allora la chiave di tutta la possibilità di mutare forma e abitudini, poiché essa è la capacità che si scopre sempre più in fondo, oltre le barriere, le quali invece tendono a mascherare il vero. E sebbene non si possa pretendere dalla psicoanalisi una morale positiva densa, si può rinvenire in essa, comunque qualcosa di importante. Con le parole di Ricoeur: «un’etica ridotta alla veridicità non è poca cosa: ha in germe nuovi atteggiamenti, frutto della fine della dissimulazione» (p. 190). La veridicità è dunque ciò che apre le porte al cammino etico, ma anche alla conoscenza di sé. Due direzioni che procedono parallele, condizioni l’una dell’altra.
Un mutamento significativo, che può leggersi nel suo graduale verificarsi, è dato dal ruolo dell’immagine, che va acquisendo una centralità sempre maggiore attraverso i vari testi della raccolta, a discapito della mera parola. Ciò implica, per Ricoeur, un ruolo più originario della Vorstellung, della rappresentazione, rispetto alla sua formulazione linguistica. Il senso può trovare un appiglio prima ancora della sua verbalizzazione, e ciò può avvenire attraverso le immagini. Ricoeur, spiegando in vari passaggi i motivi di questo sorpasso della rappresentazione sulla locuzione verbale, sembra prevedere in qualche modo l’immensa fortuna dell’immagine nella società contemporanea. Questo mutamento di registro è indicativo, inoltre, anche perché segna il distacco definitivo dal lacanismo, già iniziato a prodursi dopo la sua partecipazione ad un seminario di Lacan (Distacco motivato nel testo nella Discussione su Du Trieb de Freud et du Désir du psychanalyste). È così che l’immagine si configura come vettore potenziale di senso grazie al quale il soggetto risponde all’appello rivoltogli dalle passioni. Questo è un fattore forse decisivo anche a livello antropologico, oltre che in chiave teoretica e in quella pratica dell’analisi. Infatti, ciò che non è mai possibile fare è allungare, metaforicamente, la mano in direzione delle proprie pulsioni, per catturarle e decidere liberamente cosa farne. Soprattutto, non è possibile farlo solo attraverso il linguaggio. La rappresentazione grafica si scopre più originaria rispetto al segno linguistico, ed è a partire da quella che questo si instaura. In relazione alle pulsioni – che rimangono comunque inevitabilmente inaccessibili in loro stesse, oltre ogni possibilità della traduzione stessa – si tratta comunque sempre o di nominarle o di immaginarle, per scoprire su quali altre metafore si basano, e la scommessa è che sia proprio questa concezione del desiderio corporeo come una chiamata al senso a rendere possibile una sua gestione da parte del sistema centrale costituito dalla coscienza. una gestione di qualcosa che è bisognoso e carente. Molte possibili letture si possono dare di questa gestione della forza, di un non-rapporto, che nel venir preso in carico dal soggetto, assume la caratura di «un processo ontologico fondamentale» (p. 413. È il commento di Giuseppe Martini nella sua chiara Postfazione su la voie longue intrapresa da Ricoeur). Una concezione molto simile è ripresa nella attuale scena psicoanalitica, anche da alcuni lacaniani, come Alenka Zupančič.
Per finire, è proprio questo invito della forza a venir dotata di senso, a cercare un Altro da sé con cui venir relazionata, a porre le basi per la formazione della Psiche, e di conseguenza a consentire di formulare e immaginare una concezione globale dell’uomo. Ricoeur disegna quindi una genealogia di quest’ultima, la quale è al tempo stesso una teleologia della natura, da modificare verso la creazione in forme nuove. Ciò può avere innumerevoli percorsi di sviluppo, poiché innesta tra il linguaggio e le immagini, che costituiscono la base della cultura, e la forza viva e bruta, la possibilità di uno scambio che si mantenga libero e creativo, tale da dover puntare sempre oltre, verso quel dominio né culturale né naturale costituito dal pre-rappresentazionale, dall’illocutorio, da cui trae origine la vita.
Nonostante lo sviluppo di una definizione matematica e rigorosa del continuo attraverso i lavori di Georg Cantor e lo sviluppo teoria degli insiemi a fine ‘800, la continuità del tempo rimane un problema per la filosofia contemporanea. Questo vale soprattutto per quelle teorie che accentuano la natura dinamica del tempo e del cambiamento, come la teoria A del tempo e in particolare il presentismo. Come è possibile pensare il tempo come continuo e perciò come esteso, se esso è, in quanto dinamico, in eterno divenire? Come possiamo concepire la continuità del tempo in contrapposizione alla continuità dello spazio? Attraverso un analisi di diverse concezioni del continuo nella storia della filosofia così, il presente volume intende esplorare diverse risposte a tali domande.
Despite the development of a rigorous mathematical definition of continuity through the development of set theory at the end of the 19th century, the continuity of time still remains a problem for the contemporary philosophy of time. This holds especially for those theories that accentuate the dynamic nature of time and change, such as the A-theory and in particular presentism. For, how can we conceive time as something continuous and extended, if this is dynamic and hence in eternal becoming? How should we understand the dynamical continuity of time in opposition to the static continuity of space? Through an analysis of different conceptions of the continuum in the history of philosophy, the present issue intends to explore different answers to this question.
In questo breve ma densissimo volume, Jacques Lacan, una scienza di fantasmi, (Orthotes 2019) Federico Leoni continua il suo lavoro di originale rilettura delle riflessioni di Jacques Lacan, facendo funzionare il complesso, monumentale e oscuro svolgersi del pensiero dello psicoanalista parigino come pungolo per costruire nuove possibilità di traiettorie teoriche. Infatti, questo libro non vuole essere tanto un testo d’introduzione a Lacan quanto la continua interrogazione e scavatura di alcune delle sue più importanti riflessioni. Un’indicazione sulla lettura del testo ci viene direttamente dall’autore alla fine del libro: “Questo è un libro insistente. Ogni capitolo mostra una stessa cosa, che si presenta ora come Uno, ora come tratto, ora come voce, ora come mana, ora come fantasma, ora come oggetto, ora come gesto, ora come miniatura, ora come ideogramma.” (Leoni 2019, p. 173). Questa “stessa cosa” che Leoni ci mostra in Una Scienza di Fantasmi è l’evento – sempre attivo – dell’insorgenza e dell’inscrizione che produce il continuo processo di soggettivazione. Il libro è, allora, una sorta di indagine sul “supporto” di questo processo, non ritrovato in un fondamento certo e stabile quanto definito e perciò perduto, ma in una materia fluida e inafferrabile che anima la soggettivazione sempre in atto. Cercheremo di riattraversare l’insistenza di questa “stessa cosa” attraverso due vettori in particolare: l’Uno e la perversione.
La struttura di questo libro è permeata da una modalità particolare, che viene in qualche modo rivelato verso la fine del libro: l’obliquità. L’obliquità, o inclinazione, è proprio quella del diwan, del lettino freudiano, residuo della regressione ipnotica (anticamera della psicoanalisi). Questa strana angolatura, caposaldo del metodo clinico psicoanalitico, viene applicata costantemente nel testo sul continuo torcersi del pensiero dei filosofi interpellati. Questo non significa che i filosofi (fra i più presenti troviamo Leibniz, Kant, Cartesio, Bergson e Deleuze) vengano interrogati sui loro fatti privati, ma che le loro teorie, in qualche modo, vengano rese “spurie”, inclinate e condotte verso nuove possibilità. E non è un caso che nell’obliquità e nell’inclinazione ci stia anche la deviazione: infatti ciò che per eccellenza de-via in psicoanalisi è la per-versione, la negativa freudiana della nevrosi, ciò che modifica la rotta e batte strade nuove.
L’Uno, rintracciato e moltiplicato in varie figure (come il mana, il gesto, la voce, l’oggetto), è il protagonista indiscusso di questo libro e ne è anche il ritmo, la scia continua che permette ai molti percorsi anche eterogenei dipanati dall’autore di scandirsi in maniera sempre più coordinata. E, in qualche modo, da un punto di vista letterario, si potrebbe ascrivere questo libro di filosofia al genere del picaresco: assistiamo infatti a un continuo peregrinare avventuroso di questo Uno, dalla psicoanalisi lacaniana ai vari pensieri filosofici indagati, fino all’arte e alla letteratura. Un’altra maniera di mettere a fuoco la centralità di questo Uno ce la suggerisce Leoni stesso attraverso l’altro protagonista di questo libro, il fantasma, paradossalmente più nascosto rispetto alla onnipresenza dell’Uno. L’Uno è il fantasma di questo saggio filosofico, nel senso che è la cornice che anima la sua struttura e attraverso la quale si determina un continuo assemblaggio fra psicoanalisi e filosofia.
L’Uno non è, però, una nozione priva di ambiguità e addirittura strane sorte di pregiudizi sia nell’ambito filosofico che in quello della psicoanalisi lacaniana, come nota Leoni stesso. Sul lato filosofico, nel testo si insiste su come l’Uno sia uno dei marchi dell’elaborazione filosofica sin da Platone e dal platonismo (in Plotino l’Uno trova il suo apice) e non a caso Leoni riprende il Parmenide di Platone che si interroga sull’Uno e il Moltepice (Leoni 2019, p. 103). D’altronde lo stesso Lacan a suo modo notava nel seminario XVI (La logique du fantasme, ancora inedito in italiano) che Platone e Plotino sono fra i pochi filosofi che non cadono nell’errore di sovrapporre Essere e Uno e che riescono a fornire una riflessione specifica su questa dimensione dell’Uno (Leoni 2019, p. 21). Nonostante ciò, secondo Leoni, “dell’Uno non ne è più nulla, nella filosofia, da un certo punto in poi, e salvo diramazioni preziose quanto isolate” (p. 6).
Sul lato psicoanalitico si può dire che il tema dell’Uno emerge in punti diversi dello svolgimento dei seminari lacaniani. All’inizio più che essere un Uno filosofico, l’uno lacaniano è l’eredità dell’einziger Zug (tratto unico o unario) del Progetto di una psicologia freudiano del 1895. Da qui Lacan inizia a elaborare la nozione di tratto unario, che definisce una visione dell’incidenza del significante a partire da un tratto traumatico originario e di “partenza” per l’identificazione e perciò soggettivazione (Seminario IX). Più tardi questo tratto unario assumerà forme differenti nel Seminario XVII subendo una torsione e divenendo S1, il significante padrone cui ci si identifica e da cui origina la catena significante. Solo a partire dal Seminario XIX Lacan (2011) inizia a porre la questione di un Uno filosofico-psicoanalitico, e lo fa confrontandosi soprattutto con Platone e la teoria degli insiemi di Cantor e Frege. Insomma, sembra che si passi da un uno dalla lettera minuscola all’Uno con la maiuscola. Quando Miller (2013) ripercorre le riflessioni di Lacan sull’Essere e l’Uno mette in luce come Lacan passi da una “ontologia” (o ancor meglio una para-ontologia) a una “henologia”, un discorso sull’Uno. Nella lettura milleriana l’Uno di questo Lacan è esemplificabile nella messa a fuoco della dimensione del “corpo che si gode”, narcisisticamente e autisticamente, che diviene sempre più centrale nella costruzione teorica lacaniana. L’immagine dell’Uno che si è andata a definire sempre di più nella psicoanalisi lacaniana è quella concentrata dalla formula milleriana dell’Uno-tutto-solo o Uno-senza-Altro, che rifugge dalla dialettica che si istituisce fra un soggetto e l’Altro, per richiudersi su sé stesso in un godimento sterile e “perverso”. Ma è proprio a partire da un’altra lettura della perversione che Leoni vuole riconsiderare filosoficamente la nozione di Uno psicoanalitico, con l’obiettivo di mostrarne una dimensione nascosta e ricavata proprio dalla elaborazione lacaniana.
Joseph Cornell, Music box, hotel eden (1945)
La perversione, nell’ambito clinico lacaniano, viene spesso indicata come quella struttura per la quale il soggetto si colloca nella posizione di oggetto inscalfibile, scaricando sull’Altro l’angoscia generata in lui dalla divisione inferta nel soggetto dal linguaggio. Il perverso vuole dividere l’Altro, proiettare su di lui l’angoscia della castrazione che non intende sostenere su sé stesso addirittura arrivare ad angosciare Dio, l’Altro per eccellenza (Recalcati, 2016; Lacan, 2004).
Un altro modo di dire la questione della perversione (ed è a partire da questa altra angolazione che parte la riflessione di Leoni), non contraddicendo necessariamente le altre letture ma facendo emergere un lato “positivo-creativo”, è che il soggetto della perversione “comprende” la struttura e il funzionamento del linguaggio e che in qualche modo usi questa “competenza” riversandola sull’Altro. È in questo senso che, nella prospettiva della teologia psicopatologica paolino-lacaniana suggerita da Leoni nel primo capitolo, se il nevrotico vive nel dramma innescato dalla Legge e lo psicotico non riconosce, forclude questa dimensione della Legge, non accedendo completamente al Simbolico, il perverso conosce questa Legge per negarla e superarla, per andare aldilà di essa e collocarsi al posto di Dio (pp. 8-11). Il soggetto perverso si sistemerebbe nella posizione di colui che scrive, letteralmente crea la Legge, addirittura identificandosi con essa. In questa direzione, si può suggerire, a ulteriore chiarimento, l’immagine prototipica data dall’inserto filosofico-politico di Sade (autore caro a Lacan) all’interno della sua Filosofia nel boudoir. Qui viene messo in luce come il perverso conosca lo strumento della Legge e del suo istituirsi e come utilizzi questo sapere per creare e immaginare un nuovo tipo di società iperbolica, sebbene basata su principi razionali, macabramente illuministici e “formalizzati” su un piano giuridico-filosofico.
A partire da questo lato creativo della posizione soggettiva della perversione, Leoni ci interroga sulla possibilità di concettualizzare la filosofia non come un processo paranoico (la diagnosi che Freud aveva, a suo tempo, affibbiato, e con una certa logica, alla filosofia) di iperuniversalizzazione e astrazione, purificazione dei pensieri e dei concetti. Piuttosto l’autore ci spinge a immaginare la filosofia come un processo perverso, la messa in atto di una possibilità di continua scrittura e riscrittura creativa del pensiero e del mondo a partire dall’invenzione filosofica.
C’è qualcosa come un’altra perversione, qualcosa come un altro scatenamento del possibile, che quella costellazione di pensatori cerca di mettere a fuoco. Misurarsi con la morte di Dio significa misurarsi con quest’altra perversione, con quest’altro scatenamento del possibile. Nuovi possibili si rendono possibili, nuovi impossibili si disegnano a margine di quei possibili. […] [Il perverso] Si mette al posto di Dio, e crea i possibili, o dice che al posto di Dio non c’è nient’altro che questa incessante creazione dei possibili. (Leoni 2019 p. 79)
Infatti, si può dire che la scrittura leoniana di questo testo sia in un certo qual modo perversa, producendo deviazioni, scatenamenti e misurandosi con un’esplorazioni dei possibili. Nel quinto capitolo, Leoni si riallaccia, e non a caso, proprio alla figura di Bafometto (p. 85), principe infernale delle metamorfosi e idolo templare protagonista del romanzo del filosofo “perverso” Klossowski. Nel testo klossowskiano, infatti, si esplicherebbe una condizione di continua trasformazione e implicazione di “tratti dentro altri tratti”:
Ogni tratto di divenire sposta ogni altro tratto implicandolo nel proprio percorso, facendo di ogni altro tratto un proprio segno e facendo di sé stesso un segno di ogni altro tratto. Qui leggere è fare, interpretare è fabbricare. Per questo il lettore dei segni di quel cosmo non va immaginato come davanti a un libro, immune ai segni che sta decifrando, ma come un segno esso stesso, e come un fabbricatore esso stesso. (Leoni, 2019 p. 89-90)
Dunque, in questa direzione obliqua e deviata, l’Uno inizia ad apparire non tanto come un Uno che accade, uno spazio definito nello spazio-tempo o nel soggetto, quanto il supporto continuo, la piega nel soggetto che permette che una soggettivazione, continuamente in genesi e in divenire, accada (Leoni 2019 p. 51). Dunque, se questo Uno non è l’Uno-tutto-solo della perversione, che Uno perverso della creazione sarebbe? L’Uno, che qui viene ripreso a partire dal Seminario XIX di Lacan (2011), non è semplicemente un momento atavico, uno stadio larvale della soggettività che precede cronologicamente l’incontro del soggetto con l’Altro. Viene, invece, indicato come quell’evento, o ancora meglio come quel rimasuglio dell’evento (eco de l’Y a d’l’Un lacaniano) che permette strutturalmente l’emergere di una dialettica fra il soggetto dell’Altro. L’Uno non sarebbe, dunque, un soggetto che può mettersi in dialettica con un Altro (e che eventualmente sceglie di non farlo) ma sarebbe l’evento stesso della possibilità di un’emergenza del rapporto fra un soggetto e l’Altro, in altre parole il suo supporto. È come dire che nell’Uno sta già il Due e il molteplice, nel senso che l’Uno permette, ponendosi come fondamento, l’articolarsi fra più elementi, fra più Uni:
Ovvero, che c’è dell’Uno, c’è l’operazione di un Uno molto più profondo o molto più superficiale di così, un Uno che non sta né dalla parte dell’uno né dalla parte dell’altro, ma che distribuisce le parti e opera la divisione, non cessando un istante di non-dividersi al fondo della divisione stessa. Questo Uno è nella stessa posizione dell’Altro, anzi è l’Altro stesso, ma come il suo accadere. L’Uno è l’Altro che accade, o l’Altro è l’Uno ormai accaduto. L’Altro è il regime dei rapporti istituiti, l’Uno è l’istituirsi di quei rapporti. (Leoni 2019 p. 35)
Uno, dunque, che nel suo continuo mettere in atto la divisione senza esserne compromesso (una sorta di fondo psicotico a ogni nevrosi), mostra la natura continuamente metamorfica della soggettivazione, del suo incessante divenire all’interno di una logica sostenuta dallo scandire di questo Uno fondamentale. Dunque, nella lettura di Leoni, se l’Altro è il “regime” dove si sono dati dei legami e delle leggi secondo un ordine simbolico (istituito), l’Uno sarebbe il supporto che permette che questi rapporti si istituiscano senza esso si istituisca mai.
Ancora, per rimanere nel solco del complesso svilupparsi della riflessione lacaniana attraverso i suoi seminari, il tratto unario, l’elemento di identificazione a un tratto dal soggetto che fa partire la sua soggettivazione, è sostenuto dalla dimensione dell’uniano, appunto da quel yadlun (“c’è dell’uno”) inassimilabile e allo stesso tempo motore e supporto della possibilità di far partire la soggettivazione dall’identificazione del tratto unario. Certo, seguendo Lacan non troviamo un Uno tutto-pieno, monolitico e compatto, le sue fondamenta sono instabili. L’Uno lacaniano del Seminario XIX è rappresentabile, infatti, da una sacca vuota con un buco: «Si vous en voulez une figure, je représenterais le fondement du Yad’lun comme un sac. Il ne peut avoir l’Un que dans la figure d’un sac, qui est un sac troué» (Lacan, 2011 p. 147) [1]. Insomma, di questo Uno non si sa mai quanto ce n’è davvero dentro al sacco.
[1] Se volete una figura, io rappresenterei il fondamento di Yadl’un come un sacco. Non si può avere l’Uno se non dentro la figura di un sacco, che è un sacco bucato. (traduzione mia)
Non è un caso che l’Uno di Lacan sia inavvicinabile dal linguaggio ordinato dell’istituirsi del simbolico e che lo psicoanalista francese idei proprio per questo Uno il neologismo yadlun. Questo ci porta nella dimensione della lalangue (che Leoni incrocia nell’indagine su grido e voce nel capitolo otto) di una lingua primitiva rispetto all’intervento regolativo e differenziante del simbolico, capace dunque di mostrare, più che significantizzare, l’ambigua e inafferrabile consistenza di questo Uno.
E se Leoni ci indica un modo per immaginare come un soggetto venga fuori da questo Uno è attraverso l’immagine di un piano che si piega su se stesso, producendo una singolarità in continua trasformazione, la soggettivazione sempre in divenire. È così che il soggetto appare come una monade, piega e unità singolare in cui tutto il mondo si inclina attraverso quel particolarissimo vertice che è il fantasma, meccanismo di cornice-interfaccia della realtà e allo stesso tempo suo assemblaggio. Il fantasma è, infatti, già nella riflessione lacaniana, la dimensione che permette al soggetto di aprire una vasta gamma di possibili incontri con l’oggetto piccolo a. S◊a, il matema del fantasma che Lacan (2013) indica nel Seminario VI, va a significare proprio questo: il punzone ◊ che contiene in sé più simboli (maggiore, minore, et, vel) rappresenta la plurimità delle possibilità di rapporto fra il soggetto diviso (S) del desiderio e l’oggetto causativo del desiderio, l’oggetto piccolo (a), resto di una delle forme dell’Uno lacaniano, Das Ding, la Cosa perduta per sempre dal soggetto nella rimozione originaria.
Jacques Lacan (Roma, 1974)
Certo, ogni singolarità, ogni soggetto non può solo creare a partire dal suo fantasma ed è inevitabilmente posto sotto il giogo della legge della coazione a ripetere. Eppure, partendo da una sorta di teoria della registrazione, Leoni nell’ottavo capitolo mette in luce come anche la più fedele registrazione sia in qualche modo una deformazione, un cambiare strada, un de-viare dall’originale (Leoni 2019 p.129). In questo senso ci viene da suggerire l’associazione a un pensatore a suo modo decisamente perverso, William S. Burroughs, che insisteva sul ruolo dello scrittore come registratore, come supporto apparentemente passivo degli avvenimenti della realtà: “Uno scrittore può scrivere soltanto di una cosa: di quello che c’è davanti ai suoi sensi al momento di scrivere… Sono uno strumento di registrazione… Non presumo di imporre una “storia”, una “trama”, una “continuità”…” (Burroughs 1959 p. 199). Nonostante ciò, la vera operazione di Burroughs non si risolveva qui: lo scrittore per lui non si può limitare a ripetere a pappagallo ciò che della realtà si imprime su di lui ma ricostruisce e trasforma il testo della realtà attraverso tagli, sovrapposizioni e giustapposizioni attraverso cui inserisce nella ripetizione un brulicante continuo differenziarsi dentro al testo stesso attraverso la tecnica del cut-up, in cui il testo viene tagliato e poi ricomposto, e la tecnica del fold-in, dove, ancor più significativamente, il testo viene piegato su se stesso.
Pieghe e monadi, dunque, sono le forme filosofiche attraverso le quali Leoni ci vuole restituire una visione della soggettivazione vista dalla prospettiva di una scienza dei fantasmi, delle singolarità. Quello che si configura in questa scienza dei fantasmi è una posizione etica (Leoni p. 105) per indagare il soggetto nella sua prospettiva singolare a partire da una presa in carico del fantasma da cui lo si guarda, indicazione questa preziosa anche per la clinica. Scienza assolutamente soggettiva da una parte e dall’altra, invece, “unica scienza rigorosa”, con le parole di Husserl, perché consapevole di indagare il fantasma a partire da una cornice che è già a sua volta un fantasma:
Che cosa sa, infatti, la scienza del fantasma? Che il fantasma è tanto il fantasma “verso cui” essa guarda per scrivere e descrivere, come suo oggetto di studio; tanto il fantasma “da cui” essa scrive e grazie a cui essa descrive ciò che descrive; quanto il fantasma “in cui” essa scrive, cioè lo spazio e l’esigenza e lo strumentario e la ragnatela di strade resesi possibili, entro cui la sua scrittura, la sua descrizione si muove.” (Leoni 2019 p. 105)
Dunque, la scienza del fantasma auspicata da Leoni sarebbe una scienza capace di mettere in luce la cornice verso cui si tende nella scrittura, la cornice “oggetto di studio”, ma anche la cornice da cui si scrive (in qualche modo, un riconoscimento del fantasma dell’autore) ma soprattutto “ragnatela di strade resesi possibili”, l’esplicazione effettiva “in cui” questa scienza scrive e si dipana. È in questo senso che il testo propone non solo una questione “epistemologica” ma soprattutto una dimensione etica, di riconoscimento e di accoglimento del fantasma singolare all’interno dell’elaborazione del pensiero, che ne è la cornice stessa ma che costituisce anche il metodo di assemblaggio degli oggetti di studio, modificandoli. A partire dalla definizione di questa scienza, Leoni negli ultimi capitoli del libro ci permette di vedere almeno due vertici a partire dai quali si può fare una scienza di fantasmi. Da una parte troviamo il filosofo “perverso”, che dopo Nietzsche è costretto a confrontarsi con la morte di Dio e alle nuove possibilità che gli sono date da scriversi. In qualche modo il filosofo perverso è un filosofo della contingenza lacaniana, colui che fa passare “ciò che non cessa di non scriversi” al “ciò che cessa di non scriversi”. Dall’altra, invece, in una posizione differente da quella del filosofo troviamo lo psicoanalista, che può manifestarsi attraverso più forme di singolarità: cadavere, santo (saint homme) e addirittura idiota. A differenza del filosofo, che fa emergere nuovi possibili attraverso assemblaggi fantasmatici, nella posizione di colui che “crea”, lo psicoanalista si pone in una posizione di annullamento, di “cadaverizzazione”, per permettere all’analizzante di incontrare e attraversare il suo proprio fantasma singolare.
Una scienza di fantasmi, per concludere, è un libro che, fedele alla scena carrolliana descritta da Deleuze in Logica del senso, ci mostra uno scorrere obliquo e continuo di Uni, oggetti, figure, disegnando una ragnatela di associazioni attraverso le quali si inizia a vedere un fantasma emergente, una cornice ritmica. Questo testo vuole già essere, dunque, una messa alla prova di una possibile scienza dei fantasmi che animano il soggetto, lasciando libero di emergere, unico e singolare, un fantasma che anima la complessa struttura del testo:
Ciò che essa sa, e insieme ciò che essa fa, è conoscere e perciò spostare l’oggetto. Non si può conoscere il fantasma senza spostarlo. In parte perché lui stesso è mobile, metamorfico, consegnato a una perenne fibrillazione dei disparati che lo compongono. In parte perché noi stessi siamo mobili, noi che lo studiamo, noi con la nostra scienza del fantasma, la scienza stessa del fantasma che non è mai di fronte al fantasma ma è sempre spinta dal fantasma e immersa nel fantasma, dunque che è fantasma a tutti gli effetti. Se così è, la scienza del fantasma è un’arte che accompagna. (Leoni 2019 p. 105)
di Lorenzo Curti
Bibliografia:
Burroughs, W. S. (1959), Pasto nudo, tr. it. F. Cavagnoli, Adelphi, Milano 2012
Lacan, J. (2004) Seminario X. L’angoscia, tr. it. A Di Ciaccia e Adele Succetti, Einaudi, Torino 2007
Lacan, J. Séminaire XIX …ou Pire, Seuil, Paris, 2011
Lacan, J. (2013) Seminario VI. Il desiderio e la sua interpretazione, tr. it. A. Di Ciaccia e Lieselotte Longato, Einaudi, Torino 2016
Miller, J. A. L’Essere e l’Uno. La Psicoanalisi, 53/54, Astrolabio, 2013, pp. 177-227
Leoni, F., Jacques Lacan, una scienza di fantasmi, Orthotes, Napoli-Salerno, 2013
Recalcati, M., Jacques Lacan. La clinica psicoanalitica: struttura e soggetto. Raffaello Cortina, Milano, 2016
Il libro di Manlio Iofrida, Per un paradigma del corpo: una rifondazione filosofica dell’ecologia, uscito per Quodlibet alla fine del 2019, si presenta come uno snodo ricco e importante per un approccio teoretico, etico e critico all’attuale questione ecologica. In questo senso, il libro s’inserisce nel cuore stesso del dibattito – non solo italiano – incrociando tematiche come il corpo, il concetto di Natura, lo statuto filosofico del vivente e della sua relazione con la tecnica (a questi temi si aggiungano la critica della cultura, la storia dell’arte, il dialogo tra filosofia e altri campi del sapere, i rapporti tra la cultura Europea e i suoi grandi altri ecc.).
Il libro assume quella che potremmo definire un’ottica cosmopolitica e si presenta come il crocevia d’intuizioni, idee e riflessioni che animano il gruppo di ricerca Officine Filosofiche(il gruppo gestisce anche un’omonima collana editoriale), fondato e diretto dallo stesso Iofrida assieme a Ubaldo Fadini. Molti argomenti sviluppati nel libro intrecciano le principali linee di lavoro del gruppo, contribuendo così a fare dell’ecologia filosofica uno dei campi di ricerca più innovativi e stimolanti dell’attuale panorama filosofico italiano.
Si può dunque comprendere, sin da queste prime considerazioni, che riportare in maniera analitica o anche solo accidentale tutti gli impliciti teorici – nonché la profonda erudizione dell’autore che conferisce all’ecologia un ampio spessore culturale – è compito improbo per una recensione e, probabilmente, anche inutile. Quel che ci proponiamo di fare in questa sede è di attraversare il testo in maniera “libera” tentando di esplicitare alcuni aspetti che sembrano restituire, nella parzialità della nostra lettura, alcune delle intenzioni di base dell’autore.
Non si può non partire dalla centralità teorica del tema del corpo che, non nuova nel lavoro di Iofrida, si richiama esplicitamente all’opera complessiva di Merleau-Ponty e all’attualità del suo concetto di Natura (pp. 19-31) «come limite che la cultura non può sorpassare» (p. 30). Sotto tale aspetto, questo studio si riallaccia (pp. 9-16), pur con oltre dieci anni di distanza, al precedente lavoro dell’autore Per una storia della filosofia francese contemporanea: da Jacques Derrida a Maurice Merleau-Ponty. Dire che questo sia un libro “merleau-pontyano” è senza dubbio corretto e tuttavia rischierebbe di schiacciarne la profondità su un “arroccamento” teorico, una semplice riproposizione ermeneutica. Devono essere menzionati, infatti, almeno altri due autori classici presenti come linee di basso nell’architettura del testo: Schelling ritorna diffusamente nel testo, utilizzato in chiave anti fichtiana-attualista (pp. 38, 141) o hegeliano-sintetico (anche se Hegel resta comunque un autore importante nell’impostazione ecologica iofridiana, pp. 138-140); ma è soprattutto il Kant della Critica della facoltà di giudizio a fornire un’impalcatura teorica di primo piano (vanno, poi, almeno ricordati i nomi di Goethe, Schiller e Adorno, per completare la batteria tedesca di riferimento, cfr. pp. 47-52). Ci sia concesso dunque di entrare nel vivo del libro approcciandolo alla lontana, così da poter restituire, se non altro, il profumo della complessa architettonica di Iofrida.
In siffatta architettonica, l’ecologia non si presenta tanto, né solo, come una disciplina scientifica (pp. 45-47) ma, potremmo dire, si tratta di una questione di gusto, di istituire un paradigma del gustoecologico. Come si può intuire, molto lessico di Iofrida è intriso di una semantica post-kantiana. Il gusto, permettendoci l’ardire di parafrasare Kant, è quella strana facoltà di giudicare secondo sentimento (leggendo in questa chiave il giudizio riflettente).
Sappiamo anche che il sentimento è un vero e proprio mondo intermedio che si situa tra la facoltà di conoscere e quella di desiderare, ossia tra l’intelletto e la ragione, tra la “necessità naturale” e la “libertà umana” (che Iofrida definisce prometeica, cfr. pp. 59-61). Dire, dunque, che l’ecologia è questione di gusto significa affermare che essa si situa nel mezzo di un’ardita relazione tra la Natura e la Cultura – dualismo principale di molte riflessioni ecologiche. Ma, altresì, ci dà delle informazioni sugli aspetti “filosofici” dell’ecologia: il gusto, sappiamo dal §40 sul senso comune della Terza Critica, va educato. L’ecologia, secondo Iofrida, non consiste né nella descrizione di uno stato di cose oggettive (ci sia concessa la banalizzazione: filosoficamente, l’ecologia non può essere ridotta a una disciplina naturalistica) né, occorre fare attenzione, nella prescrizione di massime della ragione (che si limiterebbe a un greenwashing della Ragion Pura Pratica): l’ecologia è filosoficamente fondata nella misura in cui è capace di una vera e propria educazione sentimentale. Così, l’ecologia filosofica non è né scientifica (occorre «declinare l’ecologia come critica anti-intellettualista», p. 54) né morale («non si pone come sussunzione dominante», p. 119), ma è intimamente etica (l’ecologia, ci ricorda l’autore, è un pensiero della finitezza, pp. 52-56). È a partire da una esigenza etica (e, con Merleau-Ponty, connesso a un certo spinozismo schellinghiano, da un’esigenza anche ontologica) che va letta la proposta di un paradigma del corpo. Non si tratta, così, di fondare un principio di rappresentazione, o massime pratiche, ma di sviluppare delle ipotesi etiche, per dir così, da un punto di vista pragmatico.
Maurice Merleau-Ponty
Fatta questa premessa, possiamo addentrarci in alcuni aspetti concettuali. Uno dei concetti chiave per leggere la proposta iofridiana è quello di inerenza (pp. 29-31). Di matrice fenomenologica, l’inerenza è un fenomeno corporeo e rimanda a una «ontologia relazionale» (p. 41) che si pone in antitesi tanto con le ontologie costruttiviste del pensiero debole (p. 43) quanto con le ontologie realiste di certi modi di intendere il materialismo (pp. 60-61). L’inerenza è il concetto cardine di un’ecologia che si propone di lavorare in chiave ontologica sulla «nostra relazione coi milieux» (p. 41) – i riferimenti sono alla «geografia […] fenomenologica» (p. 39) di A. Berque: la relazione degli “individui” con gli ambienti (o paesaggi) «non è quella della sostanza pensante con la sostanza estesa; […] piuttosto c’è uno sconfinamento, un’interpenetrazione» (p. 41). L’inerenza ci offre una cifra filosofica importante: essa è la relazione chiasmatica – è evidente nel lessico iofridiano l’influenza di Merleau-Ponty – del vivente con i suoi dintorni, le sue Umwelten, il co-appartenersi di individuo e ambiente. Intreccio, potremmo dire, della parte con il tutto.
In quanto etica ontologicamente orientata, l’ecologia si interessa non alle partizioni sostanziali – che comportano, sul piano etico, la costruzione di un’impalcatura morale – bensì agli assunti relazionali (ci sia concessa un’assonanza col lavoro di Giuseppe Semerari 2009) che solo centrando l’analisi filosofica sulle potenze corporee possono essere messi in risalto. Questa inerenza, che è una mediazione senza soggetto – e che anzi produce soggettività – non è pensabile come Aufhebung, bensì come un’unità senza concetto (p. 115) attuata per il tramite del corpo «e la sua apprensione orizzontale del mondo» (p. 25). L’esigenza di un paradigma del corpo è dunque insito nella tematica stessa della relazione ecologica, così che, per Iofrida, ogni ecologia, sul piano etico, non può non passare – anche implicitamente, come traspare mediante la critica alla smaterializzazione postmoderna (pp. 67-68) – per il tramite di un paradigma del corpo.
Il problema del corpo è però l’altra faccia di un ulteriore assunto di Iofrida, ovvero l’idea complementare che la Natura non sia un oggetto (p. 45) e che il vivente non sia meccanizzabile (p. 30). Il rischio di interpretare in chiave puramente valoriale, facendo di tali assunti delle massime della Ragione, è grosso. Occorre dunque tentare di essere chiari, ancora una volta, sul lessico dell’autore. Siamo pur sempre, lo si è detto, sul piano del giudizio riflettente. I riferimenti sono ancora all’opera di Merleau-Ponty e, tramite lui, Schelling e Kant. In ultima istanza, l’orizzonte concettuale ci appare ancora di matrice kantiana. L’idea che il vivente non sia meccanizzabile vuol dire che lo specifico fenomeno di inerenza dell’umano agli altri viventi (che compongono i suoi dintorni) non è un rapporto conoscitivo, o intellettuale, né tuttavia un rapporto pratico. Non è conoscitivo perché, in quanto soggetti empirici, non tutti gli umani sono “scienziati”, e questo non pone particolari problemi. Ma non è neppure un rapporto pratico, perché non è possibile estrapolare una massima categorica da questa idea: non tutti i viventi possono agire conformemente a scopi (tralasciamo i motivi di tale impossibilità). L’idea che il vivente non sia meccanizzabile non è un enunciato che riguardi il regno della libertà. Concessa la formula, quella tra viventi non è una relazione tra esseri (radicalmente) liberi, situandosi, invece, nel regno intermedio tra la necessità dell’oggetto naturale e la libertà radicale del soggetto trascendentale (Merleau-Ponty 1996, 312-313).
Il problema del vivente – che possiamo anche chiamare, se ci è concesso, il problema della finalità senza scopo – è un problema sentimentale e affettivo. È ancora un paradigma del corpo che permette di comprenderlo: un corpo è il medium non solo, e non tanto, della natura e della libertà, bensì della inerenza al mondo e agli altri viventi. È mediante il corpo – un’utilità non strumentale – che si è costitutivamente aperti ad altre modalità dell’esistere e del vivere. Una mediazione senza soggetto che si fa nel mezzo delle relazioni inter-individuali: l’inerenza come vero e proprio fenomeno trans-individuale, contatti molteplici e variegati tra corporeità (cfr. Merleau-Ponty 1996, 254-261). Appare, in queste considerazioni, un altro dei concetti cardine della proposta di Iofrida, concetto che crea un ponte col suo lavoro precedente: si tratta della nozione di libertà strutturale. Una concezione strutturale – o ecologica – della libertà comporta che essa non sia la radicale assenza di limiti, bensì che trovi la propria potenza esistenziale ed espressiva nella composizione delle relazioni, nella ricchezza e varietà degli affetti e degli incontri corporei.
Pino Pascali, Balena, 1965-66
È una libertà che non è competenza di una filosofia della prassi, ma di un’etica, come accennato, dal punto di vista pragmatico. Un’ecologia della libertà richiede pratica e attenzione [Aufmerksamkeit] (p. 146), un’educazione sentimentale finalizzata a un uso ragionevole degli affetti. Insomma, la libertà, in una prospettiva ecologicamente orientata, presuppone una capacità tecnica. È in quest’ottica che leggiamo, infatti, la proposta di Iofrida di una tecnica ecologica (pp. 84-90). Si tratta di una formula ambigua, ma le ambiguità spariscono se non usciamo dalla semantica nella quale ci stiamo muovendo. Un tale epiteto, infatti, è lontano da un greenwashing delle attuali configurazioni tecnico-tecnologiche del tardo capitalismo: insomma, non si prospetta la necessità di una Green Economy. Si tratta, invece, di una concezione ecologica della tecnica che tenga conto del portato affettivo – cioè esistenziale e vitale – della tecnica.
In questo senso, una tecnica ecologica è di segno contrario rispetto alle attuali configurazioni produttive (si tratta di uscire dal dualismo manicheo «produzione o libertà», p. 60; andare al di là dell’alleanza demoniaca di capitalismo e schizofrenia, cfr. Pignarre & Stengers 2016) configurandosi invece come rivolta alla convivialità – tra umani e tra umani e non umani – incastonata nella complessità variegata degli ambienti di vita (fondamentale in quest’ottica il capitolo dedicato alla teoria dei sistemi, pp. 121-140). È ancora una semantica del giudizio: la tecnica rimanda all’arte, cioè una tecnica ecologica diventa una vera e propria arte dello stare in vita da parte dei viventi – ecologicamente, vi è tecnica ovunque vi sia fragilità e ostinazione della vita: occorre «concepire l’arte come un nuovo modo di rapportarsi al mondo […] poiché, già in se stessa, tale prassi priva di finalità è un’altra e superiore modalità di azione del nostro corpo vivente rispetto a quella meramente utilitaria, essa può essere punto di partenza di una prassi concreta […] e punto di arrivo di una costruzione dal basso, partecipata, intersoggettiva» (p. 152).
Senza dubbio si tratta di una concezione ottimistica della tecnica: nessuna caduta da un eden ormai perduto, né solo nichilistica distruzione della vita da accettare passivamente come un destino. Si tratta, invece, di un’arte pericolosa, quella dello stare in vita, proprio perché la vita – un vivente – è insieme ostinazione e fragilità: l’educazione sentimentale serve a saper «reggere delle crisi, saper gestire il rischio […], anche se rischio significa appunto che la crisi non è mai del tutto esclusa e che il disordine può avere sempre il sopravvento» (p. 123). È una concezione ecologica e ottimistica della tecnica, sì, ma non è il frutto di una anima bella (ecco comparire una certa ispirazione hegeliana). Rifacendosi al lavoro di Kurt Goldstein (2016), neurologo tedesco del secolo scorso, tra le fonti di Merleau-Ponty, Iofrida ci ricorda che «un organismo vivente, e l’uomo in particolare, è teso ad accrescere continuamente la propria complessità […]; esso cerca dunque la relazione e anche il conflitto, in un mondo in cui l’ordine è sempre un momento precario all’interno di una lotta di forze eterogenee che genera un perenne dinamismo» (p. 127).
Educazione sentimentale, teoria degli affetti e concezione tecnica del vivente: i tre capisaldi che istituiscono la fondazione filosofica dell’ecologia proposta attraverso un paradigma del corpo. Tale paradigma fa sì che un’ecologia filosofica si trovi a proprio agio non nel contemplare un’astratta e fondativa Natura Naturante, un’origine ormai perduta o distrutta dalla cattiveria dell’Uomo, bensì nel concepire modi possibili del vivere in comune, forme collettive di esistenza con i più ampi margini di gioco transindividuali, vincoli che non obbligano capaci di aumentare le potenze esistenziali e le capacità creative dei viventi umani e non (è questo il principale rimando al concetto di natura di Merleau-Ponty). Si tratta di una concezione minoritaria della storia, del divenire minoritario dell’umano, dei suoi affetti, delle sue ibridazioni, delle sue contaminazioni (cfr. Deleuze & Guattari 2015, 349-357). Una storia minore che non ha la Natura come Grande Altro, bensì che è caratterizzata dalla sua inerenza all’elemento naturale, alla sua imprevedibilità, alle sue complessità ontologiche (ma anche epistemologiche, dato che, ecologicamente, l’ontologia è inscindibile da un’epistemologia): si tratta di una storia universale della contingenza (Deleuze & Guattari 2002, 86).
L’ecologia filosofica proposta da un paradigma del corpo è così una filosofia artistica, un’arte, pericolosa e sublime a un tempo, del vivere insieme, del condividere la Terra con altri viventi (l’Autore parla di «un materialismo della Terra», p. 44). Un’arte, per chiudere restituendo il ruolo di Michel Foucault nel nuovo paradigma ecologico (pp. 205-211), che sia una «estetizzazione della vita come progetto condiviso di una comunità di eguali che dialogano e, esercitando la socievolezza, istituiscono con il mondo e gli altri una relazione che non è quella della ragione strumentale, brutalmente utilitaria, ma che può a tutti gli effetti definirsi ecologica: non è il bello quella dimensione sempre mobile di limite in cui ci apriamo al mondo e agli altri non in funzione di un dominio, ma per essere passivi quanto attivi, copresenti in una relazione con l’alterità che può definirsi col termine, anch’esso fenomenologico, di attenzione?» (p. 211).
Bibliografia minima
Deleuze, G. & Guattari, F. (2002; ed or. 1991). Che cos’è la filosofia?. Torino: Einaudi.
Deleuze, G. & Guattari, F. (2015; ed. or. 1980). Mille piani. Capitalismo e schizofrenia 2. Tr. it. G. Passerone. Roma: Castelvecchi.
Goldstein, K. (2016; ed. or. 1934). L’organismo. Un approccio olistico alla biologia derivato dai dati patologici nell’uomo. Tr. it. L. Corsi. Roma: Fioriti.
Merleau-Ponty, M. (1996; ed. or. 1995). La natura. A cura di M. Carbone. Milano: Cortina.
Pignarre, P. & Stengers, I. (2016; ed. or. 2005). Stregoneria capitalista. Pratiche di uscita dal sortilegio. Tr. it. di S. Consigliere e A. Solerio. Milano: IPOC.
Semerari, G. (2009; ed. or. 1961). La filosofia come relazione. Milano: Guerini.
Significativamente inserito all’interno di una collana intitolata “Filosofia e vita quotidiana”, il libro di Marco Menin (Il fascino dell'emozione, Il Mulino, Bologna 2019) aspira a sottoporre a trattazione filosofica uno degli elementi più quotidiani e onnipervasivi della nostra esperienza umana, ossia le emozioni.
Oggetto di studio proteiforme, resistente ad ogni classificazione univoca, le emozioni sono infatti presenti in quasi ogni ambito della nostra vita, risultando quindi dotate di un ambiguo doppio status filosofico: se da una parte esse sono state fin dall’antichità oggetto di interesse e di teorizzazione, da un’altra la loro natura misteriosa e magmatica ha fatto in modo che solo recentemente sia stato ad esse assegnato un ruolo di spicco nel quadro generale della vita umana.
Senz’altro utile è per questo l’approccio adottato da Menin, storico della filosofia per formazione, che può quindi tenere fisso lo sguardo sull’evoluzione diacronica del pensiero pur senza disdegnare le discussioni contemporanee sul tema.
Interessante è la scelta di un approccio multidisciplinare, con l’apporto di diverse ricerche scientifiche (psicologiche in primis ma anche biologiche, neuroscientifiche, antropologiche e sociologiche), che non serve solo a “dare corpo” a teorie filosofiche antiche, ma anche a stimolare riflessioni filosofiche attuali e contemporanee.
Il risultato è senz’altro quello di ben comunicare al lettore la natura sfaccettata e complessa dell’emozione, ma anche di mostrare come in tempi recenti il suo funzionamento e il suo ruolo siano stati sempre più oggetto di interesse e di ricerca.
Tale approccio multidisciplinare accompagna il lettore in ognuno dei capitoli del libro, ciascuno programmaticamente dedicato ad una tematica di interesse filosofico.
Il primo capitolo verte soprattutto sull’analisi diacronica dell’emergere della riflessione filosofica sulle emozioni dall’antichità fino all’epoca contemporanea.
Saggiamente accantonate le pretese definitorie dell’emozione, così come le distinzioni tra emozioni e sentimenti, l’autore inizia la trattazione proponendo una panoramica delle principali teorie storicamente succedutesi nel pensiero filosofico occidentale a riguardo della natura dell’emozione.
Menin distingue qui tre macro-teorie ideali, filoni di ricerca non omogenei al loro interno ma senz’altro testimoni di alcuni atteggiamenti radicati nella storia del pensiero, che l’autore chiama teoria dell’emozione come valutazione, teoria dell’emozione come percezione e teoria dell’emozione come motivazione.
La teoria valutativa dell’emozione assimila la risposta emotiva al risultato di un’inferenza valutativa: la persona dà un’interpretazione di una situazione e da tale valutazione scaturisce la risposta emotiva.
Pur nella sua apparente semplicità, tale teoria ha prodotto nell’antichità le più diverse valutazioni del fenomeno emotivo: dalla condanna delle passioni in Platone e negli stoici fino al più moderato e neutro giudizio di Aristotele, degli epicurei e di alcuni filosofi medievali, soprattutto tomisti.
A tale tradizione si affianca in epoca moderna una trattazione filosofica più aperta al ruolo biologico del corpo nel determinare emozioni e sentimenti: la feeling tradition o teoria dell’emozione come percezione, iniziata da Cartesio e proseguita con James e Damasio, vede nell’emozione una risposta anatomica ad uno stimolo, assimilandola dunque ad una semplice percezione organica.
Se da un lato la teoria valutativa sembrava assegnare spesso valori morali alle emozioni, la teoria percettiva può sottrarre l’emotività all’etica ed alla teologia per metterla in mano alla fisiologia ed alla psicologia sperimentale, fino alle moderne neuroscienze.
Ultima in ordine cronologico ad apparire sulla scena filosofica è la teoria dell’emozione come valutazione, di ascendenza darwiniana, che vede nell’emozione soprattutto una reazione di adattamento all’ambiente.
Dal pionieristico studio di Darwin sulle emozioni nell’uomo e negli animali fino alla riflessione deweyana sul concetto di arco riflesso, gli esponenti di questa tradizione vede nell’emozione un approccio all’ambiente circostante informato da processi di adattamento, esplorazione, valutazione, prova e risposta.
Il ruolo cognitivo dell’emozione è dunque decisamente rivalutato rispetto alla tradizione percettiva, pur inserendo alcune osservazioni della teoria valutativa in un più moderno framework darwinista.
In conclusione, questo primo capitolo si rivela prezioso in virtù della sua efficace ripartizione delle diverse teorie in categorie “aperte”, non stringenti ma euristicamente efficaci, capaci di dare un ordine a duemila anni di riflessione senza forzare le peculiarità dei singoli autori.
Mentre il primo capitolo è soprattutto un’opera di sistematizzazione all’interno della storia della filosofia, il secondo capitolo si presenta invece come un serrato dialogo tra filosofia, antropologia, psicologia e sociologia.
D’altronde, trattando di un tema quale la diversità culturale delle emozioni, il riferimento è obbligato.
Spaziando dalla disputa settecentesca sulla naturalezza del pudore, in cui all’interesse etnografico si mescolavano polemiche anticlericali o apologie del cristianesimo, fino alla decennale querelle psicologico-antropologica sull’universalismo delle emozioni, negato dai costruzionisti seguaci di Margaret Mead e fortemente difeso da Paul Ekman.
Se il confronto tra universalismo e costruzionismo sembra essere soprattutto dominato da altalenanti fortune storiche, l’autore mostra chiaramente come ben prima della psicologia moderna già autori come Spinoza e Rousseau avessero prodotto teorie dinamiche dell’emozione, mettendola in relazione, nel caso di quest’ultimo, con il contesto sociale.
Non sorprende dunque che proprio Rousseau sia il trait d’union tra filosofia moderna e scienze sociali contemporanee: dalla psicologia sociale di George Herbert Mead, alla sociologia durkheimiana fino all’antropologia culturale di Ruth Benedict, l’emozione è stata pervasivamente contestualizzata in una teoria delle relazioni sociali, mostrando come essa sia al contempo collante sociale e prodotto dell’interazione stessa.
Stranamente però l’autore non fa riferimento alla ricca tradizione di sociologia delle emozioni, che si dipana dall’opera di Arlie Hochschild e Peggy Thoits fino ai più recenti contributi.
Tale filone di ricerca, attivo anche in Italia grazie all’opera di Gabriella Turnaturi e di Massimo Cerulo, arricchirebbe senz’altro la panoramica sull’emozione di notevoli valide prospettive.
Una trattazione interdisciplinare, esplicitamente rivolta con interesse alla sociologia, avrebbe infatti molto da guadagnare dall’inserimento dei risultati di queste ricerche nel suo quadro teorico.
Tale confronto sarebbe ancora più interessante in vista della trattazione che Menin dedica all’opera di William Reddy, originale proponente di una teoria storico-sociale dell’espressione emotiva, capace di superare le dicotomie tra universalismo e costruzionismo indagando le specifiche modalità di espressione (emotives) che comunicano sentimenti privati in una sfera pubblica.
Molto pregnante è la trattazione che l’autore riserva alla relazione tra genere e dimensione emotiva, ricorrendo ad un autore a cui ha già dedicato numerose riflessioni, ovvero Rousseau.
Nei romanzi epistolari del filosofo ginevrino, il pianto emotivo viene slegato dalla tradizionale associazione con la femminilità, per divenire emblema e simbolo di una sensibilità nuova e capace di andare oltre alle barriere di genere.
Ammirevolmente coeso al suo interno, pur nel fiorire di prospettive e tematiche affrontate, il secondo capitolo introduce molti dibattiti e teorie che verranno in seguito riproposti, mostrando, come detto, la capacità dell’autore di inserire approcci diversi all’interno di un discorso uniforme e coerente.
Tema principale del terzo capitolo è la relazione tra emozioni e linguaggio: l’atto di esprimere emozioni in forma linguistica suscita infatti molte riflessioni, innanzitutto concernenti il divario che intercorre tra la concreta esperienza empirica dell’emozione e le ridotte possibilità espressive che la lingua mette a disposizione.
L’inevitabile “appiattimento” semantico della ricchezza emotiva in una descrizione comprensibile linguisticamente ma impoverita è uno degli argomenti in favore di chi nega che le emozioni possano essere pienamente tradotte in parole.
Ulteriore sviluppo di questa teoria lo si può riscontrare guardando ai vocabolari emotivi delle diverse culture, che presentano una pletora di vocaboli intraducibili usati per esprimere situazioni affettive ed emotive.
D’altronde, le emozioni sembrano avere radici pre-linguistiche molto più profonde delle nostre abilità verbali, come evidenziato da Jaak Pankseep e dal campo di ricerca da lui iniziato, la neuroscienza affettiva.
Se dunque la cultura di appartenenza gioca un ruolo chiave nello strutturare le espressioni emotive, l’universalismo emotivo sembra quantomeno avvalersi di un parziale vantaggio rispetto a teorie del tutto culturaliste: la discrepanza tra sentire ed esprimere il sentimento mette continuamente in gioco le nostre risorse linguistiche, trovandole spesso bisognose di nuovi mezzi espressivi o addirittura carenti di risorse verbali, ma nonostante questo le emozioni persistono anche in circostanze in cui il ruolo del linguaggio è minimo o assente.
La natura pre-linguistica delle emozioni è di fondamentale rilevanza quando si indaga l’emotività di chi difetta proprio della parola: ammirevolmente, Menin inserisce nel capitolo una trattazione sull’emotività animale, a lungo negata in passato e ora importante fattore nel garantire l’estensione di diritti fondamentali anche a molti animali.
Tornando rapidamente alla relazione tra linguaggio ed emozioni dopo il breve excursus sull’emotività animale, abbiamo qui una panoramica sulla funzione persuasiva del linguaggio: se il capitolo si è aperto osservando come l’emozione fatichi ad essere efficacemente contenuta dal linguaggio, ora essa è obiettivo, scopo dell’atto linguistico.
Come si sa fin dall’antichità, la retorica non può prescindere dall’emozione suscitata nell’ascoltatore.
Questa lezione antica, che annovera il movere ed il delectare tra gli obiettivi del discorso retorico, è stata ben recepita dalla pubblicità, che ha fatto di essa ampio uso nello sfruttare il sentimento innescato nello spettatore a fini commerciali.
Se dunque è possibile innescare reazioni emotive nell’interlocutore tramite processi linguistici, è tuttavia anche possibile che tale procedura conduca ad esiti spiacevoli.
Il caso del fraintendimento emotivo, in cui l’interpretazione non già dell’emozione altrui, chiara e manifesta, ma della causa di essa, porta a incidenti comunicativi di diversa portata, culminanti nel tragico caso dell’Otello shakespeariano, è paradigmatico della fragilità delle interazioni emotive.
All’interno della moderna psicologia, proprio la questione del fraintendimento è stata affrontata da Paul Ekman, già citato nel capitolo precedente, che ha elaborato un sistema di riconoscimento di microespressioni facciali capace di individuare le finzioni emotive.
Tuttavia, ci tiene a precisare Menin, non tutte le azioni simulate sono false: molte possono essere finte ma non falsate a scopo di dolo.
Emblematico è il caso dell’attore, che si adopera per comunicare emozioni allo spettatore pur non essendo realmente nello stato d’animo rappresentato.
Allo stesso modo, anche i personaggi fittizi delle opere d’arte, che spesso ci commuovono e ci emozionano, sono finti ma non per questo falsi o meno apprezzati.
In conclusione, questo capitolo affronta molte questioni diverse, spaziando dall’antropologia linguistica alla questione animale, dalla retorica persuasiva alla psicologia e alla riflessione sull’arte teatrale di Diderot.
Il risultato si presta a giudizi ambivalenti: personalmente ho apprezzato la varietà e la ricchezza degli stimoli, a mio avviso non caotici, ma comprendo che effettivamente essi possano risultare troppo eterogenei in un capitolo così breve e coinciso.
L’intera riflessione sul tema dell’emozione animale ben si inserirebbe in una cornice antropologico-filosofica, come quelle tracciate da Gehlen e Plessner.
Ovviamente, non è possibile sviluppare tali tematiche in un paragrafo, e l’autore fa bene a trattare il tema come una interessante appendice al più ampio tema dell’espressione linguistica dell’emozione.
Sarebbe però interessante approfondire una questione così attuale e feconda di spunti in una trattazione più estesa e dedicata unicamente a tale argomento.
Allo stesso modo, anche il tema dell’emozione nell’arte, adombrato nella trattazione sulla retorica, l’arte ed il teatro, si presta ad una riflessione maggiormente approfondita.
Come detto, il capitolo è denso di tematiche, riconducibili in senso lato al tema sterminato dell’espressione dell’emozione.
Tuttavia, il capitolo terzo, insieme al precedente, potrebbe essere letto soprattutto come un tentativo di mediazione intellettuale: tra gli eccessi del riduzionismo biologico-psicologico, che racchiude l’intera sfera emotiva all’interno di processi spontanei, e del costruzionismo radicale, che dà spazio unicamente alla dimensione sociale dei sentimenti, l’autore è fautore di un approccio equilibrato e moderato, a mio avviso davvero ammirevole e necessario.
Questo è forse lo spunto di riflessione più significativo non solo di questi capitoli, ma dell’intera opera.
I capitoli quarto e quinto ritornano in pieno nell’alveo della tradizione filosofica, vertendo uno sulla relazione tra morale ed emozione e l’altro su quello tra ragione e morale.
Primo punto di riferimento per sviluppare il tema del quarto capitolo è senz’altro David Hume.
Il pensatore scozzese, fautore di una teoria del contagio emotivo, è il primo a dare corpo ad una “scienza delle emozioni”, non valutativa ma ispirata ai principi della scienza descrittiva.
Osservare la genesi delle passioni senza giudicarle vuol dire soprattutto darne una descrizione nel processo di azione morale come farebbe un anatomista (esempio di Hume), senza voler incitare le persone al comportamento virtuoso.
Sulla scia di Hume si collocano molti altri illuministi scozzesi, tra cui Adam Smith, tutti concordi nell’assegnare alla simpatia (emotiva) un ruolo fondamentale nell’azione morale.
Anche le neuroscienze contemporanee sembrano avvallare alcuni assunti humeani, tuttavia alcune prospettive risultano paradossali per una riflessione filosofica sul tema dell’etica.
Alcune prospettive neuroetiche, poggiando sulla scoperta dei neuroni specchio, fondamentale nello spiegare la riproduzione di comportamenti osservati, sembrano privare gli esseri umani del libero arbitrio, riducendo la loro condotta morale ad una reazione posteriore ad azioni istintuali.
Tali prospettive, discusse animatamente da neuroscienziati e filosofi, sembrano troppo eccessive, tuttavia le etiche fondate sull’empatia non richiedono affatto simili riduzionismi.
La teoria dell’empatia morale di Hume e Smith, con notevoli varianti, è ancora oggi favorevolmente accettata da molti.
Tale corrente, sfociata nel sentimentalismo etico contemporaneo, è affrontata da Menin facendo riferimento ad alcuni autori più o meno recenti: dalle etiche della cura, fino alle teorie di filosofia sperimentale in autori come Nichols e Prinz, molti ritengono il sentimento condizione necessaria per la condotta morale.
Tuttavia, nota Menin, le emozioni sono state giustamente anche ritenute dannose per la condotta morale: se una posizione kantiana può apparire eccessiva, è evidente che alcune “cattive emozioni” non sono facilmente inseribili in una vita morale.
Il caso della rabbia, oscillante tra passione dirompente e lecita ribellione all’ingiustizia, è forse il più paradigmatico di questa schiera di emozioni ambigue moralmente.
Il passaggio tra il capitolo quarto e il quinto è più sfumato che altrove, poiché il tema della razionalità delle emozioni coincide ampiamente con quello della riflessione etica.
Il capitolo quinto inizia infatti opponendo due tradizioni di pensiero a riguardo delle emozioni e della loro relazione con la ragione.
Se molti autori antichi e moderni le hanno a lungo represse e ritenute “mali dell’anima”, da sottomettere alla ragione, sarà Pascal a mostrare che il “cuore”, ovvero la sensibilità umana, ha le sue “ragioni”.
Per il pensatore francese, l’emozione non è solo importante o di aiuto nel ragionamento: essa è vitale, base e fondamento dell’inferenza (“i principi si sentono, le proposizioni si dimostrano”, ebbe a dire), ma anche garante dell’accettazione di una credenza: se non si dà l’assenso “con il cuore”, ogni ragionamento è vano.
Sarà Hume a radicalizzare il rapporto tra volontà razionale ed emozioni, rendendo la ragione “schiava delle passioni”, ovvero atta solo a muovere i suoi passi a partire da stimoli emotivi, non di ostacolo ad essa ma unico autentico motore.
Da qui, come detto, si ritorna alla discussione etica, aperta da due varianti di sentimentalismo etico.
Esse sono l’emotivismo, che partendo dalla riduzione dell’enunciato morale a mera espressione emotiva, più o meno soggettiva, operata da Ayer, ritiene il lessico morale una semplice comunicazione di uno stato emotivo causato da un’azione.
Altri autori, cognitivisti (non razionalisti etici) associano all’emozione una valutazione cognitiva, restando all’interno della tradizione sentimentalista pur senza essere emotivisti.
Alcuni, come Solomon, ritengono che le emozioni siano risultato di valutazioni assiologiche, ovvero di conferimento di particolari valori negativi o positivi a qualche stato di cose, passibile, come le credenze, di verifica e revisione.
Concludendo l’excursus sull’etica iniziato nel capitolo prima, l’autore nota come, al di là delle singole teorie, sia l’emotivismo che il cognitivismo abbiano mostrato l’inadeguatezza di una riflessione morale razionalista, che volesse prescindere in campo morale dalle emozioni.
L’ultima parte del capitolo, e del libro, è dedicata al tema dell’intelligenza emotiva.
Dalla difesa della razionalità delle emozioni, che secondo Martha Nussbaum informano i nostri processi cognitivi orientando la nostra ragione verso il mondo e portandoci ad interpretare, valutare e validare le nostre credenze, prendono le mosse coloro che vogliono mostrare non tanto la non mutua esclusività di ragione ed emozioni, ma la loro totale interdipendenza.
Anche in campo psicologico abbiamo assistito ad una presa di coscienza circa il ruolo delle emozioni nella nostra vita.
Alcuni autori hanno infatti proposto una sorta di “educazione all’emotività” volta ad insegnare ai bambini a riconoscere i loro sentimenti e a saperli incanalare in modo costruttivo nella loro vita, nelle loro relazioni e nelle loro interazioni sociali.
Purtroppo, emerge proprio qui, quasi come un fulmen in clausula, la critica più grande, forse l’unica che posso sinceramente rivolgere, all’opera di Menin, assolutamente slegata dalla sua riflessione sulle emozioni e legata bensì al suo acritico (a mio avviso) utilizzo degli indicatori del quoziente intellettivo (QI) con eccessivo slancio.
Tali strumenti standardizzati sono stati da anni criticati, non solo metodologicamente ma anche a livello concettuale, per la loro dubbia utilità e per l’effettiva misurazione di qualche disposizione psicologica individuale stabile.
Alcune affermazioni categoriche dell’autore, che sembra ascrivere ad alcuni individui elevate doti cognitive in quanto “misurate” da tali test, sono secondo me decisamente fuorvianti e “stonano” con l’impianto generale dell’opera, comunque decisamente apprezzabile e notevole.
Concludendo, l’opera di Marco Menin risulta assai piacevole da leggere in virtù della sua approfondita e varia trattazione, non solo filosofica, della tematica emotiva.
La sua trattazione si configura come un doppio viaggio che si snoda lungo due assi: quello diacronico, sempre presente e visibilmente informato dall’approccio dello storico della filosofia, e quello tematico, svolto ponendo l’emozione in relazione alle dimensioni del linguaggio, della morale, della razionalità e di ognuno degli argomenti sopra citati.
Sarebbe stato forse opportuno, anche se non necessario, allegare un ulteriore capitolo dedicato all’estetica, branca della filosofia (ora anch’essa sempre più interdisciplinare) che con l’emozione ha sempre avuto a che fare.
Inoltre, il rapporto tra etica, estetica ed emozione, unite inestricabilmente nella vita umana, sarebbe forse campo di indagine privilegiato per una riflessione globale sull’emotività, in cui il sentimento fa, per così dire, “da ponte” tra la riflessione morale e quella estetica.
Tuttavia, la riflessione di Menin nel corso dell’opera appare decisamente esaustiva, ben oltre il livello di una introduzione minima al tema.
Come detto sopra, il saggio è dunque attento sia alla ricostruzione storica sia alla trattazione specifica di alcuni peculiari campi di applicazione della riflessione sull’emozione.
Questo doppio approccio, storico e tematico, è impreziosito dal taglio esplicitamente multidisciplinare, forse l’aspetto più gradevole del libro.
La molteplicità di approcci all’oggetto di studio, che emerge spesso purtroppo nel dibattito contemporaneo come una conflittualità di visioni intellettuali, si mostra qui invece decisamente improntata alla compatibilità, forse, mi pare il caso di dirlo, grazie soprattutto alla cornice filosofica, capace di ospitare al suo interno le diverse prospettive antropologiche, biologiche, psicologiche, neuroscientifiche e sociologiche.
La sintesi filosofica, pur non sistematica, emerge qui come utile strumento per orientarsi nella variegata riflessione che in molti campi del sapere si produce a riguardo delle diverse tematiche, in questo caso specifico l’emozione.
Accessibile come stile, il saggio di Menin è per di più arricchito da riferimenti a referenti culturali contemporanei e mainstream (film, serie tv, romanzi), sempre ben contestualizzati, in equilibrio tra trattazione filosofica ed esigenze divulgative, senza mai essere sintomo di un cedimento a logiche di “popolarizzazione” fine a sé stessa.
Essi risultano infatti un buon esempio di quel binomio, “filosofia e vita quotidiana”, che orienta programmaticamente la stesura dei saggi della collana.
In conclusione, la lettura di questo libro è forse, si spera, la prima avvisaglia di una maggiore sensibilità intellettuale per il tema delle emozioni, a lungo ritenuto marginale per la riflessione filosofica.
La vastità dei campi toccati da Menin in questa sua opera dovrebbe infatti quantomeno mostrare come la cosiddetta “affective turn”, la svolta emotiva, abbia recentemente reso disponibili al ricercatore molti promettenti campi di ricerca.
Una riflessione filosofica sul tema, aperta alla multidisciplinarietà e alla sintesi, è dunque senz’altro utile e gradita.
È stato lo stesso Derrida a spiegare le circostanze che lo hanno condotto a incontrare Valerio Adami e ad avviare con lui un buon rapporto: «Un giorno, il mio amico Jacques Dupin, che lavorava per Maeght, mi propose di collaborare con un pittore a un’opera in comune, una serigrafia che mescolasse il tratto, la pittura e la scrittura. […] Qualche mese più tardi, Jacques ha avuto l’idea di associarmi a Valerio Adami. […] Nel 1975, Dupin mi ha portato dei cataloghi e io sono rimasto subito colpito dalla forza, dall’energia del tratto, ma anche da un richiamo nel disegno – e anche nella pittura – ad altri tipi di scritture: letteraria, politica, “storica”. Assai presto ho notato l’esistenza, nella sua opera, di un certo rapporto sincopato con l’evento letterario o politico, con gli scritti di Joyce o Benjamin, con le rivoluzioni europee di questo secolo, la rivoluzione russa, quella di Berlino, ecc. Il tutto colto in modo ellittico, sincopato, in un tratto dalla forma molto singolare»
In un film di qualche anno fa, Predestination (Australia 2014), i registi e fratelli gemelli Michael e Peter Spierig mettono in scena un vecchio racconto di fantascienza di Robert A. Heinlein, …All You Zombies… (1959), il cui protagonista è, al contempo, maschio e femmina, genitore e figlio/a, amante e amato/a. È la linearità (presunta) delle azioni che si susseguono nel tempo omogeneo a essere così, innanzitutto, radicalmente sovvertita. Una escogitazione narrativa originale, quella di un organismo nato all’interno della possibilità stessa di viaggiare nel tempo, autorizza un gesto che la metafisica si è sempre trattenuta dal compiere fino in fondo: elevare l’esperienza, con la sua radicale imprevedibilità, ad assoluto. Lo spettatore del film, come il suo protagonista (Jane/John), scoprono progressivamente un destino che nessuno ha scritto e che anzi si scrive, in maniera per forza di cose impersonale, attraverso il suo continuo accadere. Se si dovesse perciò trovare un’esemplificazione di quel che Federico Leoni affronta nel suo nuovo libro, L’automa. Leibniz, Bergson (Mimesis 2019), si dovrebbe, con ogni probabilità, fare ricorso a una figura analoga a quella al centro del film degli Spierig.
Anche l’automa, come la vicenda di Jane/John, è l’emblema di un divenire che si sottrae per definizione a ogni prevedibilità, come a qualsiasi pretesa di sovrana padronanza: che sfugge, in breve, alla calcolabilità dell’algoritmo. In fondo, il tema principale di questo piccolo ma importante libro, risiede nella differenza di natura che l’automa (spirituale o incorporeo, come lo definisce Leibniz) deve poter affermare rispetto alle macchine, e in particolare, in relazione alle molte macchine ‘pensanti’ con le quali oggi si tenta di strappare il divenire delle nostre vite alla sua radicale imprevedibilità. L’automa, insomma, è la figura di un organismo senza confini, di un essere che esiste tutto nel suo trasportarsi attraverso di sé, nel suo raggiungersi alla fine del proprio futuro come al principio del proprio passato, facendo così saltare per aria le paratie con le quali siamo soliti proteggerci dalla fatalità a cui ogni vita dovrebbe accordarsi. Imprevedibilità, in effetti, non significa né contingenza, né necessità, ma, piuttosto, continua ridefinizione del necessario come del possibile. Significa, in una parola, alterazione progressiva e cangiante delle stesse categorie con cui il pensiero tenta – tenta solamente – di irreggimentare l’automa.
L’argomentazione di Leoni prende due strade che, intrecciandosi l’una nell’altra come le due anime di una stessa corda, diventano progressivamente un'unica via. Il saggio, partendo dalla vicenda di Joë Bousquet, il poeta ferito di guerra paraplegico che già Gilles Deleuze eleggeva a simbolo della sua etica dell’evento (etica consistente per intero nel saper essere “all’altezza di ciò che ci accade”), mescola registro soggettivo e registro ontologico, determinando così quella indiscernibilità tra tempi distinti che fa appunto dell’automa la messa fuori gioco reiterata di tutte le opposizioni del pensiero metafisico. Una vita si scrive sempre in uno spazio che sfugge a ogni qualificazione nei termini della logica modale, vera e propria superficie di trascrizione ritmica e dialettica del divenire, allo stesso modo in cui il reale del mondo non si lascia acciuffare dalla scansione metafisica di sostanza e accidente, sostrato e accadere, soggetto e predicato. E viceversa, una vita non è un supporto al quale si aggiungono eventi, come il mondo non risponde alla distinzione di possibile e impossibile, contingenza e necessità. L’automa consiste tutto in questa ritrosia fondamentale, in tale riottosità del reale nei confronti dei nostri, umani troppo umani, schemi concettuali. La macchina, insomma, non è l’automa, perché l’automa è piuttosto la matrice informale e illocalizzabile di ogni macchina. Quel che l’automa, correttamente inteso, rivela è quindi l’impossibilità definitiva di calcolare e padroneggiare tecnicamente il divenire. Attraverso il suo situarsi sempre un passo al di là, o al di qua, di ogni concettualizzazione, come di tutte le prassi di adattamento tecnico del reale ai nostri bisogni, nel mentre che tutte le circoscrive e le include, l’automa offre la manifestazione di un’assoluta e crescente indisponibilità del reale. Reale è qui ciò che, come appunto l’automa, si muove da sé e non tollera quindi alcun genere di ingerenza, senza prima averla riassorbita.
Fritz Lang - Metropolis (1927)
Il paradosso di fronte al quale ci mette Leoni è infatti il seguente: il destino esiste solo fin quando vi si acconsente. Ogni manovra diversiva apre per ciò stesso una deviazione, istituisce “nuovo” destino, a sua volta imprevedibile. Leoni propone una sorta di psicoanalisi della metafisica, in cui la struttura nevrotica degli schemi concettuali tràditi diventa l’occasione di un lavoro decostruttivo che non può non essere, altresì, lavoro ricostruttivo. Emerge così qualcosa come una ontologia senza metafisica – un’ontologia della non invarianza dell’ontologia. Un’ontologia della perversione che dà luogo a un’ontologia che si perverte senza sosta. L’utopia, nel senso letterale della parola, è quindi costituire i prodromi di una «scienza del divenire» (p. 13), ovvero di ciò di cui, a detta di Aristotele (e con lui, di tutta l’episteme occidentale), non si dà scienza. Che il divenire sia isomorfo all’individuale è infatti fuor di dubbio: «Non esiste il movimento in generale» (p. 26). Il divenire è sempre singolare – e anzi, il divenire è il singolare. «Se si assume questo schema, scrive Leoni, la filosofia è possibile solo nella forma dell’esplorazione della propria impossibilità, è possibile solo come infinita rivisitazione della propria aporia» (p. 13). Ma la filosofia consiste proprio in questa sfida: occorre saper tramutare una impossibilità, quella della filosofia come scienza del non qualsiasi o del non generico, in effettività. Come fa, d’altronde, ogni creatore. Ogni creatore che si rispetti deve fronteggiarsi infatti con un compito impossibile – trasformare un fraintendimento in una risorsa. Harold Bloom, nel suo celebre L’angoscia dell’influenza, lo ha mostrato in relazione all’emergere di quanto definisce un «poeta forte». Ma il discorso vale vieppiù a proposito della vicenda filosofica. Anche in questo caso ne va della conversione di un travisamento inevitabile in un altrettanto inevitabile progresso, che si legittima à rebours quale correzione di quanto in passato era rimasto disatteso o, soltanto, era stato equivocato. La storia dell’automa coincide quindi con la storia della filosofia, come serie continua di tentativi riusciti proprio perché falliti. L’ontologia che Leoni lascia balenare nella sua istruttoria sull’automa registra questo fatto, elevandolo a cifra stessa del reale – di ciò che nel reale si presenta come l’essere qualsiasi. Paradosso ulteriore, quindi: il modo d’esistenza del singolare, ovvero del non-qualunque, è di essere, appunto, affatto qualsiasi. Di non avere scelta, per dir così.
Ecco allora che, nell’ultimo capitolo, L’inconscio, una storia di fantasmi, l’autore tira le fila del suo discorso con una mossa apparentemente inattesa: l’automa diventa un avatar, a sua volta, del fantasma. Lo scenario è vertiginoso e la batteria di concetti evocati vorticosa. Tutto non è altro che immagine, immagine in sé. Sono le celebri e difficili tesi del primo capitolo del bergsoniano Materia e memoria (1896), portate però qui al loro sviluppo più radicale. L’automa non è una macchina, dicevamo, ma ogni macchina è una forma, o un organo, dell’automatismo dell’automa. Pensare l’automa non significa considerare le connessioni di parti in esteriorità con cui ci si presenta il mondo notomizzato dall’intelligenza pragmatica; non è questione di funzionamenti di oggetti, ricavati dalla giustapposizione di realtà accomodate l’una all’altra secondo il loro profilo materiale. Pensare l’automa è pensare l’intramatura con la quale ogni lacerto di mondo, anche il più insignificante e infinitesimale, si installa e fugge al contempo in e da ogni altro. È vedere il mondo quale ribollio incessante di proliferazioni, di frattali in reciproca e diveniente ristrutturazione. Lo statuto dell’automa è lo statuto dell’esempio, di ciò che, senza scarti di alcun genere – senza la mediazione di una generalità interposta –, è il proprio stesso dover-essere. Di ciò che appunto è singolare: unico nel suo genere. «Ogni cosa è una ragione […] Ogni monade è insieme di un solo elemento, ma quel solo elemento non è un elemento solo, è sempre anche il proprio insieme» (pp. 44 e 74). Nell’atto di leggere Bergson e Leibniz, Leoni si precipita perciò al di là di loro – si spinge oltre il dualismo di tendenze che ancora caratterizza il dettato bergsoniano, come già Deleuze aveva notato, e il contingentismo che Leibniz fatica, malgrado tutto, a ricusare come a giustificare (significativo è che Leoni decida di non tematizzare direttamente la teodicea leibniziana). L’automa si presenta quindi come una meditazione sulla necessità di ontologizzare quanto si sottrae, in apparenza, a questa stessa eventualità: l’immaginazione – quella «funzione senza organo» (Georges Canguilhem) che, secondo il Kant della Critica del giudizio, può guadagnare in alcuni casi le prerogative di un «libero gioco» in cui non è più l’intelletto, con il suo quadro presupposto di categorie, a dettare le condizioni. Ecco che cosa vuol dire pensare una ontologia rescissa dai suoi vincoli metafisici: «E in questo senso ci sono solo nature al plurale, e ogni divisione produce una natura differente, ovvero la natura si divide producendosi in ogni divisione come un altro modo di essere natura, come un altro modo di naturare, un’altra genesi continua di discontinuità. In altre parole, tutto è artificiale, non c’è che artificio» (p. 17).
Il lavoro di Leoni, e non solo in questa occasione, ha come esito, dunque, una definitiva messa in mora della tentazione meccanicista che pure da sempre caratterizza una certa filosofia, intenta a cercare una clavis universalis con cui risolvere una volta per tutte i problemi della conoscenza e della vita. Speranza, d’altronde, dello stesso Leibniz che, con la sua characteristca universalis, immaginava di ridurre ogni controversia a un puro esercizio di calcolo. Fa notare l’Autore: «Ogni macchina contiene un appello alla trascendenza» (p. 51). Si tratta invece di lavorare a un concetto e una prassi conseguente di immanenza integrale. La suddetta chiave, sembra dirci infatti Leoni, semplicemente non esiste, perché deriva, al contrario, da un effetto interno a una potente tecnologia, che fa tutt’uno con quella alfabetica – la grammatica indoeuropea di soggetto e predicato, che struttura notoriamente gran parte della tradizione filosofica occidentale, almeno sino alla soglia del Novecento. Se pensiamo di poter ricostruire l’evento con i risultati della sua analisi (ricostruzione in atto già nella distinzione del flusso linguistico in parti del discorso), finiamo per cadere in una serie di perniciose aporie – tra le quali, e non per ultima, l’idea di un divenire che si aggiunge dall’esterno all’essere senza potersi mai davvero comporre con esso, di una molteplicità che si fa uno o di un’unità che si fa, non si capisce come, molteplice. Quel che va pensato, allora, è qualcosa che è «più di uno e meno di due» (p. 52), che resiste in questo bilico. Occorre solcare il paradosso senza cadere nell’aporia.
Fare filosofia ha sempre significato volersi cimentare con un compito inattuabile: trasformare la vita in un processo automatico. Perché si tratti di alcunché d’irrealizzabile, è presto detto: l’automa è la figura che rende impraticabile questa strada, nella stessa misura in cui la impone come inaggirabile. «Ogni automa è la macchina di ogni altro» (p. 59). La filosofia si identifica alla memoria, perenne perché ogni volta da rinnovare, di questa eccedenza o di questa sottrazione originaria, le quali rimandano entrambe, però, alla totale immanenza con cui l’automa prende forma, aderendo perfettamente solo a se medesimo. Perché di questo si tratta, di un prendere forma che resta tale – che resta in progress. L’automa, insomma, non è calcolabile. Tutto si può fare, tranne divenire-automi, se “divenire” significa passare dalla potenza all’atto. Semmai, si dovrà tornare a esserlo – tornare a essere quel che non si è mai cessato di diventare. L’unico vero automa, in altre parole, non è digitale, ma analogico. Nessun dio ci può salvare, va infine detto. Nemmeno quel dio minore che è il filosofo. Per fortuna.
Il volume che presentiamo raccoglie i contributi del Corso di Eccellenza Schema. Verso un dizionario filosofico-architettonico che si è svolto presso il Dipartimento di Architettura e Design del Politecnico di Torino nell’estate del 2018. Il volume è il risultato del lavoro condiviso tra esponenti di due discipline: filosofia e architettura. Durante un simile lavoro si è cercato, da un lato, di chiarire gli assunti che stanno alla base dei discorsi e delle pratiche delle due discipline, pertanto peculiari a ciascuna; dall’altro lato, di individuare le aree di indecisione o indeterminatezza ai bordi delle discipline stesse, aree in cui le rispettive identità tendono a sfumare reciprocamente. Il linguaggio è stato assunto come dispositivo ‘problematico’ e ‘di problematizzazione’ allo stesso tempo: ‘problematico’ dal punto di vista della condivisione di un vocabolario transdisciplinare, pertanto comune (in senso convenzionale) tra architettura e filosofia; ‘di problematizzazione’ nei termini, invece, di una operatività orientata ad affrontare, e problematizzare, tematiche affini. Si è quindi partiti da quelle parole o lemmi che sono condivise tra le due discipline, anche se utilizzate in modi e con fini differenti; parole che nel caso dei filosofi sono nozioni e leve per la teoria e nel caso degli architetti sono strumenti concettuali dell’agire progettuale. Più precisamente, l’ipotesi di avvio è stata quella di individuare il lemma di un ipotetico dizionario filosofico-architettonico. Tra le varie proposte, il lemma ‘schema’ si rivela essere un buon intercessore transdisciplinare: per la filosofia, soprattutto dopo Kant, esso diventa un termine specifico, e uno dei terreni di battaglia prediletti dalla gnoseologia e l’epistemologia, ma anche dall’ontologia; in architettura, la schematizzazione rappresenta, invece, una forma specifica del pensiero progettuale e uno strumento convenzionale che interviene nel dialogo con le altre discipline, nonché nella traduzione dei loro specifici apporti in figure progettuali. Per articolare maggiormente la discussione sul lemma si è deciso di declinarlo in quattro varianti o sotto lemmi: ‘algoritmo’, ‘configurazione’, ‘diagramma’ e ‘mappa’.
A cura di Veronica Cavedagna e Andrea Alberto Dutto
«L’uomo, senza utopia, precipita nell’inferno di una quotidianità che lo espropria di ogni significato e lo uccide poco a poco; ma non appena mette mano alla realizzazione di quella utopia, al tempo stesso prepara le condizioni per una quotidianità sempre più atroce». Così, più di vent’anni fa, il matematico, mediattivista e futurologo prematuramente scomparso nel 2013 Antonio Caronia (1996, p. 58), riassumeva il nesso inscindibile che lega, come in un inquietante nastro di Moebius, le utopie alle distopie. Se l’utopia veniva, infatti, poco più di 500 anni fa, pensata – e in qualche modo “inventata” come genere letterario – da Thomas More come un “non-luogo” dove creare, tramite un esperimento mentale, una società ideale, paradigmatica, che funzioni da critica e da modello per i modelli socio-politici a lui contemporanei; dopo il crollo delle “utopie reali” del XX secolo parlare di utopie è diventato assolutamente demodé, per non dire politicamente sospetto.
Eppure la rivendicazione dell’utopia come spazio per sfuggire all’inferno del reale, o di quel “Reale”, di cui l’onda lunga del lacanismo politico, da Zizek a Badiou, ha fatto l’oggetto principale della propria “passione”, resta ben presente nell’immaginario collettivo, così come lo era ancora ancora, anche a livello politico, nei propositi di Ernst Bloch. Un mondo ideale, dai tratti fantasmati, o fantasmatici, resta il telos di molte narrative della contemporaneità di grande successo: romanzi, serie televisive, produzioni cinematografiche spesso presentano e rappresentano mondi ideali dal forte potenziale di identificazione. Questo potenziale, però, come Caronia già nel 1996 rilevava, tende ad assumere rapidamente caratteri distopici: se le utopie rinascimentali (quella di Moro come la città del Sole di Campanella, quanto la Christianopolis di Andreae) appaiono al lettore odierno fortemente (pur involontariamente) distopiche, le “utopie” contemporanee, soprattutto quelle elaborate dopo le due Guerre Mondiali, appaiono sempre come utopie “di facciata”, che nascondono tratti distopici totalitari, eugenetici, bio- e tanatopolitici. Nelle distopie della letteratura sci-fi dagli anni ’60 fino a oggi, ma pure nei mondi post-apocalittici popolati da gruppi di uomini tornati allo stato di natura di molte narrazioni seriali e videogames, sembra che il potenziale critico dell’utopia sia stato mantenuto, rovesciando però il suo segno distintivo da positivo a negativo, andando così di pari passo con sfiducia per la ragione tipica dell’epoca che va dal Dopoguerra a oggi.
La nuova edizione di Manifesto cyborg. Donne, tecnologie e biopolitiche del corpo (Feltrinelli, 2018) raccoglie tre saggi di Donna Haraway, teorica femminista e storica della scienza allieva di Georges Canguilhem. I saggi in questione sono stati pubblicati la prima volta nel 1991, in Italia nel 1994, all’interno di una raccolta dal titolo Simians, Cyborgs and Women. The Reinvention of Nature (Routledge). L’importanza della riedizione di un testo considerato ormai un classico può ricercarsi nella necessità di rivalutare la portata teorica e filosofica della riflessione di Haraway, portata che fino ad ora sembra essere stata scarsamente considerata. Ciò che andrebbe messo in discussione è un inquadramento “specialistico” del testo, che lo vorrebbe di interesse unicamente per chi si occupa di “questioni legate al genere” e, ancora più nello specifico, per chi nella cornice degli studi di genere riflette sui problemi della scienza e della tecnologia. Nella rivalutazione delle implicazioni teoretiche di Manifesto Cyborg è in gioco, più in generale, la riconsiderazione dell’importanza filosofica dei cosiddetti studi di genere e postcoloniali, che normalmente trovano legittimazione solo se inseriti nella cornice dei cultural studies. Il testo di Haraway eccede queste cornici disciplinari, e con le sue incursioni “spregiudicate” nel terreno delle scienze biologiche, biomediche e delle teorie dei sistemi, può essere considerato un’argomentazione a favore della contaminazione come importante strumento di produzione e creatività teorica.
Fin dalle prime pagine di Manifesto Cyborg è chiara l’urgenza teorica e politica che muove la riflessione dell’autrice: la necessità per il femminismo socialista e in generale per gli allora nuovi movimenti di sinistra di ripensarsi, alla luce del confronto con le profonde trasformazioni globali che segnavano il contesto dell’elezione di Reagan alla presidenza degli Stati Uniti negli anni ’80. Il cyborg, protagonista dell’opera, rappresentava provocatoriamente quella peculiare “creatura” contraddistinta da un’intrinseca necessità di evadere ogni forma di pensiero dicotomico, ogni forma di razionalità strutturata intorno a stringenti dualismi, in favore di un nuovo punto di vista in grado di rendere conto di una realtà infinitamente complessa ed eccedente che il suo stesso apparire metteva prepotentemente alla ribalta. A quasi trent’anni di distanza, in cui la modalità dominante di gestione della complessità (sociale, psichica, politica, scientifica) sembra ancora rimanere il riduzionismo, in cui lo scenario pare ancora caratterizzato dal riproporsi di un pensiero dicotomico e dall’intensificarsi delle logiche di dominazione patriarcale, razzista e capitalista connaturate a esso, provare a immaginare un modello di razionalità che non evade la complessità ma che se ne fa carico non si rivela meno urgente. La posta in gioco è l’elaborazione di modalità alternative e sfaccettate di gestione della complessità, rifiutando quindi anche quel pensiero che vedrebbe nella postmodernità il terreno in cui si consuma la crisi della razionalità dominante che non lascia spazio a null’altro se non alla contingenza e alla “differenza” irriducibile, intese come negazione dell’elaborazione teorica e della prassi. Manifesto Cyborg riapre invece con forza l’elaborazione teorica, etica e politica, al cuore della postmodernità e lo fa oggi non meno di ieri.
Lo sguardo attraverso cui Haraway analizza le trasformazioni che segnano il suo tempo è quello che deriva dalla sua storia in quanto biologa: in particolare, l’autrice mette in luce la profonda rielaborazione e ripensamento della biologia in relazione all’emergere di nuovi saperi, quali la cibernetica, le teorie dei sistemi, le scienze della comunicazione e dell’informazione. Il ripensamento della biologia in seguito alla contaminazione con nozioni, teorie e concetti provenienti da queste scienze è stato profondo al punto che, secondo Haraway, si può sostenere che l’“organismo” biologico, come oggetto della scienza, abbia cessato di esistere, e sia stato sostituito da sistemi di comunicazione completamente denaturalizzati. Gli organismi sono quindi diventati artefatti, sempre contingenti, le cui modalità di costruzione non sono vincolate da nessun’architettura naturale. Contemporaneamente, le macchine hanno preso vita: se quelle pre-cibernetiche potevano essere ancora distinte dagli organismi in quanto pensate e costruite dall’uomo, le macchine cibernetiche rendono completamente ambigua la distinzione tra autosviluppo e progettazione esterna (p.43).
Le ondate di denaturalizzazione e de-essenzializzazione che secondo N. Katherine Hayles definiscono il postmodernismo hanno quindi investito anche i corpi biologici: se le prime teorizzazioni degli organismi come sistemi cibernetici riposavano ancora su una concezione olistica e mantenevano intorno a questi un certo involucro, le teorie sociobiologiche di uno scienziato dalla sensibilità postmoderna come Richard Dawkins hanno radicalizzato questa tendenza, rompendo definitivamente con i paradigmi olistici e ripensando l’individualità biologica come costrutto contingente ad ogni livello. Come mettono in luce le escursioni di Haraway nel territorio delle moderne biologie della comunicazione, i processi di decostruzione e ricostruzione dei corpi occupano il centro del discorso, non solamente dal punto di vista del critico culturale o dell’archeologo delle scienze umane, ma anche dello scienziato postmoderno: le biologie moderne si occupano di tecnologie d’inscrizione e codici, di processi di disassemblaggio e riassemblaggio, di sistemi di controllo altamente tecnologizzati. La centralità delle tecnologie di scrittura emerge in modo evidente se si considerano i lauti investimenti direzionati a progetti come quello di mappatura e ricostruzione del genoma umano. Questo progetto emblematizza un “umanesimo postmoderno” in cui la ricerca biologica segnata dalla rilevanza sempre maggiore delle tecnologie d’inscrizione è messa al servizio della tradizionale ideologia umanista e del sogno ad essa associato di poter finalmente definire l’umano, di poter finalmente tracciare un confine netto e chiaro, privo di ambiguità e porosità tra il sé e il non-sé.
Il cyborg, segnalando importanti cedimenti di confine come quello tra macchina e organismo e tra umano e animale, si presenta come figurazione non dicotomica della nostra realtà sociale e corporea, che consente quindi di rompere con i dualismi che hanno strutturato la razionalità occidentale: naturale/artificiale, natura/cultura, uomo/donna, mente/corpo, materia/forma, umano/animale, soggetto/oggetto. Come ci ricorda Haraway, queste non sono mai solo opposizioni dicotomiche: attraverso questi dualismi, la razionalità occidentale ha intrecciato il suo destino a pratiche di dominio e di oppressione legate al genere, alla razza e alla specie.
D’altra parte, il cyborg in occidente è anche espressione di una cultura maschilista e guerrafondaia, che concepisce la vulnerabilità che contraddistingue la dimensione corporea come segno di una “mancanza” costitutiva, a cui far fronte attraverso un progressivo miglioramento delle strategie di difesa. Se le individualità cyborg sono per definizione contingenti e instabili, l’immagine della corsa agli armamenti e della guerra perenne lascia trasparire in filigrana il “telos apocalittico” (p. 41) di un sé finalmente libero da ogni forma di dipendenza. La realizzazione di un sé autonomo e integro, che ha “disassemblato” e digerito ogni forma di eterogeneità e alterità si accompagna al dispiegamento di un apparato di controllo diffuso e capillare, che Haraway indica come “informatica del dominio” (p. 55). Con questa figurazione si vogliono mappare i nuovi inquietanti meccanismi di controllo che attraversano il nostro tempo: alle gerarchie che contraddistinguono il “patriarcato capitalista bianco” (p. 57) si sostituisce un sistema polimorfo e reticolare, che agisce attraverso l’allacciamento di connessioni multiple. Ai vecchi sistemi di controllo centralizzato si sostituisce la delocalizzazione, la decentralizzazione, la diffusione e la moltiplicazione dei centri.
Ma il cyborg è anche un costrutto femminista, e in questo senso elicita possibilità oppositive e liberatorie. Cyborg è quel particolare oggetto di conoscenza e pratica femminista, l’esperienza delle donne, che proprio in quanto fatta oggetto di sapere, è ricostruita come aperta, non finita, contestata, vulnerabile, presa in un gioco di perenne decostruzione e riscrittura. Haraway a questo proposito da particolare importanza ai processi di decostruzione e di de-naturalizzazione che hanno interessato il femminismo in seguito al prendere voce di quelle soggettività, come le donne nere, che sfuggono al sistema di categorie attraverso cui i teorici e le teoriche occidentali hanno tentato di rappresentare il mondo degli oppressi. Questi processi hanno consentito al soggetto femminista di riarticolarsi lungo assi inediti, di immaginare e di praticare nuove forme di unità e di identità al di fuori dell’impianto dicotomico e oppositivo che ha strutturato i miti politici occidentali. La critica post-coloniale ha ricostruito le identità femministe come identità sempre parziali, contraddittorie e problematiche, definite dal non poter essere naturalizzate o essenzializzate. Haraway legge in questo senso la Sister outsider della poetessa nera Audre Lorde (p. 74), ovvero come ricostruzione letteraria dell’identità attraverso l’esclusione, la non appartenenza in quanto eccedenza rispetto a categorie prestabilite. Le identità ricostruite nelle pratiche di scrittura delle donne di colore sono identità sempre contraddittorie e frantumate, prive del privilegio dell’identità a sé, prerogativa dei corpi non marcati come quelli maschili e bianchi. Se i processi decostruttivi e de-essenzializzanti impediscono di radicare la politica nelle identità “naturali”, questo non significa che sia stata minata radicalmente la possibilità di legami: la loro ricostruzione implica politiche dell’affinità, che non ripristinano unità naturali, ma non per questo impediscono legami (parziali ma potenti) e comunità per soggetti postmoderni.
Con l’elaborazione della nozione di “saperi situati” Haraway si inserisce in un altro dibattito che attraversa il femminismo: il rapporto con l’epistemologia e la scienza e, strettamente connesso a questo, il dibattito circa lo statuto dell’oggetto di conoscenza. Proponendo “saperi situati” Haraway intende pensare una versione femminista di oggettività scientifica, che consenta di uscire dalla polarizzazione del dibattito attuale, caratterizzato dal contrapporsi di posizioni radicalmente costruzioniste ed empiriste. La rielaborazione della nozione di oggettività che Haraway propone si appoggia a un ripensamento della metafora della visione. Se quest’ultima ha significato, nella storia della razionalità occidentale, la capacità di alcuni corpi (quelli maschili, benestanti e occidentali) di “smaterializzarsi” in uno sguardo venuto dal nulla mentre si inscrivevano i corpi marcati nel mito, con la nozione di saperi situati assume un significato opposto. L’oggettività e la visione non significano più neutralità e distanza, ma corporeità, parzialità, localizzabilità, impegno e coinvolgimento. (p. 115) L’oggettività ha a che fare non con la scoperta distaccata, ma con la strutturazione reciproca e di solito ineguale; solo saperi parziali, vulnerabili e impegnati garantiscono una conoscenza oggettiva, ovvero che non sia un’illusione. Oggettività e visione non segnalano più un “trucco da dio”, che consente di scomparire arrogandosi il potere di rappresentare senza essere rappresentati, ma diventano modi per stare nel corpo, pratiche di assunzione corporea.
In How we became posthuman, Katherine Hayles sostiene che l’affermarsi di quell’entità chiamata informazione si sia accompagnata a processi di “smaterializzazione” dei corpi, di progressivo abbandono e trascendimento dei vincoli della materialità. L’approccio di Haraway ai mondi alto-tecnologici mostra una realtà più complessa: i corpi radicalmente decostruiti e ricostruiti dalle moderne biotecnologie e dalle scienze informatiche non comportano tanto la smaterializzazione di questi in puri flussi informativi, problemi di codifica e di ricerca di un linguaggio comune che permetta la perfetta comunicazione. Anche l’informazione per Haraway ha una specifica dimensione materiale, così come i testi e i codici, che dovrebbero venire ripensati attraverso la nozione di embodiment. Facendo riferimento alla dimensione corporea, Haraway non si riferisce quindi a una dimensione prettamente biologica: le tecnologie di visualizzazione sono ripensate come sistemi di percezione attivi, nelle quali siamo immersi e con le quali siamo inestricabilmente intrecciati nella costruzione di specifiche forme di vita: un aspetto del nostro embodiment.
Il ripensamento della nozione di corporeità consente ad Haraway di riprendere e al tempo stesso di andare oltre l’analisi biopolitica inaugurata da Michael Foucault, ovvero dell’analisi che fa del corpo l’entità bioculturale per eccellenza e che consente di indagare i rapporti di potere che si concentrano direttamente sul soggetto in quanto entità corporea. La decostruzione della corporeità come sistema di comunicazione tecnologico consente di indagare gli effetti del biopotere oltre la sfera organismica: oggetto delle relazioni di potere non è più un corpo organico e organizzato gerarchicamente, ma sistemi cibernetici completamente decostruiti, assemblaggi ricomposti in modo sempre parziale, costrutti contingenti. Le biopolitiche che interessano corpi ricostruiti come sistemi di comunicazione non sono quelle del sesso e della riproduzione, ma dell’immunità, legate ai processi di replicazione di un sé estremamente vulnerabile e contingente (p.159). Quali tipi di sé vengono costruiti dal discorso sul sistema immunitario? L’intento di Haraway è di risignificare il paradigma immunitario: da dispiegamento di una guerra diffusa e capillare, in cui la replicazione del sé è funzione delle sue strategie di difesa e di attacco di fronte a una minaccia costante di “invasione”, a sistema che “apre” il sé e lo mantiene aperto. In quanto dispiegamento di una rete capillare di blackout e crolli delle comunicazioni, di confusione di confini, il sistema immunitario continuamente “disfa” il sé, mantenendolo contraddittorio ed eterogeneo, impedendone la chiusura e l’autonomizzazione. In questa dimensione riposa la “promessa illegittima” (p. 42) del cyborg: la sua natura artefatta, saltando il gradino dell’unità originaria, impedisce la realizzazione del suo telos apocalittico. In quest’ottica, inoltre, la differenza irriducibile con cui obbligano a fare i conti la postmodernità e i processi a essa inestricabilmente connessi, come quelli di decolonizzazione, non segnala tanto la “morte del soggetto”, come vorrebbero alcuni, ma piuttosto ci costringe a ripensare il soggetto come non isomorfico, auto-contraddittorio e multidimensionale.
Après coup è la traduzione francese del vocabolo tedesco Nachträglighkeit: entrambi sono termini tecnici utilizzati in psicanalisi e servono a rendere conto della temporalità che qualifica i processi psichici inconsci. L'après coupè, orientativamente, il nome che indica il tragitto a ritroso che un soggetto entrato in analisi è indotto a percorrere e che, in quanto traversata della fantasia inconscia, conduce (quantomeno nelle intenzioni degli analisti...) a riformulare la struttura di quel rapporto estimo, più che intimo, che questo stesso soggetto – evidentemente bloccato, evidentemente osteggiato da una ripetizione mnestica che lo invischia in un godimento indesiderato e che lo induce, appunto, ad entrare in analisi... – intrattiene con il Reale.
Ma l'après coup, da intendersi più nello specifico quale effetto della temporalità retroattiva tipica del significante (sulla quale è imperniato tanto il lavoro del sistema inconscio quanto quello della direzione della cura) o quale effetto logico-strutturale, secondo la lettura di Lacan, non è un semplice precorrimento o una forma di veggente anticipazione in quanto (sempre nelle intenzioni degli analisti...) l'esperienza psicoanalitica che lo consente e che scommette su questo iternon è mera ricapitolazione, ricezione passiva degli eventi passati ma, al contrario, presuppone per definizione la costruzione e la ricostruzione incessanti della biografia del soggetto. Vi è quindi una dimensione evidentemente costruttivista, creativa, che appartiene alla logica dell'après coupe che traspare tanto dal lavoro onirico, dalla struttura del sintomo e degli atti mancati, quanto dalla effettiva possibilità di elaborazione e rielaborazione dei traumi. È infatti proprio la dinamica della temporalità après coupche permette, grazie all'analisi, il riassetto di questi stessi traumi nell'economia psichica del soggetto. Va da sé, allora, che un tale processo di rielaborazione, riconfigurazione e riscrittura dell'esistenza dell'analizzante non possa, giocoforza, che attingere e mobilitare quelle risorse soggettive, singolari e non replicabili (non oggettivabili da nessuna pratica scientifica così come da nessuna ermeneutica) che fanno di una vita un'esistenza, appunto, singolare ed unica. Il ricordo, il ritorno après coupdel passato e la rielaborazione di eventi unici che demandano un'interpretazione retroattiva o reclamano una nuova ed inedita rielaborazione, per quanto tardiva, di ciò che è avvenuto sono, in un certo senso, il cuore pulsante di uno psichismo in atto che è evento singolare, evento irripetibile e soggettivo.
Ricondurre l'après coup a un'esperienza generalizzabile, riconducendone la portata soggettiva (non rendicontabile da nessuna filosofia ed inassorbibile da nessuna Weltanschauung) e sussumendo la ricchezza, l'imprevedibilità e l'aleatorietà che un tale tragitto verso il futuro anteriore del soggetto implica entro le categorie dell'universale filosofico è quello che Alessandra Campo si propone di fare nel suo ultimo libro, Tardività (Mimesis, 2018).
Un libro, sia detto per in inciso, di difficile lettura. È un testo specialistico, riservato agli “addetti al mestiere”, che non a caso è la pubblicazione rivista e raffinata della colossale tesi di dottorato in Filosofia dell'autrice. È inoltre un testo scritto in una prosa poetica, alata, che riempie pagine intense, ricche di commozione e di quell'apprensione per l'Assoluto che traspare da un lirismo singolare, dall'inesausta ripetizione dei concetti chiave, dalla minuziosa attenzione dedicata alla dimensione squisitamente tipografica del testo (corsivi, trattini e parentesi giocano un ruolo fondamentale nello stile espressivo dell'autrice) e culminante in sentenze granitiche, definitive: “Ogni concetto è espressivo, ma ogni concetto è tale solo se è unitrino, ovvero se indica, contemporaneamente, la Cosa, la sua rappresentazione e il loro ‘rapporto’. In questo senso ogni concetto è erotico, intermediario tra l'umano e il divino, il somatico e lo psichico. Ogni concetto è erotico perché ogni concetto è terzoe ogni concetto è terzo perché ogni concetto per l'intervallo, ovverosia: per i movimenti dietro la Cosa. Quindi ogni concetto è un après-coup: nient'altro che il risultato di uno sforzo intellettuale” (p. 49).
Ora, tra la ridda di concetti erotici ed unitrini che incedono nella storia della psicanalisi Campo ne elegge uno, quello di Nachträglighkeitappunto, e si propone di ascriverlo alla regia classifica di quei concetti fondamentali in grado di operare, come un tornello girevole, sulla soglia che divide la filosofia dalla disciplina freudiana: “Per Freud, la Nachträglighkeitnon è un concetto metapsicologico. Lo saràtuttavia stato, speriamo, agli occhi di chi avrà avuta la pazienza di leggere queste pagine” (p. 28).
L'operazione, delicatissima e insieme mastodontica, è svolta dall'autrice con flemmatica e instancabile acribia, con puntigliosa meticolosità bibliografica, e progredisce sul solco teoretico tracciato da Rocco Ronchi nel suo Canone Minore(Feltrinelli, 2015) – libro rispetto al quale Tardivitàsi prospetta come una specie di sequel, di compendio o di tardivoimplemento. Campo, infatti, evoca a sé quelli che Ronchi definisce i “filosofi del processo” (Whitehead, Bergson, Deleuze) e, forte di una conoscenza enciclopedica della loro opera, si propone di ripensare il rapporto temporale che sussiste tra coscienza e inconscio in modo da tradurre la trovata freudiana in una sorta di esperienza contemplativa ed estatica, lasciando così trasparire la possibilità di spiegare l'essenza dell'Estramite il ricorso a testi che, a tutta prima, non hanno nulla o ben poco da spartire con la tradizione psicoanalitica in quanto mancano, ad esempio, di quell'apprensione terapeutica e clinica che è fondamentale sia per Freud sia per Lacan.
L'intento sembra, infatti, quasi quello di sottrarre la psicanalisi agli psicanalisti per farne, anche attraverso gli strumenti offerti dalla teologia speculativa di Cusano, Bruno e Spinoza, una branca specifica di una filosofia altrettanto specifica: quella che, insensibile tanto al conturbante richiamo dell'antropologia filosofica quanto alla perturbante (e non necessariamente malinconica) elaborazione lacaniana della mancanza ontologica, mira a ricostituire quell'ideale di compattezza e di completezza (ontologica, per l'appunto...) che si impone, ad oggi – e proprio laddove non ci si aspettava di trovarla: nella letteratura che ibrida la tradizione filosofica con quella psicanalitica! – come una sorta di nuovorealismofilosofico. Una nuova filosofia che, fregiandosi del titolo di “minore”, rilancia la partita della teoresi pura e sceglie di mirare direttamente al Reale ambendo, inoltre, a dirne il più possibile, a comprenderne il più possibile nel tentativo di ripensare, per rivitalizzarla, l'esperienza della trascendenza classicamente intesa.
È infatti proprio verso una nuova definizione di inconscio che l'autrice si propone di condurci, una definizione a dir poco rivoluzionaria e pionieristica che sembra voler rinnovare dalle basi la tradizione filosofica contemporanea poiché, secondo l'autrice, “l'inconscio ignora il '900 filosofico, il quale, a sua volta, ha ignorato l'inconscio ignorando Dio che, come das Es, non conosce contraddizione, morte e tempo” (p. 273).
La posta in gioco è evidentemente alta e l'autrice si premura di definire i termini entro i quali la sua interpretazione dell'inconscio freudiano andrà a svilupparsi:
L'Assoluto [...] non è supremo né grammaticale: l'ideadi espressione contrasta sia con la speranzache l'Assoluto sia l'Ente-eminente, l'anello sempre mancante, perché eternamente trascendente, della grande catena dell'Essere, che con la credenzaper cui l'Assoluto non è altro che il significato prodotto, per effetto retroattivo o accumulazione progressiva, dalle nostre pratiche di scrittura e simbolizzazione. L'Assoluto è espressivo: che si con-verta incessantemente in segni che, pure, lo di-vertiranno significa che esso non è il segno che lo esprime, pur non essendo altrove che lì, in quel segno, pur essendo, in altre parole, il suo atto, e quindi il suo essere, quella stessa generazione indefinita di segni da cui, come tale, come assoluto semplice, infinito e perfetto, per natura differirà. Questo significa univocità del reale. (p. 37)
L'inconscio di cui parla Campo è quindi espressivo, è un inconscio che traspare quale mera constatazione del fatto naturale che esiste, nonostante Freud e Lacan abbiano esplicitamente negato quest'ipotesi, una signatura rerum in fondo inequivocabile, innegabile, e che inoltre esiste presso questa scrittura originaria un significato, a portata d'uomo, decretabile definitivamente. Esiste, quindi, un senso universale essenzialmente disponibile non tanto alla razionalità, alla concettualizzazione o alla matematizzazione, quanto a quella forma di intuizione intellettuale che “è intuizione della soddisfazione del mondo (genitivo soggettivo e oggettivo), intuizione della sua ragione, che è sempre ragione dei misti” (p. 413). In pagine davvero intense e con il trasporto mistico che contraddistingue il suo stile, Campo si dedica allora alla smisurata operazione di correzione, di ricalibratura e di aggiustamento delle interpretazioni che, nell'ultimo secolo, sono state date dell'inconscio freudiano. Dalla logica del supplemento si passa così a una logica dell'incremento (ferale è la critica indirizzata all'opera di Derrida, pp. 238-256), da una concezione analogicadell'inconscio si giunge a una concezione espressivadello stesso e dalla posizione sostenuta da Lacan nel seminario sull'Etica della psicanalisi, quella che si spiega l'esistenza dell'ente ricorrendo all'idea di creatio ex nihilo, si giunge a una metafisica della creatio ab intrinseco. Tematizzando i concetti di bidirezionalità (p.58) e simultaneità (pp. 163, 164) Campo conduce così il lettore verso una concezione di inconscio come pura processualità:
L'inconscio ‘è, né più, né meno’, ed è superficiale. La sua memoria non è una memoria del sottosuolo, come quella di Derrida, né il suo essere è l'Essere heideggeriano, obliato ma comunque intriso di tempo. L'inconscio è ed è atto, Mouvant, processo, puro differenziale di potenziale. Perciò non differisce ma agisce, non soffre, ma gode, non nega, ma afferma, non ha tempo, ma è atemporale (p. 244).
E Après coupsi rivela essere così, nelle mani di Campo, una nozione veramente omniesplicativa: è l'oggetto (a), è l'Assoluto, è l'Unheimliche, è Das Ding, ed è anche l'inconscio stesso, pur non essendo nessuna di queste cose e allo stesso tempo nulla se non in esse: “Come il Dio della teologia speculativa l'inconscio è trans-immanente, ovunque e in nessun luogo. Non è in nessuno dei cogitata(le rappresentazioni o figure), pur non essendo altrove che là. E la Nachträglighkeit, in quanto concetto dettato dall'inconscio cogitans, eredita da questole sue caratteristiche” (p. 169). Come potrebbe, d'altronde, essere altrimenti per un concetto che è assunto quale immagine mediatrice dell'inconscio, sua “forma inapparente” (p. 169), rappresentazione eminente di una coscienza colta nel suo partecipare direttamente a quell'economia dell'assoluto di cui si scopre immancabilmente (anche se un po' in ritardo...) paladina e, insieme, esecutrice inconsapevole?
Immagine tratta dal film “Arrival” (2016) di Denis Villeneuve
“Tardività è” allora, secondo l'autrice, “la ragione del fondamento” (p. 33) in grado di risolvere quel soggettivismo relativistico che, da Kant in poi, impedisce a ogni speculazione filosofica di fondare un sapere universale e necessario, di raggiungere quella verità ultima e definitiva che, nell'arco più che bimillenario interessato dallo sviluppo del pensiero occidentale, è supposta migrare, quantomeno da una certa tradizione storicista, dal campo religioso monoteistico a quello più razionale e rischiarato della riflessione filosofica. Ciò che si prospetta, in queste pagine, è allora niente poco di meno che la vera e propria resurrezione del divino, un suo ritorno après coupdi cui Campo e Ronchi, dietro di lei, si fanno araldi. Risurrezione intempestiva, tardiva, che trova proprio nella concettualizzazione freudiana della retroazione temporale un'inaspettata e imprevista idea-alleata capace di esibire, a un tempo, sia la struttura della psiche sia quella del divino: “La Nachträglighkeitè l'idea adeguata dello psichico reale, adeguata perché lo coglie, grazie a un'intuizione intellettuale, come unico processo di ascesa e discesa, progresso e regresso; come lo ‘stupendo moto di reciproca espressione (admiranda in invicem progressio divina)’ in cui, per Cusano, si esprimel'essenza della vita divina” (p. 178).
Sulla scorta di tali premesse e attraverso una miscela sapientemente dosata di immanentismo, teologia speculativa e “canone minore” Campo ha quindi buon gioco nell'evidenziare come, nonostante tutto e nonostante soprattutto il ventesimo secolo, sia non solo possibile rinvenire da Parmenide a Deleuze una forte e poderosa tendenza del pensiero occidentale a rimarcare l'univocità dell'essere, ma sia anche evidente come una certa continuità con questa tradizione (lungi dal prospettarsi come teoreticamente reazionaria...) sia essenzialmente auspicabile e lasci trasparire la possibilità di intrattenere un rapporto di familiarità, di intimità e di vicinanza con quell'Assoluto che, da quanto traspare dal testo, sembra costituirsi quale conditio sine qua non della filosofia, se non del pensiero stesso.
La temporalità dell'inconscio che si profila in Tardivitàè allora una temporalità fantastica, a dir poco fantascientifica, così come la si incontra ad esempio in film quali Arrival(2016) o Signs(2002). Ed è la stessa autrice ad ammettere una certa continuità tra il “tempo favoloso” (p. 41) prospettato da Deleuze nel suo corso su Kant e l'interpretazione dai lei offerta della Nachträglighkeit. Continuità o coincidenza che, forse, trovano proprio nella sceneggiatura cinematografica il loro analogon più efficace in quanto è soprattutto (se non esclusivamente...) nelle storie narrate al cinema da Villeneuve o Shyamalan che è possibile fare esperienza di una realtà univoca il cui senso è, in un certo modo, assicurato da un Assoluto espressivoe garantito da una “Übercausälitat”(p. 355: quella causalità di ordine superiore, aionica ed eterna che Campo vuole rilevare nel suo studio) che sembra cogliere i protagonisti alla sprovvista salvo poi, in un attimo di estatica elevazione fuori dai cardini del tempo soggettivo, proiettarli al di là di sé, verso una trascendenza che assicura loro una conciliante rivelazione: “l'universo non è arbitrario né malvagio: l'ordine immanente nascosto ‘dietro’ le intricate e spesso enigmatiche interconnessioni che lo strutturano è per Freud, come per Einstein, essenzialmente degno di fiducia, perché unitario e coerente nella sua intellegibilità. Dio è nascosto, ma è buono” (p. 355).
Ed ecco che allora oltre alla creazione di una temporalità fantastica è anche verso l'invenzione di un Freud “minore”(p. 25) che l'autrice si volge, in un operazione a dir poco coraggiosa e non priva di originalità: un Freud “fantastico” come il tempo deleuziano-bergsoniano, un Freud che da medico positivista diventa filosofo della processualità pura e teorico dell'eterna coincidentia oppositorum. Quello che scopriamo, assieme a Campo, è un Freud inedito, un inconsapevole teologo speculativo:
L'intuizione intellettuale è l'intuizione dell'hen kai pan(‘Allenheit’ in tedesco), dell'Uno-che-è-Tutto e del Tutto-che-è-uno. Ma, se questo è vero, come principio ontologico e ragione dei misti, ossia delle sfumature, la Nachträglighkeitè visione diDio (genitivo soggettivo e oggettivo), di un Dio soddisfatto perché sufficiente e sufficiente perché soddisfatto. In quanto acto simplicissimo in sé contemplaturomnia simul sine successione, la percezione secondo l'immediatezza causale non è, infatti, nient'altro che un colpo d'occhio su Dio, totum simul atque perfectum, e sulla sua bontà (p. 416)
Quello di Campo è quindi un Freud che pare aver intuito e poi abbandonato ingenuamente o come se fosse stato colpito, lui stesso, da rimozione (Verdrangung), l'equivalenza e l'omogeneità sostanziale tra l'Inconscio (la sua creatura), l'Assolutointeso quale spontanea e naturale gemmazione di significato, e il Dio neoplatonico, l'Uno totum simul atque perfectumcelebrato da Cusano, Bruno e Spinoza nelle loro opere. E l'identità unitrinadi questi tre elementi è proprio ciò che Tardivitàsi propone di ricongiungere, di riannodare après coup, indicando nell'intuizione intellettuale tanto la via regia da percorrere quanto il metodo per condursi, attraverso la speculazione, presso questa beatifica visione dell'eterno.
Ma è un metodo, quello adottato da Campo, che forse nasconde un pericolo e solleva qualche impasse per quanto riguarda il progetto ermeneutico promosso in Tardività. L'insidia teoretica celata nel concetto di intuizione intellettuale, un concetto euristicamente a dir poco onnipotente, consiste nella possibilità di istituire una sorta di koinè concettuale omologante e giocoforza acritica che, pur di raggiungere quell'unità tanto agognata di soggetto e oggetto e pur di elicitare l'identità trascendentale, aspaziale e atemporale che accomuna tutti gli enti nell'eterno entanglementdivino, lascia da parte o non conferisce il giusto peso a quelle aporie e a quelle differenze essenziali che intercorrono tra gli autori, tra le filosofie e soprattutto tra i concetti, correndo così il rischio di travisarne il contenuto. Un rischio, questo, che Campo corre consapevolmente e che si assume con l'obiettivo, per nulla modesto, di elaborare una teoria metafisica dell'Assoluto, unitaria e coesa, che spazia da Deleuze alle isteriche della Salpêtrière, da Lacan a Nishida Kitaro passando per Carlo Rovelli, Einstein, Roland Barthes e Giordano Bruno, in un détourcolto e nozionistico, lirico e salace. Per decidersi in merito alla effettiva riuscita di questo progetto rischioso, imponente e decisamente ambizioso non possiamo che rimandare il lettore alla lettura completa di Tardività e ci solleviamo, per parte nostra, dall'esporre un giudizio definitivo. Più interessante, in questa sede, è rilevare – per concludere – i risultati che emergono dalla monumentale ricerca di Campo.
Aion (dio del tempo, nel cerchio in altro) e Gaia (dea della terra, in basso)
Freud e Lacan non si sarebbero accorti o non avrebbero pienamente compreso, in breve, che la temporalità non-lineare, frantumata e “impazzita” che qualifica quell'inconscio detto appunto “Zeitlos” (senza tempo) non sarebbe altro che il profilo, la sagoma di quel dio neoplatonico e cusaniano, di quell'ente sommo, perfettissimo e necessario che nella storia della filosofia passa sotto il nome di “Uno” e di cui la formula “hen kai pan” traduce il modello ontostatico, eterno ed infinito.
Il risultato teoretico della ricerca di Campo è allora una sorta di panacea teologico – speculativa per la psiche, una specie di medicamento universale per lo spirito che riscuoterà di certo il meritato successo e troverà modo di essere speso nei contesti intellettuali più svariati (nelle pratiche filosofiche o di counseling, nei convegni e nei festival) ma che, molto probabilmente, non potrà fungere in nessun modo da supporto o da strumento esplicativo per la teoria - pratica psicanalitica. Anzi, forse non farà altro che divaricare la distanza che separa la filosofia dalla creazione di Freud. Quest'ultima, infatti, ha storicamente istituito la sua identità ed ha fondato la sua legittimità proprio marcando la distanza dall'universale filosofico, dal presupposto metafisico di una coincidentiatra l'umano e l'assoluto che fosse accessibile dall'intuizione intellettuale (nota è l'avversione nutrita da Freud per ogni “sentimento oceanico”) e guarda con sospetto ogni costruzione metafisica forte, in grado cioè di spiegare definitivamente la realtà, priva di mancanze e per giunta intesa come totalità o univocità, nei suoi tratti salienti. Le aporie che sgorgano dal disturbo mentale quale evento e le perturbanti prospettive dischiuse dalla psicopatologia sembrano infatti non trovare posto, non avere il giusto rilievo nell'inconscio così come Campo lo definisce.
L'attenzione posta al soggetto, all'evento singolare e al destino psichico dell'analizzante assumono infatti, nel campo psicoanalitico, la preminenza rispetto a qualsiasi sistematica rendicontazione ontologica, a qualsiasi speculazione cosmologica e a qualsiasi riabilitazione dei modelli gnoseologici invalsi in occidente prima della rivoluzione scientifica – siano essi medievali, tardomedievali o moderni. Quando Campo afferma, a proposito dell'inconscio come causa assoluta
che la causalità processuale è una causalità materiale e formale, efficiente e finale perché l'inconscio è causa, ma non come una cosa (soggetto, substrato, sostanza) che causa. L'inconscio è causa come un processo, come un verbo, un'azione: causare. L'inconscio è causazione in atto. La sua azione – causante – è il suo essere – causa –, perché quando il sostantivo si verbalizza, la Sostanza diviene Processo e la Cosa si attiva, si anima (p. 273)
sembra infatti sposare il modello gnoseologico tomista dell'actus essendi, attribuendo così ai processi primario e secondario il ruolo di intelletto possibile ed intelletto attivo e facendo risorgere, questa volta per davvero, in questa bizzarra sovrapposizione, uno stile di pensiero a dir poco datato. Uno stile di pensiero (quello medievale, che verrà poi progressivamente smantellato nell'arco della modernità, in seguito allo sviluppo del metodo scientifico) che si fonda su di un'aprioristica complicità tra il soggetto e l'oggetto, tra l'uomo e il mondo, e postula una coappartenenza fondamentale e naturale tra gli opposti garantita ed assicurata dall'ipostasi divina. L'intuizione intellettualeche Campo invoca quale metodo della sua filosofia è evidentemente a questa mistica coincidenza che dovrebbe mirare. Ma è stato proprio Lacan, psicoanalista navigato e fine pensatore aduso alle resistenze del soggetto, ad affermare con caustica ironia: “E' difficile sottrarsi all'idea che non sia un pensiero a governare il mondo” (Lacan, 1979, p.143). E una tale istanza sembra valere anche e soprattutto se questo pensiero fondamentale e genetico, inteso quale aeterna nativita se intemporis generatio (termini che Campo preleva da Cusano e innesta sul testo freudiano), è identificato con l'inconscio in quanto tale. Sempre Lacan, poi, ha insistito fino allo sfinimento nel dire che l'inconscio è un concetto nato (o abortito?) dallo sviluppo della scienza moderna, come una sorta di impellenza scabrosa che insiste e ritorna a ogni passo (a ogni inciampo?) con l'urgenza di un atto mancato:
Il passo della scienza è consistito nell'escludere ciò che implica di mistico l'idea di conoscenza, nel rinunciare alla conascita[conaissance], e nel costituire un sapere che è un apparecchio sviluppantesi a partire dal presupposto radicale che noi non abbiamo a che fare con nient'altro che con apparecchi maneggiati dal soggetto, e, più ancora, che quest'ultimo può purificarsi in quanto tale, fino a non essere nient'altro che il supporto di ciò che si articola come sapere ordinato in un certo discorso, un discorso separato da quello dell'opinione e che se ne distingue come quello della scienza (Lacan, 2006, p. 280)
Risulta quindi problematico, per Tardività, affermarsi quale vero e proprio punto di connessione tra la psicanalisi di stampo freudo - lacaniano e filosofia immanentista in quanto, a tal riguardo, è necessario sottolineare che tanto la questione epistemologica quanto il cosiddetto “discorso della scienza”, così come la minaccia meccanicistico – deterministica che in esso è annidata, sono temi sistematicamente elusi dalla trattazione. L'insistenza sul carattere aionico del tempo così com'è declinata da Campo sembra assimilare indiscriminatamente, in un certo senso, le scuole freudiana e lacaniana a quella dell'eretico Jung, più proclivo a una certa deriva misticheggiante della pratica psicanalitica, più sensibile all'idea di un inconscio vaticinante, espressivoe intarsiato dalla signatura rerum, e inoltre teorico di quella “sincronicità” che nell'argomentazione di Campo riveste un ruolo pivotale (per quanto dissimulata sotto le mentite spoglie della “simultaneità”). È forse Jung, allora, il personaggio che nella storia della psicanalisi meglio si attaglia alla lettura della Nachträglighkeitproposta in Tardività. Freud e Lacan, per parte loro, l'inconscio l'hanno esplorato e compreso, né hanno eluso le questioni del sacro e della trascendenza: le hanno risolte, semmai, a modo loro (in un modo, per altro, che prescinde esplicitamente dal ricorso a una teoria metafisica quale è quella elaborata in Tardività).
Detto questo, e posto che le intenzioni dell'autrice sembrano invece altre, ovvero sembrano tendere verso un'assimilazione della psicanalisi freudiana alla proposta filosofica di Ronchi in modo da annoverare anche Freud tra la ridda di autori “minori”, è assolutamente necessario riconoscere e ammirare l'originalità e l'audacia dell'opera. In quanto ardito e coraggioso tentativo di ripensare la positività della trascendenza, o di riformularne i tratti essenziali in modo da ritrovarne la concreta possibilità nell'esperienza comune, Tardivitàsi qualifica come un libro di filosofia genuino, verace, che non mancherà di stimolare la fantasia e l'interesse di quanti siano alla ricerca, ancora oggi, di un'idea somma, assoluta e definitiva da eleggere a termine ultimo ed insieme a principio universale (d'altronde: prima = dopo) per il loro modo di pensare e di filosofare.
di Filippo Zambonini
Bibliografia
Campo A. Tardività, Mimesis, Milano – Udine 2018
Lacan J., Alla scuola Freudiana, in Lacan in Italia 1953 – 1978 – En Italie Lacan, a cura di G. B. Contri, La Salamandra, Milano 1979
Lacan J., Le Séminaire. Livre XVI. D'un Autre à l'autre, a cura di J.-A. Miller, Seuil, Paris 2006
L’intento di questa raccolta, che prende il titolo di “Soggettivazioni”, è stato quello di aprire una riflessione attorno alla teoria della soggettivazione lacaniana, così per come ce l’ha lasciata in eredità Lacan, a singhiozzi, nei testi stabiliti a partire dai suoi trent’anni di insegnamento orale. Cosa può dirci una psicoanalisi asistematica, distante dalle istituzioni universitarie rispetto a problemi di una concretezza innervata di realtà? Chi frequenta i dipartimenti di Psicologia e assieme l’insegnamento lacaniano sa che è incommensurabile la distanza che intercorre tra la specificità e la settorializzazione degli strumenti istituzionali a confronto con l’universalità dei concetti larghi e volontariamente mai definiti dello psicoanalista parigino. Tra l’estremamente particolare (l’ad hoc della psicologia contemporanea) e l’estremamente universale (il concetto, unità sintetica della filosofia) si rischia di incorrere in un deragliamento del punto focale, causato da uno scontro di metodi epistemologici che si sono stabilizzati ai bordi opposti l’uno rispetto all’altro. Nella scelta di prendere in considerazione un tema vasto e generale come la teoria della soggettivazione c’era l’interesse, da parte nostra, di porlo in dialogo con il campo altrettanto vasto e generale del presente. Speriamo che questa prima ricerca possa costituirsi come un’indagine (sebbene parziale) sullo statuto del soggetto in quanto campo epistemologico aperto: attingendo dalla teoria psicoanalitica e dal dibattito che ne è scaturito, il presente volume segue molteplici sentieri analitici e sottolinea di contributo in contributo la difficoltà di giungere a un’idea organica di soggetto, per la varietà di ipotesi spesso contrastanti in merito alla sua rappresentazione, formalizzazione e interpretazione. In questa raccolta crediamo che i punti maggiormente messi in rilievo da chi ha collaborato riguardino il problema della genesi, lo statuto della trasformazione, e infine un’attenzione specifica è stata rivolta al registro del Reale e ai suoi effetti.
Aperçues è uno dei libri più singolari di Georges Didi-Huberman. Raccoglie numerosi testi brevi (ognuno dei quali reca un proprio titolo e una precisa data di composizione) che riguardano immagini, non tanto analizzate per esteso quanto piuttosto «intraviste» (è questo il significato del titolo). Il medesimo concetto viene ribadito nell’epigrafe, tratta da un discorso del poeta tedesco Paul Celan: «E cosa sarebbero allora le immagini? Ciò che una volta, e ogni volta è l’unica volta, è soltanto qui e ora, viene intravisto e ha da essere percepito». Conviene parlare genericamente di immagini perché, nella sua vasta produzione saggistica, Didi-Huberman non si è interessato soltanto alle opere d’arte pittoriche o scultoree – antiche, moderne o contemporanee che siano –, ma ad ogni sorta di elementi visivi (stampe, manifesti, fotografie, video, film, ecc.). Egli potrebbe, come Baudelaire, definire le immagini «la mia grande, la mia unica, la mia primitiva passione, nel senso che le considera, oltre che come fonte di fascino, anche come oggetto di un’inesausta riflessione.
Giuseppe Zuccarino è critico e traduttore. Ha pubblicato vari saggi:La scrittura impossibile, Genova, Graphos, 1995; L’immagine e l’enigma, ivi, 1998; Critica e commento. Benjamin, Foucault, Derrida, ivi, 2000; Percorsi anomali, Udine, Campanotto, 2002; Il desiderio, la follia, la morte, ivi, 2005; Il dialogo e il silenzio, ivi, 2008; Da un’arte all’altra, Novi Ligure, Joker, 2009; Note al palinsesto, ivi, 2012; Il farsi della scrittura, Milano-Udine, Mimesis, 2012; Prospezioni. Foucault e Derrida, ivi, 2016. Tra i libri da lui tradotti figurano opere di Mallarmé, Bataille, Klossowski, Blanchot, Caillois e Barthes. Ha inoltre curato un fascicolo monografico della rivista «Riga» (n. 37, 2017) dedicato a Maurice Blanchot.
Nelle sei lezioni che compongono Il senso della possibilità, edito a gennaio per Feltrinelli (2018), Salvatore Veca completa una trilogia di saggi ̶ iniziata nel 1997 con Dell’incertezza e continuata nel 2011 con L’idea di incompletezza̶ che rappresenta uno dei più complessi itinerari teorici del panorama filosofico italiano degli ultimi vent’anni. Nello specifico, in questo terzo volume, Veca si impegna nella difficile impresa di delineare il senso della nozione di possibilità entro il quadro di un’interpretazione filosofica delle modalità che si dimostri in grado di dar conto della connessione tra l’impiego dei termini modali (attuale, possibile, necessario, contingente) e i nostri atteggiamenti proposizionali ordinari del reputare “come stanno le cose” nel mondo che ci circonda. In altre parole, l’autore muovendo da una prospettiva epistemica prova a far luce sui processi che generano le nostre descrizioni e prescrizioni e, in particolar modo, sulle ragioni del loro trasformarsi nel tempo, imputabili in vario modo ai mutamenti nell’ambito delle teorie e delle pratiche (p. 16).
A partire dalle precedenti ricerche sulle nozioni di incertezza e incompletezza, ritenute rispettivamente l’origine della tensione teoretica e il carattere proprio del risultato che ne scaturisce, Veca ci accompagna in un tortuoso itinerario lungo i limiti della pratica filosofica, fino al punto di rottura in cui il necessario diviene contingente e l’inaspettato si manifesta nella forma dello scacco. L’intento però non è soltanto porre l’accento sullo stato di crisi di fiducia o legittimità che investe ciclicamente l’impresa del senso ma di indagarne il ruolo epistemologico. Il ripetersi della crisi, manifestantesi attraverso l’esigenza di impegnarsi in manovre metateoriche, andrebbe interpretato piuttosto come un promemoria antiriduzionistico dovuto a una sorta di inesauribilità propria degli oggetti dell’indagine filosofica. La natura di tali oggetti stimolerebbe l’adozione di una molteplicità di punti di vista in una manovra intellettuale che fa “di necessità virtù” ma che nel contempo rappresenta la possibilità stessa di una relazione conoscitiva con “ciò che c’è”. Si pensi al senso di povertà e angustia che ci assale quando dimostriamo le ragioni irrevocabili di un unico punto di vista rispetto agli enigmi ricorrenti o inaspettati della filosofia, ci ricorda l’autore. Da queste considerazioni preliminari (oggetto della Prima lezione), seguendo una linea che dall’enciclopedia di Husserl porta ai giochi linguistici di Wittgenstein per giungere fino al paradigma della spiegazione di Nozick, Veca torna a chiedersi se «non dovremmo guardare all’attività filosofica come a un ventaglio di stili d’indagine e di scopi e obiettivi di ricerca differenti e alternativi» che, se prendiamo sul serio la storia, ci accorgiamo «persistere quasi nella forma di motivi musicali, nel repertorio o nell’archivio» (pp. 32-33). Ed è proprio qui, all’incrocio tra dimostrazione e spiegazione, che la nozione modale di possibilità diviene elemento cruciale per mettere a fuoco la stretta connessione tra contingenza e verità. Connessione che si manifesta in tre sensi del possibile: 1) reputare qualcosa possibile in senso ampio (epistemico); 2) immaginare e sperimentare mentalmente mondi possibili; 3) pensare se stessi nella durata e dunque nel proprio essere oggetto di trasformazione.
A fornire la struttura portante del saggio è la lunga riflessione rivolta al primo senso del possibile, che si svolge trasversalmente a tutte le sei lezioni ma che diviene protagonista, in particolare, della prima e della quarta. Qui, ripartendo dall’analisi delle categorie e dei giudizi modali svolta da Kant nella Critica della ragione pura, Veca osserva innanzitutto che quando reputiamo possibile, attuale o necessario qualcosa non facciamo riferimento al contenuto proposizionale degli enunciati «quanto piuttosto al tipo di relazione fra l’atteggiamento del soggetto che giudica e l’enunciato corrispondente». Le modalità hanno dunque a che vedere con i nostri atteggiamenti proposizionali, con «la posizione che noi specifichiamo, assegnando epistemicamente modalità alternative agli stessi stati di cose. x è p: possibile, attuale, necessario» (p. 41). Questo genera due problemi per la riflessione kantiana che si rivelano cruciali per l’indagine. In primo luogo, il fatto che le categorie modali risultano distinte nettamente dalle altre categorie in quanto tetiche: esse accompagnano le variazioni del “porre” dando conto del soggetto e non dei modi dell’oggetto. In secondo luogo, diviene centrale la categoria dell’attuale (wirklich) e il giudizio assertorio. Queste assumono un ruolo prioritario poiché chiamano in causa la posizione “in quanto tale” dell’oggetto nello spazio e nel tempo (absolute Setzung) mentre possibilità e necessità di un oggetto indicano soltanto rispettivamente l’accordo con la regola o la posizione secondo una regola. In questo senso l’attuale (nel senso della Wirklichkeit), implicando l’assegnazione di esistenza a qualcosa, «è immerso in un intorno in cui si danno ex ante possibilità e, ex post, necessità» (p. 42). In questo senso, secondo Veca, la priorità dell’attuale così come intesa da Kant indica l’unica via d’accesso per il soggetto al possibile e al necessario e nondimeno implica una gerarchia in cui l’orizzonte di partenza ineludibile è l’esperienza presente. Il problema che tuttavia permane nella prospettiva kantiana è il suo realismo empirico: perché l’esemplificazione esistenziale abbia successo è necessario soddisfare la condizione della percezione nello spazio e nel tempo di un oggetto. Tale componente del sistema kantiano è però inutilmente restrittiva e non tiene conto di una vasta gamma di modi con cui assegniamo esistenza a qualcosa nel nostro linguaggio ordinario. L’autore fa qui riferimento ai recenti sviluppi logici dei temi kantiani elaborati da Hintikka per mostrare come il nostro reputare vero o falso un qualsiasi stato di cose sia implicitamente legato a processi di comparazione tra una serie di stati di cose possibili al fine di classificare quelli che sono compatibili con ciò che viene percepito come stato attuale. Questo significa che quando esploriamo il mondo che ci circonda mettiamo in atto «giochi di ricerca e ritrovamento» sul modello dei giochi linguistici di Wittgenstein che però in questo caso si svolgono tra il ricercatore e la natura. Che qualcosa esista è l’esito riuscito di tale attività che, come sostenuto da Kant, si svolge nell’ambito delle nostre percezioni di oggetti. Gli oggetti nello stato attuale a loro volta vanno intesi come ciò cui possiamo riferirci alla luce dell’esito positivo dei nostri giochi di ricerca e ritrovamento, e fino a prova contraria (pp. 43-44).
Fan Ho - The Lonely Conductor
È bene precisare che l’idea guida di queste analisi non mira a negare l’importanza degli aspetti aletici o deontici al contrario vuole impegnarsi «a connettere l’impiego dei termini modali ai nostri atteggiamenti ordinari e, in particolare, ai nostri atteggiamenti proposizionali, ai nostri giudizi intuitivi di modalità, al nostro reputare» come stanno le cose in una varietà di domini. Questo significa impegnarsi nell’elaborazione di una versione del realismo che integri l’assunzione realistica elementare, secondo cui esiste un mondo là fuori indipendente da noi, e che tenga conto della rilevanza del fatto che all’attuale è possibile riferirsi in più di un modo. Sostenere infatti che qualcosa c’è non è affatto controverso, più complesso è rispondere alla domanda a proposito di ciò che diciamo che vi è (p. 44). In particolare nella quarta lezione, dal titolo Epistemologia, necessità e realismo, Veca si propone di mostrare come la progressiva trasformazione dell’immagine della scienza ̶ dalla visione statica neopositivista della prima metà del secolo all’interesse per la dinamica dell’impresa scientifica dalla seconda metà in avanti ̶ abbia determinato una profonda revisione, non soltanto della nostra concezione del rapporto tra teoria e realtà, ma anche dell’appropriato significato epistemico da attribuire all’operatore modale di necessità (p. 130). La svolta causata nel Circolo di Vienna dal falsificazionismo di Popper prima e dalle Ricerche filosofiche di Wittgenstein dopo ha messo fuoco la dinamica storica che caratterizza il cambiamento concettuale dell’impresa scientifica, ponendo l’accento sulla sua dimensione pragmatica e in un secondo momento sociologica, chiudendo così i conti con le posizioni concernenti la plausibilità di isomorfismo strutturale fra proposizioni e stati di cose. In termini modali, secondo l’autore, questo ha generato l’esigenza di una riformulazione della nozione di necessità che, con le parole di Nozick, da «necessità incondizionata che resiste a qualsiasi controesempio a un tempo dato, connessa alla verità di qualcosa in tutti i mondi possibili» passa a «necessità condizionata […] sino a prova contraria» ovvero fino a che dimostri di resistere a tutti i controesempi concepibili nel tempo (p. 132-133). È facile dunque comprendere come dall’assunzione del carattere condizionato della necessità derivino gravi problemi sul piano ontologico e semantico per quelle prospettive filosofiche che aspirino a prendere sul serio le pratiche scientifiche come vincolo per qualsivoglia programma di ricostruzione concettuale. Qui emerge la tesi di Veca: il riconoscimento del carattere in ogni caso condizionato della necessità ha natura prettamente epistemica quindi «non c’è nulla che ci autorizzi a sostenere che non si diano o non siano definibili relazioni o proprietà necessarie che hanno a che vedere con come sono fatte o stanno le cose» semmai «non sappiamo che farcene di necessità metafisiche» (p. 136). Anche se la necessità dipende dalla serie di circostanze in cui quella relazione è inserita non significa che non sia per noi uno strumento efficace di accesso al mondo. Proprio come avviene per i designatori rigidi di Kripke quando definiamo qualcosa come necessario facciamo riferimento a un oggetto la cui interpretazione riteniamo stabile a un tempo dato e che lo definisce entro un qualche ordine o una qualche ontologia formale. Riconosciamo in esso una certa invarianza rispetto ad almeno alcuni gruppi di trasformazioni. Veca definisce questo tipo di oggetti saturi rispetto all’interpretazione, gli oggetti insaturi sono invece quegli oggetti per cui è disponibile una varietà di interpretazioni divergenti. Ora gli oggetti insaturi sono connessi in qualsivoglia spazio concettuale a oggetti saturi che svolgono il ruolo di limiti per la loro interpretazione, secondo un principio olistico della connessione delle nostre credenze (p. 139). Questo non significa che gli oggetti saturi siano speciali, come le necessità metafisiche: più semplicemente assumono un rilievo particolare a un tempo dato poiché accade che nel loro caso abbiamo una singola interpretazione a fissarne il riferimento. Come per i designatori rigidi, una volta fissato il riferimento «si è liberi di variare in modo puramente combinatorio le proprietà dell’oggetto designato, semplicemente considerandolo come al centro di un insieme di mondi possibili che ruotano intorno ad esso» (p. 143). In tal modo saremo in grado di pensare una varietà di mondi possibili ma tale libertà sarà limitata dalle proprietà essenziali dell’oggetto in quanto saturo. Siamo qui al confine tra epistemico e aletico ed è per questa ragione che «è sensato pensare un mondo possibile in cui Cesare non passa il Rubicone, mentre appare irragionevole pensare un mondo possibile in cui Cesare è un coccodrillo» (p. 143). L’attuale teoria scientifica sarebbe dunque il riferimento iniziale che stabilisce ciò che è saturo fino a prova contraria e in questo modo verrebbe meno la cogenza della celebre distinzione fregeana tra Sinn e Bedeutung: «se il senso di qualcosa attiene al modo con cui ci viene dato l’accesso al riferimento a qualcosa, questo ha luogo entro il dominio epistemico che è certo distinto ma non indipendente dal dominio aletico che ospita solo il riferimento a oggetti. Accettiamo il significato come riferimento, ma non rinunciamo dal punto di vista epistemico alla prospettiva del senso inteso come una tra le possibili vie del riferimento» (p. 145).
Veca giunge a proporre una forma di realismo scientifico dallo sfondo modale fondato sull’equilibrio riflessivo tra l’intuizione empiristica rappresentata dal riferimento fisso, cui pertiene il carattere aletico del significato, e l’intuizione costruttivista rappresentata dalle modalità epistemiche, che garantiscono la possibilità di definire differenti descrizioni nel tempo del medesimo oggetto. La varietà delle vie del riferimento coincide con la possibilità di essere aperti al mondo (con McDowell) nel senso della doppia esigenza di conservare un attrito con esso, in quanto limite per le nostre ragioni, e al contempo di mantenere una certa distanza al fine di rendere possibile quel gioco di ricerca e ritrovamento con un cui miriamo a descrivere la realtà. Tuttavia, come avverte Putnam, il mondo non ci si “rivela”: abbiamo bisogno di un grande lavoro concettuale per metterci nelle condizioni di accedervi. Questo però non equivale a costruire il mondo ma semplicemente a cercarlo nella pratica non epistemicamente ideale di esseri che fanno uso del termine vero (p. 150).
La ragione del testo Che cosa si fa quando si fa filosofia?, scritto da Rossella Fabbrichesi ed edito da Raffaello Cortina (2017), è delineata esplicitamente nella Premessa e si articola significativamente all’interno dell’ambiente da cui prende avvio. Fabbrichesi, all’interno dell’aula universitaria milanese dove svolge la sua professione di insegnante, decide di affrontare i suoi studenti con una domanda spiazzante, nella sua apparente semplicità: “Che cos’è la filosofia?”. A partire da questa domanda, il tema della filosofia – intesa come campo di sapere determinato e, allo stesso tempo, come insieme delle procedure che la pongono in atto – viene dipanato nel corso di quindici capitoli e integrato da alcune riflessioni finali emerse a lezione e successivamente strutturate tramite un lavoro collettivo dell’autrice e dei suoi studenti. Il lavoro di conduzione seminariale, punto di partenza per la nascita del testo, è consistito in un processo di “e-ducazione” in cui l’autrice, limitandosi – a suo dire – a «orientare discorsi che venivano partoriti e circolavano tra gli astanti, alimentandosi negli scambi comuni», ha condotto con sé delle anime «insegnando loro a battere il ritmo del canto corale» (p. xiv) e, richiamandosi al modo originario di fare filosofia, l’ha posto in atto all’interno di quella comunità di studenti che, in poco, sarebbe diventata una comunità di “amici della filosofia”, una comunità di ricerca fondata su una condivisione di interessi e su una radicata volontà di attualizzarli.
Attualizzare i contenuti di un sapere che da lungo tempo viene messo in discussione, tanto nei suoi luoghi di tradizionale appartenenza – le accademie – tanto nella quotidianità – luogo di prassi da cui origina la filosofia – interrogandoli nelle sue parti elementari (“Che cos’è la filosofia?”, “Che cosa si fa quando si fa filosofia?”) piuttosto che ribadirli e al fine di strutturarli in un sistema nuovo, sempre ri-organizzato secondo le esigenze della contemporaneità, assume un profondo significato politico; si sceglie di riappropriarsi degli strumenti originari della filosofia, per riabitarne i luoghi, per richiamarne il ruolo di critica e di conseguente produzione creativa e alternativa del reale.
I presupposti del testo, che già dalle prime righe si mostrano articolati secondo due linee principali, una teorica e l’altra pratica, si intersecano per tutta la sua durata e, intrecciandosi intorno alle domande fondanti della filosofia – “Che cos’è?” (il “ti esti?” di socratica origine) e “che cosa si fa?” (il methodos dell’indagine) – generano un continuo rimando di livello tra il conoscitivo e il pratico. I rimbalzi di significato giungono a compiersi, senza mai concludersi per loro stessa natura, nell’Appendice – nominata significativamente L’esercizio della prassi teorica – in cui gli studenti si interrogano personalmente su che cosa fanno quando fanno filosofia, quasi a suggerire al lettore un bilancio del percorso che ha individualmente compiuto lasciandosi suggestionare e coinvolgere dalle riflessioni dei capitoli precedenti. In questo senso, se “Che cos’è la filosofia?” «Non è affatto una domanda rivolta a dei principianti» (p. xii), poiché non segna un’arché, ma anzi, presuppone un arsenale concettuale consolidato a seguito di anni di speculazione, il chiedere “Che cosa si fa quando si fa filosofia?” apre lo scenario a chiunque abbia mai sperimentato una “forza erotica”, nel senso platonico del termine, nei confronti di tutto «ciò che è insolito, stupefacente, difficile e divino» (p.74), a chiunque creda che non esista la filosofia, ma la pratica filosofica e a chiunque veda il proprio godimento alla base della ricerca filosofica potenziato dalla «crescita della ragionevolezza in un’ottica comunitaria» (p.76). In questo senso, coloro che, staccandosi dall’idea della filosofia come formazione originariamente paideutica, intendono l’attività professionale dell’insegnamento come unica e adeguata declinazione dalla formazione filosofica, difficilmente proveranno meraviglia o stupore (per richiamare – come fa l’autrice – le emozioni primarie che tradizionalmente designano i moventi originari dell’interrogazione filosofica del mondo) di fronte alla rassegna di concezioni o di visioni del mondo di filosofi noti che hanno provato, con parole diverse ma con univoca passione, ad attribuire significato alla prassi filosofica.
Considerando però che attribuire significato a una prassi significa anche, tramite interrogazione critica, fondarla trascendentalmente e dotarla di senso, la forza di questo testo consiste nella volontà di indagare il nesso che caratterizza la filosofia come insieme delle dottrine da apprendere e la filosofia come insieme delle prassi che, agite, alterano e modificano il mondo in cui ci orizzontiamo, più che nella padronanza con cui vengono richiamate e fatte dialogare le autorità filosofiche del nostro passato tramite i loro impianti speculativi. Sondare questo nesso corrisponde ad abitare il “limite” di cui parla Foucault e solo la consapevolezza della sua ineliminabile duplicità (Cfr. Amare la duplicità, pp. 57-62) ci farà progredire nella pratica filosofica; indagare un oggetto dirà tanto più sul metodo d’indagine che sulla natura dell’oggetto in sé e, d’altro canto, indagare sé non è altro che mettere in luce la verità in cui abitiamo, con un ricorso inevitabile a ciò che noi crediamo essere la verità. L’esercizio di ginnastica mentale che compiamo quindi su di noi facendo filosofia coincide – a ben vedere – con l’atto di approfondimento verso il reale per come ci si dà e nel suo non poter essere altrimenti, generando un flusso tanto più ininterrotto e dinamico tra etica e conoscenza quanto più diveniamo coscienti che «è la vita che produce la verità, e non la verità che si rivela aspirazione della vita» (p. 38).
TURNS. Dialoghi tra architettura e filosofia è la traccia di un dialogo spesso acceso, ricco di incomprensioni e riconciliazioni, che coinvolge architetti e filosofi, docenti e professionisti, e ancora biologi, dottori di ricerca, studenti. È il racconto di due discipline, architettura e filosofia, che si voltano per guardarsi reciprocamente, provando a innescare una svolta concettuale che deve divenire un nuovo punto di partenza. Precisamente questo è il doppio significato del termine “Turns”.
Da un lato infatti, il filosofo ha sempre avuto difficoltà a interloquire con l’architetto, sia per ragioni storichesia per ragioni strettamente legate al suo metodo e ai suoi obiettivi. L’architetto sembra infatti presentarsi allo sguardo del filosofo come un personaggio al contempo perturbante e conturbante, in un misto di attrazione e biasimo, di invidia e ammirazione: una figura tanto sfuggente da investire la riflessione filosofica con effetto retroattivo, facendo scricchiolare le sue fondamenta concettuali e mettendo in dubbio nozioni fondamentali quali verità, libertà, realtà, conoscenza, invenzione, possibilità, necessità, che hanno rappresentato per secoli il lessico base del pensiero occidentale. L’interesse verso una simile figura sembrerebbe ovvio. Eppure, quasi sempre è il filosofo che viene interpellato, utilizzato o coinvolto nel lavoro dell’architetto, in molti casi con l’intento di distillare spazialmente il senso dei suoi discorsi nel progetto. Non che ciò sia impossibile, ma, forse, dovremmo domandarci se è proprio questo quello che vogliamo: o se invece non sia compito del filosofo esercitare una sistematica e implacabile strategia di provocazione interessata, al fine di produrre un effetto, una particolare condizione dello sguardo. Creare la crisi, mettendo in discussione ciò che è dato, sapendo che, come spesso accade, l’apertura verso un nuovo oggetto di conoscenza lascia insoluti quei quesiti che lo vedono direttamente implicato per produrre un effetto retroattivo di chiarificazione nel soggetto indagatore, impegnato a leggersi ora attraverso una nuova forma di mediazione.
Dall’altro lato, per l’architettura il rapporto con la filosofia è storicamente naturale, quasi che questa fosse una visione complementare sul mondo rispetto al suo operato: questo era possibile perché la società si evolveva in modo relativamente lento, attraverso sedimentazioni di usi che diventavano convenzioni sociali, di pensiero, di stile. Così andava nell’architettura egizia, in quella classica, nel medioevo, nel rinascimento, finanche nel Modernismo: i significati erano decifrabili perché si condivideva un sostrato convenzionale. Ma qualcosa è cambiato. Le correnti durano pochi anni: poi passano, come le mode, spesso senza lasciar traccia – tranne edifici già superati, ovviamente. Così, spariscono le teorie dell’architettura, cioè sistemi che dicano cosa sia giusto costruire. E senza una teoria che legittimi le scelte, fioriscono le retoriche e le poetiche personali, spesso così ridicole da essere persino (e giustamente) oggetto di satira. La condizione di fragilità dell’architettura contemporanea è ormai fisiologica. Ed è qui che la filosofia diventa non solo utile, ma necessaria. A patto, certo, di non usarla in senso analogico, con derivazioni dirette che trasformano concetti in forme e pensieri in stili. Dialogare con i filosofi serve perché essi ragionano su temi che, in qualche modo, toccano gli architetti – ad esempio, lo spazio, l’invenzione, la città, la generazione della forma, il potere. Capire qualcosa di quei temi aiuterà a progettare con una maggior consapevolezza, o una più approfondita convinzione sulle ragioni del progetto, e a capirne meglio effetti ed esiti.
La problematizzazione dell’antropocentrismo è ormai uno dei topoi più frequentati della letteratura filosofica (come culturale, sociologica, ecologica, ecc.) contemporanea, al punto che – facendo il verso al noto Linguistic Turn del Novecento – si è recentemente preso a parlare in modo esplicito di un Non-Human Turn (R. Grusin). Non è questa l’occasione per discutere portata e natura di una simile “svolta”, né tantomeno per valutare il modo in cui è stata tradotta e soprattutto gli slogan che appare avere generato: bisogna comunque notare che, di fatto, si è giunti a una situazione in cui l’anti-antropocentrismo si è declinato pressoché univocamente in una forma di zoocentrismo, o – se si preferisce – in un vitalismo pensato a partire dall’equazione “vita = organismo (animale)”.
Sotto questo riguardo, il libro di Coccia (La vie des plantes. Une métaphysique du mélange, Payot & Rivages, Paris 2016) ha un innegabile merito: mettere in discussione questo più o meno esplicito slittamento dal “non umano” all’“animale”, e non certo per riaffermare la preminenza dell’uomo o dell’organismo umano, bensì per indicare la possibilità di una genuina metafisica o filosofia della natura. Con ciò, Coccia non si limita a sostenere le ragioni di quel Plant Turn che pur richiama (p. 155), ossia a reclamare spazio per quelli che sono già stati prontamente battezzati come Critical Plant Studies (H. Stark), che fanno anche diventare a pieno titolo le piante protagoniste di una “storia naturale” – a partire dalla loro origine, il seme (J. Silvertown).
Infatti, la posta in palio è filosofica ad ampio raggio: è possibile trovare un accesso al problema della vita, ossia della natura e del cosmo, che non sia inficiato da una forma di «snobismo metafisico» (p. 15) per cui si finisce per assumere come superiore e privilegiato il punto di vista supposto essere più “complesso”? La risposta di Coccia è radicale: è possibile se si dismette l’abito zoocentrico che ha rivestito quello antropocentrico, ossia se si comprende che l’antispecismo non ha fatto altro che estendere il narcisismo umano al regno animale (p. 16).
L’esito è a questo punto conseguenziale (senza dubbio problematico, come indicherò): andare ancora più a fondo e “riabilitare” quello che è stato da sempre ritenuto il grado più basso della vita, ai limiti della sua assenza, ossia la “vita vegetativa”, il regno vegetale. In questo modo, si potrà riconoscere che ogni punto di vista (point de vue) non è altro che un punto di vita (point de vie): non qualcosa di distaccato e separato, ma quanto esprime una modalità di immersione e commercio.
Per Coccia, c’è una ragione ben precisa a rendere praticabile questa riabilitazione: la vita vegetale si presenta come la vita nella sua esposizione integrale, in continuità assoluta e in comunione globale con l’ambiente. Le piante sono esseri di pura superficie, che aderiscono costitutivamente al mondo: la loro assenza di movimento fa tutt’uno con la loro adesione integrale a ciò che arriva a loro e al loro ambiente. Le piante sono insomma inseparabili (fisicamente come metafisicamente: il passaggio filosofico avanzato da Coccia sta tutto qui) dal mondo che le accoglie: rappresentano la forma più intensa, radicale e paradigmatica dell’essere al mondo, perché intrattengono il legame più stretto ed elementare con il mondo, quasi una forma di assorbimento contemplativo privo di dissociazioni, una fusione e una coincidenza prive di separazioni (pp. 17-18).
Troviamo in opera – esplicitato – un importante presupposto di fondo: il pensiero si fa filosofico nel momento in cui si confronta con la natura del mondo, ossia con la natura, vale a dire che la filosofia sorge nel mondo naturale e dal confronto col mondo naturale, inteso come nascitura, come ciò che permette a tutto di nascere e divenire, esprimendosi in tutto ciò che è. Il mondo, la natura, è insomma una forza, non un insieme di cose o una totalità astratta di esseri: la natura è un processo in atto, e la filosofia è tale soltanto in quanto è filosofia della natura, solo nel momento in cui smette di essere «fisiocida» per cogliere la natura nella sua veste dinamico-processuale. L’unica forma di filosofia che può essere considerata legittima è insomma la cosmologia (pp. 31-36).
L’idea di Coccia è semplice (nonché nuovamente problematica, lo vedremo), come tutte le idee fondamentali: vivere significa vivere della vita d’altri, o – persino – esigere la relazione con ciò che precede e rende possibili gli organismi stessi (pietre, acqua, aria, luce), e le piante sono paradossalmente il luogo in cui questo fatto – il fatto della vita – si manifesta eminentemente. Se la natura è un campo aperto di relazioni trasformative, il metabolismo e il trofismo delle piante presentano esattamente l’emblema della capacità di fare di elementi dispersi e disparati un’occasione di consistenza e tenuta: le piante sono cosmogonia in atto (p. 22).
La pianta diventa così il “modello” per un generale ripensamento dell’essere al mondo e così della cosmologia, articolato in tre principali momenti.
1) La foglia consente di mettere a fuoco l’atmosfera come fluidità cosmica o luogo metafisico di mescolanza radicale in cui tutto comunica e si tocca. L’atmosfera è il soffio o respiro che tutti condividiamo, inteso quale movimento ritmato che precede le distinzioni e però le rende possibili, essendo il principio di circolazione, trasmissione e traduzione: tutto è dentro tutto e tutto comunica con tutto; ogni cosa è immanente a ogni altra; non c’è azione senza retroazione. La cosmologia è una pneumatologia (pp. 37-96).
2) Le radici permettono di ribaltare il modo in cui intendiamo il fondamento: non il ritrovamento di ciò che vi è di essenziale e originario (di fondamentale, di radicale, appunto), ma la fecondità di un processo di networking. Siamo insomma abituati a pensare al radicamento come all’emblema del riferimento saldo, dell’ergersi a partire da un principio dato e ben fermo, dell’edificarsi al di sopra di una base solida, di un suolo sicuro, mentre in realtà le radici ci presentano un dinamismo ambiguo, ibrido, anfibio e doppio. Si tratta di quello della ramificazione, che mette in comunicazione “il basso” e “l’alto”, il “più profondo” e il “più superficiale”, la notte e il giorno, la Terra e il Sole. È allora in gioco una prospettiva più eliocentrica che geocentrica, che fa spazio alle ragioni della contingenza, dell’imprevisto, dell’irregolarità e dell’inabitabilità. La cosmologia è un’astrologia, l’ecologia è un’uranologia (pp. 97-122).
3) I fiori fanno comprendere la natura puramente espressiva e dimostrativa (sessuale) degli attrattori, ossia di ciò che non definisce una natura o comunica un’essenza, bensì apre uno spazio di congiunzione e mescolamento, di moltiplicazione e variazione di forme – di alterazione. La logica dell’organismo individuale si rovescia: ci si trova nel pieno dell’esposizione alle possibilità della mutazione, del cambiamento (come della morte), nel pieno dell’espropriazione. La razionalità si converte nella ragione seminale, che si presenta come luogo di indifferenza e transizione tra “psichico” e “materiale” (come tra biologico e culturale, intensivo ed estensivo). In questo modo, la ragione diventa una forza moltiplicativa che “ripete” la stessa dinamica trasfiguratrice del cosmo: non restituisce un esistente a se stesso, attestandone l’identità, non riconduce a unità; piuttosto, apre al rinnovamento dei possibili, potenzia le connessioni, moltiplica e differenzia gli elementi, si sforza di mescolare gli incomparabili e gli incompossibili. La ragione è sessuale nella misura in cui fa tutt’uno con il processo attraverso il quale avviene un prolungamento e un rinnovamento delle sue istanze mediante un’invenzione di nuove forme di mescolamento: pensare significa rivolgersi alla sfera delle apparenze, non per rivelarne l’interiorità o per dirne l’essenza, bensì per metterle in comunicazione nella loro eterogeneità. La cosmologia è una cosmetica (pp. 123-138).
Come si sarà colto da questo rapido affresco, in chiave concettuale abbiamo a che fare con una generale problematizzazione del nesso tra forza e relazione, o tra dinamismo effettivo e pura soglia. Troviamo infatti discusso in generale il superamento di una gerarchia topologica che distingue tra luoghi in base a interiorità ed esteriorità, che pone posizioni fisse e non riesce così a cogliere – per esempio – le compenetrazioni e proiezioni reciproche, la reversibilità, le transizioni, l’immersione senza resti, la fluidità cosmica, la permeabilità, l’inclusione di tutto dentro tutto, l’amalgama perfetto, l’immediatezza della metamorfosi, l’intimità assoluta, i mediatori produttivi, la circolazione universale, l’identità formale tra passività e attività e tra essere e fare, l’esistenza come atto cosmogonico, le interpenetrazioni e influenze diffuse.
Un simile tentativo metafisico, com’è naturale, non solo non nasconde, ma fa anzi presto affiorare in superficie i propri tratti problematici (e non: le proprie contraddizioni), che mi sembrano essere principalmente due.
Il primo si potrebbe ribattezzare il rischio di “vegetocentrismo” o “plantocentrismo”, che di per sé è abbastanza chiaro: perché le piante offrirebbero l’accesso privilegiato al cosmo rispetto agli uomini e agli animali, e non potrebbero a quel punto farlo i sassi, o i batteri, e così via? O, detta altrimenti, siamo davvero sicuri che sia possibile prendere il fenomeno della vita come fenomeno per eccellenza cosmologico o cosmogonico? Insomma, fino a che punto la natura coincide con la vita (sappiamo infatti che non è così)? Queste questioni possono sembrare oziose, e il punto forse ancora più dirimente sta altrove: non è che le piante, più che essere la forma paradigmatica dell’essere al mondo, sono la forma paradigmatica di un determinato modo di essere al mondo? In particolare, qualcuno potrebbe notare, la totale aderenza, la completa immersione, la spiccata fluidità. la piena indistinzione tra “sé” e “mondo” che contraddistinguerebbero le piante, sembrano rappresentare l’affermazione di un orizzonte in cui non ci si può distinguere dal proprio ambiente e non si può modificarlo, ossia di una vita vegetativa nel senso (deleterio) comune del termine. Ancor più, qualcuno direbbe che si tratta dell’ipostatizzazione della forma di vita neoliberale o neocapitalistica o capitalista tout court, incentrata sull’esigenza di un adeguamento assoluto agli imperativi della flessibilità, della mobilità, della relazionalità, della deindividualizzazione, e via discorrendo.
Sotto questo punto di vista, l’uranologia di Coccia, nel suo sforzo di emanciparsi dalla subordinazione alla logica terrestre, mostra in effetti un fianco debole. Di per sé, si potrebbe anche sostenere che in realtà la condizione contemporanea (al di là dell’etichetta con cui si sceglie di connotarla) non fa altro che (finalmente) rivelare dei tratti che da sempre hanno fatto parte della realtà umana o naturale, liberandosi di una postura demistificatrice rispetto ai processi in atto. Ma, allora, bisogna proprio per questo anche evitare di assumere acriticamente come posizioni metafisiche “pure” ciò che altro non è che il tentativo di rendere concepibile un dato orizzonte, ossia di “trasporlo” in concetti adeguati a comprenderlo o figurarlo. Altrimenti, il rischio è di presentare idee e concetti filosofici come se piovessero dal cielo, mentre essi sono davvero un fatto relazionale, che concerne il nostro rapporto con il mondo. Detta diversamente, non si tratta tanto di imputare a Coccia di aver terminato per offrire una lettura apologetica dell’esistente, bensì – al limite – di evidenziare che non si è ancora spinto fino in fondo nel riconoscere la ramificazione (a valle come a monte) dei concetti e problemi a partire da cui articola la propria prospettiva.
Il secondo tratto problematico è correlato: riguarda il modo in cui intendere e praticare la conoscenza in generale e la filosofia in particolare. Coccia assume una posizione ben delineata in merito (pp. 141-151): il regionalismo specialistico è animato da intenti “morali” (ossia organizzativi, istituzionali, ordinativi, disciplinari, corporativi, ecc.) più che gnoseologici, e produce di fatto una limitazione della volontà di sapere, una messa a freno degli eccessi della curiosità. In questo modo, si perderebbe di vista il fatto che cose e idee sono molto meno disciplinate degli uomini: si mescolano di continuo, in modo eterogeneo, disparato e imprevedibile. Di conseguenza, la filosofia dovrebbe rapportarsi a esse senza mediazioni disciplinari e canoni normalizzanti, senza procedure, protocolli e metodi prestabiliti, senza lo scopo di ricondurle a un’unità superiore, alla comunanza di una forma, una natura o un ordine. La filosofia cercherebbe di cogliere e restituire quell’unità senza fusione sostanziale che è il clima, l’atmosfera, ossia il mondo, nel quale niente è ontologicamente separato dal resto – anzi, dovrebbe creare tale unità: la filosofia dovrebbe con ciò svolgere un’operazione di autotrofia speculativa, per cui anziché trarre nutrimento sempre ed esclusivamente da idee e verità che hanno già ricevuto il sigillo ufficiale di una qualche disciplina, anziché costruirsi a partire da elementi cognitivi già strutturati e ordinati, si devono invece trasformare in idee materie, oggetti o eventi di qualsiasi tipo. Proprio come fanno le piante, capaci di trasformare in vita qualsiasi frammento di terra, aria e luce: «una cosmologia proteiforme e liminare, indifferente ai luoghi, alle forme, alle maniere in cui viene praticata» (p. 147).
Ora, questa concezione “meteologica” o “atmosferica” della filosofia, per la quale essa è una sorta di condizione atmosferica che può sorgere all’improvviso in ogni luogo e momento, ha senza dubbio un elemento di rilevanza: suggerire che la filosofia dovrebbe essere considerata non come la costruzione di un campo di conoscenza specifico superiore che si “sovrimpone” su altri campi, ma come un costante movimento di sorvolo, ogni volta attento a tutto ciò che sta accadendo e mutando nel campo della ragione e della conoscenza, per giungere a modificare il modo in cui idee e conoscenze si concatenano e i saperi sono attraversati. Insomma, Coccia ha – a mio parere – il merito di ricordare che la filosofia deve essere coraggiosa, e accettare di essere impegnata nell’attraversamento concettuale del mondo, non nel commento di libri, nella discussione di soggetti astratti, nella ripresa di argomenti tradizionali, facenti perlopiù parte di un canone riconosciuto come “propriamente filosofico”. Ed è persino brillante quando osserva che la filosofia non potrà mai essere una disciplina per la semplice ragione che è ciò che diventa il sapere una volta che si è riconosciuto che non c’è nessuna disciplina – morale come epistemologica – possibile, nessuna dottrina scolastica da sancire.
Né, va aggiunto, ci si deve lasciare distrarre dai toni del discorso e dalle sfumature retoriche per connotarla come una posizione “irrazionalista” o “letteraria”, perché si tratta di una visione che anche un filosofo strettamente analitico come R. Casati ha presentato (lasciando ora da parte le evidenti diversità tra i due approcci): la filosofia come pratica “artistica” diffusa ovunque e pronta ad affiorare nel momento in cui occorre e viene sollecitata una qualche forma di negoziazione concettuale che permetta di attraversare diversi punti di vista o pratiche o discipline.
Ciononostante, resta sempre vero – cosa che l’esposizione di Coccia sembra lasciare troppo sullo sfondo – che non può esservi tale «autotrofia speculativa» senza un lavoro faticoso e certosino di rifinitura concettuale, rischiaramento tematico, affinamento problematico e articolazione sistematica, pena il pericolo di esaurire l’elaborazione in prese di posizione accorate ma euforiche, convinte ma entusiastiche, originali ma fideistiche.
In definitiva, questo lavoro di Coccia, al di là di un certo – si può letteralmente dire – afflato “pantemistico” (una sorta di mistica a sfondo panteista, per intenderci), pone delle questioni filosofiche che non possono essere ignorate, e le pone portandole ai loro esiti più estremi, forse proprio per questo esprimibili prevalentemente in termini più evocativi e in senso lato poetici – soprattutto se pensiamo alle circostanze biografiche e personali che hanno mosso l’autore (gli studi in un liceo agricolo e la scomparsa del fratello gemello nel pieno della giovinezza).
Ma, appunto, ciò non toglie che siano temi che hanno una notevole portata filosofica. Prendiamo per esempio il fatto decisamente banale della presenza del mio corpo nel mondo: esso segna i miei confini rispetto al mondo, mi individua, fa sì che sia proprio “io” a essere nel “mondo”. Eppure, da un certo punto di vista (lo notava già Whitehead), dove cominciano i confini del “mio” corpo, in realtà sta cominciando la natura in me, il mondo in me, sta cioè cominciando il mio essere del mondo (che il corpo sia “naturale” significa semplicemente questo). Il lavoro di Coccia consente di esplicitare molto bene l’insieme di aspetti connessi a una simile condizione: ormai è persino scontato riconoscere che non si può separare l’uomo dalla natura, come la mente dal corpo, ma una simile affermazione quanto può essere presa alla lettera? Che cosa davvero può significare? Essere in rapporto significa che non c’è distinzione? Detta sinteticamente, lo snodo filosofico che si profila è affermare il legame di tutto con tutto e insieme lo slancio della forza differenziatrice: le cose effettivamente si separano, ma lo fanno soltanto perché sono in rapporto.
Si potranno dunque imputare al lavoro di Coccia i limiti sopra riscontrati, ma un testo filosofico – alla fine – merita tanta più considerazione quanto più rende possibile l’articolazione di problemi al contempo genuini e difficili: sotto questo prospetto, questo libro dunque va decisamente tenuto in conto e preso come termine di confronto.
Sul problema del realismo in filosofia tanto si è detto negli ultimi anni da renderlo un tema inflazionato. Non di meno, è innegabile che la svolta realista sia uno degli eventi più importanti per la filosofia contemporanea dell’ultimo decennio, ed è quindi doveroso porre attenzione a quelle pubblicazioni che affrontano il tema del realismo in modo serio e ponderato. Emergenza di Maurizio Ferraris (Einaudi 2016) appartiene certamente a tale categoria. Il concetto di emergenza è per Ferraris l’asse portante di tutto il lavoro ed egli lo racconta a partire da una premessa ontologica: la realtà che emerge è qualcosa che prima non c’era, mentre la verità è la scoperta di qualcosa che già esisteva. Ciò per Ferraris equivale a dire che l’essere viene prima del conoscere. Tale premessa è necessaria in qualsiasi realismo che voglia davvero definirsi tale. Una volta messa in chiaro questa premessa l’Autore fa un altro passo nell’approfondimento del proprio realismo, definendolo attraverso due aspetti tra loro strettamente connessi. Si tratta innanzitutto di un realismo “negativo”, nel senso che la realtà “resiste” al pensiero, ci colpisce con una forza che a volte non è controllabile, che si impone in modo talvolta anche violento. La realtà possiede, insomma, una inemendabilità difficile da smentire, a cui dobbiamo sottometterci. Ma questa inemendabilità costituisce anche il primo “invito” del reale, la sua disponibilità per noi, lo stimolo a conoscerlo e a trasformarlo. Oltre a queste due accezioni del realismo – negativa la prima, positiva la seconda – ve ne è poi una terza, di carattere trascendentale. Resistenza e invito costituiscono infatti un movimento circolare che nel suo ripetersi, nel suo “iterarsi” direbbe Ferraris, produce accumulo, “registrazione”, e quindi, disponendo di abbastanza informazioni e di abbastanza tempo, produce “senso”. La documentalità è quindi secondo l’Autore il vero trascendentale, intendendo con questo termine una sorta di memoria sempre presente e operante – come aveva sostenuto già Bergson – nella materia ogni qualvolta un nuovo senso emerge da quello precedente. Essendo la memoria la materia stessa. Questo vale sia per le dinamiche che regolano l’evoluzione del vivente che per quelle sociali, non essendoci tra le due soluzione di continuità, ma anzi volendo questa prospettiva superare nettamente il dualismo tra biologico e culturale, tra materia e spirito, tra naturale e artificiale, in favore di una visione documentale, appunto, del regno naturale. In una simile prospettiva, dunque, abbiamo un solo tipo di significato, quello che l’Autore definisce “emergenziale”, il quale nasce dall’iterazione e dall’iscrizione, dall’accumulo di “tracce” prima e di “segni” poi. Questi ultimi sono allora la fonte del significato emergenziale, che di spirituale ha solo l’aspetto ma non la sostanza. Prima viene la documentalità, la traccia “cieca”, i rituali delle api e la costruzione dei formicai, l’accumulo di tecniche, di pratiche, ma anche il casuale sedimentarsi di riti e modi di affrontare problemi pratici, e poi viene il senso, la riflessione e la coscienza di cosa si è sedimentato. L’epistemologia perfetta è quindi la storia in quanto accumulo, registrazione e iscrizione da parte dei singoli. Ecco allora esplicato il senso della premessa ontologica di cui dicevamo: l’essere/accumulo/documentalità viene prima del conoscere/traccia/senso. Una radicale pre-esistenza dell’essere al pensiero che però sancisce anche una radicale ri-unificazione tra essere e pensiero nella categoria portante di “mobilitazione”. Cos’è la natura in questo sistema se non una sorta di infinito dispositivo tecnologico che produce emergenza attraverso la dinamica che abbiamo brevemente illustrato? E la mobilitazione è la nozione che Ferraris utilizza per provare a illustrare questa dinamica che percorre l’inerte e il vivente conferendogli una innata competenza tecnica che è sempre avanti rispetto alla sua comprensione (una sorta di neo-finalismo sul modello di quello proposto da Raymond Ruyer all’inizio degli anni 50 del secolo scorso).
Il libro di Ferraris ha il grande merito di presentare in modo chiaro e conciso la posizione critica comune a gran parte dei realismi contemporanei, ovvero l’attacco frontale e senza compromessi all’idealismo trascendentale e ai suoi molti eredi. Tale critica si può riassumere nel modo seguente: l’intenzionalità non è il cominciamento dell’essere. La correlazione coscienza-mondo non è la condizione di esistenza del reale. C’è qualcosa che viene prima e fonda la correlazione, qualcosa esisteva prima della correlazione e continuerà ad esistere dopo. L’idealismo trascendentale sbagliava quindi nel sostenere che la radice dell’esperienza si situasse nell’Io penso. Ed è così che persino in pensatori “emancipati” da una fenomenologia troppo kantiana, come Sartre ad esempio, l’esternalità rivendicata per la coscienza irriflessa, il suo essere “là fuori” insieme agli oggetti del mondo, non è altro che un’esternalità claustrale, claustrofobica, che rimanda immediatamente ad un dentro camuffato da esterno. Lo stesso dicasi per Heidegger e la sua angoscia, per Levinas e i suoi Altri. Tutti tentativi di demandare il problema del fondamento della correlazione ad un irrelato che però assume subito un carattere paradossale e ambiguo. Una sorta di circolo vizioso tra pre-riflessività e auto-riflessività che, come si diceva poc’anzi, non sfonda realmente verso nessun Grande Fuori. Tutti tentativi questi, come nota giustamente Ferraris, figli della rivoluzione kantiana prima e dell’idealismo trascendentale poi. Non sfuggono alla critica del realista nemmeno le versioni postmoderne del correlazionismo, come ad esempio la filosofia analitica e il costruttivismo. Anch’esse mosse dall’intenzione di individuare nel linguaggio o nel concetto un a-priori al quale ancorare l’esistenza del reale che conosciamo.
Detto questo, bisogna anche dire però che le argomentazioni di Ferraris corrono su di una linea sottile e sono sempre minacciate dal pericolo di finire nel baratro dell’eccessiva semplificazione. Semplificazione che spalanca poi le porte a facili fraintendimenti. Infatti, una cosa è dire che da Kant in avanti la filosofia dell’esperienza ha messo eccessiva enfasi sul soggetto, rischiando di diventare sempre di più una sorta di antropologia; cosa ben diversa è invece sostenere senza mezzi termini che per l’idealismo trascendentale «il mondo è il frutto della costruzione di un Io penso onnipresente e, almeno sulla carta, onnipotente» (p. 76). E quindi sostenere che per gli idealisti trascendentali il pensiero crea la realtà e dunque nulla esiste all’infuori di quello che penso, assimilando il trascendentalismo al solispsismo. Kant e i suoi successori avrebbero quindi sposato una posizione ontologicamente molto forte secondo la quale la materia non sarebbe pre-esistita allo spirito, identificando completamente ontologia ed epistemologia. Esempio sommo di questo slittamento verso il regno del puro pensiero sarebbe l’attualismo di Gentile. La stessa operazione Ferraris la compie nei confronti del postmodernismo, arrivando quindi a concludere: «l’idea è sempre che ci sia una qualche dipendenza della ontologia dalla epistemologia, ossia, in altre parole, che il Big Bang non abbia potuto aver luogo realmente perché noi non c’eravamo, o che il Big Bang abbia avuto luogo solo perchè noi sappiamo che ha avuto luogo» (pp. 83-84).
Attraverso una simile interpretazione dell’idealismo trascendentale si perde però l’aspetto utile della critica. Qual è infatti il senso di tale critica? Chi scrive ritiene che il senso sia quello di mostrare come da Kant in avanti la filosofia abbia progressivamente rinunciato alla sua vocazione originaria a occuparsi del Tutto. Quel Tutto che, per forza di cose, comprende il soggetto come un suo momento, ma non certo come suo fondamento. Un altro aspetto di questa faccenda che la critica mette in evidenza è il paradosso generato da una soggettività così scettica da mettere in discussione persino la propria stessa capacità di far filosofia, ripiegandosi su se stessa e accettando solo se stessa come metro di tutte le cose. Scetticismo che poi, inevitabilmente, ricade su tutto ciò che non è soggetto, compreso il tanto problematico “mondo esterno”. Ma il problema è così serio proprio perché in questione è il diritto della filosofia a spingersi tanto avanti nel dubbio sul mondo, non perché tale dubbio abbia realmente una valenza ontologica. Che poi la vulgata abbia interpretato la domanda come una domanda ontologica vera e propria fa parte della dispersione intrinseca ad ogni teoria che non possiede una vera e propria pars construens, ma questo Ferraris lo sa certamente molto meglio di chi scrive...