"Amanti, a voi, che bastate a voi stessi, chiedo di noi"
Rilke
Il discorso amoroso, al pari dell’esperienza amorosa che su di esso si sostiene (beninteso in vario modo e in forme tutt’altro che ovvie), può essere osservato da diverse prospettive. Qui intendiamo prenderne in considerazione tre.
Ketty La Rocca - You (1975)
La prima prospettiva intende mettere a frutto l’incrocio tra storia, sociologia e antropologia. Pare opportuno iniziare da qui in quanto l’amore occupa un posto nella vita affettiva dei singoli individui solo a partire da modelli comportamentali culturalmente codificati, i quali manifestano il peso della loro performatività anche quando il soggetto non cerca l’amore o non ha ancora avuto modo di essere travolto dalla potenza della passione amorosa. Nello specifico, tale prospettiva permette, da un lato, di evidenziare gli invarianti della fenomenologia dell’amore: tanto nei componimenti dell’antico Egitto quanto in quelli dell’antica Cina, non diversamente dalle canzonette di Sanremo, si mostra come la felicità amorosa consista – innanzi tutto e per lo più – nell’amare e nell’essere amati dalla persona amata, mentre non veder ricambiato il proprio sentimento d’amore comporta infelicità, dolore, financo depressione e perdita del senso del sé (ma con ciò non si deve dimenticare la felicità di cui godono coloro che amano senza essere ricambiati, o perché l’oggetto d’amore non c’è più, o abita i cieli, come il dio amato dai mistici, o perché semplicemente l’amato non ne vuol sapere del soggetto amante). D’altro lato, tale prospettiva permette di far vedere come tali invarianti ricevano declinazioni di volta in volta diverse a seconda delle semiosfere in cui si manifestano. La funzione di Beatrice nel discorso dantesco non è identica a quella che ha il sembiante dell’amata nella lirica provenzale, e l’amore della Principessa di Clèves per il Duca di Nemours, descritta da Madame de Lafayette, non è l’amore che Madame Bovary proverà per i suoi amanti. Innamorarsi del futuro sposo – o della futura sposa – nell’Inghilterra vittoriana non è come innamorarsi della persona con cui si corrisponde velocemente attraverso un sito d’incontri (Meetic, Tinder, eccetera). Quindi, in prima battuta, si vorrebbe qui articolare la seguente questione: quali forme e quali codici assume di volta in volta, a seconda delle latitudini e delle epoche, l’esperienza universale dell’amore? A quali canoni espressivi dà luogo tale codificazione? Che rapporto vi è tra la performatività di questi canoni e l’unicità del sentimento d’amore sperimentato e vissuto dagli amanti?
Va subito aggiunto che la prospettiva storico-culturale a cui qui si fa riferimento deve necessariamente ospitare uno sguardo rivolto all’esperienza amorosa che sia capace di interrogare in che modo si sia articolato – e ancor oggi si articoli – il rapporto di potere tra i partner della relazione amorosa. A tal proposito, risultano imprescindibili due considerazioni. La prima è che il discorso amoroso è stato pensato e scritto quasi sempre e quasi ovunque da uomini (per lo più adulti liberi, benestanti, comunque in grado di occupare posizioni dominanti) che si rivolgevano ad altri uomini (e ciò a prescindere dal genere a cui apparteneva l’oggetto del desiderio). La seconda è che i rapporti amorosi sono nati in contesti sociali e culturali marcati in modo onnipervasivo dal dominio maschile e patriarcale. Chiedersi come nasce e muore l’amore tra umani senza chiedersi come e perché il rapporto amoroso possa essere coalescente con la violenza maschile sarebbe privo di senso. Parimenti insensata sarebbe una ricostruzione storico-antropologica delle semantiche e delle retoriche dell’amore che non sapesse porre a tema il modo in cui l’oggetto d’amore sia stato, quasi sempre, un oggetto che viene articolato discorsivamente in funzione di uno sguardo maschile.
La seconda prospettiva da cui partire per osservare l’amore fa riferimento alla triangolazione tra amore, desiderio e godimento sessuale. Non sempre il sesso è segno dell’amore; a volte, tuttavia, lo è; in ogni caso, va rilevato che, anche quando l’esperienza amorosa si presenta scissa dal godimento sessuale, essa comunque si sviluppa e si dispiega quale amplificazione del desiderio. Ciò vale non solo nel caso in cui gli amanti sperimentino un amore impossibile, o una separazione forzata, o l’impossibilità di avere rapporti sessuali a causa di una qualche patologia invalidante. Ciò vale anche quando l’oggetto d’amore è lontano e strutturalmente irraggiungibile, come nel caso dell’amore provato per una divinità. Il discorso mistico, per esempio, attesta ampiamente come l’amore per una figura divina sia tanto intenso quanto quello provato da un umano per un altro umano. In tale contesto, risulta imprescindibile fare riferimento al sapere della psicoanalisi, che si apre a partire dall’opera di Freud e da quella di Lacan. Proprio la psicoanalisi autorizza a istituire un’analogia strutturale tra l’amore tra umani e l’amore che un umano può provare per una figura non umana. L’incontro amoroso, dal punto di vista psicoanalitico, è sempre, infatti, incontro con un fantasma – ovvero con il fantasma del proprio desiderio, con ciò che, mancando al soggetto, gli restituisce da fuori quella completezza immaginaria senza la quale la vita, dopotutto, risulterebbe triste se non invivibile.
Non meno importante è il fatto che la psicoanalisi ponga l’accento sull’impossibilità di porre il rapporto sessuale come ciò che garantisce e stabilizza l’unione amorosa, come ciò che serve a istituire l’unità e la fusione tra amanti. Nella fenomenologia dell’amore il desiderio degli amanti di fondersi e di diventare una cosa sola gioca quasi sempre un ruolo molto importante. Tuttavia, non solo si tratta di prendere atto che proprio tale aspirazione all’unione assoluta a volte nasconde, da parte di uno dei partner, una più o meno consapevole volontà di dominio, ma soprattutto si tratta di far emergere come l’amore “riuscito” sia sempre confronto con la morte, con il lutto, inteso sia come accettazione anticipata della possibile fine della storia d’amore, sia come riconoscimento della radicale estraneità e irriducibilità dell’altro. Ma c’è di più. Il discorso psicoanalitico, nell’evidenziare con insistenza la natura non ovvia di quel “fare sesso” con cui a volte si dilettano gli amanti, pone l’accento sull’impossibilità strutturale di comprendere il sesso come quella componente dell’esperienza umana che servirebbe a conferire una qualche stabilità ontologica al soggetto. Se il sesso ha una qualche rilevanza nella vita cosciente degli individui, ciò accade, invece, proprio perché la radicale estraneità del godimento a qualsivoglia ordinamento, coerenza o legge rende scoperta l’infondatezza ontologica della soggettività.
Da ultimo, si vuole qui convocare sulla scena una prospettiva politica. Non si può dire infatti che l’esperienza amorosa sia una faccenda puramente privata, che si consuma nella sfera più intima e riposta dell’esistenza individuale, di cui il soggetto sarebbe l’unico depositario, intestatario indiscusso di successi o fallimenti. L’esistenza degli amanti e il loro intimo rapporto coimplica le condizioni materiali in cui si dipana la trama delle loro vite. Viene dunque da chiedersi se l’esperienza amorosa non possa essere valutata anche come un campo di pratiche che riguardano tanto l’individuo quanto i collettivi: è possibile sperimentare – contro le diseguaglianze e i rapporti di subalternità che contraddistinguono quasi tutti i modelli della vita amorosa sin qui conosciuti – nuovi modelli di libertà, capaci di valorizzare, pur entro il vincolo amoroso, la proliferazione di differenze e di etiche locali, contingenti, innovative? Può, infine, essere l’amore un modo per definire, pur nella dimensione locale della vita privata, una proposta “ecologica” per riarticolare le relazioni in seno ai collettivi? Di contro a una tradizione che non ha saputo tenere assieme cosmopolitismo e amicizia, e che ha relegato in un vago ideale filantropico il rispetto per i conspecifici, forse è lecito chiedere agli amanti di farsi promotori di una partica di condivisione basata su modelli inediti di sensibilità per l’unicità dell’altro.
In sintesi, gli snodi tematici che vorremmo fossero trattati all'interno di questo numero sono:
- retoriche, codici e semantiche dell’esperienza amorosa
- la rappresentazione delle storie d’amore nell’arte, nella letteratura, nel cinema
- ecologia e politica della scelta dell’oggetto d’amore
- il sogno d’amore, l’amore impossibile e la separazione degli amanti
- vita e opere dei mistici e delle mistiche
- rappresentazione della differenza di genere in funzione dell’esperienza amorosa
- l’amore al tempo dei social media
- libertà sessuale e etica dell’incontro amoroso
- amore, desiderio e godimento sessuale
- pornografia, postporno e pratiche sessuali contemporanee
- la questione dell’amore nel pensiero queer
- amore, sessualità e disabilità
- sex working: diritti, mezzi e rivendicazioni oggi.
Procedura: si prega di inviare, all'indirizzo redazione@philosophykitchen.com, entro il 15 luglio 2021, un abstract di massimo 6000 caratteri, indicando il titolo della proposta, le modalità in cui si intende sviluppare il tema e l'argomentazione, una bibliografia essenziale e ragionata nonché una breve biografia dell’autore o dell’autrice. Le proposte verranno valutate dai curatori e dalla redazione. Gli esiti della selezione verranno resi noti, via mail, entro il 15 settembre 2021. I contributi selezionati dovranno poi essere inviati entro il 31 novembre 2021 e saranno sottoposti a double-blind peer review. La pubblicazione del volume è prevista per marzo 2022.
Qual è la realtà dei colori? I colori esistono? Sono percezioni? Come è possibile affermare, come il pittore Velasco Vitali, in riferimento al colore giallo: «è il mio autoritratto»? L’indagine sui colori in ambito filosofico è un campo di studi che sta tornado ad essere di grande attualità; le trattazioni a riguardo sono numerose, ricche di spunti e toccano diversi ambiti. Il giallo del colore. Un’indagine filosofica (Jaca Book 2020) si propone di ripercorrere la storia del dibattito, in particolare nella filosofia angloamericana nell’ultimo secolo e non solo, tagliando trasversalmente l’argomento con temi che passano dall’ontologia in senso stretto a questioni epistemologiche e linguistiche, allacciandosi tanto alle moderne e attuali teorie neuroscientifiche, come alla filosofia del linguaggio e alla critica dell’arte.
Nonostante l’argomento di ricerca possa sembrare oltremodo specialistico, l’indagine sul problema del colore si colloca nel contesto più ampio che comprende il mind-body problem, la questione linguistica e più in generale l’infinita battaglia tra idealismo e realismo che la filosofia occidentale, con poche eccezioni, si trascina dall’illuminismo. Così il tema del colore, come caso particolare, in realtà fa eco a quelli che probabilmente sono i più grandi problemi che la filosofia si sia trovata ad affrontare.
Questo saggio è il primo lavoro di Alice barale che abbraccia a così ampio raggio la questione del colore e che si discosta dai suoi riferimenti abituali, comprendendo anche tematiche della filosofia analitica. Alice Barale studiosa di Estetica presso l’università di Milano Statale, è redattrice della rivista «Itinera» e corrispondente di «Aisthesis». Barale si è occupata a lungo di Aby Warburg e di Walter Benjamin. Di quest’ultimo ha curato una nuova edizione e traduzione italiana de L’Origine del dramma barocco tedesco (Carocci, 2018).
Il Giallo del colore può essere diviso in due segmenti: il primo, comprendente i primi due capitoli, ha la funzione di introdurre il lettore alle principali soluzioni che le varie discipline teoriche hanno dato al problema dei colori, individuando, tra le altre cose, la figura di Goethe, sia questa esplicita o meno essa funziona come perno intorno al quale ruotano le teorie presentate. Invece il secondo segmento, che racchiude gli ultimi capitoli, si focalizza da una parte sul colore e il suo legame con l’arte e dall’altra il colore in relazione al linguaggio.
Le prime due sezioni funzionano quindi, nell'organicità del libro, come fondamento delle trattazioni successive e come una vera e propria cartina, utile per muoversi all’interno del dibattito sul colore in ambito analitico. Le principali teorie presentate sono: l’eliminativismo, il relazionismo e il fisicalismo; in queste pagine l’autrice riporta studi e teorie relative al carattere epistemico del colore, avanzando tesi sui due ampi fronti del realismo e dell’idealismo, spaziando da fisiologi tedeschi, come Helmholtz, fino a teorie fisiche, Maxwell, e neuroscientifiche, mettendo in comunicazione teorie scientifiche e filosofiche. Vengono così messe in evidenza le criticità della nozione di colore per il filosofo, che in questo senso si trova separato dalla massa, in quanto la sua idea sui colori deve passare per un’inevitabile problematizzazione dell’esperienza che ne facciamo. Questa scissione tra l’esperienza e l’ontologia verrà messa in discussione dalle tesi presenti nel secondo capitolo che, pur confermando il carattere non semplice del colore in opposizione alla concezione classica delle qualità secondarie, mostrano le concezioni più ingenue, in cui il colore viene riportato su di un piano più vicino a quello dell’esperienza di un soggetto non avvezzo alle circonvoluzioni della filosofia. In questo modo si apre la strada a un campo che fino ad ora è stato escluso dalla ricerca sui colori e che verrà invece inserito nel terzo capitolo, quello della loro componente simbolica.
Inizia così a delinearsi la sagoma di una seconda figura quella di Wittgenstein, forse ancora più esclusa rispetto a quella di Goethe dalla narrazione costruita intorno al dibattito filosofico; questo autore irromperà nell’ultimo capitolo per scardinare le concezioni classiche sul colore. In particolare, il carattere inafferrabile di quest’ultimo appare sempre più evidente man mano che si passano in rassegna le varie soluzioni proposte e questo suo carattere perturbante sarà ciò che più animerà lo spirito del filosofo austriaco.
Osservando le tesi proposte dalla filosofia angloamericana, esposte nei primi capitoli, ci si rende conto che ad essere escluso dal discorso è proprio ciò che verrebbe più semplicemente in mente a chiunque non fosse avvezzo al discorso filosofico, cioè il rapporto che intercorre tra i colori e il loro valore simbolico e artistico. Questa componente mancante viene reintrodotta nel terzo capitolo tramite le trattazioni sull’araldica di Pastoureau e quelle successive su Gage. Questa sezione è ricca di riferimenti artistici contemporanei e non, da William Turner a John Piper, per avvalorare la tesi per cui i colori non solo si esperiscono a livello sensoriale, ma si vivono in un senso più intimo e significativo. Essi non sono semplici astrazioni, stimoli fisici o mentali, ma hanno una componente centrale nella nostra cultura e interpretazione del mondo. Questo tema viene approfondito con la trattazione della teoria di John Gage, il quale non sosteneva l'universalità dei colori, criticando le ricerche di stampo evoluzionistiche dell’epoca, ma optando più semplicemente per delle somiglianze che sussistono tra di essi, che via via si vanno ad assottigliare. I colori vengono così fatti diventare un linguaggio particolare capace di descrivere la realtà, «John Gage contesta alla filosofia la capacità di cogliere questa densità. proprio perché il colore non è traducibile in parole[...]» (p.90). Probabilmente è proprio il carattere non alfabetico di questo linguaggio dei colori, che l’artista conosce bene, ad aver portato all’esclusione della sua non-voce dalla narrazione filosofica sul tema, poiché l’artista non spiega nulla, mostra e gioca col colore. Queste due nozioni: quella di gioco e quella di mostrare non possono che farci venire in mente uno dei più grandi critici del linguaggio del ‘900, la cui presenza si preannuncia numerose volte all’interno dei primi capitoli, ma che, come si è detto, si afferma nell’ultima parte del testo, cioè quella di Wittgenstein. L’indagine sul colore così trattata dischiude la possibilità di un’altra dicotomia fondamentale della storia del pensiero filosofico e psicologico, quella per cui il linguaggio determina o meno la nostra esperienza, dicotomia che nel corso della trattazione del filosofo viennese verrà sempre meno a presentarsi come tale; questo perché si va ad affermare sempre più l’idea che il colore scaturisca dalla sovrapposizione di vari piani della comprensione umana, o come direbbe l’autrice «Il colore appare, ancora una volta, come qualcosa soltanto apparentemente semplice, che si costituisce nell’incontro tra dimensioni diverse» (p.133).
In un primo momento la tematica sui colori non sembra toccare particolarmente il filosofo austriaco (siamo nel periodo del Tractatus), una svista questa che però metterà più avanti in crisi il suo sistema filosofico. Da questa crisi si ha il punto di svolta il secondo Wittgenstein, in cui la questione del colore è centrale. Le considerazioni sul colore lo portano in un primo momento a rivedere le sue tesi sulle proposizioni semplici e le loro relazioni, completamente escluse nel Tractatus in virtù della loro indipendenza. Il tema delle foglie d’autunno, col loro verde che vira sul rosso, scuote profondamente l’animo del filosofo, poiché per esse non sembrano valere i principi logici fondamentali, come quello di non contraddizione, essendo le foglie autunnale sia verdi che rosse contemporaneamente. Successivamente, con la svolta teoretica dei giochi linguistici, già preannunciata nel periodo intermedio, e con la nozione di grammatica, il cui compito è quello di definire l’uso possibile o non possibile di certe proposizioni, il problema viene spostato dal piano logico a quello pratico. Forse l’unica vera pecca di Wittgenstein è, secondo il nostro parare, proprio da rintracciare in questa sua incapacità di emanciparsi dalla questione pratica dell’uso dei concetti, ovvero in quel piano intermedio tra empiria e logica che ora appare come posizione dei colori. Così scardinato il falso dualismo, che voleva il colore come derivato esclusivamente dell’esperienza comune come presente nelle concezioni linguistiche più relativistiche, si apre dunque la possibilità di una trattazione veramente filosofica sul colore. Poiché dove c’è dualismo possono nascere solo scienze particolari e non Filosofia.
Avviandosi verso la fine del libro, vengono poste le somiglianze tra colori come possibile risposta al quesito fino ad ora trattato. Sempre sul solco di Wittgenstein, il colore viene così inserito in questa concezione per cui noi possiamo dire che un colore è tale perché appartiene a un sistema di differenze e «non si può chiamare il rosso un colore, se esso non è inserito all’interno di un sistema di colori diversi» (p.141). Ma è soprattutto con le ricerche successive di Wittgenstein, dove il colore viene ricondotto nella categoria più ampia di gioco linguistico, che appare evidente il legame tra colore e vita, la parola gioco linguistico infatti è destinata a mettere in evidenza il fatto che il parlare sia una forma di attività, o una forma di vita. Il legame indissolubile tra i colori e la vita è evidente nel ruolo che gioca la memoria nella trattazione di Wittgenstein. Al filosofo di Vienna è chiaro che nella memoria di un colore non vi è solo un archivio di colori vissuti, con cui confrontare il colore presente qui ed ora nell’esperienza, ma «qualcosa che suona e che scatta quando vedo il colore giusto» (p.146) una vera e propria via per la ricerca di esso; così colore e memoria entrano a far parte di quella sfera pratica che è la vita. Anche se come giustamente notato dall’autrice, che conosce bene gli scritti di Benjamin su Baudelaire, Bergson e Proust, c’è effettivamente qualcosa che suona, un carattere temporale, lo stesso Wittgenstein sembra rendersi conto di questa peculiarità man mano che le strutture logiche dei primi scritti fanno spazio a un farsi dinamico di un insieme di nessi e di regole. In un certo senso le relazioni tra i colori, che nel Tractatus appaiono come relazioni logiche, vengono ricondotte all’interno di quella sfera temporale da cui erano state escluse. Così attraverso Wittgenstein, si raggiunge il cuore del problema e una sua possibile soluzione, ovvero non ha senso parlare di «un colore reale e un colore apparente, ma esiste soltanto un unico colore, che è il risultato dell’interazione tra i nostri concetti e le situazioni concrete in cui essi si trovano immersi» (p.153). Da questo discorso, quello che più emerge è il carattere perturbante del colore, la sua inafferrabilità, che scuote le elaborazioni classiche della filosofia, costringendoci a ripensare come problematiche le esperienze della vita quotidiana. Così la trattazione del colore fa vibrare le strutture concettuali filosofiche, diventando in questo modo un orizzonte di possibilità per la soluzione dei problemi più fondativi della filosofia.
È noto che Michel Foucault intendeva scrivere un libro sul pittore Édouard Manet, dal titolo Le noir et la couleur, la cui pubblicazione era prevista da parte delle Éditions de Minuit (Defert 2001, p. 41). Egli aveva redatto un gran numero di pagine sull’argomento, senza però consegnarle all’editore. A quanto sembra, dopo aver conservato molto a lungo l’ampio manoscritto su Manet, da ultimo il filosofo ha scelto di distruggerlo (Guibert 2019, p. 27). Tuttavia alcuni segni significativi del suo interesse per l’artista francese sono emersi a più riprese, nel corso dei decenni.
Già in un saggio su Flaubert datato 1964, Foucault ha introdotto un parallelismo fra il narratore e il pittore ottocenteschi: «Flaubert è, rispetto alla biblioteca, ciò che Manet è rispetto al museo. Essi scrivono e dipingono in un rapporto fondamentale con quel che è stato dipinto e scritto – o piuttosto con ciò che della pittura e della scrittura rimane indefinitamente aperto. La loro arte si edifica là dove si forma l’archivio. Non in quanto segnalino il carattere tristemente storico – gioventù diminuita, assenza di freschezza, inverno delle invenzioni – con cui ci piace stigmatizzare la nostra epoca alessandrina; ma essi fanno emergere un fatto essenziale per la nostra cultura: ogni quadro appartiene ormai alla grande superficie quadrettata della pittura; ogni opera letteraria appartiene al mormorio indefinito di ciò che è scritto. Flaubert e Manet hanno fatto esistere, nell’arte stessa, i libri e le tele»[1]. In effetti, lo scrittore – specie in opere come La tentation de saint Antoine o Bouvard et Pécuchet[2] – aveva costruito dei volumi che erano il frutto di innumerevoli letture, così come Manet presupponeva nello spettatore delle proprie tele la capacità di riconoscere analogie e differenze rispetto ai capolavori pittorici dei secoli precedenti, a cui non di rado si ispirava.
Occorre ricordare inoltre che Foucault ha dedicato al pittore una serie di conferenze tenute in vari luoghi del mondo: nel 1967 a Milano, nel 1970 a Tokyo e a Firenze, nel 1971 a Tunisi, nel 1972 a Buffalo. L’esposizione orale di Tunisi, dal titolo La peinture de Manet, ha avuto una storia editoriale piuttosto complessa. Dapprima, per la sua pubblicazione su una rivista tunisina, avvenuta nel 1989, ci si è basati su una registrazione parziale (l’unica disponibile) della seduta. Più tardi, è stato possibile, tenendo conto di una trascrizione che era in possesso di Daniel Defert, ricostruire una versione più fedele del testo, edita nel 2001 nel bollettino annuale della Société française d’esthétique. Infine, grazie al fortunato ritrovamento di una registrazione sonora completa, nel 2004 si è giunti alla pubblicazione integrale della conferenza, in un volume corredato anche da vari interventi di studiosi che la commentano[3].
Nel suo discorso rivolto all’uditorio tunisino, Foucault esordisce scusandosi per il fatto di parlare del grande pittore pur senza essere un esperto d’arte. Aggiunge che non è sua intenzione occuparsi dell’opera di Manet in generale, bensì soltanto di prendere in esame una dozzina di dipinti. In effetti, però, la parte iniziale della conferenza riguarda quelle che, a giudizio del filosofo, sono le intenzioni di fondo del lavoro del pittore. Foucault conferma il giudizio tradizionale che vede in quest’artista il precursore dell’impressionismo, ma si spinge ben oltre: «Mi sembra che Manet abbia reso possibile non solo l’impressionismo, ma tutta la pittura successiva, tutta la pittura del XX secolo, la pittura al cui interno si sviluppa ancora, attualmente, l’arte contemporanea» (Foucault 2005, p. 9-11). Il filosofo non è certo l’unico ad attribuire al pittore francese un ruolo inaugurale. Malraux e Bataille, per esempio, lo avevano già fatto, l’uno sostenendo che «Manet passa dalle sue prime tele romantiche ad Olympia, al Portrait de Clemenceau, al piccolo Bar aux Folies-Bergère, così come la pittura passa dal museo all’arte moderna», mentre l’altro, in maniera ancor più esplicita, scrivendo che «Manet non è soltanto un grandissimo pittore: in rotta con coloro che l’hanno preceduto, ha aperto il periodo in cui viviamo, accordandosi col mondo attuale, il nostro» (Malraux 1999, p. 41: Bataille 2013, p. 11).
E. Manet, Olympia (1863)
Per dimostrare la propria audace tesi, il filosofo passa ad esaminare alcuni dipinti, ben pochi in rapporto alla vasta produzione dell’artista francese, ma comunque rilevanti e rappresentativi[4]. Il primo aspetto che Foucault vuole sottolineare riguarda il modo in cui Manet ha messo in rilievo gli aspetti materiali della tela. Fa dunque notare che in La musique aux Tuileries le teste dei numerosi personaggi raffigurati (ricordiamo per inciso che fra essi ci sono il pittore stesso e alcuni suoi amici, come Baudelaire) sono disposte lungo una linea orizzontale, mentre gli assi verticali vengono indicati dagli alberi. Una composizione simile si ritrova in Le bal masqué à l’Opéra: anche qui, infatti, i cappelli a cilindro indossati dai personaggi maschili sono disposti lungo una linea orizzontale. Tuttavia, rispetto al quadro precedente, vi sono alcune modifiche significative, volte a diminuire la profondità di campo. Dice il filosofo: «Questa profondità è ora chiusa, chiusa da uno spesso muro; e come per segnalare bene che vi è un muro e nulla da vedere dietro, osservate i due pilastri verticali e l’enorme barra orizzontale che incornicia il quadro, che raddoppia in qualche modo all’interno del dipinto la verticale e l’orizzontale della tela. Questo grande rettangolo della tela viene ripetuto all’interno del quadro, lo chiude sul fondo, eliminando così l’effetto di profondità» (Foucault 2005, p. 27). L’unica modesta apertura di campo dovrebbe trovarsi in alto, al di sopra della barra orizzontale (che è una specie di soppalco), ma tale apertura mostra solo i piedi di altri individui, come se la scena fosse raddoppiata, ricominciasse da capo. La tendenziale chiusura dello spazio è ravvisabile anche in un altro quadro, L’exécution de Maximilien, il cui sfondo è quasi interamente costituito da un muro: questo fa sì che i personaggi si trovino confinati su una stretta superficie di terreno. Inoltre essi sono vicini fra loro al punto che i fucili del plotone di esecuzione esplodono i loro colpi quasi a contatto col petto delle tre persone giustiziate. E anche qui non manca l’inizio di una scena ulteriore nella parte alta del dipinto.
L’incrociarsi delle linee orizzontali e verticali è al centro di un’opera, Le port de Bordeaux, in cui le alberature delle navi formano un reticolo talmente fitto da richiamare, secondo Foucault, non soltanto la forma del quadro, ma qualcosa di ancor più concreto, in quanto sono «in certo modo la riproduzione, nella filigrana del dipinto, di tutte le fibre orizzontali e verticali che costituiscono la tela stessa, la tela in quel che ha di materiale» (Foucault 2005, p. 35)[5]. Ciò diviene ancor più chiaro in Argenteuil, dove tale effetto viene ottenuto grazie ai tessuti riprodotti nel quadro, quelli degli abiti indossati dalle due figure in primo piano: il vestito a righe verticali della donna e la maglietta a righe orizzontali dell’uomo che le sta accanto.
Oltre ai due procedimenti citati (restringimento della profondità di campo ed evidenziazione delle linee ortogonali), Foucault ne segnala un terzo, che consiste nel rappresentare dei personaggi che stanno guardando in direzioni opposte, in avanti e all’indietro, come accade in La serveuse de bocks o in Le chemin de fer. Con qualche forzatura, egli ravvisa qui l’intento, da parte del pittore, di richiamare l’attenzione sul fatto che il quadro è un oggetto bifronte, giacché presenta un recto e un verso. Se a ciò si aggiunge che, in entrambe le opere, quel che i personaggi guardano si vede a malapena o non si vede affatto, allora la strategia dell’artista diviene ancor più perversa: «È questo gioco dell’invisibilità, assicurata dalla superficie stessa della tela, che Manet usa all’interno del quadro in un modo che si può comunque definire, come vedete, vizioso, malizioso e crudele; poiché, in fin dei conti, è la prima volta che la pittura si offre mostrandoci qualcosa di invisibile: gli sguardi sono lì per indicarci che c’è qualcosa da vedere, qualcosa che per definizione, e per la natura stessa della pittura, della tela, è necessariamente invisibile» (Foucault 2005, p. 45-46).
Il filosofo passa poi a considerare un altro aspetto del lavoro di Manet, quello che riguarda i problemi legati alla luce. Un primo esempio viene offerto dal quadro Le fifre, che mostra un ragazzino, con un’elegante divisa militare, intento a suonare il piffero. Tuttavia la soppressione della profondità di campo fa sì che il personaggio si stagli su uno sfondo neutro e del tutto vuoto. Solo poche ombre attorno ai piedi suggeriscono che egli si trova su un pavimento, distinguibile a stento dalla parete di fondo. Tale semplificazione è una delle caratteristiche per cui il dipinto, nel 1866, è stato rifiutato dalla giuria del Salon. Ma non è questo ad interessare a Foucault, bensì il fatto che, mentre nella pittura classica l’illuminazione proviene sempre da una certa direzione, e spesso la fonte di luce viene resa esplicita anche quando la scena si svolge in un interno, in Le fifre non si nota nulla del genere. Qui la luce raggiunge la figura di fronte, è un’«illuminazione dunque totalmente perpendicolare, come lo sarebbe l’illuminazione reale della tela se questa, nella sua materialità, fosse esposta davanti a una finestra aperta» (Foucault 2005, p. 50). Ma la tecnica relativa alla luce può essere, in Manet, anche più complessa, come mostra un dipinto celebre, Le déjeuner sur l’herbe. Foucault scorge in quest’opera la compresenza di due diversi metodi di illuminazione. Per quanto riguarda lo sfondo, la luce proviene dall’alto e da sinistra, in una maniera che si può definire tradizionale, mentre i personaggi in primo piano vengono illuminati frontalmente. «Questi due sistemi di rappresentazione, o piuttosto questi due sistemi di manifestazione della luce all’interno del quadro, sono qui giustapposti nella stessa tela, e la giustapposizione dà al quadro il suo carattere discordante, la sua eterogeneità interna» (Foucault 2005, p. 52-53).
Foucault giunge così ad affrontare Olympia, il dipinto forse più famoso di Manet, o se si preferisce il più famigerato, viste le reazioni che aveva prodotto al momento della sua esposizione al pubblico. Il filosofo, che di norma nella sua conferenza sorvola sugli aspetti relativi alla ricezione delle opere dell’artista, in questo caso fa un’eccezione e accenna ai fatti accaduti all’epoca: «L’Olympia, come ben sapete, ha suscitato scandalo quando è stata esposta al Salon del 1865, uno scandalo tale che si è stati costretti a ritirarla. Alcuni borghesi, in visita al Salon, volevano trafiggerla con la punta dei loro ombrelli, tanto la trovavano indecente. Ora, la rappresentazione della nudità femminile nella pittura occidentale è una tradizione che risale al XVI secolo, e se n’erano viste molte altre prima di Olympia […]. Cosa c’era dunque di così scandaloso in questo quadro, da far sì che non si riuscisse a sopportarlo?» (Foucault 2005, p. 53-56)[6]. Una prima risposta, non formulata da Foucault, è piuttosto ovvia: pur ispirandosi a quadri classici, in particolare la Venere di Urbino di Tiziano, l’artista francese aveva scelto di raffigurare non una dea dalle forme perfette e sensuali, bensì una donna dall’aspetto banale e realistico. Ciò viene riconosciuto anche dai rari e coraggiosi difensori di Manet, come Émile Zola: «Quel corpo nudo è parso indecente; così doveva essere, perché è carne, una ragazza che l’artista ha gettato sulla tela nella sua nudità giovane e già appassita» (Zola 1993, p. 27). Infatti il senso della scena rappresentata non sfugge agli osservatori: la donna stesa sul letto è una prostituta, cui la domestica di colore sta consegnando un mazzo di fiori portato da un cliente. Jules Claretie scrive appunto, con tono d’indignazione: «Olympia? Quale Olympia? Senza dubbio una cortigiana» (Claretie in Romano 2004, p. 14). I vari aspetti provocatori del quadro convergono fra loro, come ha notato un amico e ammiratore dell’artista, il poeta Stéphane Mallarmé, ravvisando nell’Olympia «quella cortigiana pallida e scarna la quale offre per la prima volta al pubblico il nudo che sfugge alle convenzioni e alle tradizioni» (Mallarmé 2004, p. 65).
Il filosofo, da parte sua, ricorda che «gli storici dell’arte sostengono, e indubbiamente hanno ragione, che lo scandalo morale era soltanto un modo maldestro di esprimere lo scandalo estetico: non si sopportava questa estetica, queste tinte piatte, questa grande pittura alla giapponese» (Foucault 2005, p. 56). E in ciò anche la luce gioca il suo ruolo: se nella Venere di Tiziano «c’è una fonte luminosa in alto a sinistra che viene a illuminare dolcemente la donna […] e che sembra una sorta di doratura che le accarezza il corpo», nel quadro di Manet la luce, essendo fredda e frontale, produce un effetto assai meno idealizzante. Inoltre, proprio per il fatto che sembra provenire dal luogo stesso in cui si trova l’osservatore del quadro, «è il nostro sguardo che, aprendosi sulla nudità dell’Olympia, la illumina. Siamo noi a renderla visibile» (Foucault 2005, p. 56-57).
Che la luce eserciti il suo pieno effetto solo sulle figure in primo piano trova conferma in un altro quadro di Manet, Le balcon. In esso, oltre al consueto gioco sulle linee orizzontali e verticali, si ritrova, sia pure in maniera diversa, anche il restringimento della profondità di campo. In teoria, oltre ai tre personaggi (uno maschile e due femminili) che si trovano sul balcone, l’illuminazione dovrebbe estendersi anche alla stanza retrostante, ma di fatto ciò non accade, poiché l’interno appare quasi buio. Secondo Foucault, che esagera un pochino, «si distingue solo il vaghissimo riflesso di un oggetto metallico, una specie di teiera, e un ragazzo che la porta, ma è a malapena visibile. E tutto questo grande spazio cavo, questo grande spazio vuoto che normalmente dovrebbe aprire su una profondità, ci è reso assolutamente invisibile, e perché? Ebbene, semplicemente perché tutta la luce è all’esterno del quadro» (Foucault 2005, p. 60-61). In questa scena appiattita, i personaggi appaiono situati tra la luce e l’ombra, quasi fossero al confine tra la vita e la morte. A tal proposito, il filosofo non manca di ricordare che il pittore surrealista René Magritte ha eseguito un’ironica variante di Le balcon, nella quale al posto delle figure umane si trovano altrettante bare[7].
E. Manet, Le balcon (1868)
Riguardo all’ultimo dei temi che è sua intenzione affrontare, ossia quello del luogo assegnato da Manet allo spettatore dei dipinti, il conferenziere sceglie di riferirsi a una sola opera, Un bar aux Folies-Bergère. Si tratta di una tela complessa: mostra infatti una figura centrale, la giovane donna che serve al bancone di un bar, ma dietro a lei si trova un grande specchio, nel quale possiamo vedere riflesso, in maniera più o meno distinta, il resto de locale. Il fatto che nel dipinto lo specchio eserciti un ruolo rilevante richiama alla memoria (benché il parallelismo non venga esplicitato) un celebre quadro che si basava su un dispositivo simile, Las Meninas di Velázquez, al cui minuzioso esame era dedicata l’ouverture di un altro libro del filosofo, Les mots et les choses (Foucault 2012, p. 17-30). Anche se l’inclusione nell’immagine dipinta di un riflesso speculare non costituisce di per sé una novità, Manet adotta ulteriori soluzioni innovative, coerenti col proprio stile. Tanto per cominciare, nel quadro lo specchio occupa interamente lo sfondo, dunque delimita e restringe lo spazio così come un muro lo chiudeva in L’exécution de Maximilien. L’illuminazione, ancora una volta, è frontale, con l’astuzia supplementare data dal fatto che il riflesso mostra i lampadari presenti nella sala, dunque nello spazio antistante rispetto a quello in cui si trova la barista.
Ma il riflesso medesimo offre ben altre sorprese. Osserva il filosofo che, «in linea di principio, questo è uno specchio, dunque tutto quel che si trova davanti allo specchio deve essere riprodotto all’interno di esso […]. In realtà, se provaste a contare e a ritrovare le stesse bottiglie qui e là, non ci riuscireste, perché di fatto c’è una distorsione tra ciò che viene rappresentato nello specchio e ciò che dovrebbe esservi riflesso» (Foucault 2005, p. 68). La distorsione raggiunge il massimo nella figura della donna, la cui immagine riflessa si trova alquanto spostata a destra rispetto alla posizione che dovrebbe logicamente occupare. È come se lo spettatore osservasse la scena da un’angolazione molto laterale, ma se così fosse egli non potrebbe vedere la barista di fronte, come invece il quadro ce la mostra. «Dunque il pittore occupa – e lo spettatore è invitato a farlo con lui – successivamente, o piuttosto simultaneamente, due posizioni incompatibili» (Foucault 2005, p. 68). Non si può neanche ipotizzare che lo specchio sia disposto in obliquo, poiché il suo bordo è perfettamente parallelo al bancone del bar, e alla cornice stessa del dipinto. Non basta ancora: il riflesso rivela un personaggio maschile che sta parlando con la barista, e che dunque dovrebbe trovarsi, fuori dallo specchio, di fronte a lei, mentre in effetti non c’è. Da tutte queste stranezze consegue che Manet «fa giocare la proprietà del quadro di non essere assolutamente uno spazio normativo la cui rappresentazione ci assegna, o assegna allo spettatore, un punto e un unico punto da cui guardare, e il quadro appare come uno spazio davanti al quale e in rapporto al quale ci si può spostare» (Foucault 2005, p. 71). È quel che accade quando osserviamo una tela appesa alle pareti di una stanza o nella sala di un museo. Manet – conclude il filosofo – «è dunque in procinto di inventare, se volete, il quadro-oggetto, la pittura-oggetto, ed è questa senza dubbio la condizione fondamentale affinché, finalmente, un giorno ci si liberi dalla rappresentazione e si lasci giocare lo spazio con le sue proprietà pure e semplici, le sue stesse proprietà materiali» (Foucault 2005, p. 72)[8].
Se il testo completo dell’esposizione tunisina è ora accessibile, lo stesso non può dirsi per quello delle altre conferenze tenute da Foucault sul pittore. Tuttavia nel 2011 è stata pubblicata la riproduzione fotografica (con relativa trascrizione) di una serie di ventiquattro fogli manoscritti senza data su Manet, dal titolo Le noir et la surface (Foucault 2011, p. 378-395). Si tratta di appunti schematici, ma ricchi di riferimenti sia alla biografia dell’artista che, più in generale, alla storia della pittura. Da essi, ci limiteremo a trarre solo poche osservazioni. Il filosofo ricorda che «Manet viene considerato come […] il primo pittore del XIX secolo ad aver attuato, in maniera violenta e scandalosa, una rottura con l’accademismo. […] E non, come Courbet, tramite la scelta dei soggetti, ma per via del modo stesso di dipingere» (Foucault 2011, p. 380). Riguardo all’altra delle definizioni tradizionali dell’artista, visto come antesignano dell’impressionismo, Foucault si mostra invece più cauto: riconosce che «senza dubbio c’era qualcosa, della pittura di Manet, che rendeva l’impressionismo possibile; e qualcosa che resisteva ad esso. Tuttavia ciò che resisteva all’impressionismo non era […] il classicismo della pittura, ma piuttosto qualcosa che doveva apparire in piena luce solo dopo l’impressionismo» (Foucault 2011, p. 380).
L’artista, che da giovane era stato un allievo, ancorché indocile, di Thomas Couture, da lui aveva desunto l’idea di un richiamo non propriamente accademico alla tradizione, per cui i nuovi quadri che venivano realizzati potevano instaurare un nesso, per così dire laterale, con i dipinti del passato. Da qui il fatto che, in Manet, «Le déjeuner sur l’herbeha più rapporti con Giorgione che con una vera colazione. Olympia con la Venere di Urbino» (Foucault 2011, p. 381). Questo e altri insegnamenti di Couture, in parte accolti da Manet, «resteranno in sospeso, inavvertiti, fino a quando la pittura postimpressionista – Cézanne e Gauguin, Bonnard, i Nabis, i Fauves – ne risveglierà per noi i poteri rimasti dormienti» (Foucault 2011, p. 383). Foucault prosegue esaminando alcune opere al livello della composizione e dell’uso dei colori. A tal proposito entra il gioco il nero, che agisce al tempo stesso «come colore e come valore (distinguendosi così dal bianco e dal chiaro, che continuano ad essere assimilati fra loro […])» (Foucault 2011, p. 384). In Le déjeuner sur l’herbe, per esempio, «a partire dal momento in cui il nero funziona come colore, gli altri colori se ne liberano: – il verde acido degli alberi – i volti e i corpi sono assolutamente lisci – il fondo si schiarisce» (Foucault 2011, p. 385).
E. Manet, Le déjeuner sur l'herbe (1863)
Il filosofo appare minuziosamente attento agli aspetti tecnici del lavoro pittorico e ricorre spesso al confronto tra l’artista francese e i suoi predecessori: «Manet abolisce la distinzione scena-ritratto – Gainsborough aveva collocato dei ritratti su un fondo di paesaggio – Courbet e Corot avevano collocato dei ritratti […] nei paesaggi, e l’illuminazione era la stessa per gli uni e per gli altri. Mai erano stati dipinti in un paesaggio ritratti dotati delle dimensioni, dell’illuminazione e del contrasto netto che sono propri di un ritratto. È evidente che nell’evoluzione di Manet (almeno fino al 1870) la tecnica del ritratto prevale sulle esigenze specifiche dei paesaggi» (Foucault 2011, p. 385). Foucault è sempre pronto a cogliere quel che distingue il pittore di cui si occupa dagli impressionisti, anche proprio a livello tecnico. Così, se Manet sopprime «uno degli elementi più importanti della pittura classica: il tono locale (tono dell’oggetto stesso, opposto al tono fondamentale del quadro)», non lo fa in maniera analoga agli impressionisti: questi ci riescono «tramite il colore puro, che è al tempo stesso sostanza della luce e sostanza dell’oggetto», mentre in Manet ciò avviene «tramite l’utilizzo di colori complessi offerti alla luce, ma alla luce che illumina realmente il quadro», vale a dire dall’esterno (Foucault 2011, p. 388). E il filosofo ribadisce nuovamente che, tra i colori, è il più scuro ad avere la prevalenza: «Il nero è sì un colore come gli altri, ma ha una funzione spaziale che gli altri non hanno – si è visto quale ruolo giocava a titolo di linea di contorno – ma gioca anche un ruolo organizzatore in quanto macchia centrale. […] Di modo che, in fin dei conti, lo spazio del quadro s’illumina per effetto del nero, e sembra volatilizzarsi grazie al potere di questa macchia enigmatica. Sorta di macchia cieca che fa scintillare il visibile» (Foucault 2011, p. 389-390).
Un altro metodo usato per ottenere un effetto di apertura o dispersione consiste nel modo in cui è orientato lo sguardo dei personaggi: «A partire dal Rinascimento italiano, la divergenza degli sguardi aveva la funzione di definire lo spazio del quadro, e in certo modo di incorniciarlo, percorrerlo e solidificarlo – in Manet, gli sguardi escono dal quadro, ma in una direzione non valutabile, dunque per rivolgersi non verso lo spettatore, bensì verso qualcosa che contesta il quadro» (Foucault 2011, p. 391). Un risultato analogo viene ottenuto allontanando alcune delle figure umane dal centro del dipinto e rendendole visibili solo in parte: «È in certo modo il quadro stesso ad essersi spostato in rapporto allo spazio che rappresenta. Perciò il fatto che i personaggi non siano al centro della tela non è dovuto a loro, ma a uno slittamento del quadro in rapporto al proprio spazio. Da qui i personaggi tagliati» (Foucault 2011, p. 392).
Proprio come nella conferenza tunisina, anche in Le noir et la surface la conclusione è dedicata all’analisi di Un bar aux Folies-Bergère. Oltre a mettere in evidenza il gioco sulle immagini riflesse dallo specchio, Foucault rende esplicito il rapporto, nel contempo analogico e oppositivo, stabilito dall’artista con Las Meninas di Velázquez (oppositivo perché in Manet i riflessi speculari risultano dislocati). Da ultimo, la forma e il colore del corsetto della barista che vediamo in primo piano acquistano, agli occhi del filosofo, un significato particolare, funereo: «Questa macchia nera in forma di busto ha le stesse linee di una clessidra: è la figura del tempo e della morte, così come la gondola del Grand Canal, errante in uno spazio incerto e decomposto, aveva tutti i poteri della barca dei morti» (Foucault 2011, p. 394)[9].
E. Manet, Le Grand canal de Venis (1875)
Prima di concludere a nostra volta, dobbiamo ricordare che Foucault ha fatto riferimento al pittore francese anche in due interviste. La prima, del 1970, è tuttora inedita, ma un passo significativo di essa è stato citato da Didier Eribon nella sua biografia del filosofo. Parlando del progetto di scrivere un libro su Manet, Foucault spiega di aver scelto di occuparsi dell’artista in quanto rappresenta un «fenomeno di rottura»; infatti «la sua opera è apparsa all’interno di una storia della pittura che era lirica, rappresentativa, spaziale, voluminosa, mentre egli, senza aver coscienza (o avendo scarsa coscienza) della propria stranezza, si è messo a dipingere figure piatte e brutte. Ed è proprio questa distruzione della pittura quale veniva riconosciuta dalle persone del suo tempo che, quindici anni più tardi, diverrà il segno stesso della modernità per altri pittori, gli impressionisti, che del resto non sono fedeli a Manet. È sorprendente…» (Foucault in Eribon 2011, p. 299).
La seconda intervista è datata 1975. A un domanda volta a chiarire se egli sia interessato all’arte pittorica in generale, il filosofo risponde di sì, specificando che, in quell’ambito, «ci sono cose che assolutamente mi affascinano e m’incuriosiscono, come Manet. Tutto mi stupisce in lui. La bruttezza, ad esempio. L’aggressività della bruttezza, come in Le balcon. E poi l’inesplicabilità, tale che lui stesso non ha mai detto nulla sulla propria pittura. Manet ha fatto, in pittura, un certo numero di cose rispetto alle quali gli “impressionisti” erano del tutto regressivi» (Foucault 1974, p. 1574). Spiazzato dall’elogio della bruttezza, l’intervistatore gli chiede di spiegarsi meglio. Foucault precisa che «può trattarsi della distruzione totale, dell’indifferenza sistematica a tutti i canoni estetici, e non solo a quelli della sua epoca. Manet è stato indifferente a canoni estetici talmente radicati nella nostra sensibilità che persino adesso non capiamo perché e come egli abbia potuto far questo. C’è una bruttezza profonda, che ancora oggi continua ad urlare, a stridere» (Foucault 1974, p. 1574). Secondo il filosofo, il carattere urtante di tale pittura, lo choc che (sia pure in forma attenuata rispetto a quanto avveniva nell’Ottocento) essa produce anche adesso sullo spettatore, va considerato come un merito, non come un difetto.
Si può dunque dire che l’analisi condotta da Foucault sull’opera di Manet, nonostante l’indubbia originalità del metodo adottato, perviene a conclusioni piuttosto simili a quelle a cui giungeva Bataille, che a sua volta scorgeva in essa un elemento di mistero e, nel contempo, una significativa anticipazione dell’arte novecentesca. Infatti, nel 1955, Bataille chiudeva il proprio libro con queste frasi: «Ho voluto presentare Manet come uno dei pittori più segreti, più difficilmente penetrabili. Come il più degno di annunciare la nascita di quel mondo favoloso, così fertile di sorprese, che oggi la pittura moderna apre dinanzi ai nostri occhi» (Bataille 2013, p. 90)[10].
CACHIN, Françoise, Manet, Paris, Éditions du Chêne, 1990 (tr. it. Manet, Milano, Fabbri, 1991).
CLARETIE, Jules, Deux heures au Salon, in «L’Artiste», 15 maggio 1865.
DEFERT, Daniel, Chronologie, in Michel Foucault, Dits et écrits, vol. I, Paris, Gallimard, 2001, pp. 13-90.
ERIBON, Didier, Michel Foucault, Paris, Flammarion, 1989; nuova edizione ampliata, ivi, 2011.
FOUCAULT, Michel, Un «fantastique» de bibliothèque (1964), in Dits et écrits, vol. I, cit., pp. 321-353 (tr. it. Un «fantastico» da biblioteca, in Scritti letterari, Milano, Feltrinelli, 1971, pp. 135-153).
FOUCAULT, Michel, Les mots et les choses. Une archéologie des sciences humaines (1966), in Œuvres, vol. I, Paris, Gallimard, 2015, pp. 1033-1459 (tr. it. Le parole e le cose. Un’archeologia delle scienze umane, Milano, Rizzoli, 1967; 2010).
FOUCAULT, Michel, Ceci n’est pas une pipe, Montpellier, Fata Morgana, 1973 (tr. it. Questa non è una pipa, Milano, Serra e Riva, 1980).
FOUCAULT, Michel, À quoi rêvent les philosophes? (1975), in Dits et écrits, vol. I, cit., pp. 1572-1575.
FOUCAULT, Michel, La peinture de Manet, Paris, Éditions du Seuil, 2004 (tr. it. parziale La pittura di Manet, Milano, Abscondita, 2005).
FOUCAULT, Michel, Le noir et la surface, in «L’Herne», 95, 2011, pp. 378-395.
FOUCAULT, Michel, «Bouvard et Pécuchet». Les deux tentations, in Folie, langage, littérature, Paris, Vrin, 2019, pp. 265-286.
GUIBERT, Hervé. À l’ami qui ne m’a pas sauvé la vie, Paris, Gallimard, 1990; 2019.
MALLARMÉ, Stéphane, Les impressionnistes et Édouard Manet (1876), in Œuvres complètes, vol. II, Paris, Gallimard, 2003, pp. 444-470 (tr. it. Gli impressionisti ed Édouard Manet, in Manet e gli altri. Scritti d’arte, Milano, Medusa, 2004, pp. 61-81).
MALRAUX, André, Le Musée imaginaire (prima edizione 1947, edizione definitiva 1965), Paris, Gallimard, 1999.
MENNA, Filiberto, La linea analitica dell’arte moderna. Le figure e le icone, Torino, Einaudi, 1975.
REWALD, John, La storia dell’impressionismo (prima edizione 1946, edizione definitiva 1973), tr. it. Milano, Mondadori, 1976; 1991.
SAISON, Maryvonne, Introduction, in Michel Foucault, La peinture de Manet, cit., pp. 11-17 (tr. it. Introduzione, in La pittura di Manet, cit., pp. 9-16).
ZOLA, Émile, Édouard Manet, étude biographique et critique (1867), in Pour Manet, Bruxelles, Complexe, 1989, pp. 81-139 (tr. it. Édouard Manet, studio biografico e critico, in Manet e altri scritti sul naturalismo, Roma, Donzelli, 1993, pp. 3-37).
.
.
.
[1] Testo pubblicato prima in tedesco nel 1964, poi in francese nel 1967 col titolo Un «fantastique» de bibliothèque, ora in Foucault 1971: 139; si avverte che i passi delle traduzioni italiane cui si rimanda vengono spesso citati con modifiche).
[2] Sul nesso fra i due libri, cfr. gli appunti per una conferenza del 1970, Foucault 2019: 265-286.
[3] Su tutto ciò, cfr. Maryvonne Saisonin Foucault2005: 9-11.
[4] I quadri commentati da Foucault vengono riprodotti a colori nel volume La peinture de Manet. Per un esame complessivo dell’opera, si può vedere ad esempio Cachin1991.
[5] Anzi, se si isola la parte del dipinto che raffigura le alberature, diviene legittimo scorgervi un’analogia con «la serie di variazioni che Mondrian ha fatto sull’albero […], il suo famoso albero a partire dal quale – contemporaneamente a Kandinskij – ha scoperto la pittura astratta» (Foucault 2005: 35-36).
[6] Sulle polemiche suscitate dal quadro, cfr. Rewald 1991: 110-113, e Romano 2007.
[7] Anni prima, il filosofo aveva chiesto chiarimenti a Magritte sul suo quadro Perspective: «Le balcon» de Manet (1950), e l’artista belga gli aveva risposto con una lettera del 4 giugno 1966, ripresa in appendice a Foucault 1980: 84-85).
[8] Su come ciò si sia verificato in molte opere novecentesche, si veda ad esempio Menna 1975.
[9] Per Giorgione, il riferimento è al Concerto campestre, uno dei modelli del Déjeuner sur l’herbe.
[10] L’altro quadro di Manet qui richiamato è Le Grand Canal à Venise.
Nonostante lo sviluppo di una definizione matematica e rigorosa del continuo attraverso i lavori di Georg Cantor e lo sviluppo teoria degli insiemi a fine ‘800, la continuità del tempo rimane un problema per la filosofia contemporanea. Questo vale soprattutto per quelle teorie che accentuano la natura dinamica del tempo e del cambiamento, come la teoria A del tempo e in particolare il presentismo. Come è possibile pensare il tempo come continuo e perciò come esteso, se esso è, in quanto dinamico, in eterno divenire? Come possiamo concepire la continuità del tempo in contrapposizione alla continuità dello spazio? Attraverso un analisi di diverse concezioni del continuo nella storia della filosofia così, il presente volume intende esplorare diverse risposte a tali domande.
Despite the development of a rigorous mathematical definition of continuity through the development of set theory at the end of the 19th century, the continuity of time still remains a problem for the contemporary philosophy of time. This holds especially for those theories that accentuate the dynamic nature of time and change, such as the A-theory and in particular presentism. For, how can we conceive time as something continuous and extended, if this is dynamic and hence in eternal becoming? How should we understand the dynamical continuity of time in opposition to the static continuity of space? Through an analysis of different conceptions of the continuum in the history of philosophy, the present issue intends to explore different answers to this question.
Se si vuol comprendere la posta in gioco del pensiero di Gilles Deleuze, ci sono due luoghi da frequentare, strettamente connessi e corrispondenti in buona sostanza alle sue due grandi opere teoriche degli anni ’60 (Differenza e ripetizione e Logica del senso): nel primo troviamo il progetto di un “empirismo trascendentale” o “superiore”, che non ricalchi più, come nel criticismo kantiano, le condizioni di possibilità della conoscenza sugli atti empirici della coscienza, ma che ci permetta di cogliere in se stessa la genesi trascendentale della differenza, ossia di “ciò per cui il dato è dato” (Deleuze 1997, p. 287). Nel secondo possiamo apprezzare il modo in cui Deleuze cerca di mettere in atto questo progetto, tramite la nozione-chiave di evento: dalla correlazione soggetto-oggetto – vera e propria impasse su cui si è incagliata buona parte del pensiero moderno – si può uscire, sembra dirci Deleuze, mostrando come la ragione trascendentale di entrambi si trovi proprio in una dimensione evenemenziale, ossia in quel vettore che dà conto da un lato di ciò che accade concretamente nella realtà, dall’altro dell’atto processuale che ha portato alla sua stessa realizzazione. L’evento possiede infatti per Deleuze una “struttura doppia”: è tanto “incorporeo” (trascendentale), slegato dalle sue concrete effettuazioni spazio-temporali quanto “incorporato” (empirico), incistato nella singolarità di ogni sua reale occorrenza (Deleuze 1975, p. 135).
Alessandra Campo, in Fantasma e sensazione. Lacan con Kant (Aesthetica Preprint, 2020) si inserisce nel progetto disegnato da Deleuze, percorrendo però una via che potremmo definire laterale. Pur appoggiandosi all’opera deleuziana, Campo tenta di mostrare come l’esigenza di un empirismo trascendentale – di una scienza compiutamente trascendentale del sensibile – abiti alcuni luoghi decisivi della filosofia kantiana e della psicanalisi lacaniana. Si tratta di una prospettiva originale, per almeno due motivi: in primo luogo perché ci costringe a ritornare analiticamente al criticismo kantiano, con cui l’autrice ingaggia un vero e proprio corpo a corpo, mostrandone la straordinaria attualità; in secondo luogo – e soprattutto – perché, ben al di là di un semplice confronto (ormai fin troppo percorso) tra filosofia e psicanalisi, tenta di avvicinare il progetto kantiano – a prima vista così saldo nella sua ricerca della certezza epistemica – alla prospettiva lacaniana, forse troppo frettolosamente autocertificatasi come anti-filosofica. In altri termini, come sembra emergere tra le righe del testo, se è vero che nella domanda kantiana intorno alla conoscenza si può intravedere in controluce un percorso in direzione dell’inconscio, nel reale lacaniano assistiamo altresì a un profondo sforzo speculativo volto a ghermire la genesi della realtà.
Al centro del saggio troviamo l’analisi della sensazione secondo Kant; appoggiandosi in particolare alle letture di Luigi Scaravelli (Scritti Kantiani) e Tommaso Tuppini (Kant.Sensazione, realtà, intensità), Campo mostra come per analizzare a fondo il senso dell’estetica kantiana non ci si debba affatto confrontare, come ci si dovrebbe aspettare, con l’omonima sezione della Critica della ragion pura, quanto piuttosto con quella dedicata alle Anticipazioni della percezione (p. 19), pagine non a caso definite da Deleuze “straordinarie” (Deleuze 2004, p. 81). Qui Kant analizza infatti la sensazione ben prima della sua trasformazione – mediante il decisivo ruolo delle intuizioni – in percezione spazio-temporalmente localizzata, mostrando innanzitutto la sostanziale passività del soggetto, affetto e modificato da un fuori a-dimensionale. Nelle Anticipazioni Kant ci mostra così il modo del tutto peculiare in cui i sensi pensano (p. 57), un modo intensivo che costituisce una sorta di tertium nella distinzione tra fenomeno e noumeno. Per Kant “il reale che è oggetto di sensazione, ha una quantità intensiva, cioè un grado”: prima della realtà estesa, quantificata spazio-temporalmente e in seguito sintetizzata dalle categorie, vi è insomma un reale intenso, graduato e qualitativo, condizione trascendentale di ogni successiva operazione di sintesi.
Parente prossimo – se non omonimo – della sensazione è, secondo Campo, il fantasma freudo-lacaniano. Come la sensazione per Kant, anche il fantasma assurge a condizione trascendentale dell’esperienza. Formatosi come consolazione contro l’angoscia per l’interruzione di un primordiale stato di godimento, il fantasma, secondo il Lacan del Seminario VI, è un’istanza in grado di costituire il soggetto al tempo stesso proteggendolo dall’irruenza del reale. Compito del fantasma è allora quello – come la sensazione kantiana – di rendere la conoscenza possibile, eseguendo una traduzione o un transito tra il reale (intenso) che non è lingua e la realtà (estesa) che lo è (p. 45). Il fantasma, paradossale figura al contempo genetica e di frontiera, è allora, in senso heideggeriano, ciò che a un tempo maschera e rivela la natura dirompente del reale (p. 84). Così come ogni sensazione possiede un grado che permetterà la sintesi operata prima dalle intuizioni e poi dalle categorie, allo stesso modo il fantasma trova la propria condizione trascendentale nell’oggetto a piccolo, argine che impedisce al soggetto di svanire di fronte al reale (p. 86) e che innesca l’impresa conoscitiva.
Nella complessa analogia a quattro termini (sensazione e grado da un lato, fantasma e oggetto a piccolo dall’altro) è la relazione di transizione a fare da protagonista dell’analisi di Campo: tanto per la sensazione quanto per il fantasma si tratta – si è visto – di figure che permettono il transito da una dimensione condizionante intensa che esiste atemporalmente, ma che colpisce e dunque è sentita, a una dimensione estesa che accade, ma risulta inevitabilmente condizionata, derivata. È un passaggio che Campo descrive in vari modi: come “mediatizzazione” tra un “nulla d’origine” a partire da cui sorge il grado/a piccolo e un “nulla di destino” verso cui inderogabilmente si consuma (p. 80); come barra/frazione che genera i poli (esteso e intenso) di un campo (p. 98); come skia-grafie (scrittura d’ombra) che fa transitare la luce verso il buio (p. 51); come abbassamento del profilo cosale dallo choc alla rappresentazione (p. 100). Ciò che emerge è l’idea che esista “un altro modo di ricevere” (p. 19), ossia un modo differente di intendere la passività e l’aisthesis: non più come percezione spazio-temporalmente localizzata e rappresentabile, ma come choc o trauma tale per cui il soggetto viene modificato/toccato proprio là dove non sente e non vede (p. 51), sul crinale tra l’insensibile/impercettibile (a priori) e il sensibile (a posteriori). La sensazione e il fantasma si sviluppano insomma per caduta e annullamento del proprio grado di intensità nell’esteso: l’andare a 0 dell’intenso diventa così paradossale legge di sviluppo (p. 78). Nei più classici termini della metafisica occidentale, si può intendere tale passaggio come transito dall’essere effetto (modificato, colpito) all’essere causa (ossia percipiente).
A questo proposito, il testo di Campo risulta permeato da una polemica nei confronti delle pretese di oggettività proprie di ogni regime epistemico: se tutta la realtà oggettivamente conoscibile va ricondotta in ultima battuta alla sensazione, ecco riemergere l’inquietante quesito che aveva tormentato la filosofia moderna: ciò che garantisce l’esistenza empirica della realtà è la stessa istanza che ne sancisce la dimensione inevitabilmente soggettiva, in quanto modificazione della sensibilità (p. 47). Ciò significa che l’approdo ultimo della sensazione kantiana e del fantasma lacaniano va derubricato nella cornice di un solipsismo senza alcuna via d’uscita? Al contrario: il riconoscimento di un’embricazione costitutiva tra soggettività e oggettività nella conoscenza – discorso che riguarda tanto la psicanalisi quanto la filosofia – rilancia l’opportunità di un empirismo trascendentale, superiore e radicale, capace di ritrovare in una dimensione estetico-cosmologica la ragione stessa della correlazione soggetto-oggetto.
Fantasma e sensazione. Lacan con Kant è un testo che indaga questioni filosofiche profonde e fondamentali con un focus interpretativo efficace. Ha il pregio dell’ambizione e dell’assoluto rigore dell’analisi – specialmente per quanto riguarda la filosofia kantiana – e, forse, il difetto di un’eccessiva densità: l’importanza dei quesiti mobilitati e delle loro implicazioni risulta a volte implicita, a svantaggio in particolare di chi non avesse immediata dimestichezza con molte delle questioni affrontate. Si sarebbe altresì apprezzato qualche approfondimento ulteriore rispetto all’originale tema estetologico che emerge dalle analisi – ossia quello di un’estetica dell’aniconico o di una figuratività non-figurativa (p. 51) – che, tra Francis Bacon e Paul Klee, si sforza incessantemente di rendere visibile l’invisibile. Ciononostante, il saggio di Campo è un riuscito tentativo di afferrare con le armi della speculazione filosofica e in un modo decisamente poco battuto il problema della sensazione e del fantasma. Al di là della doppia neutralizzazione, secondo cui essi sono, nella migliore delle ipotesi, una sorta di trasparente pharmakon propedeutico a più alte e “libere” forme di cognizione oppure, nella peggiore, mera illusione da correggere con i metodi quantitativi della scienza (psichiatrica o fisica), Campo ci mostra in che modo i sensi e l’inconscio “pensano”, cioè – in senso whiteheadiano – esibiscano una qualità (e una logica) che precede la loro “prima quantificazione” (p. 15); soglie atopiche e atemporali capaci di realizzare il campo della conoscenza, essi, proprio nei termini dell’evento secondo Deleuze, non smettono di insistervi.
La pubblicazione degli scritti psicoanalitici di Paul Ricoeur sotto il nome Attorno alla psicoanalisi avviene come una delle tappe di un processo che la casa editrice Jaca Book intende riprendere e portare avanti, alla luce di un ideale antico, circa la trattazione dell’Altro, che la collana Psyché riprende da un suo progetto editoriale risalente agli anni ’60, e tuttavia nuovamente al centro dell’esigenza culturale contemporanea. Non è un caso, nel considerare l’opera complessiva, che il titolo della collana sia lo stesso che Derrida diede a due sue raccolte di scritti incentrati sul tema dell’«invenzione dell’altro». Che si raccolgano molti dei testi psicoanalitici di Ricoeur (attinti dall’omonimo fondo francese) non deve sorprendere in tal senso, poiché proprio la questione dell’emergenza dell’Altro si snoda attraverso essi, divenendo sempre più cruciale.
Tale domanda si pone nel momento in cui Ricoeur s’interroga su cosa sia l’uomo. Domanda centrale e tipica della maturità del pensiero di Ricoeur, dalla cui posizione liquiderà rispettosamente come «fabulatoria» (p. 375) la pretesa foucaultiana della sua morte. L’uomo è sì un sistema metaforico, ma mantiene al tempo stesso una sua dimensione che non viene costruita o decostruita. L’uomo continua a porre e a costituire un problema in quanto tale, che non si può ridurre a un prodotto culturale ottenuto da un certo modo di praticare le forme del sapere. È un problema ancora presente e lo sarà anche in futuro, ancora sempre da analizzare, e che non si trova confinato all’interno di una specifica episteme. Non si riduce solo a un’invenzione enunciativa, ma a un modo di stare al mondo che non può essere decostruito, sebbene, attraverso le sue auto-narrazioni e razionalizzazioni, continui a porre l’esigenza di darsi un senso, agendo sulla causa non propriamente razionale che le motiva.
La raccolta di testi segue un ordine cronologico che risulta efficace per poter seguire il percorso lungo cui si snodano le tematiche e gli interessi di Ricoeur. Ampio e variegato è il lavoro svolto per rendere agibile la fruizione dei testi. Dalla presentazione di Francesco Barale alla postfazione di Giuseppe Martini, nel mezzo di trovano sia scritti della sola penna di Ricoeur, sia discussioni con personalità eminenti, come Enrico Castelli e Jacques Lacan.
La domanda circa l’essenza dell’uomo si trova inizialmente declinata secondo l’ordine di grandezza posto dal fenomeno originario della cultura. La cultura come momento fondativo dell’essere umano. Lo è sia in quanto strumento di difesa contro la natura, sia come particolare e delicato modo di dar forma all’altro, nel momento in cui creazione e rielaborazione di senso tendono a coincidere. Cultura è ciò che risponde, inevitabilmente attraverso la repressione degli istinti, alla gestione simbolica, da parte del soggetto cosciente, delle dinamiche fisico-biologiche che agiscono nell’uomo. Questa trova il suo strumento nel linguaggio (mentre con gli sviluppi successivi alla parola succederà la mera rappresentazione). È l’influenza dello strutturalismo linguistico che gioca la sua presa su Ricoeur, e lo conduce a considerare la questione con il filtro del testo e della parola come elementi primi e irriducibili del senso cosciente di tali forze fisiche. Per come queste si concentrano nell’uomo, configurando desideri e aspettative, azioni e repressioni, ognuna di esse ha in sé il richiamo, rivolto a qualcuno al di fuori da sé, di venir presa in carico, curata e gestita. A tale appello risponde il sistema centrale dato dal Sé, la coscienza.
L’unico espediente che in una prima fase della sua carriera Ricoeur trova adeguato, si è detto essere appunto il linguaggio, il quale si inscrive nelle dinamiche neurologiche, appellandole, e asseconda un dialogo formalizzato e meccanizzato tra i desideri reconditi e il loro centro di gestione cosciente. Il linguaggio è incaricato di dare senso a quanto non ha senso alcuno. Non si tratta di un’imposizione forzata, ma del soccorso dato a una richiesta di senso, di interpretazione. La forza desiderante invoca un riconoscimento dal sistema psichico centrale. Il desiderio è una forza che chiede, invoca di essere presa in carico, ascoltata, «proprio per il suo carattere di indirizzo all’altro» (p. 384). Verso cosa? Verso altro da se stessa. È dunque portatrice di una mancanza costitutiva, e come tale caratterizza il dolore, o quanto meno la condizione bisognosa dell’essere umano.
In tal quadro, l’intero sistema psichico, conscio e inconscio, inizia a funzionare grazie alla moneta corrente costituita dalla parola, e attraverso essa può verificarsi, nei limiti concessi dalle strutture e dalle leggi topiche, una sorta di gestione dell’energia pulsionale da parte dello psichico. In questo assunto trova la sua ragion d’essere la psicoanalisi, che viene intesa, in maniera coerente per tutta la vita dell’autore, come il lavoro tra la forza delle resistenze messe in atto dallo psichico da un lato, e il senso che il soggetto cosciente riesce a dare di se stesso dall’altro, alla luce delle poche conoscenze di sé che può ottenere direttamente. L’altro è sia ciò che va creato sia ciò con cui occorre fare i conti. Non vi è mai univocità nella relazione tra la parola posta e la forza rilevata che domanda ascolto.
Si intuisce dunque come Ricoeur tenti in più modi di attuare una riabilitazione di quel paradigma energetico che tanto ha fatto discutere tra i post-freudiani. L’idea fondamentale è tratta dall’opera freudiana, e occorre rielaborarla. In tal senso vanno le interviste multiple, incluse nell’opera, tra addetti ai lavori di più campi, dalla psichiatria psico-patologica alle neuroscienze, per tentare di ridare spolvero a un paradigma interpretativo che è fruttuoso per certi versi, e pone alcuni problemi ermeneutici per altri. Esso, infatti, non viene ripreso all’interno dello schema più semplice della duplice iscrizione del fenomeno psichico (sia nella mente sia nel corpo), ma come parte integrante e complementare rispetto a quella psichica nello stesso sistema. Si accetta anche la possibilità che si tratti di una metafora, che tuttavia contribuisce a smarcare l’intuizione della nostra archeologia da ogni possibile «idealizzazione» (p. 315 - Questa è l’interpretazione minima che Ricoeur prende in considerazione per concepire l’energetica pulsionale freudiana, che si trova trattata in questa accezione nel testo sulla Tecnica e non-tecnica nell’interpretazione, incluso nella raccolta). La cultura non è dunque un prodotto puro, perché si scopre già da sempre calato nella dinamica reale tra forza e senso. La cultura diviene così la risposta propriamente tecnologica e continua, calata nella carne della neurologia ma declinata diversamente, con cui l’uomo risponde ai bisogni dell’economia energetica. Si tratta di collegare questa ad un sistema simbolico, quanto avviene prima con il linguaggio e in seguito con la rappresentazione.
Non si prenda la presente esposizione come la fotografia teorica di quanto Ricoeur affermi in qualche suo testo. Le questioni si intrecciano e si sciolgono, vengono continuamente riproposte se riconosciute come insoddisfacenti, e approfondite se avvertite come potenzialmente fruttuose. È come se Ricoeur procedesse lungo un sentiero, e si dedicasse ad uno solo dei temi che incontra fino a ritenerlo esausto. Solo a tal punto declina la sua attenzione verso altri sforzi, che approfondiscono e allargano il quadro teorico a cui è pervenuto.
Per quanto concerne lo iato tra «forza e senso», Ricoeur lo disegna e lo pone come punto di opacità del soggetto a se stesso, che viene trattato in diversi saggi. Ne consegue una prese di distanze dall’approccio fenomenologico, da cui pure era partita la sua avventura filosofica, in relazione ai temi della colpa e del perdono. Resosi presto conto dell’insufficienza di una teoria pura della coscienza, Ricoeur non esclude la possibilità di erigere ponti tra fenomenologia e psicoanalisi, mentre viene esclusa in quanto non plausibile ogni teoria idealistica, alla quale tendono ad esempio le Meditazioni Cartesiane di Husserl, colpevoli di non considerare il ruolo specifico dato dall’opacità della coscienza e di non spiegare quindi l’insorgere dell’Altro (p. 368). Ciò nonostante, la fenomenologia rimane sempre un punto di riferimento critico, tendenzialmente oppositivo, con cui confrontarsi per prendere le misure del proprio lavoro (Ciò avviene a partire dal primo dei saggi, su La questione della prova in psicoanalisi, sino al testo dedicato a Kohut). A riprova di ciò, per chi legge il testo di Ricoeur, può risultare affine la critica all’intellettualismo che Merleau-Ponty mosse ai tentativi «intellettualistici» di ridurre la portata ontologica del reale, esterno alla coscienza, a un fattore interno alla coscienza, alla sua relazione con essa. Non è un caso allora che Ricoeur mantenga aperta la finestra del confronto con la tradizione fenomenologica, perché appare evidente una certa somiglianza strutturale nei modi in cui viene trattato il Sé nel rapporto con la forza corporea, che non si riduce a un’emanazione della coscienza.
È così che si trova la possibilità di comunicazione tra i due agenti apparentemente incommensurabili costituiti da «forza e senso», i due veri attori che si trovano in scena nel concerto umano, che si tratti dei sogni, della vita quotidiana o della seduta analitica. Le forze vanno trattate, in sede terapeutica, attraverso il senso che si può loro dare, quindi in forma narrativa. Tale forma non può scindersi dalla caratura emotiva ed empirica che anima le stesse forze, individualizzandole in un contesto storico e concreto. La specificità del tipo di approccio deve allora considerare entrambi i lati della faccenda umana. La forma narrativa, che tende a plasmare le forze che la invocano, si trova al tempo stesso a doversi adattare alla realtà pulsionale, la quale si mostra sempre e soltanto nella sua enigmaticità. Questo senso non si riduce perciò al «segmento intellettuale» costituito dall’analisi razionale del disturbo o della nevrosi, ma indica il punto su cui occorre fare il grosso del lavoro. Un lavoro pratico, fondato su un’intelligenza narrativa che si richiama alla phronesis aristotelica. L’invito è allora indirizzato a un lavoro sporco del soggetto sulle proprie emozioni, a lasciarsi andare all’ermeneutica di sé, per mettere in atto una autentica conversione. Questa è la posta in gioco più alta e decisiva, poiché in questa scommessa, che può essere attuata solo attraverso il dialogo con se stessi e con l’altro da sé, ne va di tutta l’impresa etica, oltre che di quella terapeutica.
Ciò è quanto si trova emblematicamente espresso dal problema della sublimazione, altro grosso tema tipicamente psicoanalitico, e legato al percorso che muove dalla cultura e perviene all’esigenza d ripensare il rapporto tra la gestione delle regole e l’insorgenza del nuovo. La questione si allarga così ad ogni atto umano migliorabile, e quindi si lega direttamente all’antropologia filosofica e al miglioramento di sé. Un esempio è la magistrale trattazione della Monalisa leonardesca, nel saggio luminoso sull’apporto della psicoanalisi all’analisi artistica. In Psicoanalisi e arte, Ricoeur spiega come si tratti di attingere il Nuovo dallo Stesso, attraverso un’ispirazione che al lettore può facilmente richiamare Derrida: nuove forme, un nuovo senso di quanto si crea, senza cadere nel rischio di optare per una genealogia della vita emotiva dell’autore. L’arte non si riduce al percorso analitico che porta alla sublimazione: l’arte è il prodotto libero, in quanto creato, della sublimazione. Ricoeur lo ripete più volte: è l’Altro, inteso come bacino interno di forza e infiniti possibili nuovi sensi da dare al passato in vista del futuro, ciò da cui tenta di attingere l’artista, e ciò a cui è chiamato a rispondere ogni essere umano per tentare di raccontarsi (da leggersi: vivere) sempre meglio. Ciò che viene così prodotto dall’analisi, diventa propriamente la creazione dell’oggetto del desiderio, che si sarebbe voluto trovare tra i propri ricordi, e a cui tende il lavoro dell’immaginazione.
Salvador Dalì - Sogno causato dal volo di un'ape intorno a una melagrana un attimo prima del risveglio (1944)
Innumerevoli sono poi gli spunti che vengono approfonditi di conseguenza. Dalla teoria della civilizzazione freudiana, al nuovo ruolo universalizzabile della psicoanalisi: sia la cultura sia la psicoanalisi agiscono sulla passione dell’uomo, attraverso la gestione «del transfert dai conflitti di forza ai conflitti di senso» (p. 383). Si tratta inoltre dell’autonomia riservata al discorso teologico, proprio grazie ad una presa critica di distanza dall’ateismo di Freud, distinguendo le genesi del fenomeno dal suo fondamento: è il caso del testo L’ateismo della psicoanalisi freudiana. Vi si trova pure un saggio, Il sé secondo la psicoanalisi e secondo la filosofia fenomenologica, che costituisce un unicum, in quanto non ispirato principalmente da Freud, ma dalla Psicologia del Sé di H. Kohut, che viene relazionato a Hegel e a Lévinas nel tentativo di disegnare un discorso sulla dialettica circa la natura della negazione nella dialettica intercalata nell’analisi.
Trattandosi di tutto ciò, il metodo è sempre teso a percorrere a ritroso il cammino fatto dalla lingua e dalla parola per risalire indietro lungo il sentiero costellato su diversi piani di tutti i meccanismi psicologici, fino al gesto creativo. Il non-luogo ove il linguaggio trova il suo insediamento nel desiderio, per nominarlo e per definirlo.
Il percorso ermeneutico conduce da quanto è già psicologico e che ha già un senso, sebbene provvisorio, a ciò che ancora è celato al di sotto del livello della coscienza. Queste due dimensioni rispondono a due sfere dell’umano e del percorso di riconoscimento di se stessi, la prima volta all’esegesi e all’archeologia, la seconda alla teleologia e al suo divenire. Non si possono scindere questi due aspetti, come peraltro Ricoeur stesso aveva fatto nel suo Dell’interpretazione, innalzando il secondo al puro lavoro filosofico. Egli spiega infatti che, come testimonia la terapia analitica, il banco di prova dell’elaborazione meditata del proprio futuro non è esclusiva della filosofia; questa demarche richiede una dinamica spirituale più ampia, che invoca tutto il supporto della psicoanalisi. Sembra in certi punti sentir risuonare il tema del discorso su di sé tipico degli ultimi corsi di Foucault, ma è Ricoeur stesso che si smarca dall’accostamento proposto da Giuseppe Martini nell’ultima intervista presente nel volume, risalente al 2003. Il problema della terapia non può ridursi a una dimensione puramente intellettuale, poiché occorre far sì che il senso del discorso riesca a muovere le montagne poste a protezione dei contenuti e delle dinamiche inconsce. Occorre un paziente e levigato lavoro che consenta all’analizzato, che diventa analizzante in quanto attore, di metter in atto la sua trasformazione di sé, per affrontare le proprie nevrosi o psicosi. Non è una epoché intellettuale, ma un’immersione totale nel vissuto per cercare di raccontarsi altrimenti quanto si riteneva di aver già compreso definitivamente riguardo la storia passata della propria vita. A tal fine, Ricoeur prende prende spesso spunto dalla rilettura di testi più o meno canonici del corpus freudiano, come Analisi terminabile e interminabile, nonché Ripetere, ricordare, rielaborare. Riprendendo la posizione ortodossa freudiana, concorda sul fatto che non vi sia infatti termine possibile all’interpretazione sempre nuova di quanto già si è vissuto, essendo questo costitutivamente aperto alla lettura sotto diverse angolature, e secondo nuovi ritmi o andamenti. Ciò non smetterà mai di fare problema, e Ricoeur continuerà a ripensare i termini di questo problema. Il tema della fine della cura è legato ai motivi presenti nella rielaborazione del vissuto personale, la quale non si definisce mai una volta per tutte.
Ciò ha ampie conseguenze, soprattutto per le conseguenze al di fuori dello stretto campo analitico. L’etica ne viene investita pienamente, e Ricoeur affronta il tema dell’etica e della morale alla luce della psicoanalisi in più saggi.
Il pensiero di Ricoeur muove per decenni alla ricerca di nuove formulazioni di tale operazione ermeneutica. Lungo tutto il percorso di Ricoeur, sono principalmente i tre paradigmi del simbolo, del testo e della traduzione che modificano l’assetto e i metodi di questa sua indagine (Sono ancora la prefezione e la postafazione di Barale e di Martini a riannodare le fila di questi paradigmi). Il fine rimane lo stesso: si richiede che avvenga una sorta di illuminazione retroattiva delle zone non pensate, per riportarle alla luce, intessendole in nuove forme narrative date alla propria persona e al proprio vissuto. Ma il triangolo teorico tra ermeneutica come auto-narrazione, veridicità come chiave dell’accesso al profondo e cambiamento pratico di sé si rielabora ed evolve.
L’accenno alla narrazione e al ruolo costituito dalla traccia non è certo un tema esclusivo degli scritti sulla psicoanalisi, ma si lega con essi inscindibilmente per quella pretesa interminabile del lavoro di rielaborazione del senso e delle dinamiche cui ci si sottopone quasi automaticamente. Si tratta dunque di una lotta contro questi automatismi, e l’unica fonte di innovazione va cercata al di là di essi e delle loro rappresentazioni fantastiche o linguistiche, mirando a ciò che ancora non ha potuto, o non può più venir rappresentato chiaramente alla coscienza. Si tratta di attingere all’intraducibile, che si assume legato alla sorgente del dir il vero su se stessi, per trarre prospettive ed energie nuove per raccontare e vivere altrimenti ciò che rimane chiuso nel segreto della psiche, che è al tempo stesso passato e rivolto al futuro. La veridicità è allora la chiave di tutta la possibilità di mutare forma e abitudini, poiché essa è la capacità che si scopre sempre più in fondo, oltre le barriere, le quali invece tendono a mascherare il vero. E sebbene non si possa pretendere dalla psicoanalisi una morale positiva densa, si può rinvenire in essa, comunque qualcosa di importante. Con le parole di Ricoeur: «un’etica ridotta alla veridicità non è poca cosa: ha in germe nuovi atteggiamenti, frutto della fine della dissimulazione» (p. 190). La veridicità è dunque ciò che apre le porte al cammino etico, ma anche alla conoscenza di sé. Due direzioni che procedono parallele, condizioni l’una dell’altra.
Un mutamento significativo, che può leggersi nel suo graduale verificarsi, è dato dal ruolo dell’immagine, che va acquisendo una centralità sempre maggiore attraverso i vari testi della raccolta, a discapito della mera parola. Ciò implica, per Ricoeur, un ruolo più originario della Vorstellung, della rappresentazione, rispetto alla sua formulazione linguistica. Il senso può trovare un appiglio prima ancora della sua verbalizzazione, e ciò può avvenire attraverso le immagini. Ricoeur, spiegando in vari passaggi i motivi di questo sorpasso della rappresentazione sulla locuzione verbale, sembra prevedere in qualche modo l’immensa fortuna dell’immagine nella società contemporanea. Questo mutamento di registro è indicativo, inoltre, anche perché segna il distacco definitivo dal lacanismo, già iniziato a prodursi dopo la sua partecipazione ad un seminario di Lacan (Distacco motivato nel testo nella Discussione su Du Trieb de Freud et du Désir du psychanalyste). È così che l’immagine si configura come vettore potenziale di senso grazie al quale il soggetto risponde all’appello rivoltogli dalle passioni. Questo è un fattore forse decisivo anche a livello antropologico, oltre che in chiave teoretica e in quella pratica dell’analisi. Infatti, ciò che non è mai possibile fare è allungare, metaforicamente, la mano in direzione delle proprie pulsioni, per catturarle e decidere liberamente cosa farne. Soprattutto, non è possibile farlo solo attraverso il linguaggio. La rappresentazione grafica si scopre più originaria rispetto al segno linguistico, ed è a partire da quella che questo si instaura. In relazione alle pulsioni – che rimangono comunque inevitabilmente inaccessibili in loro stesse, oltre ogni possibilità della traduzione stessa – si tratta comunque sempre o di nominarle o di immaginarle, per scoprire su quali altre metafore si basano, e la scommessa è che sia proprio questa concezione del desiderio corporeo come una chiamata al senso a rendere possibile una sua gestione da parte del sistema centrale costituito dalla coscienza. una gestione di qualcosa che è bisognoso e carente. Molte possibili letture si possono dare di questa gestione della forza, di un non-rapporto, che nel venir preso in carico dal soggetto, assume la caratura di «un processo ontologico fondamentale» (p. 413. È il commento di Giuseppe Martini nella sua chiara Postfazione su la voie longue intrapresa da Ricoeur). Una concezione molto simile è ripresa nella attuale scena psicoanalitica, anche da alcuni lacaniani, come Alenka Zupančič.
Per finire, è proprio questo invito della forza a venir dotata di senso, a cercare un Altro da sé con cui venir relazionata, a porre le basi per la formazione della Psiche, e di conseguenza a consentire di formulare e immaginare una concezione globale dell’uomo. Ricoeur disegna quindi una genealogia di quest’ultima, la quale è al tempo stesso una teleologia della natura, da modificare verso la creazione in forme nuove. Ciò può avere innumerevoli percorsi di sviluppo, poiché innesta tra il linguaggio e le immagini, che costituiscono la base della cultura, e la forza viva e bruta, la possibilità di uno scambio che si mantenga libero e creativo, tale da dover puntare sempre oltre, verso quel dominio né culturale né naturale costituito dal pre-rappresentazionale, dall’illocutorio, da cui trae origine la vita.
In questo breve ma densissimo volume, Jacques Lacan, una scienza di fantasmi, (Orthotes 2019) Federico Leoni continua il suo lavoro di originale rilettura delle riflessioni di Jacques Lacan, facendo funzionare il complesso, monumentale e oscuro svolgersi del pensiero dello psicoanalista parigino come pungolo per costruire nuove possibilità di traiettorie teoriche. Infatti, questo libro non vuole essere tanto un testo d’introduzione a Lacan quanto la continua interrogazione e scavatura di alcune delle sue più importanti riflessioni. Un’indicazione sulla lettura del testo ci viene direttamente dall’autore alla fine del libro: “Questo è un libro insistente. Ogni capitolo mostra una stessa cosa, che si presenta ora come Uno, ora come tratto, ora come voce, ora come mana, ora come fantasma, ora come oggetto, ora come gesto, ora come miniatura, ora come ideogramma.” (Leoni 2019, p. 173). Questa “stessa cosa” che Leoni ci mostra in Una Scienza di Fantasmi è l’evento – sempre attivo – dell’insorgenza e dell’inscrizione che produce il continuo processo di soggettivazione. Il libro è, allora, una sorta di indagine sul “supporto” di questo processo, non ritrovato in un fondamento certo e stabile quanto definito e perciò perduto, ma in una materia fluida e inafferrabile che anima la soggettivazione sempre in atto. Cercheremo di riattraversare l’insistenza di questa “stessa cosa” attraverso due vettori in particolare: l’Uno e la perversione.
La struttura di questo libro è permeata da una modalità particolare, che viene in qualche modo rivelato verso la fine del libro: l’obliquità. L’obliquità, o inclinazione, è proprio quella del diwan, del lettino freudiano, residuo della regressione ipnotica (anticamera della psicoanalisi). Questa strana angolatura, caposaldo del metodo clinico psicoanalitico, viene applicata costantemente nel testo sul continuo torcersi del pensiero dei filosofi interpellati. Questo non significa che i filosofi (fra i più presenti troviamo Leibniz, Kant, Cartesio, Bergson e Deleuze) vengano interrogati sui loro fatti privati, ma che le loro teorie, in qualche modo, vengano rese “spurie”, inclinate e condotte verso nuove possibilità. E non è un caso che nell’obliquità e nell’inclinazione ci stia anche la deviazione: infatti ciò che per eccellenza de-via in psicoanalisi è la per-versione, la negativa freudiana della nevrosi, ciò che modifica la rotta e batte strade nuove.
L’Uno, rintracciato e moltiplicato in varie figure (come il mana, il gesto, la voce, l’oggetto), è il protagonista indiscusso di questo libro e ne è anche il ritmo, la scia continua che permette ai molti percorsi anche eterogenei dipanati dall’autore di scandirsi in maniera sempre più coordinata. E, in qualche modo, da un punto di vista letterario, si potrebbe ascrivere questo libro di filosofia al genere del picaresco: assistiamo infatti a un continuo peregrinare avventuroso di questo Uno, dalla psicoanalisi lacaniana ai vari pensieri filosofici indagati, fino all’arte e alla letteratura. Un’altra maniera di mettere a fuoco la centralità di questo Uno ce la suggerisce Leoni stesso attraverso l’altro protagonista di questo libro, il fantasma, paradossalmente più nascosto rispetto alla onnipresenza dell’Uno. L’Uno è il fantasma di questo saggio filosofico, nel senso che è la cornice che anima la sua struttura e attraverso la quale si determina un continuo assemblaggio fra psicoanalisi e filosofia.
L’Uno non è, però, una nozione priva di ambiguità e addirittura strane sorte di pregiudizi sia nell’ambito filosofico che in quello della psicoanalisi lacaniana, come nota Leoni stesso. Sul lato filosofico, nel testo si insiste su come l’Uno sia uno dei marchi dell’elaborazione filosofica sin da Platone e dal platonismo (in Plotino l’Uno trova il suo apice) e non a caso Leoni riprende il Parmenide di Platone che si interroga sull’Uno e il Moltepice (Leoni 2019, p. 103). D’altronde lo stesso Lacan a suo modo notava nel seminario XVI (La logique du fantasme, ancora inedito in italiano) che Platone e Plotino sono fra i pochi filosofi che non cadono nell’errore di sovrapporre Essere e Uno e che riescono a fornire una riflessione specifica su questa dimensione dell’Uno (Leoni 2019, p. 21). Nonostante ciò, secondo Leoni, “dell’Uno non ne è più nulla, nella filosofia, da un certo punto in poi, e salvo diramazioni preziose quanto isolate” (p. 6).
Sul lato psicoanalitico si può dire che il tema dell’Uno emerge in punti diversi dello svolgimento dei seminari lacaniani. All’inizio più che essere un Uno filosofico, l’uno lacaniano è l’eredità dell’einziger Zug (tratto unico o unario) del Progetto di una psicologia freudiano del 1895. Da qui Lacan inizia a elaborare la nozione di tratto unario, che definisce una visione dell’incidenza del significante a partire da un tratto traumatico originario e di “partenza” per l’identificazione e perciò soggettivazione (Seminario IX). Più tardi questo tratto unario assumerà forme differenti nel Seminario XVII subendo una torsione e divenendo S1, il significante padrone cui ci si identifica e da cui origina la catena significante. Solo a partire dal Seminario XIX Lacan (2011) inizia a porre la questione di un Uno filosofico-psicoanalitico, e lo fa confrontandosi soprattutto con Platone e la teoria degli insiemi di Cantor e Frege. Insomma, sembra che si passi da un uno dalla lettera minuscola all’Uno con la maiuscola. Quando Miller (2013) ripercorre le riflessioni di Lacan sull’Essere e l’Uno mette in luce come Lacan passi da una “ontologia” (o ancor meglio una para-ontologia) a una “henologia”, un discorso sull’Uno. Nella lettura milleriana l’Uno di questo Lacan è esemplificabile nella messa a fuoco della dimensione del “corpo che si gode”, narcisisticamente e autisticamente, che diviene sempre più centrale nella costruzione teorica lacaniana. L’immagine dell’Uno che si è andata a definire sempre di più nella psicoanalisi lacaniana è quella concentrata dalla formula milleriana dell’Uno-tutto-solo o Uno-senza-Altro, che rifugge dalla dialettica che si istituisce fra un soggetto e l’Altro, per richiudersi su sé stesso in un godimento sterile e “perverso”. Ma è proprio a partire da un’altra lettura della perversione che Leoni vuole riconsiderare filosoficamente la nozione di Uno psicoanalitico, con l’obiettivo di mostrarne una dimensione nascosta e ricavata proprio dalla elaborazione lacaniana.
Joseph Cornell, Music box, hotel eden (1945)
La perversione, nell’ambito clinico lacaniano, viene spesso indicata come quella struttura per la quale il soggetto si colloca nella posizione di oggetto inscalfibile, scaricando sull’Altro l’angoscia generata in lui dalla divisione inferta nel soggetto dal linguaggio. Il perverso vuole dividere l’Altro, proiettare su di lui l’angoscia della castrazione che non intende sostenere su sé stesso addirittura arrivare ad angosciare Dio, l’Altro per eccellenza (Recalcati, 2016; Lacan, 2004).
Un altro modo di dire la questione della perversione (ed è a partire da questa altra angolazione che parte la riflessione di Leoni), non contraddicendo necessariamente le altre letture ma facendo emergere un lato “positivo-creativo”, è che il soggetto della perversione “comprende” la struttura e il funzionamento del linguaggio e che in qualche modo usi questa “competenza” riversandola sull’Altro. È in questo senso che, nella prospettiva della teologia psicopatologica paolino-lacaniana suggerita da Leoni nel primo capitolo, se il nevrotico vive nel dramma innescato dalla Legge e lo psicotico non riconosce, forclude questa dimensione della Legge, non accedendo completamente al Simbolico, il perverso conosce questa Legge per negarla e superarla, per andare aldilà di essa e collocarsi al posto di Dio (pp. 8-11). Il soggetto perverso si sistemerebbe nella posizione di colui che scrive, letteralmente crea la Legge, addirittura identificandosi con essa. In questa direzione, si può suggerire, a ulteriore chiarimento, l’immagine prototipica data dall’inserto filosofico-politico di Sade (autore caro a Lacan) all’interno della sua Filosofia nel boudoir. Qui viene messo in luce come il perverso conosca lo strumento della Legge e del suo istituirsi e come utilizzi questo sapere per creare e immaginare un nuovo tipo di società iperbolica, sebbene basata su principi razionali, macabramente illuministici e “formalizzati” su un piano giuridico-filosofico.
A partire da questo lato creativo della posizione soggettiva della perversione, Leoni ci interroga sulla possibilità di concettualizzare la filosofia non come un processo paranoico (la diagnosi che Freud aveva, a suo tempo, affibbiato, e con una certa logica, alla filosofia) di iperuniversalizzazione e astrazione, purificazione dei pensieri e dei concetti. Piuttosto l’autore ci spinge a immaginare la filosofia come un processo perverso, la messa in atto di una possibilità di continua scrittura e riscrittura creativa del pensiero e del mondo a partire dall’invenzione filosofica.
C’è qualcosa come un’altra perversione, qualcosa come un altro scatenamento del possibile, che quella costellazione di pensatori cerca di mettere a fuoco. Misurarsi con la morte di Dio significa misurarsi con quest’altra perversione, con quest’altro scatenamento del possibile. Nuovi possibili si rendono possibili, nuovi impossibili si disegnano a margine di quei possibili. […] [Il perverso] Si mette al posto di Dio, e crea i possibili, o dice che al posto di Dio non c’è nient’altro che questa incessante creazione dei possibili. (Leoni 2019 p. 79)
Infatti, si può dire che la scrittura leoniana di questo testo sia in un certo qual modo perversa, producendo deviazioni, scatenamenti e misurandosi con un’esplorazioni dei possibili. Nel quinto capitolo, Leoni si riallaccia, e non a caso, proprio alla figura di Bafometto (p. 85), principe infernale delle metamorfosi e idolo templare protagonista del romanzo del filosofo “perverso” Klossowski. Nel testo klossowskiano, infatti, si esplicherebbe una condizione di continua trasformazione e implicazione di “tratti dentro altri tratti”:
Ogni tratto di divenire sposta ogni altro tratto implicandolo nel proprio percorso, facendo di ogni altro tratto un proprio segno e facendo di sé stesso un segno di ogni altro tratto. Qui leggere è fare, interpretare è fabbricare. Per questo il lettore dei segni di quel cosmo non va immaginato come davanti a un libro, immune ai segni che sta decifrando, ma come un segno esso stesso, e come un fabbricatore esso stesso. (Leoni, 2019 p. 89-90)
Dunque, in questa direzione obliqua e deviata, l’Uno inizia ad apparire non tanto come un Uno che accade, uno spazio definito nello spazio-tempo o nel soggetto, quanto il supporto continuo, la piega nel soggetto che permette che una soggettivazione, continuamente in genesi e in divenire, accada (Leoni 2019 p. 51). Dunque, se questo Uno non è l’Uno-tutto-solo della perversione, che Uno perverso della creazione sarebbe? L’Uno, che qui viene ripreso a partire dal Seminario XIX di Lacan (2011), non è semplicemente un momento atavico, uno stadio larvale della soggettività che precede cronologicamente l’incontro del soggetto con l’Altro. Viene, invece, indicato come quell’evento, o ancora meglio come quel rimasuglio dell’evento (eco de l’Y a d’l’Un lacaniano) che permette strutturalmente l’emergere di una dialettica fra il soggetto dell’Altro. L’Uno non sarebbe, dunque, un soggetto che può mettersi in dialettica con un Altro (e che eventualmente sceglie di non farlo) ma sarebbe l’evento stesso della possibilità di un’emergenza del rapporto fra un soggetto e l’Altro, in altre parole il suo supporto. È come dire che nell’Uno sta già il Due e il molteplice, nel senso che l’Uno permette, ponendosi come fondamento, l’articolarsi fra più elementi, fra più Uni:
Ovvero, che c’è dell’Uno, c’è l’operazione di un Uno molto più profondo o molto più superficiale di così, un Uno che non sta né dalla parte dell’uno né dalla parte dell’altro, ma che distribuisce le parti e opera la divisione, non cessando un istante di non-dividersi al fondo della divisione stessa. Questo Uno è nella stessa posizione dell’Altro, anzi è l’Altro stesso, ma come il suo accadere. L’Uno è l’Altro che accade, o l’Altro è l’Uno ormai accaduto. L’Altro è il regime dei rapporti istituiti, l’Uno è l’istituirsi di quei rapporti. (Leoni 2019 p. 35)
Uno, dunque, che nel suo continuo mettere in atto la divisione senza esserne compromesso (una sorta di fondo psicotico a ogni nevrosi), mostra la natura continuamente metamorfica della soggettivazione, del suo incessante divenire all’interno di una logica sostenuta dallo scandire di questo Uno fondamentale. Dunque, nella lettura di Leoni, se l’Altro è il “regime” dove si sono dati dei legami e delle leggi secondo un ordine simbolico (istituito), l’Uno sarebbe il supporto che permette che questi rapporti si istituiscano senza esso si istituisca mai.
Ancora, per rimanere nel solco del complesso svilupparsi della riflessione lacaniana attraverso i suoi seminari, il tratto unario, l’elemento di identificazione a un tratto dal soggetto che fa partire la sua soggettivazione, è sostenuto dalla dimensione dell’uniano, appunto da quel yadlun (“c’è dell’uno”) inassimilabile e allo stesso tempo motore e supporto della possibilità di far partire la soggettivazione dall’identificazione del tratto unario. Certo, seguendo Lacan non troviamo un Uno tutto-pieno, monolitico e compatto, le sue fondamenta sono instabili. L’Uno lacaniano del Seminario XIX è rappresentabile, infatti, da una sacca vuota con un buco: «Si vous en voulez une figure, je représenterais le fondement du Yad’lun comme un sac. Il ne peut avoir l’Un que dans la figure d’un sac, qui est un sac troué» (Lacan, 2011 p. 147) [1]. Insomma, di questo Uno non si sa mai quanto ce n’è davvero dentro al sacco.
[1] Se volete una figura, io rappresenterei il fondamento di Yadl’un come un sacco. Non si può avere l’Uno se non dentro la figura di un sacco, che è un sacco bucato. (traduzione mia)
Non è un caso che l’Uno di Lacan sia inavvicinabile dal linguaggio ordinato dell’istituirsi del simbolico e che lo psicoanalista francese idei proprio per questo Uno il neologismo yadlun. Questo ci porta nella dimensione della lalangue (che Leoni incrocia nell’indagine su grido e voce nel capitolo otto) di una lingua primitiva rispetto all’intervento regolativo e differenziante del simbolico, capace dunque di mostrare, più che significantizzare, l’ambigua e inafferrabile consistenza di questo Uno.
E se Leoni ci indica un modo per immaginare come un soggetto venga fuori da questo Uno è attraverso l’immagine di un piano che si piega su se stesso, producendo una singolarità in continua trasformazione, la soggettivazione sempre in divenire. È così che il soggetto appare come una monade, piega e unità singolare in cui tutto il mondo si inclina attraverso quel particolarissimo vertice che è il fantasma, meccanismo di cornice-interfaccia della realtà e allo stesso tempo suo assemblaggio. Il fantasma è, infatti, già nella riflessione lacaniana, la dimensione che permette al soggetto di aprire una vasta gamma di possibili incontri con l’oggetto piccolo a. S◊a, il matema del fantasma che Lacan (2013) indica nel Seminario VI, va a significare proprio questo: il punzone ◊ che contiene in sé più simboli (maggiore, minore, et, vel) rappresenta la plurimità delle possibilità di rapporto fra il soggetto diviso (S) del desiderio e l’oggetto causativo del desiderio, l’oggetto piccolo (a), resto di una delle forme dell’Uno lacaniano, Das Ding, la Cosa perduta per sempre dal soggetto nella rimozione originaria.
Jacques Lacan (Roma, 1974)
Certo, ogni singolarità, ogni soggetto non può solo creare a partire dal suo fantasma ed è inevitabilmente posto sotto il giogo della legge della coazione a ripetere. Eppure, partendo da una sorta di teoria della registrazione, Leoni nell’ottavo capitolo mette in luce come anche la più fedele registrazione sia in qualche modo una deformazione, un cambiare strada, un de-viare dall’originale (Leoni 2019 p.129). In questo senso ci viene da suggerire l’associazione a un pensatore a suo modo decisamente perverso, William S. Burroughs, che insisteva sul ruolo dello scrittore come registratore, come supporto apparentemente passivo degli avvenimenti della realtà: “Uno scrittore può scrivere soltanto di una cosa: di quello che c’è davanti ai suoi sensi al momento di scrivere… Sono uno strumento di registrazione… Non presumo di imporre una “storia”, una “trama”, una “continuità”…” (Burroughs 1959 p. 199). Nonostante ciò, la vera operazione di Burroughs non si risolveva qui: lo scrittore per lui non si può limitare a ripetere a pappagallo ciò che della realtà si imprime su di lui ma ricostruisce e trasforma il testo della realtà attraverso tagli, sovrapposizioni e giustapposizioni attraverso cui inserisce nella ripetizione un brulicante continuo differenziarsi dentro al testo stesso attraverso la tecnica del cut-up, in cui il testo viene tagliato e poi ricomposto, e la tecnica del fold-in, dove, ancor più significativamente, il testo viene piegato su se stesso.
Pieghe e monadi, dunque, sono le forme filosofiche attraverso le quali Leoni ci vuole restituire una visione della soggettivazione vista dalla prospettiva di una scienza dei fantasmi, delle singolarità. Quello che si configura in questa scienza dei fantasmi è una posizione etica (Leoni p. 105) per indagare il soggetto nella sua prospettiva singolare a partire da una presa in carico del fantasma da cui lo si guarda, indicazione questa preziosa anche per la clinica. Scienza assolutamente soggettiva da una parte e dall’altra, invece, “unica scienza rigorosa”, con le parole di Husserl, perché consapevole di indagare il fantasma a partire da una cornice che è già a sua volta un fantasma:
Che cosa sa, infatti, la scienza del fantasma? Che il fantasma è tanto il fantasma “verso cui” essa guarda per scrivere e descrivere, come suo oggetto di studio; tanto il fantasma “da cui” essa scrive e grazie a cui essa descrive ciò che descrive; quanto il fantasma “in cui” essa scrive, cioè lo spazio e l’esigenza e lo strumentario e la ragnatela di strade resesi possibili, entro cui la sua scrittura, la sua descrizione si muove.” (Leoni 2019 p. 105)
Dunque, la scienza del fantasma auspicata da Leoni sarebbe una scienza capace di mettere in luce la cornice verso cui si tende nella scrittura, la cornice “oggetto di studio”, ma anche la cornice da cui si scrive (in qualche modo, un riconoscimento del fantasma dell’autore) ma soprattutto “ragnatela di strade resesi possibili”, l’esplicazione effettiva “in cui” questa scienza scrive e si dipana. È in questo senso che il testo propone non solo una questione “epistemologica” ma soprattutto una dimensione etica, di riconoscimento e di accoglimento del fantasma singolare all’interno dell’elaborazione del pensiero, che ne è la cornice stessa ma che costituisce anche il metodo di assemblaggio degli oggetti di studio, modificandoli. A partire dalla definizione di questa scienza, Leoni negli ultimi capitoli del libro ci permette di vedere almeno due vertici a partire dai quali si può fare una scienza di fantasmi. Da una parte troviamo il filosofo “perverso”, che dopo Nietzsche è costretto a confrontarsi con la morte di Dio e alle nuove possibilità che gli sono date da scriversi. In qualche modo il filosofo perverso è un filosofo della contingenza lacaniana, colui che fa passare “ciò che non cessa di non scriversi” al “ciò che cessa di non scriversi”. Dall’altra, invece, in una posizione differente da quella del filosofo troviamo lo psicoanalista, che può manifestarsi attraverso più forme di singolarità: cadavere, santo (saint homme) e addirittura idiota. A differenza del filosofo, che fa emergere nuovi possibili attraverso assemblaggi fantasmatici, nella posizione di colui che “crea”, lo psicoanalista si pone in una posizione di annullamento, di “cadaverizzazione”, per permettere all’analizzante di incontrare e attraversare il suo proprio fantasma singolare.
Una scienza di fantasmi, per concludere, è un libro che, fedele alla scena carrolliana descritta da Deleuze in Logica del senso, ci mostra uno scorrere obliquo e continuo di Uni, oggetti, figure, disegnando una ragnatela di associazioni attraverso le quali si inizia a vedere un fantasma emergente, una cornice ritmica. Questo testo vuole già essere, dunque, una messa alla prova di una possibile scienza dei fantasmi che animano il soggetto, lasciando libero di emergere, unico e singolare, un fantasma che anima la complessa struttura del testo:
Ciò che essa sa, e insieme ciò che essa fa, è conoscere e perciò spostare l’oggetto. Non si può conoscere il fantasma senza spostarlo. In parte perché lui stesso è mobile, metamorfico, consegnato a una perenne fibrillazione dei disparati che lo compongono. In parte perché noi stessi siamo mobili, noi che lo studiamo, noi con la nostra scienza del fantasma, la scienza stessa del fantasma che non è mai di fronte al fantasma ma è sempre spinta dal fantasma e immersa nel fantasma, dunque che è fantasma a tutti gli effetti. Se così è, la scienza del fantasma è un’arte che accompagna. (Leoni 2019 p. 105)
di Lorenzo Curti
Bibliografia:
Burroughs, W. S. (1959), Pasto nudo, tr. it. F. Cavagnoli, Adelphi, Milano 2012
Lacan, J. (2004) Seminario X. L’angoscia, tr. it. A Di Ciaccia e Adele Succetti, Einaudi, Torino 2007
Lacan, J. Séminaire XIX …ou Pire, Seuil, Paris, 2011
Lacan, J. (2013) Seminario VI. Il desiderio e la sua interpretazione, tr. it. A. Di Ciaccia e Lieselotte Longato, Einaudi, Torino 2016
Miller, J. A. L’Essere e l’Uno. La Psicoanalisi, 53/54, Astrolabio, 2013, pp. 177-227
Leoni, F., Jacques Lacan, una scienza di fantasmi, Orthotes, Napoli-Salerno, 2013
Recalcati, M., Jacques Lacan. La clinica psicoanalitica: struttura e soggetto. Raffaello Cortina, Milano, 2016
Il libro di Manlio Iofrida, Per un paradigma del corpo: una rifondazione filosofica dell’ecologia, uscito per Quodlibet alla fine del 2019, si presenta come uno snodo ricco e importante per un approccio teoretico, etico e critico all’attuale questione ecologica. In questo senso, il libro s’inserisce nel cuore stesso del dibattito – non solo italiano – incrociando tematiche come il corpo, il concetto di Natura, lo statuto filosofico del vivente e della sua relazione con la tecnica (a questi temi si aggiungano la critica della cultura, la storia dell’arte, il dialogo tra filosofia e altri campi del sapere, i rapporti tra la cultura Europea e i suoi grandi altri ecc.).
Il libro assume quella che potremmo definire un’ottica cosmopolitica e si presenta come il crocevia d’intuizioni, idee e riflessioni che animano il gruppo di ricerca Officine Filosofiche(il gruppo gestisce anche un’omonima collana editoriale), fondato e diretto dallo stesso Iofrida assieme a Ubaldo Fadini. Molti argomenti sviluppati nel libro intrecciano le principali linee di lavoro del gruppo, contribuendo così a fare dell’ecologia filosofica uno dei campi di ricerca più innovativi e stimolanti dell’attuale panorama filosofico italiano.
Si può dunque comprendere, sin da queste prime considerazioni, che riportare in maniera analitica o anche solo accidentale tutti gli impliciti teorici – nonché la profonda erudizione dell’autore che conferisce all’ecologia un ampio spessore culturale – è compito improbo per una recensione e, probabilmente, anche inutile. Quel che ci proponiamo di fare in questa sede è di attraversare il testo in maniera “libera” tentando di esplicitare alcuni aspetti che sembrano restituire, nella parzialità della nostra lettura, alcune delle intenzioni di base dell’autore.
Non si può non partire dalla centralità teorica del tema del corpo che, non nuova nel lavoro di Iofrida, si richiama esplicitamente all’opera complessiva di Merleau-Ponty e all’attualità del suo concetto di Natura (pp. 19-31) «come limite che la cultura non può sorpassare» (p. 30). Sotto tale aspetto, questo studio si riallaccia (pp. 9-16), pur con oltre dieci anni di distanza, al precedente lavoro dell’autore Per una storia della filosofia francese contemporanea: da Jacques Derrida a Maurice Merleau-Ponty. Dire che questo sia un libro “merleau-pontyano” è senza dubbio corretto e tuttavia rischierebbe di schiacciarne la profondità su un “arroccamento” teorico, una semplice riproposizione ermeneutica. Devono essere menzionati, infatti, almeno altri due autori classici presenti come linee di basso nell’architettura del testo: Schelling ritorna diffusamente nel testo, utilizzato in chiave anti fichtiana-attualista (pp. 38, 141) o hegeliano-sintetico (anche se Hegel resta comunque un autore importante nell’impostazione ecologica iofridiana, pp. 138-140); ma è soprattutto il Kant della Critica della facoltà di giudizio a fornire un’impalcatura teorica di primo piano (vanno, poi, almeno ricordati i nomi di Goethe, Schiller e Adorno, per completare la batteria tedesca di riferimento, cfr. pp. 47-52). Ci sia concesso dunque di entrare nel vivo del libro approcciandolo alla lontana, così da poter restituire, se non altro, il profumo della complessa architettonica di Iofrida.
In siffatta architettonica, l’ecologia non si presenta tanto, né solo, come una disciplina scientifica (pp. 45-47) ma, potremmo dire, si tratta di una questione di gusto, di istituire un paradigma del gustoecologico. Come si può intuire, molto lessico di Iofrida è intriso di una semantica post-kantiana. Il gusto, permettendoci l’ardire di parafrasare Kant, è quella strana facoltà di giudicare secondo sentimento (leggendo in questa chiave il giudizio riflettente).
Sappiamo anche che il sentimento è un vero e proprio mondo intermedio che si situa tra la facoltà di conoscere e quella di desiderare, ossia tra l’intelletto e la ragione, tra la “necessità naturale” e la “libertà umana” (che Iofrida definisce prometeica, cfr. pp. 59-61). Dire, dunque, che l’ecologia è questione di gusto significa affermare che essa si situa nel mezzo di un’ardita relazione tra la Natura e la Cultura – dualismo principale di molte riflessioni ecologiche. Ma, altresì, ci dà delle informazioni sugli aspetti “filosofici” dell’ecologia: il gusto, sappiamo dal §40 sul senso comune della Terza Critica, va educato. L’ecologia, secondo Iofrida, non consiste né nella descrizione di uno stato di cose oggettive (ci sia concessa la banalizzazione: filosoficamente, l’ecologia non può essere ridotta a una disciplina naturalistica) né, occorre fare attenzione, nella prescrizione di massime della ragione (che si limiterebbe a un greenwashing della Ragion Pura Pratica): l’ecologia è filosoficamente fondata nella misura in cui è capace di una vera e propria educazione sentimentale. Così, l’ecologia filosofica non è né scientifica (occorre «declinare l’ecologia come critica anti-intellettualista», p. 54) né morale («non si pone come sussunzione dominante», p. 119), ma è intimamente etica (l’ecologia, ci ricorda l’autore, è un pensiero della finitezza, pp. 52-56). È a partire da una esigenza etica (e, con Merleau-Ponty, connesso a un certo spinozismo schellinghiano, da un’esigenza anche ontologica) che va letta la proposta di un paradigma del corpo. Non si tratta, così, di fondare un principio di rappresentazione, o massime pratiche, ma di sviluppare delle ipotesi etiche, per dir così, da un punto di vista pragmatico.
Maurice Merleau-Ponty
Fatta questa premessa, possiamo addentrarci in alcuni aspetti concettuali. Uno dei concetti chiave per leggere la proposta iofridiana è quello di inerenza (pp. 29-31). Di matrice fenomenologica, l’inerenza è un fenomeno corporeo e rimanda a una «ontologia relazionale» (p. 41) che si pone in antitesi tanto con le ontologie costruttiviste del pensiero debole (p. 43) quanto con le ontologie realiste di certi modi di intendere il materialismo (pp. 60-61). L’inerenza è il concetto cardine di un’ecologia che si propone di lavorare in chiave ontologica sulla «nostra relazione coi milieux» (p. 41) – i riferimenti sono alla «geografia […] fenomenologica» (p. 39) di A. Berque: la relazione degli “individui” con gli ambienti (o paesaggi) «non è quella della sostanza pensante con la sostanza estesa; […] piuttosto c’è uno sconfinamento, un’interpenetrazione» (p. 41). L’inerenza ci offre una cifra filosofica importante: essa è la relazione chiasmatica – è evidente nel lessico iofridiano l’influenza di Merleau-Ponty – del vivente con i suoi dintorni, le sue Umwelten, il co-appartenersi di individuo e ambiente. Intreccio, potremmo dire, della parte con il tutto.
In quanto etica ontologicamente orientata, l’ecologia si interessa non alle partizioni sostanziali – che comportano, sul piano etico, la costruzione di un’impalcatura morale – bensì agli assunti relazionali (ci sia concessa un’assonanza col lavoro di Giuseppe Semerari 2009) che solo centrando l’analisi filosofica sulle potenze corporee possono essere messi in risalto. Questa inerenza, che è una mediazione senza soggetto – e che anzi produce soggettività – non è pensabile come Aufhebung, bensì come un’unità senza concetto (p. 115) attuata per il tramite del corpo «e la sua apprensione orizzontale del mondo» (p. 25). L’esigenza di un paradigma del corpo è dunque insito nella tematica stessa della relazione ecologica, così che, per Iofrida, ogni ecologia, sul piano etico, non può non passare – anche implicitamente, come traspare mediante la critica alla smaterializzazione postmoderna (pp. 67-68) – per il tramite di un paradigma del corpo.
Il problema del corpo è però l’altra faccia di un ulteriore assunto di Iofrida, ovvero l’idea complementare che la Natura non sia un oggetto (p. 45) e che il vivente non sia meccanizzabile (p. 30). Il rischio di interpretare in chiave puramente valoriale, facendo di tali assunti delle massime della Ragione, è grosso. Occorre dunque tentare di essere chiari, ancora una volta, sul lessico dell’autore. Siamo pur sempre, lo si è detto, sul piano del giudizio riflettente. I riferimenti sono ancora all’opera di Merleau-Ponty e, tramite lui, Schelling e Kant. In ultima istanza, l’orizzonte concettuale ci appare ancora di matrice kantiana. L’idea che il vivente non sia meccanizzabile vuol dire che lo specifico fenomeno di inerenza dell’umano agli altri viventi (che compongono i suoi dintorni) non è un rapporto conoscitivo, o intellettuale, né tuttavia un rapporto pratico. Non è conoscitivo perché, in quanto soggetti empirici, non tutti gli umani sono “scienziati”, e questo non pone particolari problemi. Ma non è neppure un rapporto pratico, perché non è possibile estrapolare una massima categorica da questa idea: non tutti i viventi possono agire conformemente a scopi (tralasciamo i motivi di tale impossibilità). L’idea che il vivente non sia meccanizzabile non è un enunciato che riguardi il regno della libertà. Concessa la formula, quella tra viventi non è una relazione tra esseri (radicalmente) liberi, situandosi, invece, nel regno intermedio tra la necessità dell’oggetto naturale e la libertà radicale del soggetto trascendentale (Merleau-Ponty 1996, 312-313).
Il problema del vivente – che possiamo anche chiamare, se ci è concesso, il problema della finalità senza scopo – è un problema sentimentale e affettivo. È ancora un paradigma del corpo che permette di comprenderlo: un corpo è il medium non solo, e non tanto, della natura e della libertà, bensì della inerenza al mondo e agli altri viventi. È mediante il corpo – un’utilità non strumentale – che si è costitutivamente aperti ad altre modalità dell’esistere e del vivere. Una mediazione senza soggetto che si fa nel mezzo delle relazioni inter-individuali: l’inerenza come vero e proprio fenomeno trans-individuale, contatti molteplici e variegati tra corporeità (cfr. Merleau-Ponty 1996, 254-261). Appare, in queste considerazioni, un altro dei concetti cardine della proposta di Iofrida, concetto che crea un ponte col suo lavoro precedente: si tratta della nozione di libertà strutturale. Una concezione strutturale – o ecologica – della libertà comporta che essa non sia la radicale assenza di limiti, bensì che trovi la propria potenza esistenziale ed espressiva nella composizione delle relazioni, nella ricchezza e varietà degli affetti e degli incontri corporei.
Pino Pascali, Balena, 1965-66
È una libertà che non è competenza di una filosofia della prassi, ma di un’etica, come accennato, dal punto di vista pragmatico. Un’ecologia della libertà richiede pratica e attenzione [Aufmerksamkeit] (p. 146), un’educazione sentimentale finalizzata a un uso ragionevole degli affetti. Insomma, la libertà, in una prospettiva ecologicamente orientata, presuppone una capacità tecnica. È in quest’ottica che leggiamo, infatti, la proposta di Iofrida di una tecnica ecologica (pp. 84-90). Si tratta di una formula ambigua, ma le ambiguità spariscono se non usciamo dalla semantica nella quale ci stiamo muovendo. Un tale epiteto, infatti, è lontano da un greenwashing delle attuali configurazioni tecnico-tecnologiche del tardo capitalismo: insomma, non si prospetta la necessità di una Green Economy. Si tratta, invece, di una concezione ecologica della tecnica che tenga conto del portato affettivo – cioè esistenziale e vitale – della tecnica.
In questo senso, una tecnica ecologica è di segno contrario rispetto alle attuali configurazioni produttive (si tratta di uscire dal dualismo manicheo «produzione o libertà», p. 60; andare al di là dell’alleanza demoniaca di capitalismo e schizofrenia, cfr. Pignarre & Stengers 2016) configurandosi invece come rivolta alla convivialità – tra umani e tra umani e non umani – incastonata nella complessità variegata degli ambienti di vita (fondamentale in quest’ottica il capitolo dedicato alla teoria dei sistemi, pp. 121-140). È ancora una semantica del giudizio: la tecnica rimanda all’arte, cioè una tecnica ecologica diventa una vera e propria arte dello stare in vita da parte dei viventi – ecologicamente, vi è tecnica ovunque vi sia fragilità e ostinazione della vita: occorre «concepire l’arte come un nuovo modo di rapportarsi al mondo […] poiché, già in se stessa, tale prassi priva di finalità è un’altra e superiore modalità di azione del nostro corpo vivente rispetto a quella meramente utilitaria, essa può essere punto di partenza di una prassi concreta […] e punto di arrivo di una costruzione dal basso, partecipata, intersoggettiva» (p. 152).
Senza dubbio si tratta di una concezione ottimistica della tecnica: nessuna caduta da un eden ormai perduto, né solo nichilistica distruzione della vita da accettare passivamente come un destino. Si tratta, invece, di un’arte pericolosa, quella dello stare in vita, proprio perché la vita – un vivente – è insieme ostinazione e fragilità: l’educazione sentimentale serve a saper «reggere delle crisi, saper gestire il rischio […], anche se rischio significa appunto che la crisi non è mai del tutto esclusa e che il disordine può avere sempre il sopravvento» (p. 123). È una concezione ecologica e ottimistica della tecnica, sì, ma non è il frutto di una anima bella (ecco comparire una certa ispirazione hegeliana). Rifacendosi al lavoro di Kurt Goldstein (2016), neurologo tedesco del secolo scorso, tra le fonti di Merleau-Ponty, Iofrida ci ricorda che «un organismo vivente, e l’uomo in particolare, è teso ad accrescere continuamente la propria complessità […]; esso cerca dunque la relazione e anche il conflitto, in un mondo in cui l’ordine è sempre un momento precario all’interno di una lotta di forze eterogenee che genera un perenne dinamismo» (p. 127).
Educazione sentimentale, teoria degli affetti e concezione tecnica del vivente: i tre capisaldi che istituiscono la fondazione filosofica dell’ecologia proposta attraverso un paradigma del corpo. Tale paradigma fa sì che un’ecologia filosofica si trovi a proprio agio non nel contemplare un’astratta e fondativa Natura Naturante, un’origine ormai perduta o distrutta dalla cattiveria dell’Uomo, bensì nel concepire modi possibili del vivere in comune, forme collettive di esistenza con i più ampi margini di gioco transindividuali, vincoli che non obbligano capaci di aumentare le potenze esistenziali e le capacità creative dei viventi umani e non (è questo il principale rimando al concetto di natura di Merleau-Ponty). Si tratta di una concezione minoritaria della storia, del divenire minoritario dell’umano, dei suoi affetti, delle sue ibridazioni, delle sue contaminazioni (cfr. Deleuze & Guattari 2015, 349-357). Una storia minore che non ha la Natura come Grande Altro, bensì che è caratterizzata dalla sua inerenza all’elemento naturale, alla sua imprevedibilità, alle sue complessità ontologiche (ma anche epistemologiche, dato che, ecologicamente, l’ontologia è inscindibile da un’epistemologia): si tratta di una storia universale della contingenza (Deleuze & Guattari 2002, 86).
L’ecologia filosofica proposta da un paradigma del corpo è così una filosofia artistica, un’arte, pericolosa e sublime a un tempo, del vivere insieme, del condividere la Terra con altri viventi (l’Autore parla di «un materialismo della Terra», p. 44). Un’arte, per chiudere restituendo il ruolo di Michel Foucault nel nuovo paradigma ecologico (pp. 205-211), che sia una «estetizzazione della vita come progetto condiviso di una comunità di eguali che dialogano e, esercitando la socievolezza, istituiscono con il mondo e gli altri una relazione che non è quella della ragione strumentale, brutalmente utilitaria, ma che può a tutti gli effetti definirsi ecologica: non è il bello quella dimensione sempre mobile di limite in cui ci apriamo al mondo e agli altri non in funzione di un dominio, ma per essere passivi quanto attivi, copresenti in una relazione con l’alterità che può definirsi col termine, anch’esso fenomenologico, di attenzione?» (p. 211).
Bibliografia minima
Deleuze, G. & Guattari, F. (2002; ed or. 1991). Che cos’è la filosofia?. Torino: Einaudi.
Deleuze, G. & Guattari, F. (2015; ed. or. 1980). Mille piani. Capitalismo e schizofrenia 2. Tr. it. G. Passerone. Roma: Castelvecchi.
Goldstein, K. (2016; ed. or. 1934). L’organismo. Un approccio olistico alla biologia derivato dai dati patologici nell’uomo. Tr. it. L. Corsi. Roma: Fioriti.
Merleau-Ponty, M. (1996; ed. or. 1995). La natura. A cura di M. Carbone. Milano: Cortina.
Pignarre, P. & Stengers, I. (2016; ed. or. 2005). Stregoneria capitalista. Pratiche di uscita dal sortilegio. Tr. it. di S. Consigliere e A. Solerio. Milano: IPOC.
Semerari, G. (2009; ed. or. 1961). La filosofia come relazione. Milano: Guerini.
Significativamente inserito all’interno di una collana intitolata “Filosofia e vita quotidiana”, il libro di Marco Menin (Il fascino dell'emozione, Il Mulino, Bologna 2019) aspira a sottoporre a trattazione filosofica uno degli elementi più quotidiani e onnipervasivi della nostra esperienza umana, ossia le emozioni.
Oggetto di studio proteiforme, resistente ad ogni classificazione univoca, le emozioni sono infatti presenti in quasi ogni ambito della nostra vita, risultando quindi dotate di un ambiguo doppio status filosofico: se da una parte esse sono state fin dall’antichità oggetto di interesse e di teorizzazione, da un’altra la loro natura misteriosa e magmatica ha fatto in modo che solo recentemente sia stato ad esse assegnato un ruolo di spicco nel quadro generale della vita umana.
Senz’altro utile è per questo l’approccio adottato da Menin, storico della filosofia per formazione, che può quindi tenere fisso lo sguardo sull’evoluzione diacronica del pensiero pur senza disdegnare le discussioni contemporanee sul tema.
Interessante è la scelta di un approccio multidisciplinare, con l’apporto di diverse ricerche scientifiche (psicologiche in primis ma anche biologiche, neuroscientifiche, antropologiche e sociologiche), che non serve solo a “dare corpo” a teorie filosofiche antiche, ma anche a stimolare riflessioni filosofiche attuali e contemporanee.
Il risultato è senz’altro quello di ben comunicare al lettore la natura sfaccettata e complessa dell’emozione, ma anche di mostrare come in tempi recenti il suo funzionamento e il suo ruolo siano stati sempre più oggetto di interesse e di ricerca.
Tale approccio multidisciplinare accompagna il lettore in ognuno dei capitoli del libro, ciascuno programmaticamente dedicato ad una tematica di interesse filosofico.
Il primo capitolo verte soprattutto sull’analisi diacronica dell’emergere della riflessione filosofica sulle emozioni dall’antichità fino all’epoca contemporanea.
Saggiamente accantonate le pretese definitorie dell’emozione, così come le distinzioni tra emozioni e sentimenti, l’autore inizia la trattazione proponendo una panoramica delle principali teorie storicamente succedutesi nel pensiero filosofico occidentale a riguardo della natura dell’emozione.
Menin distingue qui tre macro-teorie ideali, filoni di ricerca non omogenei al loro interno ma senz’altro testimoni di alcuni atteggiamenti radicati nella storia del pensiero, che l’autore chiama teoria dell’emozione come valutazione, teoria dell’emozione come percezione e teoria dell’emozione come motivazione.
La teoria valutativa dell’emozione assimila la risposta emotiva al risultato di un’inferenza valutativa: la persona dà un’interpretazione di una situazione e da tale valutazione scaturisce la risposta emotiva.
Pur nella sua apparente semplicità, tale teoria ha prodotto nell’antichità le più diverse valutazioni del fenomeno emotivo: dalla condanna delle passioni in Platone e negli stoici fino al più moderato e neutro giudizio di Aristotele, degli epicurei e di alcuni filosofi medievali, soprattutto tomisti.
A tale tradizione si affianca in epoca moderna una trattazione filosofica più aperta al ruolo biologico del corpo nel determinare emozioni e sentimenti: la feeling tradition o teoria dell’emozione come percezione, iniziata da Cartesio e proseguita con James e Damasio, vede nell’emozione una risposta anatomica ad uno stimolo, assimilandola dunque ad una semplice percezione organica.
Se da un lato la teoria valutativa sembrava assegnare spesso valori morali alle emozioni, la teoria percettiva può sottrarre l’emotività all’etica ed alla teologia per metterla in mano alla fisiologia ed alla psicologia sperimentale, fino alle moderne neuroscienze.
Ultima in ordine cronologico ad apparire sulla scena filosofica è la teoria dell’emozione come valutazione, di ascendenza darwiniana, che vede nell’emozione soprattutto una reazione di adattamento all’ambiente.
Dal pionieristico studio di Darwin sulle emozioni nell’uomo e negli animali fino alla riflessione deweyana sul concetto di arco riflesso, gli esponenti di questa tradizione vede nell’emozione un approccio all’ambiente circostante informato da processi di adattamento, esplorazione, valutazione, prova e risposta.
Il ruolo cognitivo dell’emozione è dunque decisamente rivalutato rispetto alla tradizione percettiva, pur inserendo alcune osservazioni della teoria valutativa in un più moderno framework darwinista.
In conclusione, questo primo capitolo si rivela prezioso in virtù della sua efficace ripartizione delle diverse teorie in categorie “aperte”, non stringenti ma euristicamente efficaci, capaci di dare un ordine a duemila anni di riflessione senza forzare le peculiarità dei singoli autori.
Mentre il primo capitolo è soprattutto un’opera di sistematizzazione all’interno della storia della filosofia, il secondo capitolo si presenta invece come un serrato dialogo tra filosofia, antropologia, psicologia e sociologia.
D’altronde, trattando di un tema quale la diversità culturale delle emozioni, il riferimento è obbligato.
Spaziando dalla disputa settecentesca sulla naturalezza del pudore, in cui all’interesse etnografico si mescolavano polemiche anticlericali o apologie del cristianesimo, fino alla decennale querelle psicologico-antropologica sull’universalismo delle emozioni, negato dai costruzionisti seguaci di Margaret Mead e fortemente difeso da Paul Ekman.
Se il confronto tra universalismo e costruzionismo sembra essere soprattutto dominato da altalenanti fortune storiche, l’autore mostra chiaramente come ben prima della psicologia moderna già autori come Spinoza e Rousseau avessero prodotto teorie dinamiche dell’emozione, mettendola in relazione, nel caso di quest’ultimo, con il contesto sociale.
Non sorprende dunque che proprio Rousseau sia il trait d’union tra filosofia moderna e scienze sociali contemporanee: dalla psicologia sociale di George Herbert Mead, alla sociologia durkheimiana fino all’antropologia culturale di Ruth Benedict, l’emozione è stata pervasivamente contestualizzata in una teoria delle relazioni sociali, mostrando come essa sia al contempo collante sociale e prodotto dell’interazione stessa.
Stranamente però l’autore non fa riferimento alla ricca tradizione di sociologia delle emozioni, che si dipana dall’opera di Arlie Hochschild e Peggy Thoits fino ai più recenti contributi.
Tale filone di ricerca, attivo anche in Italia grazie all’opera di Gabriella Turnaturi e di Massimo Cerulo, arricchirebbe senz’altro la panoramica sull’emozione di notevoli valide prospettive.
Una trattazione interdisciplinare, esplicitamente rivolta con interesse alla sociologia, avrebbe infatti molto da guadagnare dall’inserimento dei risultati di queste ricerche nel suo quadro teorico.
Tale confronto sarebbe ancora più interessante in vista della trattazione che Menin dedica all’opera di William Reddy, originale proponente di una teoria storico-sociale dell’espressione emotiva, capace di superare le dicotomie tra universalismo e costruzionismo indagando le specifiche modalità di espressione (emotives) che comunicano sentimenti privati in una sfera pubblica.
Molto pregnante è la trattazione che l’autore riserva alla relazione tra genere e dimensione emotiva, ricorrendo ad un autore a cui ha già dedicato numerose riflessioni, ovvero Rousseau.
Nei romanzi epistolari del filosofo ginevrino, il pianto emotivo viene slegato dalla tradizionale associazione con la femminilità, per divenire emblema e simbolo di una sensibilità nuova e capace di andare oltre alle barriere di genere.
Ammirevolmente coeso al suo interno, pur nel fiorire di prospettive e tematiche affrontate, il secondo capitolo introduce molti dibattiti e teorie che verranno in seguito riproposti, mostrando, come detto, la capacità dell’autore di inserire approcci diversi all’interno di un discorso uniforme e coerente.
Tema principale del terzo capitolo è la relazione tra emozioni e linguaggio: l’atto di esprimere emozioni in forma linguistica suscita infatti molte riflessioni, innanzitutto concernenti il divario che intercorre tra la concreta esperienza empirica dell’emozione e le ridotte possibilità espressive che la lingua mette a disposizione.
L’inevitabile “appiattimento” semantico della ricchezza emotiva in una descrizione comprensibile linguisticamente ma impoverita è uno degli argomenti in favore di chi nega che le emozioni possano essere pienamente tradotte in parole.
Ulteriore sviluppo di questa teoria lo si può riscontrare guardando ai vocabolari emotivi delle diverse culture, che presentano una pletora di vocaboli intraducibili usati per esprimere situazioni affettive ed emotive.
D’altronde, le emozioni sembrano avere radici pre-linguistiche molto più profonde delle nostre abilità verbali, come evidenziato da Jaak Pankseep e dal campo di ricerca da lui iniziato, la neuroscienza affettiva.
Se dunque la cultura di appartenenza gioca un ruolo chiave nello strutturare le espressioni emotive, l’universalismo emotivo sembra quantomeno avvalersi di un parziale vantaggio rispetto a teorie del tutto culturaliste: la discrepanza tra sentire ed esprimere il sentimento mette continuamente in gioco le nostre risorse linguistiche, trovandole spesso bisognose di nuovi mezzi espressivi o addirittura carenti di risorse verbali, ma nonostante questo le emozioni persistono anche in circostanze in cui il ruolo del linguaggio è minimo o assente.
La natura pre-linguistica delle emozioni è di fondamentale rilevanza quando si indaga l’emotività di chi difetta proprio della parola: ammirevolmente, Menin inserisce nel capitolo una trattazione sull’emotività animale, a lungo negata in passato e ora importante fattore nel garantire l’estensione di diritti fondamentali anche a molti animali.
Tornando rapidamente alla relazione tra linguaggio ed emozioni dopo il breve excursus sull’emotività animale, abbiamo qui una panoramica sulla funzione persuasiva del linguaggio: se il capitolo si è aperto osservando come l’emozione fatichi ad essere efficacemente contenuta dal linguaggio, ora essa è obiettivo, scopo dell’atto linguistico.
Come si sa fin dall’antichità, la retorica non può prescindere dall’emozione suscitata nell’ascoltatore.
Questa lezione antica, che annovera il movere ed il delectare tra gli obiettivi del discorso retorico, è stata ben recepita dalla pubblicità, che ha fatto di essa ampio uso nello sfruttare il sentimento innescato nello spettatore a fini commerciali.
Se dunque è possibile innescare reazioni emotive nell’interlocutore tramite processi linguistici, è tuttavia anche possibile che tale procedura conduca ad esiti spiacevoli.
Il caso del fraintendimento emotivo, in cui l’interpretazione non già dell’emozione altrui, chiara e manifesta, ma della causa di essa, porta a incidenti comunicativi di diversa portata, culminanti nel tragico caso dell’Otello shakespeariano, è paradigmatico della fragilità delle interazioni emotive.
All’interno della moderna psicologia, proprio la questione del fraintendimento è stata affrontata da Paul Ekman, già citato nel capitolo precedente, che ha elaborato un sistema di riconoscimento di microespressioni facciali capace di individuare le finzioni emotive.
Tuttavia, ci tiene a precisare Menin, non tutte le azioni simulate sono false: molte possono essere finte ma non falsate a scopo di dolo.
Emblematico è il caso dell’attore, che si adopera per comunicare emozioni allo spettatore pur non essendo realmente nello stato d’animo rappresentato.
Allo stesso modo, anche i personaggi fittizi delle opere d’arte, che spesso ci commuovono e ci emozionano, sono finti ma non per questo falsi o meno apprezzati.
In conclusione, questo capitolo affronta molte questioni diverse, spaziando dall’antropologia linguistica alla questione animale, dalla retorica persuasiva alla psicologia e alla riflessione sull’arte teatrale di Diderot.
Il risultato si presta a giudizi ambivalenti: personalmente ho apprezzato la varietà e la ricchezza degli stimoli, a mio avviso non caotici, ma comprendo che effettivamente essi possano risultare troppo eterogenei in un capitolo così breve e coinciso.
L’intera riflessione sul tema dell’emozione animale ben si inserirebbe in una cornice antropologico-filosofica, come quelle tracciate da Gehlen e Plessner.
Ovviamente, non è possibile sviluppare tali tematiche in un paragrafo, e l’autore fa bene a trattare il tema come una interessante appendice al più ampio tema dell’espressione linguistica dell’emozione.
Sarebbe però interessante approfondire una questione così attuale e feconda di spunti in una trattazione più estesa e dedicata unicamente a tale argomento.
Allo stesso modo, anche il tema dell’emozione nell’arte, adombrato nella trattazione sulla retorica, l’arte ed il teatro, si presta ad una riflessione maggiormente approfondita.
Come detto, il capitolo è denso di tematiche, riconducibili in senso lato al tema sterminato dell’espressione dell’emozione.
Tuttavia, il capitolo terzo, insieme al precedente, potrebbe essere letto soprattutto come un tentativo di mediazione intellettuale: tra gli eccessi del riduzionismo biologico-psicologico, che racchiude l’intera sfera emotiva all’interno di processi spontanei, e del costruzionismo radicale, che dà spazio unicamente alla dimensione sociale dei sentimenti, l’autore è fautore di un approccio equilibrato e moderato, a mio avviso davvero ammirevole e necessario.
Questo è forse lo spunto di riflessione più significativo non solo di questi capitoli, ma dell’intera opera.
I capitoli quarto e quinto ritornano in pieno nell’alveo della tradizione filosofica, vertendo uno sulla relazione tra morale ed emozione e l’altro su quello tra ragione e morale.
Primo punto di riferimento per sviluppare il tema del quarto capitolo è senz’altro David Hume.
Il pensatore scozzese, fautore di una teoria del contagio emotivo, è il primo a dare corpo ad una “scienza delle emozioni”, non valutativa ma ispirata ai principi della scienza descrittiva.
Osservare la genesi delle passioni senza giudicarle vuol dire soprattutto darne una descrizione nel processo di azione morale come farebbe un anatomista (esempio di Hume), senza voler incitare le persone al comportamento virtuoso.
Sulla scia di Hume si collocano molti altri illuministi scozzesi, tra cui Adam Smith, tutti concordi nell’assegnare alla simpatia (emotiva) un ruolo fondamentale nell’azione morale.
Anche le neuroscienze contemporanee sembrano avvallare alcuni assunti humeani, tuttavia alcune prospettive risultano paradossali per una riflessione filosofica sul tema dell’etica.
Alcune prospettive neuroetiche, poggiando sulla scoperta dei neuroni specchio, fondamentale nello spiegare la riproduzione di comportamenti osservati, sembrano privare gli esseri umani del libero arbitrio, riducendo la loro condotta morale ad una reazione posteriore ad azioni istintuali.
Tali prospettive, discusse animatamente da neuroscienziati e filosofi, sembrano troppo eccessive, tuttavia le etiche fondate sull’empatia non richiedono affatto simili riduzionismi.
La teoria dell’empatia morale di Hume e Smith, con notevoli varianti, è ancora oggi favorevolmente accettata da molti.
Tale corrente, sfociata nel sentimentalismo etico contemporaneo, è affrontata da Menin facendo riferimento ad alcuni autori più o meno recenti: dalle etiche della cura, fino alle teorie di filosofia sperimentale in autori come Nichols e Prinz, molti ritengono il sentimento condizione necessaria per la condotta morale.
Tuttavia, nota Menin, le emozioni sono state giustamente anche ritenute dannose per la condotta morale: se una posizione kantiana può apparire eccessiva, è evidente che alcune “cattive emozioni” non sono facilmente inseribili in una vita morale.
Il caso della rabbia, oscillante tra passione dirompente e lecita ribellione all’ingiustizia, è forse il più paradigmatico di questa schiera di emozioni ambigue moralmente.
Il passaggio tra il capitolo quarto e il quinto è più sfumato che altrove, poiché il tema della razionalità delle emozioni coincide ampiamente con quello della riflessione etica.
Il capitolo quinto inizia infatti opponendo due tradizioni di pensiero a riguardo delle emozioni e della loro relazione con la ragione.
Se molti autori antichi e moderni le hanno a lungo represse e ritenute “mali dell’anima”, da sottomettere alla ragione, sarà Pascal a mostrare che il “cuore”, ovvero la sensibilità umana, ha le sue “ragioni”.
Per il pensatore francese, l’emozione non è solo importante o di aiuto nel ragionamento: essa è vitale, base e fondamento dell’inferenza (“i principi si sentono, le proposizioni si dimostrano”, ebbe a dire), ma anche garante dell’accettazione di una credenza: se non si dà l’assenso “con il cuore”, ogni ragionamento è vano.
Sarà Hume a radicalizzare il rapporto tra volontà razionale ed emozioni, rendendo la ragione “schiava delle passioni”, ovvero atta solo a muovere i suoi passi a partire da stimoli emotivi, non di ostacolo ad essa ma unico autentico motore.
Da qui, come detto, si ritorna alla discussione etica, aperta da due varianti di sentimentalismo etico.
Esse sono l’emotivismo, che partendo dalla riduzione dell’enunciato morale a mera espressione emotiva, più o meno soggettiva, operata da Ayer, ritiene il lessico morale una semplice comunicazione di uno stato emotivo causato da un’azione.
Altri autori, cognitivisti (non razionalisti etici) associano all’emozione una valutazione cognitiva, restando all’interno della tradizione sentimentalista pur senza essere emotivisti.
Alcuni, come Solomon, ritengono che le emozioni siano risultato di valutazioni assiologiche, ovvero di conferimento di particolari valori negativi o positivi a qualche stato di cose, passibile, come le credenze, di verifica e revisione.
Concludendo l’excursus sull’etica iniziato nel capitolo prima, l’autore nota come, al di là delle singole teorie, sia l’emotivismo che il cognitivismo abbiano mostrato l’inadeguatezza di una riflessione morale razionalista, che volesse prescindere in campo morale dalle emozioni.
L’ultima parte del capitolo, e del libro, è dedicata al tema dell’intelligenza emotiva.
Dalla difesa della razionalità delle emozioni, che secondo Martha Nussbaum informano i nostri processi cognitivi orientando la nostra ragione verso il mondo e portandoci ad interpretare, valutare e validare le nostre credenze, prendono le mosse coloro che vogliono mostrare non tanto la non mutua esclusività di ragione ed emozioni, ma la loro totale interdipendenza.
Anche in campo psicologico abbiamo assistito ad una presa di coscienza circa il ruolo delle emozioni nella nostra vita.
Alcuni autori hanno infatti proposto una sorta di “educazione all’emotività” volta ad insegnare ai bambini a riconoscere i loro sentimenti e a saperli incanalare in modo costruttivo nella loro vita, nelle loro relazioni e nelle loro interazioni sociali.
Purtroppo, emerge proprio qui, quasi come un fulmen in clausula, la critica più grande, forse l’unica che posso sinceramente rivolgere, all’opera di Menin, assolutamente slegata dalla sua riflessione sulle emozioni e legata bensì al suo acritico (a mio avviso) utilizzo degli indicatori del quoziente intellettivo (QI) con eccessivo slancio.
Tali strumenti standardizzati sono stati da anni criticati, non solo metodologicamente ma anche a livello concettuale, per la loro dubbia utilità e per l’effettiva misurazione di qualche disposizione psicologica individuale stabile.
Alcune affermazioni categoriche dell’autore, che sembra ascrivere ad alcuni individui elevate doti cognitive in quanto “misurate” da tali test, sono secondo me decisamente fuorvianti e “stonano” con l’impianto generale dell’opera, comunque decisamente apprezzabile e notevole.
Concludendo, l’opera di Marco Menin risulta assai piacevole da leggere in virtù della sua approfondita e varia trattazione, non solo filosofica, della tematica emotiva.
La sua trattazione si configura come un doppio viaggio che si snoda lungo due assi: quello diacronico, sempre presente e visibilmente informato dall’approccio dello storico della filosofia, e quello tematico, svolto ponendo l’emozione in relazione alle dimensioni del linguaggio, della morale, della razionalità e di ognuno degli argomenti sopra citati.
Sarebbe stato forse opportuno, anche se non necessario, allegare un ulteriore capitolo dedicato all’estetica, branca della filosofia (ora anch’essa sempre più interdisciplinare) che con l’emozione ha sempre avuto a che fare.
Inoltre, il rapporto tra etica, estetica ed emozione, unite inestricabilmente nella vita umana, sarebbe forse campo di indagine privilegiato per una riflessione globale sull’emotività, in cui il sentimento fa, per così dire, “da ponte” tra la riflessione morale e quella estetica.
Tuttavia, la riflessione di Menin nel corso dell’opera appare decisamente esaustiva, ben oltre il livello di una introduzione minima al tema.
Come detto sopra, il saggio è dunque attento sia alla ricostruzione storica sia alla trattazione specifica di alcuni peculiari campi di applicazione della riflessione sull’emozione.
Questo doppio approccio, storico e tematico, è impreziosito dal taglio esplicitamente multidisciplinare, forse l’aspetto più gradevole del libro.
La molteplicità di approcci all’oggetto di studio, che emerge spesso purtroppo nel dibattito contemporaneo come una conflittualità di visioni intellettuali, si mostra qui invece decisamente improntata alla compatibilità, forse, mi pare il caso di dirlo, grazie soprattutto alla cornice filosofica, capace di ospitare al suo interno le diverse prospettive antropologiche, biologiche, psicologiche, neuroscientifiche e sociologiche.
La sintesi filosofica, pur non sistematica, emerge qui come utile strumento per orientarsi nella variegata riflessione che in molti campi del sapere si produce a riguardo delle diverse tematiche, in questo caso specifico l’emozione.
Accessibile come stile, il saggio di Menin è per di più arricchito da riferimenti a referenti culturali contemporanei e mainstream (film, serie tv, romanzi), sempre ben contestualizzati, in equilibrio tra trattazione filosofica ed esigenze divulgative, senza mai essere sintomo di un cedimento a logiche di “popolarizzazione” fine a sé stessa.
Essi risultano infatti un buon esempio di quel binomio, “filosofia e vita quotidiana”, che orienta programmaticamente la stesura dei saggi della collana.
In conclusione, la lettura di questo libro è forse, si spera, la prima avvisaglia di una maggiore sensibilità intellettuale per il tema delle emozioni, a lungo ritenuto marginale per la riflessione filosofica.
La vastità dei campi toccati da Menin in questa sua opera dovrebbe infatti quantomeno mostrare come la cosiddetta “affective turn”, la svolta emotiva, abbia recentemente reso disponibili al ricercatore molti promettenti campi di ricerca.
Una riflessione filosofica sul tema, aperta alla multidisciplinarietà e alla sintesi, è dunque senz’altro utile e gradita.
È stato lo stesso Derrida a spiegare le circostanze che lo hanno condotto a incontrare Valerio Adami e ad avviare con lui un buon rapporto: «Un giorno, il mio amico Jacques Dupin, che lavorava per Maeght, mi propose di collaborare con un pittore a un’opera in comune, una serigrafia che mescolasse il tratto, la pittura e la scrittura. […] Qualche mese più tardi, Jacques ha avuto l’idea di associarmi a Valerio Adami. […] Nel 1975, Dupin mi ha portato dei cataloghi e io sono rimasto subito colpito dalla forza, dall’energia del tratto, ma anche da un richiamo nel disegno – e anche nella pittura – ad altri tipi di scritture: letteraria, politica, “storica”. Assai presto ho notato l’esistenza, nella sua opera, di un certo rapporto sincopato con l’evento letterario o politico, con gli scritti di Joyce o Benjamin, con le rivoluzioni europee di questo secolo, la rivoluzione russa, quella di Berlino, ecc. Il tutto colto in modo ellittico, sincopato, in un tratto dalla forma molto singolare»
In un film di qualche anno fa, Predestination (Australia 2014), i registi e fratelli gemelli Michael e Peter Spierig mettono in scena un vecchio racconto di fantascienza di Robert A. Heinlein, …All You Zombies… (1959), il cui protagonista è, al contempo, maschio e femmina, genitore e figlio/a, amante e amato/a. È la linearità (presunta) delle azioni che si susseguono nel tempo omogeneo a essere così, innanzitutto, radicalmente sovvertita. Una escogitazione narrativa originale, quella di un organismo nato all’interno della possibilità stessa di viaggiare nel tempo, autorizza un gesto che la metafisica si è sempre trattenuta dal compiere fino in fondo: elevare l’esperienza, con la sua radicale imprevedibilità, ad assoluto. Lo spettatore del film, come il suo protagonista (Jane/John), scoprono progressivamente un destino che nessuno ha scritto e che anzi si scrive, in maniera per forza di cose impersonale, attraverso il suo continuo accadere. Se si dovesse perciò trovare un’esemplificazione di quel che Federico Leoni affronta nel suo nuovo libro, L’automa. Leibniz, Bergson (Mimesis 2019), si dovrebbe, con ogni probabilità, fare ricorso a una figura analoga a quella al centro del film degli Spierig.
Anche l’automa, come la vicenda di Jane/John, è l’emblema di un divenire che si sottrae per definizione a ogni prevedibilità, come a qualsiasi pretesa di sovrana padronanza: che sfugge, in breve, alla calcolabilità dell’algoritmo. In fondo, il tema principale di questo piccolo ma importante libro, risiede nella differenza di natura che l’automa (spirituale o incorporeo, come lo definisce Leibniz) deve poter affermare rispetto alle macchine, e in particolare, in relazione alle molte macchine ‘pensanti’ con le quali oggi si tenta di strappare il divenire delle nostre vite alla sua radicale imprevedibilità. L’automa, insomma, è la figura di un organismo senza confini, di un essere che esiste tutto nel suo trasportarsi attraverso di sé, nel suo raggiungersi alla fine del proprio futuro come al principio del proprio passato, facendo così saltare per aria le paratie con le quali siamo soliti proteggerci dalla fatalità a cui ogni vita dovrebbe accordarsi. Imprevedibilità, in effetti, non significa né contingenza, né necessità, ma, piuttosto, continua ridefinizione del necessario come del possibile. Significa, in una parola, alterazione progressiva e cangiante delle stesse categorie con cui il pensiero tenta – tenta solamente – di irreggimentare l’automa.
L’argomentazione di Leoni prende due strade che, intrecciandosi l’una nell’altra come le due anime di una stessa corda, diventano progressivamente un'unica via. Il saggio, partendo dalla vicenda di Joë Bousquet, il poeta ferito di guerra paraplegico che già Gilles Deleuze eleggeva a simbolo della sua etica dell’evento (etica consistente per intero nel saper essere “all’altezza di ciò che ci accade”), mescola registro soggettivo e registro ontologico, determinando così quella indiscernibilità tra tempi distinti che fa appunto dell’automa la messa fuori gioco reiterata di tutte le opposizioni del pensiero metafisico. Una vita si scrive sempre in uno spazio che sfugge a ogni qualificazione nei termini della logica modale, vera e propria superficie di trascrizione ritmica e dialettica del divenire, allo stesso modo in cui il reale del mondo non si lascia acciuffare dalla scansione metafisica di sostanza e accidente, sostrato e accadere, soggetto e predicato. E viceversa, una vita non è un supporto al quale si aggiungono eventi, come il mondo non risponde alla distinzione di possibile e impossibile, contingenza e necessità. L’automa consiste tutto in questa ritrosia fondamentale, in tale riottosità del reale nei confronti dei nostri, umani troppo umani, schemi concettuali. La macchina, insomma, non è l’automa, perché l’automa è piuttosto la matrice informale e illocalizzabile di ogni macchina. Quel che l’automa, correttamente inteso, rivela è quindi l’impossibilità definitiva di calcolare e padroneggiare tecnicamente il divenire. Attraverso il suo situarsi sempre un passo al di là, o al di qua, di ogni concettualizzazione, come di tutte le prassi di adattamento tecnico del reale ai nostri bisogni, nel mentre che tutte le circoscrive e le include, l’automa offre la manifestazione di un’assoluta e crescente indisponibilità del reale. Reale è qui ciò che, come appunto l’automa, si muove da sé e non tollera quindi alcun genere di ingerenza, senza prima averla riassorbita.
Fritz Lang - Metropolis (1927)
Il paradosso di fronte al quale ci mette Leoni è infatti il seguente: il destino esiste solo fin quando vi si acconsente. Ogni manovra diversiva apre per ciò stesso una deviazione, istituisce “nuovo” destino, a sua volta imprevedibile. Leoni propone una sorta di psicoanalisi della metafisica, in cui la struttura nevrotica degli schemi concettuali tràditi diventa l’occasione di un lavoro decostruttivo che non può non essere, altresì, lavoro ricostruttivo. Emerge così qualcosa come una ontologia senza metafisica – un’ontologia della non invarianza dell’ontologia. Un’ontologia della perversione che dà luogo a un’ontologia che si perverte senza sosta. L’utopia, nel senso letterale della parola, è quindi costituire i prodromi di una «scienza del divenire» (p. 13), ovvero di ciò di cui, a detta di Aristotele (e con lui, di tutta l’episteme occidentale), non si dà scienza. Che il divenire sia isomorfo all’individuale è infatti fuor di dubbio: «Non esiste il movimento in generale» (p. 26). Il divenire è sempre singolare – e anzi, il divenire è il singolare. «Se si assume questo schema, scrive Leoni, la filosofia è possibile solo nella forma dell’esplorazione della propria impossibilità, è possibile solo come infinita rivisitazione della propria aporia» (p. 13). Ma la filosofia consiste proprio in questa sfida: occorre saper tramutare una impossibilità, quella della filosofia come scienza del non qualsiasi o del non generico, in effettività. Come fa, d’altronde, ogni creatore. Ogni creatore che si rispetti deve fronteggiarsi infatti con un compito impossibile – trasformare un fraintendimento in una risorsa. Harold Bloom, nel suo celebre L’angoscia dell’influenza, lo ha mostrato in relazione all’emergere di quanto definisce un «poeta forte». Ma il discorso vale vieppiù a proposito della vicenda filosofica. Anche in questo caso ne va della conversione di un travisamento inevitabile in un altrettanto inevitabile progresso, che si legittima à rebours quale correzione di quanto in passato era rimasto disatteso o, soltanto, era stato equivocato. La storia dell’automa coincide quindi con la storia della filosofia, come serie continua di tentativi riusciti proprio perché falliti. L’ontologia che Leoni lascia balenare nella sua istruttoria sull’automa registra questo fatto, elevandolo a cifra stessa del reale – di ciò che nel reale si presenta come l’essere qualsiasi. Paradosso ulteriore, quindi: il modo d’esistenza del singolare, ovvero del non-qualunque, è di essere, appunto, affatto qualsiasi. Di non avere scelta, per dir così.
Ecco allora che, nell’ultimo capitolo, L’inconscio, una storia di fantasmi, l’autore tira le fila del suo discorso con una mossa apparentemente inattesa: l’automa diventa un avatar, a sua volta, del fantasma. Lo scenario è vertiginoso e la batteria di concetti evocati vorticosa. Tutto non è altro che immagine, immagine in sé. Sono le celebri e difficili tesi del primo capitolo del bergsoniano Materia e memoria (1896), portate però qui al loro sviluppo più radicale. L’automa non è una macchina, dicevamo, ma ogni macchina è una forma, o un organo, dell’automatismo dell’automa. Pensare l’automa non significa considerare le connessioni di parti in esteriorità con cui ci si presenta il mondo notomizzato dall’intelligenza pragmatica; non è questione di funzionamenti di oggetti, ricavati dalla giustapposizione di realtà accomodate l’una all’altra secondo il loro profilo materiale. Pensare l’automa è pensare l’intramatura con la quale ogni lacerto di mondo, anche il più insignificante e infinitesimale, si installa e fugge al contempo in e da ogni altro. È vedere il mondo quale ribollio incessante di proliferazioni, di frattali in reciproca e diveniente ristrutturazione. Lo statuto dell’automa è lo statuto dell’esempio, di ciò che, senza scarti di alcun genere – senza la mediazione di una generalità interposta –, è il proprio stesso dover-essere. Di ciò che appunto è singolare: unico nel suo genere. «Ogni cosa è una ragione […] Ogni monade è insieme di un solo elemento, ma quel solo elemento non è un elemento solo, è sempre anche il proprio insieme» (pp. 44 e 74). Nell’atto di leggere Bergson e Leibniz, Leoni si precipita perciò al di là di loro – si spinge oltre il dualismo di tendenze che ancora caratterizza il dettato bergsoniano, come già Deleuze aveva notato, e il contingentismo che Leibniz fatica, malgrado tutto, a ricusare come a giustificare (significativo è che Leoni decida di non tematizzare direttamente la teodicea leibniziana). L’automa si presenta quindi come una meditazione sulla necessità di ontologizzare quanto si sottrae, in apparenza, a questa stessa eventualità: l’immaginazione – quella «funzione senza organo» (Georges Canguilhem) che, secondo il Kant della Critica del giudizio, può guadagnare in alcuni casi le prerogative di un «libero gioco» in cui non è più l’intelletto, con il suo quadro presupposto di categorie, a dettare le condizioni. Ecco che cosa vuol dire pensare una ontologia rescissa dai suoi vincoli metafisici: «E in questo senso ci sono solo nature al plurale, e ogni divisione produce una natura differente, ovvero la natura si divide producendosi in ogni divisione come un altro modo di essere natura, come un altro modo di naturare, un’altra genesi continua di discontinuità. In altre parole, tutto è artificiale, non c’è che artificio» (p. 17).
Il lavoro di Leoni, e non solo in questa occasione, ha come esito, dunque, una definitiva messa in mora della tentazione meccanicista che pure da sempre caratterizza una certa filosofia, intenta a cercare una clavis universalis con cui risolvere una volta per tutte i problemi della conoscenza e della vita. Speranza, d’altronde, dello stesso Leibniz che, con la sua characteristca universalis, immaginava di ridurre ogni controversia a un puro esercizio di calcolo. Fa notare l’Autore: «Ogni macchina contiene un appello alla trascendenza» (p. 51). Si tratta invece di lavorare a un concetto e una prassi conseguente di immanenza integrale. La suddetta chiave, sembra dirci infatti Leoni, semplicemente non esiste, perché deriva, al contrario, da un effetto interno a una potente tecnologia, che fa tutt’uno con quella alfabetica – la grammatica indoeuropea di soggetto e predicato, che struttura notoriamente gran parte della tradizione filosofica occidentale, almeno sino alla soglia del Novecento. Se pensiamo di poter ricostruire l’evento con i risultati della sua analisi (ricostruzione in atto già nella distinzione del flusso linguistico in parti del discorso), finiamo per cadere in una serie di perniciose aporie – tra le quali, e non per ultima, l’idea di un divenire che si aggiunge dall’esterno all’essere senza potersi mai davvero comporre con esso, di una molteplicità che si fa uno o di un’unità che si fa, non si capisce come, molteplice. Quel che va pensato, allora, è qualcosa che è «più di uno e meno di due» (p. 52), che resiste in questo bilico. Occorre solcare il paradosso senza cadere nell’aporia.
Fare filosofia ha sempre significato volersi cimentare con un compito inattuabile: trasformare la vita in un processo automatico. Perché si tratti di alcunché d’irrealizzabile, è presto detto: l’automa è la figura che rende impraticabile questa strada, nella stessa misura in cui la impone come inaggirabile. «Ogni automa è la macchina di ogni altro» (p. 59). La filosofia si identifica alla memoria, perenne perché ogni volta da rinnovare, di questa eccedenza o di questa sottrazione originaria, le quali rimandano entrambe, però, alla totale immanenza con cui l’automa prende forma, aderendo perfettamente solo a se medesimo. Perché di questo si tratta, di un prendere forma che resta tale – che resta in progress. L’automa, insomma, non è calcolabile. Tutto si può fare, tranne divenire-automi, se “divenire” significa passare dalla potenza all’atto. Semmai, si dovrà tornare a esserlo – tornare a essere quel che non si è mai cessato di diventare. L’unico vero automa, in altre parole, non è digitale, ma analogico. Nessun dio ci può salvare, va infine detto. Nemmeno quel dio minore che è il filosofo. Per fortuna.
Il volume che presentiamo raccoglie i contributi del Corso di Eccellenza Schema. Verso un dizionario filosofico-architettonico che si è svolto presso il Dipartimento di Architettura e Design del Politecnico di Torino nell’estate del 2018. Il volume è il risultato del lavoro condiviso tra esponenti di due discipline: filosofia e architettura. Durante un simile lavoro si è cercato, da un lato, di chiarire gli assunti che stanno alla base dei discorsi e delle pratiche delle due discipline, pertanto peculiari a ciascuna; dall’altro lato, di individuare le aree di indecisione o indeterminatezza ai bordi delle discipline stesse, aree in cui le rispettive identità tendono a sfumare reciprocamente. Il linguaggio è stato assunto come dispositivo ‘problematico’ e ‘di problematizzazione’ allo stesso tempo: ‘problematico’ dal punto di vista della condivisione di un vocabolario transdisciplinare, pertanto comune (in senso convenzionale) tra architettura e filosofia; ‘di problematizzazione’ nei termini, invece, di una operatività orientata ad affrontare, e problematizzare, tematiche affini. Si è quindi partiti da quelle parole o lemmi che sono condivise tra le due discipline, anche se utilizzate in modi e con fini differenti; parole che nel caso dei filosofi sono nozioni e leve per la teoria e nel caso degli architetti sono strumenti concettuali dell’agire progettuale. Più precisamente, l’ipotesi di avvio è stata quella di individuare il lemma di un ipotetico dizionario filosofico-architettonico. Tra le varie proposte, il lemma ‘schema’ si rivela essere un buon intercessore transdisciplinare: per la filosofia, soprattutto dopo Kant, esso diventa un termine specifico, e uno dei terreni di battaglia prediletti dalla gnoseologia e l’epistemologia, ma anche dall’ontologia; in architettura, la schematizzazione rappresenta, invece, una forma specifica del pensiero progettuale e uno strumento convenzionale che interviene nel dialogo con le altre discipline, nonché nella traduzione dei loro specifici apporti in figure progettuali. Per articolare maggiormente la discussione sul lemma si è deciso di declinarlo in quattro varianti o sotto lemmi: ‘algoritmo’, ‘configurazione’, ‘diagramma’ e ‘mappa’.
A cura di Veronica Cavedagna e Andrea Alberto Dutto
«L’uomo, senza utopia, precipita nell’inferno di una quotidianità che lo espropria di ogni significato e lo uccide poco a poco; ma non appena mette mano alla realizzazione di quella utopia, al tempo stesso prepara le condizioni per una quotidianità sempre più atroce». Così, più di vent’anni fa, il matematico, mediattivista e futurologo prematuramente scomparso nel 2013 Antonio Caronia (1996, p. 58), riassumeva il nesso inscindibile che lega, come in un inquietante nastro di Moebius, le utopie alle distopie. Se l’utopia veniva, infatti, poco più di 500 anni fa, pensata – e in qualche modo “inventata” come genere letterario – da Thomas More come un “non-luogo” dove creare, tramite un esperimento mentale, una società ideale, paradigmatica, che funzioni da critica e da modello per i modelli socio-politici a lui contemporanei; dopo il crollo delle “utopie reali” del XX secolo parlare di utopie è diventato assolutamente demodé, per non dire politicamente sospetto.
Eppure la rivendicazione dell’utopia come spazio per sfuggire all’inferno del reale, o di quel “Reale”, di cui l’onda lunga del lacanismo politico, da Zizek a Badiou, ha fatto l’oggetto principale della propria “passione”, resta ben presente nell’immaginario collettivo, così come lo era ancora ancora, anche a livello politico, nei propositi di Ernst Bloch. Un mondo ideale, dai tratti fantasmati, o fantasmatici, resta il telos di molte narrative della contemporaneità di grande successo: romanzi, serie televisive, produzioni cinematografiche spesso presentano e rappresentano mondi ideali dal forte potenziale di identificazione. Questo potenziale, però, come Caronia già nel 1996 rilevava, tende ad assumere rapidamente caratteri distopici: se le utopie rinascimentali (quella di Moro come la città del Sole di Campanella, quanto la Christianopolis di Andreae) appaiono al lettore odierno fortemente (pur involontariamente) distopiche, le “utopie” contemporanee, soprattutto quelle elaborate dopo le due Guerre Mondiali, appaiono sempre come utopie “di facciata”, che nascondono tratti distopici totalitari, eugenetici, bio- e tanatopolitici. Nelle distopie della letteratura sci-fi dagli anni ’60 fino a oggi, ma pure nei mondi post-apocalittici popolati da gruppi di uomini tornati allo stato di natura di molte narrazioni seriali e videogames, sembra che il potenziale critico dell’utopia sia stato mantenuto, rovesciando però il suo segno distintivo da positivo a negativo, andando così di pari passo con sfiducia per la ragione tipica dell’epoca che va dal Dopoguerra a oggi.
La nuova edizione di Manifesto cyborg. Donne, tecnologie e biopolitiche del corpo (Feltrinelli, 2018) raccoglie tre saggi di Donna Haraway, teorica femminista e storica della scienza allieva di Georges Canguilhem. I saggi in questione sono stati pubblicati la prima volta nel 1991, in Italia nel 1994, all’interno di una raccolta dal titolo Simians, Cyborgs and Women. The Reinvention of Nature (Routledge). L’importanza della riedizione di un testo considerato ormai un classico può ricercarsi nella necessità di rivalutare la portata teorica e filosofica della riflessione di Haraway, portata che fino ad ora sembra essere stata scarsamente considerata. Ciò che andrebbe messo in discussione è un inquadramento “specialistico” del testo, che lo vorrebbe di interesse unicamente per chi si occupa di “questioni legate al genere” e, ancora più nello specifico, per chi nella cornice degli studi di genere riflette sui problemi della scienza e della tecnologia. Nella rivalutazione delle implicazioni teoretiche di Manifesto Cyborg è in gioco, più in generale, la riconsiderazione dell’importanza filosofica dei cosiddetti studi di genere e postcoloniali, che normalmente trovano legittimazione solo se inseriti nella cornice dei cultural studies. Il testo di Haraway eccede queste cornici disciplinari, e con le sue incursioni “spregiudicate” nel terreno delle scienze biologiche, biomediche e delle teorie dei sistemi, può essere considerato un’argomentazione a favore della contaminazione come importante strumento di produzione e creatività teorica.
Fin dalle prime pagine di Manifesto Cyborg è chiara l’urgenza teorica e politica che muove la riflessione dell’autrice: la necessità per il femminismo socialista e in generale per gli allora nuovi movimenti di sinistra di ripensarsi, alla luce del confronto con le profonde trasformazioni globali che segnavano il contesto dell’elezione di Reagan alla presidenza degli Stati Uniti negli anni ’80. Il cyborg, protagonista dell’opera, rappresentava provocatoriamente quella peculiare “creatura” contraddistinta da un’intrinseca necessità di evadere ogni forma di pensiero dicotomico, ogni forma di razionalità strutturata intorno a stringenti dualismi, in favore di un nuovo punto di vista in grado di rendere conto di una realtà infinitamente complessa ed eccedente che il suo stesso apparire metteva prepotentemente alla ribalta. A quasi trent’anni di distanza, in cui la modalità dominante di gestione della complessità (sociale, psichica, politica, scientifica) sembra ancora rimanere il riduzionismo, in cui lo scenario pare ancora caratterizzato dal riproporsi di un pensiero dicotomico e dall’intensificarsi delle logiche di dominazione patriarcale, razzista e capitalista connaturate a esso, provare a immaginare un modello di razionalità che non evade la complessità ma che se ne fa carico non si rivela meno urgente. La posta in gioco è l’elaborazione di modalità alternative e sfaccettate di gestione della complessità, rifiutando quindi anche quel pensiero che vedrebbe nella postmodernità il terreno in cui si consuma la crisi della razionalità dominante che non lascia spazio a null’altro se non alla contingenza e alla “differenza” irriducibile, intese come negazione dell’elaborazione teorica e della prassi. Manifesto Cyborg riapre invece con forza l’elaborazione teorica, etica e politica, al cuore della postmodernità e lo fa oggi non meno di ieri.
Lo sguardo attraverso cui Haraway analizza le trasformazioni che segnano il suo tempo è quello che deriva dalla sua storia in quanto biologa: in particolare, l’autrice mette in luce la profonda rielaborazione e ripensamento della biologia in relazione all’emergere di nuovi saperi, quali la cibernetica, le teorie dei sistemi, le scienze della comunicazione e dell’informazione. Il ripensamento della biologia in seguito alla contaminazione con nozioni, teorie e concetti provenienti da queste scienze è stato profondo al punto che, secondo Haraway, si può sostenere che l’“organismo” biologico, come oggetto della scienza, abbia cessato di esistere, e sia stato sostituito da sistemi di comunicazione completamente denaturalizzati. Gli organismi sono quindi diventati artefatti, sempre contingenti, le cui modalità di costruzione non sono vincolate da nessun’architettura naturale. Contemporaneamente, le macchine hanno preso vita: se quelle pre-cibernetiche potevano essere ancora distinte dagli organismi in quanto pensate e costruite dall’uomo, le macchine cibernetiche rendono completamente ambigua la distinzione tra autosviluppo e progettazione esterna (p.43).
Le ondate di denaturalizzazione e de-essenzializzazione che secondo N. Katherine Hayles definiscono il postmodernismo hanno quindi investito anche i corpi biologici: se le prime teorizzazioni degli organismi come sistemi cibernetici riposavano ancora su una concezione olistica e mantenevano intorno a questi un certo involucro, le teorie sociobiologiche di uno scienziato dalla sensibilità postmoderna come Richard Dawkins hanno radicalizzato questa tendenza, rompendo definitivamente con i paradigmi olistici e ripensando l’individualità biologica come costrutto contingente ad ogni livello. Come mettono in luce le escursioni di Haraway nel territorio delle moderne biologie della comunicazione, i processi di decostruzione e ricostruzione dei corpi occupano il centro del discorso, non solamente dal punto di vista del critico culturale o dell’archeologo delle scienze umane, ma anche dello scienziato postmoderno: le biologie moderne si occupano di tecnologie d’inscrizione e codici, di processi di disassemblaggio e riassemblaggio, di sistemi di controllo altamente tecnologizzati. La centralità delle tecnologie di scrittura emerge in modo evidente se si considerano i lauti investimenti direzionati a progetti come quello di mappatura e ricostruzione del genoma umano. Questo progetto emblematizza un “umanesimo postmoderno” in cui la ricerca biologica segnata dalla rilevanza sempre maggiore delle tecnologie d’inscrizione è messa al servizio della tradizionale ideologia umanista e del sogno ad essa associato di poter finalmente definire l’umano, di poter finalmente tracciare un confine netto e chiaro, privo di ambiguità e porosità tra il sé e il non-sé.
Il cyborg, segnalando importanti cedimenti di confine come quello tra macchina e organismo e tra umano e animale, si presenta come figurazione non dicotomica della nostra realtà sociale e corporea, che consente quindi di rompere con i dualismi che hanno strutturato la razionalità occidentale: naturale/artificiale, natura/cultura, uomo/donna, mente/corpo, materia/forma, umano/animale, soggetto/oggetto. Come ci ricorda Haraway, queste non sono mai solo opposizioni dicotomiche: attraverso questi dualismi, la razionalità occidentale ha intrecciato il suo destino a pratiche di dominio e di oppressione legate al genere, alla razza e alla specie.
D’altra parte, il cyborg in occidente è anche espressione di una cultura maschilista e guerrafondaia, che concepisce la vulnerabilità che contraddistingue la dimensione corporea come segno di una “mancanza” costitutiva, a cui far fronte attraverso un progressivo miglioramento delle strategie di difesa. Se le individualità cyborg sono per definizione contingenti e instabili, l’immagine della corsa agli armamenti e della guerra perenne lascia trasparire in filigrana il “telos apocalittico” (p. 41) di un sé finalmente libero da ogni forma di dipendenza. La realizzazione di un sé autonomo e integro, che ha “disassemblato” e digerito ogni forma di eterogeneità e alterità si accompagna al dispiegamento di un apparato di controllo diffuso e capillare, che Haraway indica come “informatica del dominio” (p. 55). Con questa figurazione si vogliono mappare i nuovi inquietanti meccanismi di controllo che attraversano il nostro tempo: alle gerarchie che contraddistinguono il “patriarcato capitalista bianco” (p. 57) si sostituisce un sistema polimorfo e reticolare, che agisce attraverso l’allacciamento di connessioni multiple. Ai vecchi sistemi di controllo centralizzato si sostituisce la delocalizzazione, la decentralizzazione, la diffusione e la moltiplicazione dei centri.
Ma il cyborg è anche un costrutto femminista, e in questo senso elicita possibilità oppositive e liberatorie. Cyborg è quel particolare oggetto di conoscenza e pratica femminista, l’esperienza delle donne, che proprio in quanto fatta oggetto di sapere, è ricostruita come aperta, non finita, contestata, vulnerabile, presa in un gioco di perenne decostruzione e riscrittura. Haraway a questo proposito da particolare importanza ai processi di decostruzione e di de-naturalizzazione che hanno interessato il femminismo in seguito al prendere voce di quelle soggettività, come le donne nere, che sfuggono al sistema di categorie attraverso cui i teorici e le teoriche occidentali hanno tentato di rappresentare il mondo degli oppressi. Questi processi hanno consentito al soggetto femminista di riarticolarsi lungo assi inediti, di immaginare e di praticare nuove forme di unità e di identità al di fuori dell’impianto dicotomico e oppositivo che ha strutturato i miti politici occidentali. La critica post-coloniale ha ricostruito le identità femministe come identità sempre parziali, contraddittorie e problematiche, definite dal non poter essere naturalizzate o essenzializzate. Haraway legge in questo senso la Sister outsider della poetessa nera Audre Lorde (p. 74), ovvero come ricostruzione letteraria dell’identità attraverso l’esclusione, la non appartenenza in quanto eccedenza rispetto a categorie prestabilite. Le identità ricostruite nelle pratiche di scrittura delle donne di colore sono identità sempre contraddittorie e frantumate, prive del privilegio dell’identità a sé, prerogativa dei corpi non marcati come quelli maschili e bianchi. Se i processi decostruttivi e de-essenzializzanti impediscono di radicare la politica nelle identità “naturali”, questo non significa che sia stata minata radicalmente la possibilità di legami: la loro ricostruzione implica politiche dell’affinità, che non ripristinano unità naturali, ma non per questo impediscono legami (parziali ma potenti) e comunità per soggetti postmoderni.
Con l’elaborazione della nozione di “saperi situati” Haraway si inserisce in un altro dibattito che attraversa il femminismo: il rapporto con l’epistemologia e la scienza e, strettamente connesso a questo, il dibattito circa lo statuto dell’oggetto di conoscenza. Proponendo “saperi situati” Haraway intende pensare una versione femminista di oggettività scientifica, che consenta di uscire dalla polarizzazione del dibattito attuale, caratterizzato dal contrapporsi di posizioni radicalmente costruzioniste ed empiriste. La rielaborazione della nozione di oggettività che Haraway propone si appoggia a un ripensamento della metafora della visione. Se quest’ultima ha significato, nella storia della razionalità occidentale, la capacità di alcuni corpi (quelli maschili, benestanti e occidentali) di “smaterializzarsi” in uno sguardo venuto dal nulla mentre si inscrivevano i corpi marcati nel mito, con la nozione di saperi situati assume un significato opposto. L’oggettività e la visione non significano più neutralità e distanza, ma corporeità, parzialità, localizzabilità, impegno e coinvolgimento. (p. 115) L’oggettività ha a che fare non con la scoperta distaccata, ma con la strutturazione reciproca e di solito ineguale; solo saperi parziali, vulnerabili e impegnati garantiscono una conoscenza oggettiva, ovvero che non sia un’illusione. Oggettività e visione non segnalano più un “trucco da dio”, che consente di scomparire arrogandosi il potere di rappresentare senza essere rappresentati, ma diventano modi per stare nel corpo, pratiche di assunzione corporea.
In How we became posthuman, Katherine Hayles sostiene che l’affermarsi di quell’entità chiamata informazione si sia accompagnata a processi di “smaterializzazione” dei corpi, di progressivo abbandono e trascendimento dei vincoli della materialità. L’approccio di Haraway ai mondi alto-tecnologici mostra una realtà più complessa: i corpi radicalmente decostruiti e ricostruiti dalle moderne biotecnologie e dalle scienze informatiche non comportano tanto la smaterializzazione di questi in puri flussi informativi, problemi di codifica e di ricerca di un linguaggio comune che permetta la perfetta comunicazione. Anche l’informazione per Haraway ha una specifica dimensione materiale, così come i testi e i codici, che dovrebbero venire ripensati attraverso la nozione di embodiment. Facendo riferimento alla dimensione corporea, Haraway non si riferisce quindi a una dimensione prettamente biologica: le tecnologie di visualizzazione sono ripensate come sistemi di percezione attivi, nelle quali siamo immersi e con le quali siamo inestricabilmente intrecciati nella costruzione di specifiche forme di vita: un aspetto del nostro embodiment.
Il ripensamento della nozione di corporeità consente ad Haraway di riprendere e al tempo stesso di andare oltre l’analisi biopolitica inaugurata da Michael Foucault, ovvero dell’analisi che fa del corpo l’entità bioculturale per eccellenza e che consente di indagare i rapporti di potere che si concentrano direttamente sul soggetto in quanto entità corporea. La decostruzione della corporeità come sistema di comunicazione tecnologico consente di indagare gli effetti del biopotere oltre la sfera organismica: oggetto delle relazioni di potere non è più un corpo organico e organizzato gerarchicamente, ma sistemi cibernetici completamente decostruiti, assemblaggi ricomposti in modo sempre parziale, costrutti contingenti. Le biopolitiche che interessano corpi ricostruiti come sistemi di comunicazione non sono quelle del sesso e della riproduzione, ma dell’immunità, legate ai processi di replicazione di un sé estremamente vulnerabile e contingente (p.159). Quali tipi di sé vengono costruiti dal discorso sul sistema immunitario? L’intento di Haraway è di risignificare il paradigma immunitario: da dispiegamento di una guerra diffusa e capillare, in cui la replicazione del sé è funzione delle sue strategie di difesa e di attacco di fronte a una minaccia costante di “invasione”, a sistema che “apre” il sé e lo mantiene aperto. In quanto dispiegamento di una rete capillare di blackout e crolli delle comunicazioni, di confusione di confini, il sistema immunitario continuamente “disfa” il sé, mantenendolo contraddittorio ed eterogeneo, impedendone la chiusura e l’autonomizzazione. In questa dimensione riposa la “promessa illegittima” (p. 42) del cyborg: la sua natura artefatta, saltando il gradino dell’unità originaria, impedisce la realizzazione del suo telos apocalittico. In quest’ottica, inoltre, la differenza irriducibile con cui obbligano a fare i conti la postmodernità e i processi a essa inestricabilmente connessi, come quelli di decolonizzazione, non segnala tanto la “morte del soggetto”, come vorrebbero alcuni, ma piuttosto ci costringe a ripensare il soggetto come non isomorfico, auto-contraddittorio e multidimensionale.
Après coup è la traduzione francese del vocabolo tedesco Nachträglighkeit: entrambi sono termini tecnici utilizzati in psicanalisi e servono a rendere conto della temporalità che qualifica i processi psichici inconsci. L'après coupè, orientativamente, il nome che indica il tragitto a ritroso che un soggetto entrato in analisi è indotto a percorrere e che, in quanto traversata della fantasia inconscia, conduce (quantomeno nelle intenzioni degli analisti...) a riformulare la struttura di quel rapporto estimo, più che intimo, che questo stesso soggetto – evidentemente bloccato, evidentemente osteggiato da una ripetizione mnestica che lo invischia in un godimento indesiderato e che lo induce, appunto, ad entrare in analisi... – intrattiene con il Reale.
Ma l'après coup, da intendersi più nello specifico quale effetto della temporalità retroattiva tipica del significante (sulla quale è imperniato tanto il lavoro del sistema inconscio quanto quello della direzione della cura) o quale effetto logico-strutturale, secondo la lettura di Lacan, non è un semplice precorrimento o una forma di veggente anticipazione in quanto (sempre nelle intenzioni degli analisti...) l'esperienza psicoanalitica che lo consente e che scommette su questo iternon è mera ricapitolazione, ricezione passiva degli eventi passati ma, al contrario, presuppone per definizione la costruzione e la ricostruzione incessanti della biografia del soggetto. Vi è quindi una dimensione evidentemente costruttivista, creativa, che appartiene alla logica dell'après coupe che traspare tanto dal lavoro onirico, dalla struttura del sintomo e degli atti mancati, quanto dalla effettiva possibilità di elaborazione e rielaborazione dei traumi. È infatti proprio la dinamica della temporalità après coupche permette, grazie all'analisi, il riassetto di questi stessi traumi nell'economia psichica del soggetto. Va da sé, allora, che un tale processo di rielaborazione, riconfigurazione e riscrittura dell'esistenza dell'analizzante non possa, giocoforza, che attingere e mobilitare quelle risorse soggettive, singolari e non replicabili (non oggettivabili da nessuna pratica scientifica così come da nessuna ermeneutica) che fanno di una vita un'esistenza, appunto, singolare ed unica. Il ricordo, il ritorno après coupdel passato e la rielaborazione di eventi unici che demandano un'interpretazione retroattiva o reclamano una nuova ed inedita rielaborazione, per quanto tardiva, di ciò che è avvenuto sono, in un certo senso, il cuore pulsante di uno psichismo in atto che è evento singolare, evento irripetibile e soggettivo.
Ricondurre l'après coup a un'esperienza generalizzabile, riconducendone la portata soggettiva (non rendicontabile da nessuna filosofia ed inassorbibile da nessuna Weltanschauung) e sussumendo la ricchezza, l'imprevedibilità e l'aleatorietà che un tale tragitto verso il futuro anteriore del soggetto implica entro le categorie dell'universale filosofico è quello che Alessandra Campo si propone di fare nel suo ultimo libro, Tardività (Mimesis, 2018).
Un libro, sia detto per in inciso, di difficile lettura. È un testo specialistico, riservato agli “addetti al mestiere”, che non a caso è la pubblicazione rivista e raffinata della colossale tesi di dottorato in Filosofia dell'autrice. È inoltre un testo scritto in una prosa poetica, alata, che riempie pagine intense, ricche di commozione e di quell'apprensione per l'Assoluto che traspare da un lirismo singolare, dall'inesausta ripetizione dei concetti chiave, dalla minuziosa attenzione dedicata alla dimensione squisitamente tipografica del testo (corsivi, trattini e parentesi giocano un ruolo fondamentale nello stile espressivo dell'autrice) e culminante in sentenze granitiche, definitive: “Ogni concetto è espressivo, ma ogni concetto è tale solo se è unitrino, ovvero se indica, contemporaneamente, la Cosa, la sua rappresentazione e il loro ‘rapporto’. In questo senso ogni concetto è erotico, intermediario tra l'umano e il divino, il somatico e lo psichico. Ogni concetto è erotico perché ogni concetto è terzoe ogni concetto è terzo perché ogni concetto per l'intervallo, ovverosia: per i movimenti dietro la Cosa. Quindi ogni concetto è un après-coup: nient'altro che il risultato di uno sforzo intellettuale” (p. 49).
Ora, tra la ridda di concetti erotici ed unitrini che incedono nella storia della psicanalisi Campo ne elegge uno, quello di Nachträglighkeitappunto, e si propone di ascriverlo alla regia classifica di quei concetti fondamentali in grado di operare, come un tornello girevole, sulla soglia che divide la filosofia dalla disciplina freudiana: “Per Freud, la Nachträglighkeitnon è un concetto metapsicologico. Lo saràtuttavia stato, speriamo, agli occhi di chi avrà avuta la pazienza di leggere queste pagine” (p. 28).
L'operazione, delicatissima e insieme mastodontica, è svolta dall'autrice con flemmatica e instancabile acribia, con puntigliosa meticolosità bibliografica, e progredisce sul solco teoretico tracciato da Rocco Ronchi nel suo Canone Minore(Feltrinelli, 2015) – libro rispetto al quale Tardivitàsi prospetta come una specie di sequel, di compendio o di tardivoimplemento. Campo, infatti, evoca a sé quelli che Ronchi definisce i “filosofi del processo” (Whitehead, Bergson, Deleuze) e, forte di una conoscenza enciclopedica della loro opera, si propone di ripensare il rapporto temporale che sussiste tra coscienza e inconscio in modo da tradurre la trovata freudiana in una sorta di esperienza contemplativa ed estatica, lasciando così trasparire la possibilità di spiegare l'essenza dell'Estramite il ricorso a testi che, a tutta prima, non hanno nulla o ben poco da spartire con la tradizione psicoanalitica in quanto mancano, ad esempio, di quell'apprensione terapeutica e clinica che è fondamentale sia per Freud sia per Lacan.
L'intento sembra, infatti, quasi quello di sottrarre la psicanalisi agli psicanalisti per farne, anche attraverso gli strumenti offerti dalla teologia speculativa di Cusano, Bruno e Spinoza, una branca specifica di una filosofia altrettanto specifica: quella che, insensibile tanto al conturbante richiamo dell'antropologia filosofica quanto alla perturbante (e non necessariamente malinconica) elaborazione lacaniana della mancanza ontologica, mira a ricostituire quell'ideale di compattezza e di completezza (ontologica, per l'appunto...) che si impone, ad oggi – e proprio laddove non ci si aspettava di trovarla: nella letteratura che ibrida la tradizione filosofica con quella psicanalitica! – come una sorta di nuovorealismofilosofico. Una nuova filosofia che, fregiandosi del titolo di “minore”, rilancia la partita della teoresi pura e sceglie di mirare direttamente al Reale ambendo, inoltre, a dirne il più possibile, a comprenderne il più possibile nel tentativo di ripensare, per rivitalizzarla, l'esperienza della trascendenza classicamente intesa.
È infatti proprio verso una nuova definizione di inconscio che l'autrice si propone di condurci, una definizione a dir poco rivoluzionaria e pionieristica che sembra voler rinnovare dalle basi la tradizione filosofica contemporanea poiché, secondo l'autrice, “l'inconscio ignora il '900 filosofico, il quale, a sua volta, ha ignorato l'inconscio ignorando Dio che, come das Es, non conosce contraddizione, morte e tempo” (p. 273).
La posta in gioco è evidentemente alta e l'autrice si premura di definire i termini entro i quali la sua interpretazione dell'inconscio freudiano andrà a svilupparsi:
L'Assoluto [...] non è supremo né grammaticale: l'ideadi espressione contrasta sia con la speranzache l'Assoluto sia l'Ente-eminente, l'anello sempre mancante, perché eternamente trascendente, della grande catena dell'Essere, che con la credenzaper cui l'Assoluto non è altro che il significato prodotto, per effetto retroattivo o accumulazione progressiva, dalle nostre pratiche di scrittura e simbolizzazione. L'Assoluto è espressivo: che si con-verta incessantemente in segni che, pure, lo di-vertiranno significa che esso non è il segno che lo esprime, pur non essendo altrove che lì, in quel segno, pur essendo, in altre parole, il suo atto, e quindi il suo essere, quella stessa generazione indefinita di segni da cui, come tale, come assoluto semplice, infinito e perfetto, per natura differirà. Questo significa univocità del reale. (p. 37)
L'inconscio di cui parla Campo è quindi espressivo, è un inconscio che traspare quale mera constatazione del fatto naturale che esiste, nonostante Freud e Lacan abbiano esplicitamente negato quest'ipotesi, una signatura rerum in fondo inequivocabile, innegabile, e che inoltre esiste presso questa scrittura originaria un significato, a portata d'uomo, decretabile definitivamente. Esiste, quindi, un senso universale essenzialmente disponibile non tanto alla razionalità, alla concettualizzazione o alla matematizzazione, quanto a quella forma di intuizione intellettuale che “è intuizione della soddisfazione del mondo (genitivo soggettivo e oggettivo), intuizione della sua ragione, che è sempre ragione dei misti” (p. 413). In pagine davvero intense e con il trasporto mistico che contraddistingue il suo stile, Campo si dedica allora alla smisurata operazione di correzione, di ricalibratura e di aggiustamento delle interpretazioni che, nell'ultimo secolo, sono state date dell'inconscio freudiano. Dalla logica del supplemento si passa così a una logica dell'incremento (ferale è la critica indirizzata all'opera di Derrida, pp. 238-256), da una concezione analogicadell'inconscio si giunge a una concezione espressivadello stesso e dalla posizione sostenuta da Lacan nel seminario sull'Etica della psicanalisi, quella che si spiega l'esistenza dell'ente ricorrendo all'idea di creatio ex nihilo, si giunge a una metafisica della creatio ab intrinseco. Tematizzando i concetti di bidirezionalità (p.58) e simultaneità (pp. 163, 164) Campo conduce così il lettore verso una concezione di inconscio come pura processualità:
L'inconscio ‘è, né più, né meno’, ed è superficiale. La sua memoria non è una memoria del sottosuolo, come quella di Derrida, né il suo essere è l'Essere heideggeriano, obliato ma comunque intriso di tempo. L'inconscio è ed è atto, Mouvant, processo, puro differenziale di potenziale. Perciò non differisce ma agisce, non soffre, ma gode, non nega, ma afferma, non ha tempo, ma è atemporale (p. 244).
E Après coupsi rivela essere così, nelle mani di Campo, una nozione veramente omniesplicativa: è l'oggetto (a), è l'Assoluto, è l'Unheimliche, è Das Ding, ed è anche l'inconscio stesso, pur non essendo nessuna di queste cose e allo stesso tempo nulla se non in esse: “Come il Dio della teologia speculativa l'inconscio è trans-immanente, ovunque e in nessun luogo. Non è in nessuno dei cogitata(le rappresentazioni o figure), pur non essendo altrove che là. E la Nachträglighkeit, in quanto concetto dettato dall'inconscio cogitans, eredita da questole sue caratteristiche” (p. 169). Come potrebbe, d'altronde, essere altrimenti per un concetto che è assunto quale immagine mediatrice dell'inconscio, sua “forma inapparente” (p. 169), rappresentazione eminente di una coscienza colta nel suo partecipare direttamente a quell'economia dell'assoluto di cui si scopre immancabilmente (anche se un po' in ritardo...) paladina e, insieme, esecutrice inconsapevole?
Immagine tratta dal film “Arrival” (2016) di Denis Villeneuve
“Tardività è” allora, secondo l'autrice, “la ragione del fondamento” (p. 33) in grado di risolvere quel soggettivismo relativistico che, da Kant in poi, impedisce a ogni speculazione filosofica di fondare un sapere universale e necessario, di raggiungere quella verità ultima e definitiva che, nell'arco più che bimillenario interessato dallo sviluppo del pensiero occidentale, è supposta migrare, quantomeno da una certa tradizione storicista, dal campo religioso monoteistico a quello più razionale e rischiarato della riflessione filosofica. Ciò che si prospetta, in queste pagine, è allora niente poco di meno che la vera e propria resurrezione del divino, un suo ritorno après coupdi cui Campo e Ronchi, dietro di lei, si fanno araldi. Risurrezione intempestiva, tardiva, che trova proprio nella concettualizzazione freudiana della retroazione temporale un'inaspettata e imprevista idea-alleata capace di esibire, a un tempo, sia la struttura della psiche sia quella del divino: “La Nachträglighkeitè l'idea adeguata dello psichico reale, adeguata perché lo coglie, grazie a un'intuizione intellettuale, come unico processo di ascesa e discesa, progresso e regresso; come lo ‘stupendo moto di reciproca espressione (admiranda in invicem progressio divina)’ in cui, per Cusano, si esprimel'essenza della vita divina” (p. 178).
Sulla scorta di tali premesse e attraverso una miscela sapientemente dosata di immanentismo, teologia speculativa e “canone minore” Campo ha quindi buon gioco nell'evidenziare come, nonostante tutto e nonostante soprattutto il ventesimo secolo, sia non solo possibile rinvenire da Parmenide a Deleuze una forte e poderosa tendenza del pensiero occidentale a rimarcare l'univocità dell'essere, ma sia anche evidente come una certa continuità con questa tradizione (lungi dal prospettarsi come teoreticamente reazionaria...) sia essenzialmente auspicabile e lasci trasparire la possibilità di intrattenere un rapporto di familiarità, di intimità e di vicinanza con quell'Assoluto che, da quanto traspare dal testo, sembra costituirsi quale conditio sine qua non della filosofia, se non del pensiero stesso.
La temporalità dell'inconscio che si profila in Tardivitàè allora una temporalità fantastica, a dir poco fantascientifica, così come la si incontra ad esempio in film quali Arrival(2016) o Signs(2002). Ed è la stessa autrice ad ammettere una certa continuità tra il “tempo favoloso” (p. 41) prospettato da Deleuze nel suo corso su Kant e l'interpretazione dai lei offerta della Nachträglighkeit. Continuità o coincidenza che, forse, trovano proprio nella sceneggiatura cinematografica il loro analogon più efficace in quanto è soprattutto (se non esclusivamente...) nelle storie narrate al cinema da Villeneuve o Shyamalan che è possibile fare esperienza di una realtà univoca il cui senso è, in un certo modo, assicurato da un Assoluto espressivoe garantito da una “Übercausälitat”(p. 355: quella causalità di ordine superiore, aionica ed eterna che Campo vuole rilevare nel suo studio) che sembra cogliere i protagonisti alla sprovvista salvo poi, in un attimo di estatica elevazione fuori dai cardini del tempo soggettivo, proiettarli al di là di sé, verso una trascendenza che assicura loro una conciliante rivelazione: “l'universo non è arbitrario né malvagio: l'ordine immanente nascosto ‘dietro’ le intricate e spesso enigmatiche interconnessioni che lo strutturano è per Freud, come per Einstein, essenzialmente degno di fiducia, perché unitario e coerente nella sua intellegibilità. Dio è nascosto, ma è buono” (p. 355).
Ed ecco che allora oltre alla creazione di una temporalità fantastica è anche verso l'invenzione di un Freud “minore”(p. 25) che l'autrice si volge, in un operazione a dir poco coraggiosa e non priva di originalità: un Freud “fantastico” come il tempo deleuziano-bergsoniano, un Freud che da medico positivista diventa filosofo della processualità pura e teorico dell'eterna coincidentia oppositorum. Quello che scopriamo, assieme a Campo, è un Freud inedito, un inconsapevole teologo speculativo:
L'intuizione intellettuale è l'intuizione dell'hen kai pan(‘Allenheit’ in tedesco), dell'Uno-che-è-Tutto e del Tutto-che-è-uno. Ma, se questo è vero, come principio ontologico e ragione dei misti, ossia delle sfumature, la Nachträglighkeitè visione diDio (genitivo soggettivo e oggettivo), di un Dio soddisfatto perché sufficiente e sufficiente perché soddisfatto. In quanto acto simplicissimo in sé contemplaturomnia simul sine successione, la percezione secondo l'immediatezza causale non è, infatti, nient'altro che un colpo d'occhio su Dio, totum simul atque perfectum, e sulla sua bontà (p. 416)
Quello di Campo è quindi un Freud che pare aver intuito e poi abbandonato ingenuamente o come se fosse stato colpito, lui stesso, da rimozione (Verdrangung), l'equivalenza e l'omogeneità sostanziale tra l'Inconscio (la sua creatura), l'Assolutointeso quale spontanea e naturale gemmazione di significato, e il Dio neoplatonico, l'Uno totum simul atque perfectumcelebrato da Cusano, Bruno e Spinoza nelle loro opere. E l'identità unitrinadi questi tre elementi è proprio ciò che Tardivitàsi propone di ricongiungere, di riannodare après coup, indicando nell'intuizione intellettuale tanto la via regia da percorrere quanto il metodo per condursi, attraverso la speculazione, presso questa beatifica visione dell'eterno.
Ma è un metodo, quello adottato da Campo, che forse nasconde un pericolo e solleva qualche impasse per quanto riguarda il progetto ermeneutico promosso in Tardività. L'insidia teoretica celata nel concetto di intuizione intellettuale, un concetto euristicamente a dir poco onnipotente, consiste nella possibilità di istituire una sorta di koinè concettuale omologante e giocoforza acritica che, pur di raggiungere quell'unità tanto agognata di soggetto e oggetto e pur di elicitare l'identità trascendentale, aspaziale e atemporale che accomuna tutti gli enti nell'eterno entanglementdivino, lascia da parte o non conferisce il giusto peso a quelle aporie e a quelle differenze essenziali che intercorrono tra gli autori, tra le filosofie e soprattutto tra i concetti, correndo così il rischio di travisarne il contenuto. Un rischio, questo, che Campo corre consapevolmente e che si assume con l'obiettivo, per nulla modesto, di elaborare una teoria metafisica dell'Assoluto, unitaria e coesa, che spazia da Deleuze alle isteriche della Salpêtrière, da Lacan a Nishida Kitaro passando per Carlo Rovelli, Einstein, Roland Barthes e Giordano Bruno, in un détourcolto e nozionistico, lirico e salace. Per decidersi in merito alla effettiva riuscita di questo progetto rischioso, imponente e decisamente ambizioso non possiamo che rimandare il lettore alla lettura completa di Tardività e ci solleviamo, per parte nostra, dall'esporre un giudizio definitivo. Più interessante, in questa sede, è rilevare – per concludere – i risultati che emergono dalla monumentale ricerca di Campo.
Aion (dio del tempo, nel cerchio in altro) e Gaia (dea della terra, in basso)
Freud e Lacan non si sarebbero accorti o non avrebbero pienamente compreso, in breve, che la temporalità non-lineare, frantumata e “impazzita” che qualifica quell'inconscio detto appunto “Zeitlos” (senza tempo) non sarebbe altro che il profilo, la sagoma di quel dio neoplatonico e cusaniano, di quell'ente sommo, perfettissimo e necessario che nella storia della filosofia passa sotto il nome di “Uno” e di cui la formula “hen kai pan” traduce il modello ontostatico, eterno ed infinito.
Il risultato teoretico della ricerca di Campo è allora una sorta di panacea teologico – speculativa per la psiche, una specie di medicamento universale per lo spirito che riscuoterà di certo il meritato successo e troverà modo di essere speso nei contesti intellettuali più svariati (nelle pratiche filosofiche o di counseling, nei convegni e nei festival) ma che, molto probabilmente, non potrà fungere in nessun modo da supporto o da strumento esplicativo per la teoria - pratica psicanalitica. Anzi, forse non farà altro che divaricare la distanza che separa la filosofia dalla creazione di Freud. Quest'ultima, infatti, ha storicamente istituito la sua identità ed ha fondato la sua legittimità proprio marcando la distanza dall'universale filosofico, dal presupposto metafisico di una coincidentiatra l'umano e l'assoluto che fosse accessibile dall'intuizione intellettuale (nota è l'avversione nutrita da Freud per ogni “sentimento oceanico”) e guarda con sospetto ogni costruzione metafisica forte, in grado cioè di spiegare definitivamente la realtà, priva di mancanze e per giunta intesa come totalità o univocità, nei suoi tratti salienti. Le aporie che sgorgano dal disturbo mentale quale evento e le perturbanti prospettive dischiuse dalla psicopatologia sembrano infatti non trovare posto, non avere il giusto rilievo nell'inconscio così come Campo lo definisce.
L'attenzione posta al soggetto, all'evento singolare e al destino psichico dell'analizzante assumono infatti, nel campo psicoanalitico, la preminenza rispetto a qualsiasi sistematica rendicontazione ontologica, a qualsiasi speculazione cosmologica e a qualsiasi riabilitazione dei modelli gnoseologici invalsi in occidente prima della rivoluzione scientifica – siano essi medievali, tardomedievali o moderni. Quando Campo afferma, a proposito dell'inconscio come causa assoluta
che la causalità processuale è una causalità materiale e formale, efficiente e finale perché l'inconscio è causa, ma non come una cosa (soggetto, substrato, sostanza) che causa. L'inconscio è causa come un processo, come un verbo, un'azione: causare. L'inconscio è causazione in atto. La sua azione – causante – è il suo essere – causa –, perché quando il sostantivo si verbalizza, la Sostanza diviene Processo e la Cosa si attiva, si anima (p. 273)
sembra infatti sposare il modello gnoseologico tomista dell'actus essendi, attribuendo così ai processi primario e secondario il ruolo di intelletto possibile ed intelletto attivo e facendo risorgere, questa volta per davvero, in questa bizzarra sovrapposizione, uno stile di pensiero a dir poco datato. Uno stile di pensiero (quello medievale, che verrà poi progressivamente smantellato nell'arco della modernità, in seguito allo sviluppo del metodo scientifico) che si fonda su di un'aprioristica complicità tra il soggetto e l'oggetto, tra l'uomo e il mondo, e postula una coappartenenza fondamentale e naturale tra gli opposti garantita ed assicurata dall'ipostasi divina. L'intuizione intellettualeche Campo invoca quale metodo della sua filosofia è evidentemente a questa mistica coincidenza che dovrebbe mirare. Ma è stato proprio Lacan, psicoanalista navigato e fine pensatore aduso alle resistenze del soggetto, ad affermare con caustica ironia: “E' difficile sottrarsi all'idea che non sia un pensiero a governare il mondo” (Lacan, 1979, p.143). E una tale istanza sembra valere anche e soprattutto se questo pensiero fondamentale e genetico, inteso quale aeterna nativita se intemporis generatio (termini che Campo preleva da Cusano e innesta sul testo freudiano), è identificato con l'inconscio in quanto tale. Sempre Lacan, poi, ha insistito fino allo sfinimento nel dire che l'inconscio è un concetto nato (o abortito?) dallo sviluppo della scienza moderna, come una sorta di impellenza scabrosa che insiste e ritorna a ogni passo (a ogni inciampo?) con l'urgenza di un atto mancato:
Il passo della scienza è consistito nell'escludere ciò che implica di mistico l'idea di conoscenza, nel rinunciare alla conascita[conaissance], e nel costituire un sapere che è un apparecchio sviluppantesi a partire dal presupposto radicale che noi non abbiamo a che fare con nient'altro che con apparecchi maneggiati dal soggetto, e, più ancora, che quest'ultimo può purificarsi in quanto tale, fino a non essere nient'altro che il supporto di ciò che si articola come sapere ordinato in un certo discorso, un discorso separato da quello dell'opinione e che se ne distingue come quello della scienza (Lacan, 2006, p. 280)
Risulta quindi problematico, per Tardività, affermarsi quale vero e proprio punto di connessione tra la psicanalisi di stampo freudo - lacaniano e filosofia immanentista in quanto, a tal riguardo, è necessario sottolineare che tanto la questione epistemologica quanto il cosiddetto “discorso della scienza”, così come la minaccia meccanicistico – deterministica che in esso è annidata, sono temi sistematicamente elusi dalla trattazione. L'insistenza sul carattere aionico del tempo così com'è declinata da Campo sembra assimilare indiscriminatamente, in un certo senso, le scuole freudiana e lacaniana a quella dell'eretico Jung, più proclivo a una certa deriva misticheggiante della pratica psicanalitica, più sensibile all'idea di un inconscio vaticinante, espressivoe intarsiato dalla signatura rerum, e inoltre teorico di quella “sincronicità” che nell'argomentazione di Campo riveste un ruolo pivotale (per quanto dissimulata sotto le mentite spoglie della “simultaneità”). È forse Jung, allora, il personaggio che nella storia della psicanalisi meglio si attaglia alla lettura della Nachträglighkeitproposta in Tardività. Freud e Lacan, per parte loro, l'inconscio l'hanno esplorato e compreso, né hanno eluso le questioni del sacro e della trascendenza: le hanno risolte, semmai, a modo loro (in un modo, per altro, che prescinde esplicitamente dal ricorso a una teoria metafisica quale è quella elaborata in Tardività).
Detto questo, e posto che le intenzioni dell'autrice sembrano invece altre, ovvero sembrano tendere verso un'assimilazione della psicanalisi freudiana alla proposta filosofica di Ronchi in modo da annoverare anche Freud tra la ridda di autori “minori”, è assolutamente necessario riconoscere e ammirare l'originalità e l'audacia dell'opera. In quanto ardito e coraggioso tentativo di ripensare la positività della trascendenza, o di riformularne i tratti essenziali in modo da ritrovarne la concreta possibilità nell'esperienza comune, Tardivitàsi qualifica come un libro di filosofia genuino, verace, che non mancherà di stimolare la fantasia e l'interesse di quanti siano alla ricerca, ancora oggi, di un'idea somma, assoluta e definitiva da eleggere a termine ultimo ed insieme a principio universale (d'altronde: prima = dopo) per il loro modo di pensare e di filosofare.
di Filippo Zambonini
Bibliografia
Campo A. Tardività, Mimesis, Milano – Udine 2018
Lacan J., Alla scuola Freudiana, in Lacan in Italia 1953 – 1978 – En Italie Lacan, a cura di G. B. Contri, La Salamandra, Milano 1979
Lacan J., Le Séminaire. Livre XVI. D'un Autre à l'autre, a cura di J.-A. Miller, Seuil, Paris 2006
L’intento di questa raccolta, che prende il titolo di “Soggettivazioni”, è stato quello di aprire una riflessione attorno alla teoria della soggettivazione lacaniana, così per come ce l’ha lasciata in eredità Lacan, a singhiozzi, nei testi stabiliti a partire dai suoi trent’anni di insegnamento orale. Cosa può dirci una psicoanalisi asistematica, distante dalle istituzioni universitarie rispetto a problemi di una concretezza innervata di realtà? Chi frequenta i dipartimenti di Psicologia e assieme l’insegnamento lacaniano sa che è incommensurabile la distanza che intercorre tra la specificità e la settorializzazione degli strumenti istituzionali a confronto con l’universalità dei concetti larghi e volontariamente mai definiti dello psicoanalista parigino. Tra l’estremamente particolare (l’ad hoc della psicologia contemporanea) e l’estremamente universale (il concetto, unità sintetica della filosofia) si rischia di incorrere in un deragliamento del punto focale, causato da uno scontro di metodi epistemologici che si sono stabilizzati ai bordi opposti l’uno rispetto all’altro. Nella scelta di prendere in considerazione un tema vasto e generale come la teoria della soggettivazione c’era l’interesse, da parte nostra, di porlo in dialogo con il campo altrettanto vasto e generale del presente. Speriamo che questa prima ricerca possa costituirsi come un’indagine (sebbene parziale) sullo statuto del soggetto in quanto campo epistemologico aperto: attingendo dalla teoria psicoanalitica e dal dibattito che ne è scaturito, il presente volume segue molteplici sentieri analitici e sottolinea di contributo in contributo la difficoltà di giungere a un’idea organica di soggetto, per la varietà di ipotesi spesso contrastanti in merito alla sua rappresentazione, formalizzazione e interpretazione. In questa raccolta crediamo che i punti maggiormente messi in rilievo da chi ha collaborato riguardino il problema della genesi, lo statuto della trasformazione, e infine un’attenzione specifica è stata rivolta al registro del Reale e ai suoi effetti.
Aperçues è uno dei libri più singolari di Georges Didi-Huberman. Raccoglie numerosi testi brevi (ognuno dei quali reca un proprio titolo e una precisa data di composizione) che riguardano immagini, non tanto analizzate per esteso quanto piuttosto «intraviste» (è questo il significato del titolo). Il medesimo concetto viene ribadito nell’epigrafe, tratta da un discorso del poeta tedesco Paul Celan: «E cosa sarebbero allora le immagini? Ciò che una volta, e ogni volta è l’unica volta, è soltanto qui e ora, viene intravisto e ha da essere percepito». Conviene parlare genericamente di immagini perché, nella sua vasta produzione saggistica, Didi-Huberman non si è interessato soltanto alle opere d’arte pittoriche o scultoree – antiche, moderne o contemporanee che siano –, ma ad ogni sorta di elementi visivi (stampe, manifesti, fotografie, video, film, ecc.). Egli potrebbe, come Baudelaire, definire le immagini «la mia grande, la mia unica, la mia primitiva passione, nel senso che le considera, oltre che come fonte di fascino, anche come oggetto di un’inesausta riflessione.
Giuseppe Zuccarino è critico e traduttore. Ha pubblicato vari saggi:La scrittura impossibile, Genova, Graphos, 1995; L’immagine e l’enigma, ivi, 1998; Critica e commento. Benjamin, Foucault, Derrida, ivi, 2000; Percorsi anomali, Udine, Campanotto, 2002; Il desiderio, la follia, la morte, ivi, 2005; Il dialogo e il silenzio, ivi, 2008; Da un’arte all’altra, Novi Ligure, Joker, 2009; Note al palinsesto, ivi, 2012; Il farsi della scrittura, Milano-Udine, Mimesis, 2012; Prospezioni. Foucault e Derrida, ivi, 2016. Tra i libri da lui tradotti figurano opere di Mallarmé, Bataille, Klossowski, Blanchot, Caillois e Barthes. Ha inoltre curato un fascicolo monografico della rivista «Riga» (n. 37, 2017) dedicato a Maurice Blanchot.
Nelle sei lezioni che compongono Il senso della possibilità, edito a gennaio per Feltrinelli (2018), Salvatore Veca completa una trilogia di saggi ̶ iniziata nel 1997 con Dell’incertezza e continuata nel 2011 con L’idea di incompletezza̶ che rappresenta uno dei più complessi itinerari teorici del panorama filosofico italiano degli ultimi vent’anni. Nello specifico, in questo terzo volume, Veca si impegna nella difficile impresa di delineare il senso della nozione di possibilità entro il quadro di un’interpretazione filosofica delle modalità che si dimostri in grado di dar conto della connessione tra l’impiego dei termini modali (attuale, possibile, necessario, contingente) e i nostri atteggiamenti proposizionali ordinari del reputare “come stanno le cose” nel mondo che ci circonda. In altre parole, l’autore muovendo da una prospettiva epistemica prova a far luce sui processi che generano le nostre descrizioni e prescrizioni e, in particolar modo, sulle ragioni del loro trasformarsi nel tempo, imputabili in vario modo ai mutamenti nell’ambito delle teorie e delle pratiche (p. 16).
A partire dalle precedenti ricerche sulle nozioni di incertezza e incompletezza, ritenute rispettivamente l’origine della tensione teoretica e il carattere proprio del risultato che ne scaturisce, Veca ci accompagna in un tortuoso itinerario lungo i limiti della pratica filosofica, fino al punto di rottura in cui il necessario diviene contingente e l’inaspettato si manifesta nella forma dello scacco. L’intento però non è soltanto porre l’accento sullo stato di crisi di fiducia o legittimità che investe ciclicamente l’impresa del senso ma di indagarne il ruolo epistemologico. Il ripetersi della crisi, manifestantesi attraverso l’esigenza di impegnarsi in manovre metateoriche, andrebbe interpretato piuttosto come un promemoria antiriduzionistico dovuto a una sorta di inesauribilità propria degli oggetti dell’indagine filosofica. La natura di tali oggetti stimolerebbe l’adozione di una molteplicità di punti di vista in una manovra intellettuale che fa “di necessità virtù” ma che nel contempo rappresenta la possibilità stessa di una relazione conoscitiva con “ciò che c’è”. Si pensi al senso di povertà e angustia che ci assale quando dimostriamo le ragioni irrevocabili di un unico punto di vista rispetto agli enigmi ricorrenti o inaspettati della filosofia, ci ricorda l’autore. Da queste considerazioni preliminari (oggetto della Prima lezione), seguendo una linea che dall’enciclopedia di Husserl porta ai giochi linguistici di Wittgenstein per giungere fino al paradigma della spiegazione di Nozick, Veca torna a chiedersi se «non dovremmo guardare all’attività filosofica come a un ventaglio di stili d’indagine e di scopi e obiettivi di ricerca differenti e alternativi» che, se prendiamo sul serio la storia, ci accorgiamo «persistere quasi nella forma di motivi musicali, nel repertorio o nell’archivio» (pp. 32-33). Ed è proprio qui, all’incrocio tra dimostrazione e spiegazione, che la nozione modale di possibilità diviene elemento cruciale per mettere a fuoco la stretta connessione tra contingenza e verità. Connessione che si manifesta in tre sensi del possibile: 1) reputare qualcosa possibile in senso ampio (epistemico); 2) immaginare e sperimentare mentalmente mondi possibili; 3) pensare se stessi nella durata e dunque nel proprio essere oggetto di trasformazione.
A fornire la struttura portante del saggio è la lunga riflessione rivolta al primo senso del possibile, che si svolge trasversalmente a tutte le sei lezioni ma che diviene protagonista, in particolare, della prima e della quarta. Qui, ripartendo dall’analisi delle categorie e dei giudizi modali svolta da Kant nella Critica della ragione pura, Veca osserva innanzitutto che quando reputiamo possibile, attuale o necessario qualcosa non facciamo riferimento al contenuto proposizionale degli enunciati «quanto piuttosto al tipo di relazione fra l’atteggiamento del soggetto che giudica e l’enunciato corrispondente». Le modalità hanno dunque a che vedere con i nostri atteggiamenti proposizionali, con «la posizione che noi specifichiamo, assegnando epistemicamente modalità alternative agli stessi stati di cose. x è p: possibile, attuale, necessario» (p. 41). Questo genera due problemi per la riflessione kantiana che si rivelano cruciali per l’indagine. In primo luogo, il fatto che le categorie modali risultano distinte nettamente dalle altre categorie in quanto tetiche: esse accompagnano le variazioni del “porre” dando conto del soggetto e non dei modi dell’oggetto. In secondo luogo, diviene centrale la categoria dell’attuale (wirklich) e il giudizio assertorio. Queste assumono un ruolo prioritario poiché chiamano in causa la posizione “in quanto tale” dell’oggetto nello spazio e nel tempo (absolute Setzung) mentre possibilità e necessità di un oggetto indicano soltanto rispettivamente l’accordo con la regola o la posizione secondo una regola. In questo senso l’attuale (nel senso della Wirklichkeit), implicando l’assegnazione di esistenza a qualcosa, «è immerso in un intorno in cui si danno ex ante possibilità e, ex post, necessità» (p. 42). In questo senso, secondo Veca, la priorità dell’attuale così come intesa da Kant indica l’unica via d’accesso per il soggetto al possibile e al necessario e nondimeno implica una gerarchia in cui l’orizzonte di partenza ineludibile è l’esperienza presente. Il problema che tuttavia permane nella prospettiva kantiana è il suo realismo empirico: perché l’esemplificazione esistenziale abbia successo è necessario soddisfare la condizione della percezione nello spazio e nel tempo di un oggetto. Tale componente del sistema kantiano è però inutilmente restrittiva e non tiene conto di una vasta gamma di modi con cui assegniamo esistenza a qualcosa nel nostro linguaggio ordinario. L’autore fa qui riferimento ai recenti sviluppi logici dei temi kantiani elaborati da Hintikka per mostrare come il nostro reputare vero o falso un qualsiasi stato di cose sia implicitamente legato a processi di comparazione tra una serie di stati di cose possibili al fine di classificare quelli che sono compatibili con ciò che viene percepito come stato attuale. Questo significa che quando esploriamo il mondo che ci circonda mettiamo in atto «giochi di ricerca e ritrovamento» sul modello dei giochi linguistici di Wittgenstein che però in questo caso si svolgono tra il ricercatore e la natura. Che qualcosa esista è l’esito riuscito di tale attività che, come sostenuto da Kant, si svolge nell’ambito delle nostre percezioni di oggetti. Gli oggetti nello stato attuale a loro volta vanno intesi come ciò cui possiamo riferirci alla luce dell’esito positivo dei nostri giochi di ricerca e ritrovamento, e fino a prova contraria (pp. 43-44).
Fan Ho - The Lonely Conductor
È bene precisare che l’idea guida di queste analisi non mira a negare l’importanza degli aspetti aletici o deontici al contrario vuole impegnarsi «a connettere l’impiego dei termini modali ai nostri atteggiamenti ordinari e, in particolare, ai nostri atteggiamenti proposizionali, ai nostri giudizi intuitivi di modalità, al nostro reputare» come stanno le cose in una varietà di domini. Questo significa impegnarsi nell’elaborazione di una versione del realismo che integri l’assunzione realistica elementare, secondo cui esiste un mondo là fuori indipendente da noi, e che tenga conto della rilevanza del fatto che all’attuale è possibile riferirsi in più di un modo. Sostenere infatti che qualcosa c’è non è affatto controverso, più complesso è rispondere alla domanda a proposito di ciò che diciamo che vi è (p. 44). In particolare nella quarta lezione, dal titolo Epistemologia, necessità e realismo, Veca si propone di mostrare come la progressiva trasformazione dell’immagine della scienza ̶ dalla visione statica neopositivista della prima metà del secolo all’interesse per la dinamica dell’impresa scientifica dalla seconda metà in avanti ̶ abbia determinato una profonda revisione, non soltanto della nostra concezione del rapporto tra teoria e realtà, ma anche dell’appropriato significato epistemico da attribuire all’operatore modale di necessità (p. 130). La svolta causata nel Circolo di Vienna dal falsificazionismo di Popper prima e dalle Ricerche filosofiche di Wittgenstein dopo ha messo fuoco la dinamica storica che caratterizza il cambiamento concettuale dell’impresa scientifica, ponendo l’accento sulla sua dimensione pragmatica e in un secondo momento sociologica, chiudendo così i conti con le posizioni concernenti la plausibilità di isomorfismo strutturale fra proposizioni e stati di cose. In termini modali, secondo l’autore, questo ha generato l’esigenza di una riformulazione della nozione di necessità che, con le parole di Nozick, da «necessità incondizionata che resiste a qualsiasi controesempio a un tempo dato, connessa alla verità di qualcosa in tutti i mondi possibili» passa a «necessità condizionata […] sino a prova contraria» ovvero fino a che dimostri di resistere a tutti i controesempi concepibili nel tempo (p. 132-133). È facile dunque comprendere come dall’assunzione del carattere condizionato della necessità derivino gravi problemi sul piano ontologico e semantico per quelle prospettive filosofiche che aspirino a prendere sul serio le pratiche scientifiche come vincolo per qualsivoglia programma di ricostruzione concettuale. Qui emerge la tesi di Veca: il riconoscimento del carattere in ogni caso condizionato della necessità ha natura prettamente epistemica quindi «non c’è nulla che ci autorizzi a sostenere che non si diano o non siano definibili relazioni o proprietà necessarie che hanno a che vedere con come sono fatte o stanno le cose» semmai «non sappiamo che farcene di necessità metafisiche» (p. 136). Anche se la necessità dipende dalla serie di circostanze in cui quella relazione è inserita non significa che non sia per noi uno strumento efficace di accesso al mondo. Proprio come avviene per i designatori rigidi di Kripke quando definiamo qualcosa come necessario facciamo riferimento a un oggetto la cui interpretazione riteniamo stabile a un tempo dato e che lo definisce entro un qualche ordine o una qualche ontologia formale. Riconosciamo in esso una certa invarianza rispetto ad almeno alcuni gruppi di trasformazioni. Veca definisce questo tipo di oggetti saturi rispetto all’interpretazione, gli oggetti insaturi sono invece quegli oggetti per cui è disponibile una varietà di interpretazioni divergenti. Ora gli oggetti insaturi sono connessi in qualsivoglia spazio concettuale a oggetti saturi che svolgono il ruolo di limiti per la loro interpretazione, secondo un principio olistico della connessione delle nostre credenze (p. 139). Questo non significa che gli oggetti saturi siano speciali, come le necessità metafisiche: più semplicemente assumono un rilievo particolare a un tempo dato poiché accade che nel loro caso abbiamo una singola interpretazione a fissarne il riferimento. Come per i designatori rigidi, una volta fissato il riferimento «si è liberi di variare in modo puramente combinatorio le proprietà dell’oggetto designato, semplicemente considerandolo come al centro di un insieme di mondi possibili che ruotano intorno ad esso» (p. 143). In tal modo saremo in grado di pensare una varietà di mondi possibili ma tale libertà sarà limitata dalle proprietà essenziali dell’oggetto in quanto saturo. Siamo qui al confine tra epistemico e aletico ed è per questa ragione che «è sensato pensare un mondo possibile in cui Cesare non passa il Rubicone, mentre appare irragionevole pensare un mondo possibile in cui Cesare è un coccodrillo» (p. 143). L’attuale teoria scientifica sarebbe dunque il riferimento iniziale che stabilisce ciò che è saturo fino a prova contraria e in questo modo verrebbe meno la cogenza della celebre distinzione fregeana tra Sinn e Bedeutung: «se il senso di qualcosa attiene al modo con cui ci viene dato l’accesso al riferimento a qualcosa, questo ha luogo entro il dominio epistemico che è certo distinto ma non indipendente dal dominio aletico che ospita solo il riferimento a oggetti. Accettiamo il significato come riferimento, ma non rinunciamo dal punto di vista epistemico alla prospettiva del senso inteso come una tra le possibili vie del riferimento» (p. 145).
Veca giunge a proporre una forma di realismo scientifico dallo sfondo modale fondato sull’equilibrio riflessivo tra l’intuizione empiristica rappresentata dal riferimento fisso, cui pertiene il carattere aletico del significato, e l’intuizione costruttivista rappresentata dalle modalità epistemiche, che garantiscono la possibilità di definire differenti descrizioni nel tempo del medesimo oggetto. La varietà delle vie del riferimento coincide con la possibilità di essere aperti al mondo (con McDowell) nel senso della doppia esigenza di conservare un attrito con esso, in quanto limite per le nostre ragioni, e al contempo di mantenere una certa distanza al fine di rendere possibile quel gioco di ricerca e ritrovamento con un cui miriamo a descrivere la realtà. Tuttavia, come avverte Putnam, il mondo non ci si “rivela”: abbiamo bisogno di un grande lavoro concettuale per metterci nelle condizioni di accedervi. Questo però non equivale a costruire il mondo ma semplicemente a cercarlo nella pratica non epistemicamente ideale di esseri che fanno uso del termine vero (p. 150).
La ragione del testo Che cosa si fa quando si fa filosofia?, scritto da Rossella Fabbrichesi ed edito da Raffaello Cortina (2017), è delineata esplicitamente nella Premessa e si articola significativamente all’interno dell’ambiente da cui prende avvio. Fabbrichesi, all’interno dell’aula universitaria milanese dove svolge la sua professione di insegnante, decide di affrontare i suoi studenti con una domanda spiazzante, nella sua apparente semplicità: “Che cos’è la filosofia?”. A partire da questa domanda, il tema della filosofia – intesa come campo di sapere determinato e, allo stesso tempo, come insieme delle procedure che la pongono in atto – viene dipanato nel corso di quindici capitoli e integrato da alcune riflessioni finali emerse a lezione e successivamente strutturate tramite un lavoro collettivo dell’autrice e dei suoi studenti. Il lavoro di conduzione seminariale, punto di partenza per la nascita del testo, è consistito in un processo di “e-ducazione” in cui l’autrice, limitandosi – a suo dire – a «orientare discorsi che venivano partoriti e circolavano tra gli astanti, alimentandosi negli scambi comuni», ha condotto con sé delle anime «insegnando loro a battere il ritmo del canto corale» (p. xiv) e, richiamandosi al modo originario di fare filosofia, l’ha posto in atto all’interno di quella comunità di studenti che, in poco, sarebbe diventata una comunità di “amici della filosofia”, una comunità di ricerca fondata su una condivisione di interessi e su una radicata volontà di attualizzarli.
Attualizzare i contenuti di un sapere che da lungo tempo viene messo in discussione, tanto nei suoi luoghi di tradizionale appartenenza – le accademie – tanto nella quotidianità – luogo di prassi da cui origina la filosofia – interrogandoli nelle sue parti elementari (“Che cos’è la filosofia?”, “Che cosa si fa quando si fa filosofia?”) piuttosto che ribadirli e al fine di strutturarli in un sistema nuovo, sempre ri-organizzato secondo le esigenze della contemporaneità, assume un profondo significato politico; si sceglie di riappropriarsi degli strumenti originari della filosofia, per riabitarne i luoghi, per richiamarne il ruolo di critica e di conseguente produzione creativa e alternativa del reale.
I presupposti del testo, che già dalle prime righe si mostrano articolati secondo due linee principali, una teorica e l’altra pratica, si intersecano per tutta la sua durata e, intrecciandosi intorno alle domande fondanti della filosofia – “Che cos’è?” (il “ti esti?” di socratica origine) e “che cosa si fa?” (il methodos dell’indagine) – generano un continuo rimando di livello tra il conoscitivo e il pratico. I rimbalzi di significato giungono a compiersi, senza mai concludersi per loro stessa natura, nell’Appendice – nominata significativamente L’esercizio della prassi teorica – in cui gli studenti si interrogano personalmente su che cosa fanno quando fanno filosofia, quasi a suggerire al lettore un bilancio del percorso che ha individualmente compiuto lasciandosi suggestionare e coinvolgere dalle riflessioni dei capitoli precedenti. In questo senso, se “Che cos’è la filosofia?” «Non è affatto una domanda rivolta a dei principianti» (p. xii), poiché non segna un’arché, ma anzi, presuppone un arsenale concettuale consolidato a seguito di anni di speculazione, il chiedere “Che cosa si fa quando si fa filosofia?” apre lo scenario a chiunque abbia mai sperimentato una “forza erotica”, nel senso platonico del termine, nei confronti di tutto «ciò che è insolito, stupefacente, difficile e divino» (p.74), a chiunque creda che non esista la filosofia, ma la pratica filosofica e a chiunque veda il proprio godimento alla base della ricerca filosofica potenziato dalla «crescita della ragionevolezza in un’ottica comunitaria» (p.76). In questo senso, coloro che, staccandosi dall’idea della filosofia come formazione originariamente paideutica, intendono l’attività professionale dell’insegnamento come unica e adeguata declinazione dalla formazione filosofica, difficilmente proveranno meraviglia o stupore (per richiamare – come fa l’autrice – le emozioni primarie che tradizionalmente designano i moventi originari dell’interrogazione filosofica del mondo) di fronte alla rassegna di concezioni o di visioni del mondo di filosofi noti che hanno provato, con parole diverse ma con univoca passione, ad attribuire significato alla prassi filosofica.
Considerando però che attribuire significato a una prassi significa anche, tramite interrogazione critica, fondarla trascendentalmente e dotarla di senso, la forza di questo testo consiste nella volontà di indagare il nesso che caratterizza la filosofia come insieme delle dottrine da apprendere e la filosofia come insieme delle prassi che, agite, alterano e modificano il mondo in cui ci orizzontiamo, più che nella padronanza con cui vengono richiamate e fatte dialogare le autorità filosofiche del nostro passato tramite i loro impianti speculativi. Sondare questo nesso corrisponde ad abitare il “limite” di cui parla Foucault e solo la consapevolezza della sua ineliminabile duplicità (Cfr. Amare la duplicità, pp. 57-62) ci farà progredire nella pratica filosofica; indagare un oggetto dirà tanto più sul metodo d’indagine che sulla natura dell’oggetto in sé e, d’altro canto, indagare sé non è altro che mettere in luce la verità in cui abitiamo, con un ricorso inevitabile a ciò che noi crediamo essere la verità. L’esercizio di ginnastica mentale che compiamo quindi su di noi facendo filosofia coincide – a ben vedere – con l’atto di approfondimento verso il reale per come ci si dà e nel suo non poter essere altrimenti, generando un flusso tanto più ininterrotto e dinamico tra etica e conoscenza quanto più diveniamo coscienti che «è la vita che produce la verità, e non la verità che si rivela aspirazione della vita» (p. 38).
TURNS. Dialoghi tra architettura e filosofia è la traccia di un dialogo spesso acceso, ricco di incomprensioni e riconciliazioni, che coinvolge architetti e filosofi, docenti e professionisti, e ancora biologi, dottori di ricerca, studenti. È il racconto di due discipline, architettura e filosofia, che si voltano per guardarsi reciprocamente, provando a innescare una svolta concettuale che deve divenire un nuovo punto di partenza. Precisamente questo è il doppio significato del termine “Turns”.
Da un lato infatti, il filosofo ha sempre avuto difficoltà a interloquire con l’architetto, sia per ragioni storichesia per ragioni strettamente legate al suo metodo e ai suoi obiettivi. L’architetto sembra infatti presentarsi allo sguardo del filosofo come un personaggio al contempo perturbante e conturbante, in un misto di attrazione e biasimo, di invidia e ammirazione: una figura tanto sfuggente da investire la riflessione filosofica con effetto retroattivo, facendo scricchiolare le sue fondamenta concettuali e mettendo in dubbio nozioni fondamentali quali verità, libertà, realtà, conoscenza, invenzione, possibilità, necessità, che hanno rappresentato per secoli il lessico base del pensiero occidentale. L’interesse verso una simile figura sembrerebbe ovvio. Eppure, quasi sempre è il filosofo che viene interpellato, utilizzato o coinvolto nel lavoro dell’architetto, in molti casi con l’intento di distillare spazialmente il senso dei suoi discorsi nel progetto. Non che ciò sia impossibile, ma, forse, dovremmo domandarci se è proprio questo quello che vogliamo: o se invece non sia compito del filosofo esercitare una sistematica e implacabile strategia di provocazione interessata, al fine di produrre un effetto, una particolare condizione dello sguardo. Creare la crisi, mettendo in discussione ciò che è dato, sapendo che, come spesso accade, l’apertura verso un nuovo oggetto di conoscenza lascia insoluti quei quesiti che lo vedono direttamente implicato per produrre un effetto retroattivo di chiarificazione nel soggetto indagatore, impegnato a leggersi ora attraverso una nuova forma di mediazione.
Dall’altro lato, per l’architettura il rapporto con la filosofia è storicamente naturale, quasi che questa fosse una visione complementare sul mondo rispetto al suo operato: questo era possibile perché la società si evolveva in modo relativamente lento, attraverso sedimentazioni di usi che diventavano convenzioni sociali, di pensiero, di stile. Così andava nell’architettura egizia, in quella classica, nel medioevo, nel rinascimento, finanche nel Modernismo: i significati erano decifrabili perché si condivideva un sostrato convenzionale. Ma qualcosa è cambiato. Le correnti durano pochi anni: poi passano, come le mode, spesso senza lasciar traccia – tranne edifici già superati, ovviamente. Così, spariscono le teorie dell’architettura, cioè sistemi che dicano cosa sia giusto costruire. E senza una teoria che legittimi le scelte, fioriscono le retoriche e le poetiche personali, spesso così ridicole da essere persino (e giustamente) oggetto di satira. La condizione di fragilità dell’architettura contemporanea è ormai fisiologica. Ed è qui che la filosofia diventa non solo utile, ma necessaria. A patto, certo, di non usarla in senso analogico, con derivazioni dirette che trasformano concetti in forme e pensieri in stili. Dialogare con i filosofi serve perché essi ragionano su temi che, in qualche modo, toccano gli architetti – ad esempio, lo spazio, l’invenzione, la città, la generazione della forma, il potere. Capire qualcosa di quei temi aiuterà a progettare con una maggior consapevolezza, o una più approfondita convinzione sulle ragioni del progetto, e a capirne meglio effetti ed esiti.
La problematizzazione dell’antropocentrismo è ormai uno dei topoi più frequentati della letteratura filosofica (come culturale, sociologica, ecologica, ecc.) contemporanea, al punto che – facendo il verso al noto Linguistic Turn del Novecento – si è recentemente preso a parlare in modo esplicito di un Non-Human Turn (R. Grusin). Non è questa l’occasione per discutere portata e natura di una simile “svolta”, né tantomeno per valutare il modo in cui è stata tradotta e soprattutto gli slogan che appare avere generato: bisogna comunque notare che, di fatto, si è giunti a una situazione in cui l’anti-antropocentrismo si è declinato pressoché univocamente in una forma di zoocentrismo, o – se si preferisce – in un vitalismo pensato a partire dall’equazione “vita = organismo (animale)”.
Sotto questo riguardo, il libro di Coccia (La vie des plantes. Une métaphysique du mélange, Payot & Rivages, Paris 2016) ha un innegabile merito: mettere in discussione questo più o meno esplicito slittamento dal “non umano” all’“animale”, e non certo per riaffermare la preminenza dell’uomo o dell’organismo umano, bensì per indicare la possibilità di una genuina metafisica o filosofia della natura. Con ciò, Coccia non si limita a sostenere le ragioni di quel Plant Turn che pur richiama (p. 155), ossia a reclamare spazio per quelli che sono già stati prontamente battezzati come Critical Plant Studies (H. Stark), che fanno anche diventare a pieno titolo le piante protagoniste di una “storia naturale” – a partire dalla loro origine, il seme (J. Silvertown).
Infatti, la posta in palio è filosofica ad ampio raggio: è possibile trovare un accesso al problema della vita, ossia della natura e del cosmo, che non sia inficiato da una forma di «snobismo metafisico» (p. 15) per cui si finisce per assumere come superiore e privilegiato il punto di vista supposto essere più “complesso”? La risposta di Coccia è radicale: è possibile se si dismette l’abito zoocentrico che ha rivestito quello antropocentrico, ossia se si comprende che l’antispecismo non ha fatto altro che estendere il narcisismo umano al regno animale (p. 16).
L’esito è a questo punto conseguenziale (senza dubbio problematico, come indicherò): andare ancora più a fondo e “riabilitare” quello che è stato da sempre ritenuto il grado più basso della vita, ai limiti della sua assenza, ossia la “vita vegetativa”, il regno vegetale. In questo modo, si potrà riconoscere che ogni punto di vista (point de vue) non è altro che un punto di vita (point de vie): non qualcosa di distaccato e separato, ma quanto esprime una modalità di immersione e commercio.
Per Coccia, c’è una ragione ben precisa a rendere praticabile questa riabilitazione: la vita vegetale si presenta come la vita nella sua esposizione integrale, in continuità assoluta e in comunione globale con l’ambiente. Le piante sono esseri di pura superficie, che aderiscono costitutivamente al mondo: la loro assenza di movimento fa tutt’uno con la loro adesione integrale a ciò che arriva a loro e al loro ambiente. Le piante sono insomma inseparabili (fisicamente come metafisicamente: il passaggio filosofico avanzato da Coccia sta tutto qui) dal mondo che le accoglie: rappresentano la forma più intensa, radicale e paradigmatica dell’essere al mondo, perché intrattengono il legame più stretto ed elementare con il mondo, quasi una forma di assorbimento contemplativo privo di dissociazioni, una fusione e una coincidenza prive di separazioni (pp. 17-18).
Troviamo in opera – esplicitato – un importante presupposto di fondo: il pensiero si fa filosofico nel momento in cui si confronta con la natura del mondo, ossia con la natura, vale a dire che la filosofia sorge nel mondo naturale e dal confronto col mondo naturale, inteso come nascitura, come ciò che permette a tutto di nascere e divenire, esprimendosi in tutto ciò che è. Il mondo, la natura, è insomma una forza, non un insieme di cose o una totalità astratta di esseri: la natura è un processo in atto, e la filosofia è tale soltanto in quanto è filosofia della natura, solo nel momento in cui smette di essere «fisiocida» per cogliere la natura nella sua veste dinamico-processuale. L’unica forma di filosofia che può essere considerata legittima è insomma la cosmologia (pp. 31-36).
L’idea di Coccia è semplice (nonché nuovamente problematica, lo vedremo), come tutte le idee fondamentali: vivere significa vivere della vita d’altri, o – persino – esigere la relazione con ciò che precede e rende possibili gli organismi stessi (pietre, acqua, aria, luce), e le piante sono paradossalmente il luogo in cui questo fatto – il fatto della vita – si manifesta eminentemente. Se la natura è un campo aperto di relazioni trasformative, il metabolismo e il trofismo delle piante presentano esattamente l’emblema della capacità di fare di elementi dispersi e disparati un’occasione di consistenza e tenuta: le piante sono cosmogonia in atto (p. 22).
La pianta diventa così il “modello” per un generale ripensamento dell’essere al mondo e così della cosmologia, articolato in tre principali momenti.
1) La foglia consente di mettere a fuoco l’atmosfera come fluidità cosmica o luogo metafisico di mescolanza radicale in cui tutto comunica e si tocca. L’atmosfera è il soffio o respiro che tutti condividiamo, inteso quale movimento ritmato che precede le distinzioni e però le rende possibili, essendo il principio di circolazione, trasmissione e traduzione: tutto è dentro tutto e tutto comunica con tutto; ogni cosa è immanente a ogni altra; non c’è azione senza retroazione. La cosmologia è una pneumatologia (pp. 37-96).
2) Le radici permettono di ribaltare il modo in cui intendiamo il fondamento: non il ritrovamento di ciò che vi è di essenziale e originario (di fondamentale, di radicale, appunto), ma la fecondità di un processo di networking. Siamo insomma abituati a pensare al radicamento come all’emblema del riferimento saldo, dell’ergersi a partire da un principio dato e ben fermo, dell’edificarsi al di sopra di una base solida, di un suolo sicuro, mentre in realtà le radici ci presentano un dinamismo ambiguo, ibrido, anfibio e doppio. Si tratta di quello della ramificazione, che mette in comunicazione “il basso” e “l’alto”, il “più profondo” e il “più superficiale”, la notte e il giorno, la Terra e il Sole. È allora in gioco una prospettiva più eliocentrica che geocentrica, che fa spazio alle ragioni della contingenza, dell’imprevisto, dell’irregolarità e dell’inabitabilità. La cosmologia è un’astrologia, l’ecologia è un’uranologia (pp. 97-122).
3) I fiori fanno comprendere la natura puramente espressiva e dimostrativa (sessuale) degli attrattori, ossia di ciò che non definisce una natura o comunica un’essenza, bensì apre uno spazio di congiunzione e mescolamento, di moltiplicazione e variazione di forme – di alterazione. La logica dell’organismo individuale si rovescia: ci si trova nel pieno dell’esposizione alle possibilità della mutazione, del cambiamento (come della morte), nel pieno dell’espropriazione. La razionalità si converte nella ragione seminale, che si presenta come luogo di indifferenza e transizione tra “psichico” e “materiale” (come tra biologico e culturale, intensivo ed estensivo). In questo modo, la ragione diventa una forza moltiplicativa che “ripete” la stessa dinamica trasfiguratrice del cosmo: non restituisce un esistente a se stesso, attestandone l’identità, non riconduce a unità; piuttosto, apre al rinnovamento dei possibili, potenzia le connessioni, moltiplica e differenzia gli elementi, si sforza di mescolare gli incomparabili e gli incompossibili. La ragione è sessuale nella misura in cui fa tutt’uno con il processo attraverso il quale avviene un prolungamento e un rinnovamento delle sue istanze mediante un’invenzione di nuove forme di mescolamento: pensare significa rivolgersi alla sfera delle apparenze, non per rivelarne l’interiorità o per dirne l’essenza, bensì per metterle in comunicazione nella loro eterogeneità. La cosmologia è una cosmetica (pp. 123-138).
Come si sarà colto da questo rapido affresco, in chiave concettuale abbiamo a che fare con una generale problematizzazione del nesso tra forza e relazione, o tra dinamismo effettivo e pura soglia. Troviamo infatti discusso in generale il superamento di una gerarchia topologica che distingue tra luoghi in base a interiorità ed esteriorità, che pone posizioni fisse e non riesce così a cogliere – per esempio – le compenetrazioni e proiezioni reciproche, la reversibilità, le transizioni, l’immersione senza resti, la fluidità cosmica, la permeabilità, l’inclusione di tutto dentro tutto, l’amalgama perfetto, l’immediatezza della metamorfosi, l’intimità assoluta, i mediatori produttivi, la circolazione universale, l’identità formale tra passività e attività e tra essere e fare, l’esistenza come atto cosmogonico, le interpenetrazioni e influenze diffuse.
Un simile tentativo metafisico, com’è naturale, non solo non nasconde, ma fa anzi presto affiorare in superficie i propri tratti problematici (e non: le proprie contraddizioni), che mi sembrano essere principalmente due.
Il primo si potrebbe ribattezzare il rischio di “vegetocentrismo” o “plantocentrismo”, che di per sé è abbastanza chiaro: perché le piante offrirebbero l’accesso privilegiato al cosmo rispetto agli uomini e agli animali, e non potrebbero a quel punto farlo i sassi, o i batteri, e così via? O, detta altrimenti, siamo davvero sicuri che sia possibile prendere il fenomeno della vita come fenomeno per eccellenza cosmologico o cosmogonico? Insomma, fino a che punto la natura coincide con la vita (sappiamo infatti che non è così)? Queste questioni possono sembrare oziose, e il punto forse ancora più dirimente sta altrove: non è che le piante, più che essere la forma paradigmatica dell’essere al mondo, sono la forma paradigmatica di un determinato modo di essere al mondo? In particolare, qualcuno potrebbe notare, la totale aderenza, la completa immersione, la spiccata fluidità. la piena indistinzione tra “sé” e “mondo” che contraddistinguerebbero le piante, sembrano rappresentare l’affermazione di un orizzonte in cui non ci si può distinguere dal proprio ambiente e non si può modificarlo, ossia di una vita vegetativa nel senso (deleterio) comune del termine. Ancor più, qualcuno direbbe che si tratta dell’ipostatizzazione della forma di vita neoliberale o neocapitalistica o capitalista tout court, incentrata sull’esigenza di un adeguamento assoluto agli imperativi della flessibilità, della mobilità, della relazionalità, della deindividualizzazione, e via discorrendo.
Sotto questo punto di vista, l’uranologia di Coccia, nel suo sforzo di emanciparsi dalla subordinazione alla logica terrestre, mostra in effetti un fianco debole. Di per sé, si potrebbe anche sostenere che in realtà la condizione contemporanea (al di là dell’etichetta con cui si sceglie di connotarla) non fa altro che (finalmente) rivelare dei tratti che da sempre hanno fatto parte della realtà umana o naturale, liberandosi di una postura demistificatrice rispetto ai processi in atto. Ma, allora, bisogna proprio per questo anche evitare di assumere acriticamente come posizioni metafisiche “pure” ciò che altro non è che il tentativo di rendere concepibile un dato orizzonte, ossia di “trasporlo” in concetti adeguati a comprenderlo o figurarlo. Altrimenti, il rischio è di presentare idee e concetti filosofici come se piovessero dal cielo, mentre essi sono davvero un fatto relazionale, che concerne il nostro rapporto con il mondo. Detta diversamente, non si tratta tanto di imputare a Coccia di aver terminato per offrire una lettura apologetica dell’esistente, bensì – al limite – di evidenziare che non si è ancora spinto fino in fondo nel riconoscere la ramificazione (a valle come a monte) dei concetti e problemi a partire da cui articola la propria prospettiva.
Il secondo tratto problematico è correlato: riguarda il modo in cui intendere e praticare la conoscenza in generale e la filosofia in particolare. Coccia assume una posizione ben delineata in merito (pp. 141-151): il regionalismo specialistico è animato da intenti “morali” (ossia organizzativi, istituzionali, ordinativi, disciplinari, corporativi, ecc.) più che gnoseologici, e produce di fatto una limitazione della volontà di sapere, una messa a freno degli eccessi della curiosità. In questo modo, si perderebbe di vista il fatto che cose e idee sono molto meno disciplinate degli uomini: si mescolano di continuo, in modo eterogeneo, disparato e imprevedibile. Di conseguenza, la filosofia dovrebbe rapportarsi a esse senza mediazioni disciplinari e canoni normalizzanti, senza procedure, protocolli e metodi prestabiliti, senza lo scopo di ricondurle a un’unità superiore, alla comunanza di una forma, una natura o un ordine. La filosofia cercherebbe di cogliere e restituire quell’unità senza fusione sostanziale che è il clima, l’atmosfera, ossia il mondo, nel quale niente è ontologicamente separato dal resto – anzi, dovrebbe creare tale unità: la filosofia dovrebbe con ciò svolgere un’operazione di autotrofia speculativa, per cui anziché trarre nutrimento sempre ed esclusivamente da idee e verità che hanno già ricevuto il sigillo ufficiale di una qualche disciplina, anziché costruirsi a partire da elementi cognitivi già strutturati e ordinati, si devono invece trasformare in idee materie, oggetti o eventi di qualsiasi tipo. Proprio come fanno le piante, capaci di trasformare in vita qualsiasi frammento di terra, aria e luce: «una cosmologia proteiforme e liminare, indifferente ai luoghi, alle forme, alle maniere in cui viene praticata» (p. 147).
Ora, questa concezione “meteologica” o “atmosferica” della filosofia, per la quale essa è una sorta di condizione atmosferica che può sorgere all’improvviso in ogni luogo e momento, ha senza dubbio un elemento di rilevanza: suggerire che la filosofia dovrebbe essere considerata non come la costruzione di un campo di conoscenza specifico superiore che si “sovrimpone” su altri campi, ma come un costante movimento di sorvolo, ogni volta attento a tutto ciò che sta accadendo e mutando nel campo della ragione e della conoscenza, per giungere a modificare il modo in cui idee e conoscenze si concatenano e i saperi sono attraversati. Insomma, Coccia ha – a mio parere – il merito di ricordare che la filosofia deve essere coraggiosa, e accettare di essere impegnata nell’attraversamento concettuale del mondo, non nel commento di libri, nella discussione di soggetti astratti, nella ripresa di argomenti tradizionali, facenti perlopiù parte di un canone riconosciuto come “propriamente filosofico”. Ed è persino brillante quando osserva che la filosofia non potrà mai essere una disciplina per la semplice ragione che è ciò che diventa il sapere una volta che si è riconosciuto che non c’è nessuna disciplina – morale come epistemologica – possibile, nessuna dottrina scolastica da sancire.
Né, va aggiunto, ci si deve lasciare distrarre dai toni del discorso e dalle sfumature retoriche per connotarla come una posizione “irrazionalista” o “letteraria”, perché si tratta di una visione che anche un filosofo strettamente analitico come R. Casati ha presentato (lasciando ora da parte le evidenti diversità tra i due approcci): la filosofia come pratica “artistica” diffusa ovunque e pronta ad affiorare nel momento in cui occorre e viene sollecitata una qualche forma di negoziazione concettuale che permetta di attraversare diversi punti di vista o pratiche o discipline.
Ciononostante, resta sempre vero – cosa che l’esposizione di Coccia sembra lasciare troppo sullo sfondo – che non può esservi tale «autotrofia speculativa» senza un lavoro faticoso e certosino di rifinitura concettuale, rischiaramento tematico, affinamento problematico e articolazione sistematica, pena il pericolo di esaurire l’elaborazione in prese di posizione accorate ma euforiche, convinte ma entusiastiche, originali ma fideistiche.
In definitiva, questo lavoro di Coccia, al di là di un certo – si può letteralmente dire – afflato “pantemistico” (una sorta di mistica a sfondo panteista, per intenderci), pone delle questioni filosofiche che non possono essere ignorate, e le pone portandole ai loro esiti più estremi, forse proprio per questo esprimibili prevalentemente in termini più evocativi e in senso lato poetici – soprattutto se pensiamo alle circostanze biografiche e personali che hanno mosso l’autore (gli studi in un liceo agricolo e la scomparsa del fratello gemello nel pieno della giovinezza).
Ma, appunto, ciò non toglie che siano temi che hanno una notevole portata filosofica. Prendiamo per esempio il fatto decisamente banale della presenza del mio corpo nel mondo: esso segna i miei confini rispetto al mondo, mi individua, fa sì che sia proprio “io” a essere nel “mondo”. Eppure, da un certo punto di vista (lo notava già Whitehead), dove cominciano i confini del “mio” corpo, in realtà sta cominciando la natura in me, il mondo in me, sta cioè cominciando il mio essere del mondo (che il corpo sia “naturale” significa semplicemente questo). Il lavoro di Coccia consente di esplicitare molto bene l’insieme di aspetti connessi a una simile condizione: ormai è persino scontato riconoscere che non si può separare l’uomo dalla natura, come la mente dal corpo, ma una simile affermazione quanto può essere presa alla lettera? Che cosa davvero può significare? Essere in rapporto significa che non c’è distinzione? Detta sinteticamente, lo snodo filosofico che si profila è affermare il legame di tutto con tutto e insieme lo slancio della forza differenziatrice: le cose effettivamente si separano, ma lo fanno soltanto perché sono in rapporto.
Si potranno dunque imputare al lavoro di Coccia i limiti sopra riscontrati, ma un testo filosofico – alla fine – merita tanta più considerazione quanto più rende possibile l’articolazione di problemi al contempo genuini e difficili: sotto questo prospetto, questo libro dunque va decisamente tenuto in conto e preso come termine di confronto.
Sul problema del realismo in filosofia tanto si è detto negli ultimi anni da renderlo un tema inflazionato. Non di meno, è innegabile che la svolta realista sia uno degli eventi più importanti per la filosofia contemporanea dell’ultimo decennio, ed è quindi doveroso porre attenzione a quelle pubblicazioni che affrontano il tema del realismo in modo serio e ponderato. Emergenza di Maurizio Ferraris (Einaudi 2016) appartiene certamente a tale categoria. Il concetto di emergenza è per Ferraris l’asse portante di tutto il lavoro ed egli lo racconta a partire da una premessa ontologica: la realtà che emerge è qualcosa che prima non c’era, mentre la verità è la scoperta di qualcosa che già esisteva. Ciò per Ferraris equivale a dire che l’essere viene prima del conoscere. Tale premessa è necessaria in qualsiasi realismo che voglia davvero definirsi tale. Una volta messa in chiaro questa premessa l’Autore fa un altro passo nell’approfondimento del proprio realismo, definendolo attraverso due aspetti tra loro strettamente connessi. Si tratta innanzitutto di un realismo “negativo”, nel senso che la realtà “resiste” al pensiero, ci colpisce con una forza che a volte non è controllabile, che si impone in modo talvolta anche violento. La realtà possiede, insomma, una inemendabilità difficile da smentire, a cui dobbiamo sottometterci. Ma questa inemendabilità costituisce anche il primo “invito” del reale, la sua disponibilità per noi, lo stimolo a conoscerlo e a trasformarlo. Oltre a queste due accezioni del realismo – negativa la prima, positiva la seconda – ve ne è poi una terza, di carattere trascendentale. Resistenza e invito costituiscono infatti un movimento circolare che nel suo ripetersi, nel suo “iterarsi” direbbe Ferraris, produce accumulo, “registrazione”, e quindi, disponendo di abbastanza informazioni e di abbastanza tempo, produce “senso”. La documentalità è quindi secondo l’Autore il vero trascendentale, intendendo con questo termine una sorta di memoria sempre presente e operante – come aveva sostenuto già Bergson – nella materia ogni qualvolta un nuovo senso emerge da quello precedente. Essendo la memoria la materia stessa. Questo vale sia per le dinamiche che regolano l’evoluzione del vivente che per quelle sociali, non essendoci tra le due soluzione di continuità, ma anzi volendo questa prospettiva superare nettamente il dualismo tra biologico e culturale, tra materia e spirito, tra naturale e artificiale, in favore di una visione documentale, appunto, del regno naturale. In una simile prospettiva, dunque, abbiamo un solo tipo di significato, quello che l’Autore definisce “emergenziale”, il quale nasce dall’iterazione e dall’iscrizione, dall’accumulo di “tracce” prima e di “segni” poi. Questi ultimi sono allora la fonte del significato emergenziale, che di spirituale ha solo l’aspetto ma non la sostanza. Prima viene la documentalità, la traccia “cieca”, i rituali delle api e la costruzione dei formicai, l’accumulo di tecniche, di pratiche, ma anche il casuale sedimentarsi di riti e modi di affrontare problemi pratici, e poi viene il senso, la riflessione e la coscienza di cosa si è sedimentato. L’epistemologia perfetta è quindi la storia in quanto accumulo, registrazione e iscrizione da parte dei singoli. Ecco allora esplicato il senso della premessa ontologica di cui dicevamo: l’essere/accumulo/documentalità viene prima del conoscere/traccia/senso. Una radicale pre-esistenza dell’essere al pensiero che però sancisce anche una radicale ri-unificazione tra essere e pensiero nella categoria portante di “mobilitazione”. Cos’è la natura in questo sistema se non una sorta di infinito dispositivo tecnologico che produce emergenza attraverso la dinamica che abbiamo brevemente illustrato? E la mobilitazione è la nozione che Ferraris utilizza per provare a illustrare questa dinamica che percorre l’inerte e il vivente conferendogli una innata competenza tecnica che è sempre avanti rispetto alla sua comprensione (una sorta di neo-finalismo sul modello di quello proposto da Raymond Ruyer all’inizio degli anni 50 del secolo scorso).
Il libro di Ferraris ha il grande merito di presentare in modo chiaro e conciso la posizione critica comune a gran parte dei realismi contemporanei, ovvero l’attacco frontale e senza compromessi all’idealismo trascendentale e ai suoi molti eredi. Tale critica si può riassumere nel modo seguente: l’intenzionalità non è il cominciamento dell’essere. La correlazione coscienza-mondo non è la condizione di esistenza del reale. C’è qualcosa che viene prima e fonda la correlazione, qualcosa esisteva prima della correlazione e continuerà ad esistere dopo. L’idealismo trascendentale sbagliava quindi nel sostenere che la radice dell’esperienza si situasse nell’Io penso. Ed è così che persino in pensatori “emancipati” da una fenomenologia troppo kantiana, come Sartre ad esempio, l’esternalità rivendicata per la coscienza irriflessa, il suo essere “là fuori” insieme agli oggetti del mondo, non è altro che un’esternalità claustrale, claustrofobica, che rimanda immediatamente ad un dentro camuffato da esterno. Lo stesso dicasi per Heidegger e la sua angoscia, per Levinas e i suoi Altri. Tutti tentativi di demandare il problema del fondamento della correlazione ad un irrelato che però assume subito un carattere paradossale e ambiguo. Una sorta di circolo vizioso tra pre-riflessività e auto-riflessività che, come si diceva poc’anzi, non sfonda realmente verso nessun Grande Fuori. Tutti tentativi questi, come nota giustamente Ferraris, figli della rivoluzione kantiana prima e dell’idealismo trascendentale poi. Non sfuggono alla critica del realista nemmeno le versioni postmoderne del correlazionismo, come ad esempio la filosofia analitica e il costruttivismo. Anch’esse mosse dall’intenzione di individuare nel linguaggio o nel concetto un a-priori al quale ancorare l’esistenza del reale che conosciamo.
Detto questo, bisogna anche dire però che le argomentazioni di Ferraris corrono su di una linea sottile e sono sempre minacciate dal pericolo di finire nel baratro dell’eccessiva semplificazione. Semplificazione che spalanca poi le porte a facili fraintendimenti. Infatti, una cosa è dire che da Kant in avanti la filosofia dell’esperienza ha messo eccessiva enfasi sul soggetto, rischiando di diventare sempre di più una sorta di antropologia; cosa ben diversa è invece sostenere senza mezzi termini che per l’idealismo trascendentale «il mondo è il frutto della costruzione di un Io penso onnipresente e, almeno sulla carta, onnipotente» (p. 76). E quindi sostenere che per gli idealisti trascendentali il pensiero crea la realtà e dunque nulla esiste all’infuori di quello che penso, assimilando il trascendentalismo al solispsismo. Kant e i suoi successori avrebbero quindi sposato una posizione ontologicamente molto forte secondo la quale la materia non sarebbe pre-esistita allo spirito, identificando completamente ontologia ed epistemologia. Esempio sommo di questo slittamento verso il regno del puro pensiero sarebbe l’attualismo di Gentile. La stessa operazione Ferraris la compie nei confronti del postmodernismo, arrivando quindi a concludere: «l’idea è sempre che ci sia una qualche dipendenza della ontologia dalla epistemologia, ossia, in altre parole, che il Big Bang non abbia potuto aver luogo realmente perché noi non c’eravamo, o che il Big Bang abbia avuto luogo solo perchè noi sappiamo che ha avuto luogo» (pp. 83-84).
Attraverso una simile interpretazione dell’idealismo trascendentale si perde però l’aspetto utile della critica. Qual è infatti il senso di tale critica? Chi scrive ritiene che il senso sia quello di mostrare come da Kant in avanti la filosofia abbia progressivamente rinunciato alla sua vocazione originaria a occuparsi del Tutto. Quel Tutto che, per forza di cose, comprende il soggetto come un suo momento, ma non certo come suo fondamento. Un altro aspetto di questa faccenda che la critica mette in evidenza è il paradosso generato da una soggettività così scettica da mettere in discussione persino la propria stessa capacità di far filosofia, ripiegandosi su se stessa e accettando solo se stessa come metro di tutte le cose. Scetticismo che poi, inevitabilmente, ricade su tutto ciò che non è soggetto, compreso il tanto problematico “mondo esterno”. Ma il problema è così serio proprio perché in questione è il diritto della filosofia a spingersi tanto avanti nel dubbio sul mondo, non perché tale dubbio abbia realmente una valenza ontologica. Che poi la vulgata abbia interpretato la domanda come una domanda ontologica vera e propria fa parte della dispersione intrinseca ad ogni teoria che non possiede una vera e propria pars construens, ma questo Ferraris lo sa certamente molto meglio di chi scrive...
Che questo bel libro di Federico Leoni si ponga al crocevia di discussioni vitali nel moderno dibattito filosofico lo si intuisce già dal titolo, Jacques Lacan. L’economia dell’assoluto(Orthotes, 2016); e nondimeno si rimane sorpresi alla conclusione della lettura dalla quantità di spunti che esso offre. Se ci si aspetta d’altronde un’opera lineare e saggistica nel senso classico della parola, si rimarrà delusi. Ma proprio qui sta l’interesse di questo libro, difficile, che tratta questioni difficili. Anche perché la filosofia contemporanea ci ha dimostrato, attivamente o passivamente, come la semplicità e la linearità corrano spesso il pericolo di risultare noiose e poco produttive, oltre che fuorvianti. Da buon ed esperto interprete Leoni non ci trascina infatti, né trascina se stesso, nel tentativo di ricostruire ciò che Lacan avesse intenzione di dire con precisione filologica; l’autore si chiede piuttosto cosa abbia Lacan da dire, a noi odierni, che forse non hanno fatto tesoro della lezione dello psicanalista-filosofo. Il motivo è che non vi abbiamo prestato orecchio; o forse, sembra suggerire Leoni, che ve ne abbiamo prestato troppo. Ma vediamo di chiarire cosa ciò voglia dire.
Già dall’introduzione l’autore dichiara il fine di rintracciare in Lacan la fase del «pensiero dell’Uno». La riflessione del nostro, spiega difatti Leoni, ha conosciuto uno sviluppo da una fase centrale «dialettica e riflessiva», fino all’approdo finale ad una “riflessione dell’immanenza”, che Leoni tenterà di descrivere più come un approdo piuttosto che una ripresa. In che senso intendere tale ripresa, e l’Uno stesso intorno a cui ruota, è il fil rouge dell’intero libro. Leoni rintraccia in Lacan il ripresentarsi di una scissione del pensiero che risale già a Platone. Ma per presentarci tale scissione, l’autore ricorre inizialmente all’analisi dell’opera aristotelica e alle distinzioni introdotte dallo stagirita tra potenza e atto. La distinzione non passa tuttavia tra pensiero in divenire e pensiero divenuto. Piuttosto il pensiero cosiddetto divenuto, cioè quell’atto in atto che sembrerebbe essere immobile nella propria impassibilità, sembrerebbe essere la sovrascrizione di una scissione più profonda che già nel Parmenide Platone aveva messo in luce. Se infatti si pensa il pensiero, non lo si può che immobilizzare nella sua rappresentazione, poiché è appunto illogico il pensiero dell’istante, del divenire. Lo è, certo, secondo la logica tradizionale delle proprietà e dei predicati. Ma, ci chiede Leoni sulla scorta di Lacan, è produttiva questa maniera si pensare? Anche la terribilità che Platone riconosceva al divenire, andrebbe quindi ad essere riletta come abissalità di quest’atto di pensiero che non può essere che praticato, sfuggendo costitutivamente al dirsi.
L’abbondanza di temi che nel corso dell’opera vengono affrontati o anche solo sfiorati non permette naturalmente una loro elencazione esaustiva. Né questa è l’intenzione o la sede. Piuttosto, il dualismo cui si è accennato, e che ha per Leoni i propri capisaldi in Platone e Aristotele, autore che verrà visto da Leoni stesso come lo sfondo teorico costante del Seminario XX, percorre costantemente le analisi del libro e ne costituisce il ritornante, sotto, potremmo dire, diverse e mentite spoglie. Filosofia e psicanalisi, soggetto e oggetto, immanenza e trascendenza, pensiero dell’uno e pensiero del tutto, vita e morte, interno ed esterno: tutti questi termini che si avvicendano nei vari capitoli costituiscono i molteplici scenari in cui si gioca una dualità più profonda, che l’autore evidenzia nelle primissime pagine, cioè quella tra un’etica del desiderio e un’etica del godimento. Se quest’ultimo si svolge nell’istante, nel momento, cioè, in cui il pensiero è immediatamente e semplicemente già sempre presso se stesso, il desiderio ha per contro bisogno di una distanza, di una separazione; si potrebbe dire di una differenza. Ma non è la differenza pura, libera, quella di cui necessita per mettere in moto la propria macchina: è piuttosto la differenza subordinata all’identico, la differenza tra parti, quella differenza che è la declinazione stessa della negatività, del non-essere. Chi in queste righe abbia sentito l’eco dei discorsi strutturalisti o post-strutturalisti non si è di certo ingannato. Sono molteplici i punti in cui Leoni vi si confronta. Ed è anche per questo che nel libro si sente risuonare l’Hegel kojeviano sotto le molteplici declinazioni del pensiero del rispecchiamento e della relazione.
Del resto è la stessa struttura del libro, oltre all’argomentazione condotta, a mettere in luce un sottofondo psicotico-ossessivo della relazione e del relativo, racchiuso com’è, il libro, tra due soglie – come le definisce l’autore – ediviso in due parti, all’interno delle quali il ritornare dell’uno, due e tre, ripetuti nella prima e nella seconda parte, ricordano sia le nenie di certi giochi infantili, sia il triangolo edipico, che il pensiero contemporaneo così fortemente cerca di esorcizzare, ma anche quello stesso gioco a tre che si è venuto abbozzando tra Lacan, Aristotele e Platone, in cui lo stesso Leoni sarebbe il quarto incomodo. Gioco che, per la sua costitutiva dissimmetria, non si può appagare di se stesso. Ma appunto è anche da questo che si evince come Leoni scacci qualsiasi ermeneuticità.
Si cadrebbe in inganno, però, se si leggesse tale struttura alla luce di quella «nuova grammatica della matematica» che inscriverebbe l’intero parcellizzato tra due limiti; o all’interno di un ripresentarsi di un unico limite. La terzità va letta, come si evince dalle argomentazioni del libro, sicuramente non come alterità, non come incommensurabilità (che nuovamente implicherebbe una misura, un nomos), ma come assolutezza. È il pensiero nel suo farsi cui tende Leoni – sulla scorta di Lacan. Ed esso non può essere che divenire. Divenire come pratica. Ecco anche il punto di innesto tra filosofia e psicanalisi. Ecco la vera obiezione che Leoni si sente di muovere all’economia finanziarizzata, come si vedrà. È anche, dunque, una immagine di Lacan molto meno conservatrice di quanto vorrebbe la vulgata, quella che si ottiene dalla lettura di quest’opera. Se è vero che Lacan ebbe a dichiarare che non vi è fuori, Leoni ci suggerisce che non è appunto nel fuori che si cela il problema. Il pensiero dell’Uno alla cui luce, o ombra che dir si voglia, si svolge tutta l’ultima riflessione di Lacan, è testimonianza del suo cruccio, anche doloroso – come dimostrano le testimonianze riportate – riguardo all’insistenza di un tema così cruciale come quello della topologia e della ricerca di una via al di là del tutto, in direzione dell’immanenza. Anche questo è ben trattato nel libro di Leoni, dal momento che egli non si occupa solo della riflessione metafisica di Platone e Aristotele, ma anche della loro, conseguente, politica.
Vi è, quindi, un paradosso, che giace nelle viscere stesse di tutta questa operazione. Leoni ritorna più volte, e sembra che ciò costituisca appunto l’impalcatura profonda dell’opera, sulla questione del dire e del linguaggio. Egli pone infatti, a ragione, alla base di tutta la metafisica occidentale, quella scissione tra soggetto e oggetto che rende possibile la stessa metafisica in quanto dire sul dire, e prima ancora, dire ciò che non può essere più detto una volta scisso, cioè l’Uno. Scissione che si opera nel e col linguaggio. La questione del poter dire ciò che si dice, e del dire financo se stessi, è legata a doppio filo con tutto ciò. Ma allora si potrebbe chiedere: quale operazione sta compiendo Leoni? Non una ermeneutica in senso classico, come si è già scritto. Ma quale è il suo ruolo? Non sta egli facendo di Lacan lettera morta? Non sta forse compiendo un altro passo su quella linea di regresso all’infinito che si origina dal pensiero riflessivo?
Innanzitutto, è bene dire che Leoni non tenta maldestramente di sciogliere questo nodo, e dunque non cade nel tranello stesso che le possibilità del linguaggio tendono. Non si parla, insomma, come di tanto in tanto si vede accadere, addosso. In secondo luogo è lui stesso a suggerirci, beninteso nella forma del non-detto, una via. A proposito dei nodi, luogo topologico eccellente, in cui Lacan stesso si immerse nei suoi ultimi seminari, intento com’era a farne e disfarne, Leoni descrive il nastro di Moebius, «genesi adialettica dei contrari» come lo chiama (p. 67). E così, quasi gli sfugga dalla penna, scrive come il nastro non vada osservato, ma piuttosto percorso. E neanche va percorso, ma, aggiunge, bisogna fabbricarlo. Ora, a parte la pregnanza di questa dichiarazione, è significativo proprio come a una dialettica della materia e della forma come quella aristotelica, si contrapponga qualcosa che «è dell’ordine del dispiegamento» (p. 68). Di fronte ad esso il linguaggio non può che fare silenzio, proprio perché è al di là di esso che tale dispiegamento avviene. Possiamo allora accostare il libro di Leoni alla famosa scala di cui parlava Wittgenstein?
Come egli stesso descrive l’operazione wittgensteiniana è un tradimento. Ma Leoni, a differenza di Wittgenstein, non tenta di dire il vero sul vero, si tira fuori da questa sfida, poiché, come argomenta esaurientemente, essa non può essere che persa.
È proprio al vero sul vero che sono dedicate alcune bellissime pagine di questo saggio. Si viene introdotti nel vivo del tema da un resoconto che fa lo stesso Lacan di un sogno di qualcuno che desiderava ardentemente, anche nella dimensione onirica, udire dallo psicanalista il vero sul vero, appunto. La riflessione su tale tema porta Leoni ad accostare l’operazione introduttiva svolta dalle cornici dei dialoghi platonici alle cornici di opere quali il Decameron e Le Mille e una notte. In questi tre casi assistiamo, ci dice, alla spinta del linguaggio fino alle proprie ultime possibilità, alla messa in atto di uno stratagemma teatrale che, invece di introdurre nel vivo della narrazione, sembra piuttosto sortire l’effetto di distrarci ulteriormente da essa, di alienarci. «Non c’è metalinguaggio», scrive Leoni sulla scorta di Lacan (p. 83). È per questo che il rimando alle dottrine non scritte platoniche non è casuale. Esse, avanza l’ipotesi l’autore, non sono tali poiché tramandate oralmente. Esse sono non scritte poiché non si tratta più di atti linguistici, ma propriamente di esercizio. Ciò che la cornice mette in moto è lo spirito di separatezza del lettore dall’opera, e l’incolmabilità di tale spazio, poiché colmarlo significherebbe tradirlo. I metafisici, infatti, che vogliono dire il vero sul vero, di quest’ultimo mantengono ben poco. La cornice è la messa in luce di quell’occhio sempre celato al campo visivo e che Wittgenstein, ecco dove sta il passo falso, ha cercato di mostrare, chiudendo il cerchio. «Dire la verità sulla verità non significa sigillare il cerchio, ma mostrare il punto in cui il cerchio non tiene, o non tiene proprio perché tiene o vorrebbe tenere» (p. 90). E ancora, scrive risolutivamente Leoni, poiché non ha senso voler dire il vero sulla cornice del vero, in quanto esso si pone al di là delle determinazioni di verità e falsità, «si tratta di abitare il paradosso sul piano della sua enunciazione» (p. 94). Il limite, la soglia, la morte, come la si voglia chiamare, è il temporeggiare all’interno di tale cornice, che coincide con il temporeggiare stesso del linguaggio che taglia un dentro e un fuori, un vuoto e un pieno, una traccia, una brocca, in seno all’Uno. E si è già detto troppo.
Tornando perciò a ciò che si scriveva sulla topologia e il nastro, è questo il punto nodale, nel senso letterale del termine, quello in cui si vede come l’insufficienza della metafisica aristotelica si esponga pienamente. Non è tuttavia una mancanza, ci dice Leoni attraverso Platone. Se infatti Aristotele cade vittima, egli sì, delle insidie del linguaggio, è forse per eccessivo ottimismo. È perché egli, tramite la sua categorizzazione, aspira all’esaustività, quando invece il residuale, il rimosso, sono la controparte necessaria e non rimuovibile di tale operazione. È di nuovo Platone, colui che nel Parmenide si fermava inorridito, immobilizzato, nel momento stesso in cui gettava lo sguardo nell’abisso, a dimostrare come l’irrazionale non sia in alcun modo rapportabile alla grammaticalità dell’ente o dello stesso essere, non parmenideo, beninteso. Perciò Lacan partorirà alla fine un mostro linguistico come «yad’lun». Non si può significare l’Uno, non si può dire. Ma non perché il linguaggio vede limitate le proprie possibilità; la questione non è la possibilità, come ribadisce Leoni a più riprese. Il linguaggio si consuma nella e con la rinuncia all’Uno. Con la sua rimozione. Con la sua Urverdrängung.
E tutto ciò viene ricondotto da Leoni nel solco di quella distinzione che già in apertura egli aveva tracciato tra etica del desiderio ed etica del godimento. Distinzione che si gioca in seno allo stesso itinerario lacaniano, e che vede i suoi estremi indicati, rispettivamente, nei seminari settimo e ventesimo. Nella comparazione di questi si assiste infatti al delinearsi di due etiche, una cristiana, del differimento e dell’infinitezza di un debito non saldabile (e naturalmente si riconosce a Nietzsche il merito di aver posto in essere tale problema, con e prima di Freud); dall’altro lato sta invece l’etica antica della divinizzazione, del dio aristotelico, dell’atto in atto. Antichità che, come si è visto, viene trattata con la dovuta problematicità.
Ma se noi oggi possiamo mettere in opera tale problematicità è perché nel frattempo abbiamo assistito all’entrata in campo di nuovi dispositivi e strumenti. In primo luogo naturalmente quello del soggetto, perno di una certa riflessione contemporanea, che si riflette anche negli scritti di Lacan, come mostra bene Leoni, nell’analizzare le implicazioni che i passi su linguaggio, vita ed economia hanno su di esso. Dall’altra la nascita di nuove scienze, quali biologia ed ecologia che, loro malgrado, ci mostrano la separatezza della vita da se stessa e in che senso la nascita della vita (o del linguaggio, potremmo dire) sia parimenti nascita della morte. Sono anche questi, temi su cui l’autore si sofferma a più riprese nel corso della trattazione. Se da un lato Leoni rintraccia in Lacan il persistere, in un primo tempo, di una visione ancora “cristianizzata” della soggettività, che vedrebbe in Shylock il proprio antesignano, in cui l’essere soggetto sarebbe legato a doppio filo a una legge che sancisce e garantisce la scambiabilità, la relazione, in subordinazione alla quale il soggetto stesso si costituirebbe (come mancanza, poiché in dipendenza dall’Altro); tuttavia il discorso sull’Uno porta con sé il tentativo di scavalcare il ricorso a tale mancanza costitutiva, e rintracciare l’attualità del pensiero nella forma del taglio. È così che Leoni scrive come il discorso di Lacan che confluisce nel Seminario VII, «Della creatione ex nihilo», sia in diretto contrasto, ancora una volta, con la metafisica aristotelica: «la materia è l’après coup della forma, e la forma è l’après coup del taglio» (p. 43).
Come si accennato, Leoni si confronta anche con le implicazioni politiche dei discorsi che porta avanti, e forse la distinzione tra politica e psicanalisi non ha più neanche senso di essere mantenuta, alla luce della lettura del libro, che tratta della dimensione istituzionale della psicanalisi stessa prendendo ad esempio una pratica tanto controversa quale quella della passe.
Basti dire, e ciò serva a stimolare la curiosità verso un libro che merita la lettura, come la politica che Leoni abbozza, in contrapposizione ad un restaurazionismo sempre in agguato, così come ad un progressismo vuoto di ogni significato, venga da questi caratterizzata come «politica dei divenire». Non resta che seguire l’autore nel suo itinerario.
Après Bergson. Portrait de groupe avec philosophe di Giuseppe Bianco (PUF, 2016) si presenta come un’appassionante narrazione “fantasmatica”: il protagonista del libro, infatti, non appare mai sulla scena, ma si manifesta attraverso i suoi effetti, come un’immagine – o, per meglio dire, un insieme di immagini ‒ che non ha mai smesso di inquietare il novecento filosofico francese. Se l’obiettivo esplicito dell’analisi di Bianco concerne la ricostruzione della stratificata e tortuosa ricezione della filosofia bergsoniana in Francia, il libro non risulta ipso facto etichettabile come un erudito volume di storia della filosofia, per almeno due ragioni, strettamente collegate: 1) lo stile narrativo che pervade il libro e che alleggerisce notevolmente il carico di informazioni, contribuendo a costruire una vera e propria narrazione corale, potremmo dire à la Altman, nella quale, a contare, più che le azioni dei singoli personaggi, è innanzitutto e perlopiù il contesto che li muove; 2) l’affascinante impronta sociologica dell’analisi, che considera la disciplina filosofica, nel suo concreto svolgersi, prima di tutto come una pratica relazionale, che vede impegnati uomini e donne, con il loro bagaglio di mitologie, convinzioni, simpatie e antipatie.
Bianco, prima di far partire la narrazione, pone una serie di indicazioni metodologiche (pp. 1-23) che incrociano parametri, variabili e paradigmi, con l’obiettivo esplicito di rendere intellegibili i percorsi che, unendosi, andranno a costituire un’autentica eredità culturale. Saranno proprio le variabili sintetizzate nelle due tabelle presenti nell’introduzione a essere concretamente mobilitate nel corso dello studio. Fare una vera e propria sociologia della filosofia significa allora evitare di dare la precedenza a una pretesa purezza nella circolazione delle idee, ma calare le posizioni teoriche degli attori all’interno di un contesto, come quello del primo novecento francese, in piena evoluzione. Non si comprenderebbe per esempio nulla della fama di Bergson, per lo meno nei primi trent’anni del novecento, se non si confrontasse la sua traiettoria intellettuale con la progressiva professionalizzazione del “mestiere di pensare” che modificherà in modo radicale il rapporto tra filosofi e grande pubblico o con l’irriducibile dialettica includente/escludente tra centro (Parigi) e periferia che ha da sempre orientato i destini della filosofia d’oltralpe.
Comprendiamo così che occuparsi dell’eredità di Bergson significa innanzitutto confrontarsi con una serie di immagini elaborate da contemporanei e successori, e in seguito assorbite o filtrate dalle operazioni degli allievi. I ritratti di Bergson occupano così uno spettro vastissimo, apparentemente auto-contraddittorio: da filosofo della scienza a anti-positivista, da umanista cattolico a filosofo dell’impersonale, da ideologo della borghesia a emancipatore. Bianco, attraverso un’imponente mole di dati, impreziosita da una ricca (e in parte divertente) aneddotica, ricostruisce le altalenanti ondate della ricezione bergsoniana, incrociandole con l’affermarsi progressivo delle tonalità dominanti del discorso filosofico francese (“spirito”, “esistenza” e “struttura”). Sempre presente nel dibattito, ma mai al suo centro, il bergsonismo scorre così sottotraccia per tutto il novecento, modificando progressivamente la propria identità. Molto schematicamente, si potrebbero isolarne tre immagini:
1) L’immagine, in fondo condivisa da entusiasti e detrattori, di una filosofia dell’interiorità, impegnata a sondare la temporalità della coscienza in opposizione a qualsiasi forma di positivismo o intellettualismo. Da un lato, infatti, la vulgata bergsoniana, vera e propria moda di inizio secolo, penetrerà nell’arte, nella letteratura, nella psicologia, sino a diventare vero e proprio sentire comune; dall’altro, come reazione a questo successo indiscriminato, emergeranno fin da subito una serie di posizioni critiche da parte dei principali concorrenti di Bergson, in primis Alain (al secolo Émile-Auguste Chartier) e Brunschvicg, che, a diverso titolo, faranno valere le ragioni di una tradizione filosofica francese e tedesca sostanzialmente alternativa ai sofismi bergsoniani (p. 61) e alle sue “pillole rosa” (p. 78). Non è difficile vedere come una tale immagine, unita alla progressiva canonizzazione del pensiero bergsoniano, sia in fondo quella ancora dominante, perlomeno nelle ricostruzioni manualistiche, che spesso inseriscono la riflessione bergsoniana nell’alveo dello spiritualismo francese.
2) L’immagine, emersa in particolare a partire dal primo dopoguerra, di un filosofo dell’inazione, compromesso e incapace di cogliere le contraddizioni della contemporaneità. La partecipazione di Bergson alla propaganda nazionalista in favore del conflitto mondiale segnerà una vera e propria condanna da parte della nuova generazione filosofica, attiva dagli anni ’20 del novecento e profondamente influenzata dall’ideologia marxista: Bergson diventerà il pensatore borghese per eccellenza. Prolungando l’onda delle critiche di Alain e Brunschvicg, pensatori come Bachelard e Canguilhem si impegneranno nello smantellamento delle nozioni di durata, slancio e intuizione. Sarà però soprattutto Georges Politzer, nel velenoso La fin d’une parade philosophique: le bergsonisme (1929), a tenere insieme tutte le critiche pre e postbelliche, liquidando Bergson ormai come un pensatore non soltanto astratto, “senza storia” e sorpassato, ma persino pericoloso da un punto di vista etico-politico.
3) L’immagine di un pensiero “anticipatore”, capace di porsi in relazione con la fenomenologia, l’esistenzialismo, ma anche con la scienza e, in particolare, con la biologia. Dalle seminali operazioni di Wahl (Verso il concreto) e Jankélévitch (Henri Bergson) al bergsonismo inconsapevole di Sartre, passando per la riscoperta di molte intuizioni bergsoniane da parte di Ruyer, Canguilhem e Merleau-Ponty e per le più recenti operazioni di Stengers e Prigogine, il pensiero di Bergson, nonostante i numerosi tentativi di sbarramento, non è mai uscito completamente di scena, ma ha continuato a inserirsi nei più disparati dibattiti filosofici.
È proprio a partire da questo complesso e stratificato orizzonte, caratterizzante i decenni centrali del novecento, che Gilles Deleuze, protagonista della parte finale del testo, “riceve” il pensiero bergsoniano. Come Bianco sottolinea più volte, il bergsonismo di Deleuze sarebbe impensabile senza tutta quella serie di operazioni che, tra gli anni ’30 e ’60 del novecento, ha impresso un’immagine ben precisa al pensiero bergsoniano: si tratta in particolare della questione del campo trascendentale impersonale che, a partire dal primo capitolo di Materia e memoria, percorre la filosofia di Sartre, Merleau-Ponty, Hyppolite e Simondon, prima di giungere, in una forma inedita nella riflessione deleuziana sul piano di immanenza. Nella ricostruzione dei debiti bergsoniani di Deleuze, si nota nel testo una certa verve teorica: l’influsso di Bergson su Deleuze non risulta infatti riconducibile, secondo Bianco, a una presunta comunità di intenti tra i due filosofi, ma è tutto interno all’esigenza deleuziana di indagare “una condizione genetica del reale che non gli rassomigli, sebbene gli sia immanente” (p. 340). È questa esigenza, prima ancora dell’evidente presenza, in Deleuze, di ulteriori influenze (Nietzsche, Spinoza, Leibniz, gli Stoici, etc.), a impedire uno spericolato appiattimento delle due figure in nome di un unico pensiero del divenire. Certo, Deleuze si richiamerà a Bergson nel corso di tutta la sua opera e, certo, l’idea di una logica immanente del senso manifesta un evidente debito nei confronti del bergsonismo: ciò non toglie, tuttavia, che i problemi a cui le due filosofie rispondono risultano eterogenei (p. 355). Deleuze, in particolare, rileva gli aspetti più ontologici della riflessione bergsoniana (il passato in sé, la virtualità, il concetto di differenza pura), trasformando di fatto Bergson in un filosofo postkantiano e impostando così, sulla scia dell’opera di Hyppolite, un implicito confronto con la dialettica hegeliana (pp. 281-305).
Al di là della presunta fedeltà al dettato bergsoniano, la traiettoria di Gilles Deleuze, unico della sua generazione a utilizzare in modo così sistematico il pensiero di Bergson, ha avuto il merito di riattivare l’interesse verso un pensatore che, ormai glorificato e insieme decomposto, sembrava avviarsi verso una tranquillizzante neutralizzazione storiografica. Deleuze ha così riaperto un varco nella ricezione bergsoniana, contribuendo inoltre, inconsapevolmente, al consolidamento di una narrazione di cui Bianco ricostruisce la filiazione, ovvero la percezione di una filosofia francese divisa in due metà, da un lato “cartesiana” e impegnata nella fondazione del sapere attraverso la razionalità del concetto, dall’altro mistico-vitalista e legata all’esperienza, alla sensibilità e al soggetto (p. 325-333). Se questo “grande racconto” interno alla filosofia francese ha proliferato, con differenti sfumature, nelle riflessioni di Hyppolite, Foucault, Derrida e Badiou, l’indagine di Bianco ci ricorda quanto questa bipartizione risulti schematica e non renda in fondo ragione dei sostanziali e costitutivi sfondamenti di campo (l’impossibilità di sistemare l’opera di Canguilhem all’interno di questa dicotomia risulterebbe qui emblematica).
Après Bergson ci fa insomma penetrare in un secolo di interpretazioni del pensiero di Bergson, mostrandoci l’eredità della sua opera attraverso un’invidiabile cura per i dettagli (tra i vari strumenti di lavoro, è presente un utile grafico delle relazioni tra i filosofi citati, nonché la lista degli anni in cui Bergson era presente nel programma dell’agrégation). Più defilato rispetto ad altre tradizioni pensiero, quali la fenomenologia, l’esistenzialismo o lo strutturalismo, il bergsonismo emerge dal testo come filosofia “carsica”, tanto plastica da fornire intuizioni in campi di riflessioni tra loro anche molto distanti. Come le infinite biforcazioni dello slancio vitale, l’influenza di Bergson si è ripartita su un intero secolo: ecco perché, allora, il prisma bergsoniano analizzato da Bianco riflette indirettamente l’atmosfera di un’epoca.
È piuttosto insolito incontrare, negli scritti di un pittore, riferimenti ai filosofi. Eppure, nell’ampio corpus di quelli redatti nel corso dei decenni da René Magritte, capita a volte di imbattersi nei nomi di Eraclito, Socrate, Platone, Descartes, Berkeley, Kant, Hegel, Schopenhauer, Marx, Nietzsche, Bergson, Bachelard, Heidegger, Sartre, Merleau-Ponty. Inoltre, anche se i testi dell’artista belga non sono certo di carattere filosofico, in alcuni di essi si può ravvisare un’originale riflessione sul linguaggio. Ricordiamo per esempio un celebre scritto illustrato del 1929, Les mots et les images, che contiene enunciati lapidari come i seguenti: «Un oggetto non è mai tanto legato al suo nome che non se ne possa trovare un altro che gli si adatti meglio»; «Un’immagine può prendere il posto di una parola in una proposizione»; «Tutto tende a far pensare che ci sia scarso rapporto tra un oggetto e ciò che lo rappresenta»; «A volte il nome di un oggetto può sostituire un’immagine»; «In un quadro, le parole sono della stessa sostanza delle immagini»; «Si vedono in un modo diverso le immagini e le parole in un quadro». Date queste premesse, non desta sorpresa il fatto che Magritte si sia affrettato a leggere un libro di Michel Foucault dal promettente titolo Les mots et les choses, senza farsi intimorire dalla mole e dalla complessità della trattazione. Resta strano, però, il fatto che, a poco più di un mese dall’uscita del volume, un pittore anziano e affermato come lui abbia sentito l’esigenza di scrivere a Foucault una lettera al fine di comunicargli le proprie idee su una questione specifica, ossia il tema della somiglianza. In effetti nel libro, riferendosi alla cultura del Cinquecento, il filosofo aveva evidenziato l’onnipresenza, in vari campi del sapere, dell’idea di somiglianza o similitudine...Scarica PDF
A cura di:
Giuseppe Zuccarino è critico e traduttore. Ha pubblicato vari saggi:La scrittura impossibile, Genova, Graphos, 1995; L’immagine e l’enigma, ivi, 1998; Critica e commento. Benjamin, Foucault, Derrida, ivi, 2000; Percorsi anomali, Udine, Campanotto, 2002; Il desiderio, la follia, la morte, ivi, 2005; Il dialogo e il silenzio, ivi, 2008; Da un’arte all’altra, Novi Ligure, Joker, 2009; Note al palinsesto, ivi, 2012; Il farsi della scrittura, Milano-Udine, Mimesis, 2012. Tra i libri da lui tradotti figurano opere di Mallarmé, Bataille, Klossowski, Blanchot, Caillois e Barthes.
Nel senso più generico del termine, la deformazione consiste nell’alterazione, temporanea o definitiva, della configurazione originaria di un oggetto, e in pittura indica quel processo di alterazione delle forme naturali che porta a risultati spesso considerati mostruosi o aberranti. Attraverso le diverse riflessioni di artisti e filosofi, nel corso del Novecento la deformazione ha però subito una notevole evoluzione concettuale, passando dall’essere concepita come specifico fattore stilistico a processo genetico dello stile in quanto tale, fino a darsi addirittura come mediazione di più larghe operazioni estetiche o extra-pittoriche.
Untitled, Jannis Kounellis (1968)
A inizio Novecento, il simbolista francese Maurice Denis proponeva un’acuta distinzione tra deformazione “oggettiva” e deformazione “soggettiva”: la prima, accostabile alla coeva nozione worringeriana di abstraktion, si costituiva come principio regolatore delle tensioni formali interne all’immagine secondo quelle che Denis definisce le “leggi eterne della decorazione”; la seconda scaturiva dalla necessità di mediare la natura attraverso il proprio “temperamento” psichico. La nuova teoria della pittura di Denis si basa sull’espressione per “equivalenze” e non più per “mimesi”, individuando così le basi di quella che sarà la più valida e genuina pittura contemporanea. Alla luce di quanto si è visto nei decenni a venire, potremmo infatti intravedere in questa coppia polare il seme di due linee stilistiche dominanti nella cultura novecentesca: dalla prima la dipartenza dello sviluppo di tutti i decorativismi geometrici e delle ricerche di arte concreta, mentre dall’altra le contratture segniche e materiche degli espressionismi, manifestatisi nel corso del secolo a più riprese, fino agli esiti figurativi dell’Informale.
Il futurista Carlo Carrà, in un breve e puntuale scritto intitolato proprio La deformazione in pittura e pubblicato sulla rivista «Lacerba» del 15 marzo 1914, afferma che ormai non possa più sussistere opera senza l’intervento della deformazione, considerando questa soluzione non solo come “fattore predominante” nella costruzione del quadro, ma addirittura come un “altimetro” per misurare i vari gradi di espressione plastica di un’opera. Naturalmente, in piena fede futurista, Carrà vede la deformazione come conseguenza del movimento, della necessità di resa dinamistica della realtà e rivanga quel concetto riportato nel Manifesto tecnico della pittura futurista del 1910 secondo cui “per la persistenza dell’immagine nella retina, le cose si moltiplicano”, ma soprattutto “si deformano, susseguendosi, come vibrazioni, nello spazio che percorrono”. Le affermazioni di Carrà riguardano problematiche stilistiche ben precise e circoscritte al loro tempo, ma l’intuizione per cui la deformazione sia alla base di qualunque opera d’arte contemporanea è di una lungimiranza che solo anni dopo e in sede di riflessione estetica avrebbe trovato un più ampio sviluppo. Dovremo perciò aspettare la soglia degli anni Cinquanta perché il concetto di deformazione venga esteso da Maurice Merleau-Ponty fino ad assurgere a sinonimo di stile. Per il fenomenologo francese lo stile è un modo di ricreare i fenomeni e trovare per essi nuove modalità di essere nel mondo, perché solo il pittore riesce a percepire “le norme e le deviazioni dell’inaccessibile pienezza delle cose”. La sua dissertazione sullo stile muove dall’assorbimento sul piano fenomenologico del concetto di “deformazione coerente” formulato da André Malraux (autore esplicitamente richiamato nel titolo con le voci del silenzio), secondo il quale ogni pittore ha un proprio modo consapevole di deformare i dati visibili per risemantizzarli, investirli di nuovi significati. Quasi come in un lontano dialogo con Maurice Denis, anche Merleau-Ponty concepisce lo stile-deformazione come “sistema di equivalenze”, ma aggiunge che solo attraverso “l’indice universale della deformazione coerente” un artista “concentra il senso ancora sparso nella sua percezione e lo fa esistere espressamente”. Qui l’oggettivo e il soggettivo teorizzati da Denis sono come stati fusi in un unico canale di accesso alla realtà attraverso cui il pittore rielabora le qualità dei dati visivi nella più generale prospettiva di una propria definizione stilistica. A proposito di questa assimilazione del concetto di deformazione a quello di stile, andrebbe forse considerato il fatto che gli anni in cui scrive Merleau-Ponty sono anche i graffianti anni dell’Informale, rappresentato in Francia da maestri quali Jean Dubuffet e Jean Fautrier. Corrente pittorica di larga e capillare diffusione, incentrata su problematiche esistenziali affatto estranee al pensiero fenomenologico, essa ha, com’è noto, fervidamente applicato indici di deformazione estrema alle proprie figure, aspetto che può avere giocato un qualche ruolo nelle riflessioni del nostro filosofo.
Jean Dubuffet, Affluence (1961)
Il contributo più articolato sul concetto di deformazione arriva però da un filosofo italiano, sempre di scuola fenomenologica, Miro Martini, allievo di Antonio Banfi e autore di un ampio e complesso saggio intitolato La deformazione estetica, frutto di profonde riflessioni sull’atto estetico come atto deformante. Si tratta di un sistema che ingloba e sostiene la corrispondenza cara a Merleau-Ponty tra deformazione e stile, ma che va ben oltre i comuni processi di formalizzazione artistica per aprirsi al più generale piano dell’estetica. Martini estende tale concetto “all’intero mondo estetico nella varietà dei suoi piani fondamentali”, quasi intuendo che l’orizzonte mediale dell’arte si sarebbe a breve espanso enormemente fino a coincidere con quello della quotidianità; secondo Dino Formaggio, con questa “legge dell’esistere artistico in concreta esperienza” Martini intendeva sostenere che “l’arte compie un’opera di trans-valutazione dei momenti della vita, del vivere di ogni giorno”, una traslazione del mondano nell’artistico attraverso quella che oggi con Arthur Danto diremmo una trasfigurazione del banale. Si tratta di sottrarre quindi elementi concreti e dinamiche del quotidiano alla loro comune funzione pratico-utilitaristica per riscattarli esteticamente o, come rimarca Formaggio, “a dar forma compiuta e nobiltà di stile ad ogni esperienza del vivere”. Conferme pratiche alle idee di Martini sarebbero arrivate solo anni e anni dopo la sua scomparsa con fenomeni quali lo happening, la performance, l’Antiform o le poetiche del Concettuale; ma mi pare piuttosto significativo che nella Milano di metà anni Cinquanta, e poco dopo l’uscita (purtroppo postuma) del testo di Miro Martini, artisti spazialisti come Agostino Bonalumi o Enrico Castellani cominciassero a intervenire su delle tele monocrome per dilatarle, estrofletterle, alterandone la configurazione di base e sperimentando così la deformazione non più sul piano virtuale della figurazione, bensì su quello della piena materialità (pur rimanendo ancora legati a un supporto artistico tradizionale), producendo in definitiva una sorta di sinergia tra teorie e poetiche contemporanee, e riuscendo anzi a dare alle idee martiniane un’indiretta e probabilmente inconsapevole convalida.
Agostino Bonalumi, Senza titolo - nero (1968)
Ecco dunque emerso lo status “bipolare” del concetto di deformazione nella cultura del Novecento, dove al primo polo, quello originario o dell’uso comune del termine e relativo a questioni plastico-formali (deformazione come alterazione di configurazione), se ne affianca un altro relativo a ridefinizioni artistiche dell’esperienza tramite mezzi, elementi e modalità dell’esperienza stessa (deformazione come stile e, solo dopo, come riformulazione estetica del quotidiano), ampliando così ad libitum le possibilità pratiche di stilizzazione. Quello tra deformazione plastica e deformazione estetica non è tuttavia un conflitto insolubile o un eterno scontro tra nemici giurati, ma al contrario una quieta e fruttuosa convivenza, spesso di reciproco supporto: le due istanze si incrociano e dialogano sempre più di frequente, e soprattutto oggi, nell’uso di mezzi come la fotografia o il video ormai divenuti imprescindibili per la ricerca contemporanea. La deformazione plastica, infatti, ha trovato in questi strumenti vie di aggiornamento oggi battutissime come l’uso delle distorsioni, delle alterazioni di segnale, e manipolazioni di ogni sorta, per le quali è proprio la deformazione estetica, lanciata nella prospettiva di una potenziale pan-artisticità dell’esperienza, a garantirne il valore espressivo. Da qui in poi, il concetto di deformazione in ambito artistico non potrà che vivere dunque di alternanze e distinzioni, ma questo suo bipolarismo lo manterrà, senza dubbio, fiamma di ogni dibattito sullo stile, sulle poetiche, sull’esistenza dell’arte. Attuale per sempre.
di Pasquale Fameli
Bibliografia
Carrà, C. (1978). La deformazione in pittura (1914). In M. Carrà (a cura di), Carlo Carrà. Tutti gli scritti (pp. 30-33). Milano: Feltrinelli.
Danto, A. (2008). La trasfigurazione del banale. Una filosofia dell’arte (1981). Bari: Laterza.
Denis, M. (1920). Théories 1890-1910. Du symbolisme et de Gauguin vers un nouvel ordre classique (1913). Paris: L. Rouart et J. Watelin Éditeurs; in particolare pp. 23, 268.
Martini, M. (2002). La deformazione estetica (1955). Milano: Unicopli; in particolare: pp. 55-57. Si veda inoltre la prefazione alla seconda edizione di Dino Formaggio, in particolare pp. 2-3.
Merleau-Ponty, M. (1967). “Il linguaggio indiretto e le voci del silenzio” (1952). In Id., Segni. Milano: Saggiatore; in particolare p. 81.
Worringer, W. (1976). Astrazione e empatia (1907). Torino: Einaudi.
Estesie. Forme e idee del Novecento è uno spazio di riflessione sui rapporti tra l’arte e la filosofia, un banco di prova dei loro possibili intrecci e un laboratorio in cui testarne le loro forze magnetiche. Tra i molti settori della cultura di una determinata epoca vengono infatti a stabilirsi delle connessioni spontanee, delle sintonie inattese o non necessariamente cercate, che contribuiscono tuttavia ad avvalorarne i tratti somatici e a farne emergere le peculiarità. Prendendo spunto dalle poetiche, dalle teorie o dai fatti artistici ed estetici più rilevanti del Novecento, nello spazio di Estesie vengono testate le loro molteplici aperture connettive, secondo una concezione rizomatica della cultura che vede nell’intersezione e nella trama reticolare le più efficaci forme di comprensione dell’oggi.
Pasquale Fameli (1986) è dottorando in Arti visive, performative e mediali presso l'Università di Bologna. Si occupa di ricerche extra-pittoriche del Novecento, con particolare attenzione ai fenomeni sonori e sinestetici.
Ferdinand Kriwet, Ohne Titel (Rundschreiben), 1973
Siamo a Los Angeles, nella funeral home della famiglia Fisher: la serie tv[1] si apre con la morte del patriarca e prosegue con il cordoglio dei familiari e con le loro diverse reazioni al lutto.
Pur essendo girato per un pubblico di massa, Six Feet Under tratta in modo esplicito oltre che ironico argomenti che oggi sembrano essere diventati tabù, come la morte e il cordoglio ma anche e soprattutto il dolore che ne consegue. Infatti, le caratteristiche psicologiche e sociali dei personaggi sono l’occasione per trattare il tema della morte in modo pedagogico e per offrire allo spettatore un’interpretazione circa il modo di reagire al lutto.
Nella terza puntata di #philosophers, abbiamo intervistato Rocco Ronchi, professore di filosofia teoretica presso l'Università degli Studi dell'Aquila. Abbiamo parlato di Deleuze, cinema, godimento e infinito attuale.
Si tratta di una delle storie più note a chi frequenta i territori filosofici: la filosofia nasce come superamento del mito, costruisce il proprio spazio negando e lasciandosi alle spalle il mito, sforzandosi di superare il suo linguaggio, anche quando – Platone lo testimonia per primo – si ritrova a farne ancora uso. Da qui la convinzione che, in fondo, pensare significhi non raccontarsi storie, ma anche che conoscere sia l’operazione anti-mitologica per eccellenza (la finzione narrativa del mito che fa spazio alla verità razionale della scienza). A fronte di tutto ciò, un volume che ha il coraggio di riaprire il discorso sul rapporto tra mito e filosofia merita la più assoluta considerazione. Sarebbe ingeneroso pretendere di riassumere in pochi capoversi i trenta fitti saggi che compongono il testo, in cui il dibattito antropologico, storico-religioso, sociologico e psicologico si intreccia felicemente alle riflessioni teoriche e all’opportuna ricostruzione di casi storici; per questo, mi limiterò a presentare quelli che mi sembrano i due assi principali dell’opera, legati a loro volta a un’idea fondamentale che fa da basso continuo a tutti gli interventi: il mito non tanto “è qualcosa”, ma piuttosto “fa qualcosa”. La prospettiva funzionalista deve sostituire quella sostanzialista.
Il primo asse ruota attorno alla convinzione che ripensare la contrapposizione tra mito e ragione non significa semplicemente dire che il mito sia ovunque, che tutto sia mito, che in realtà anche la filosofia e la scienza sono in qualche modo “mitiche”. Il punto è piuttosto riconoscere che il mito non è stato semplicemente superato una volta per tutte, né deve essere lasciato alle spalle, perché non è una modalità di rapporto con la realtà imperfetta, incompiuta e difettosa rispetto a quella razionale: è piuttosto una modalità altra con delle proprie specificità e – soprattutto – con la propria utilità. Si tratta infatti di comprendere che le ambiguità e le contraddizioni del mito, capace di generare fascino e seduzione come repulsione e rinnegamento, sono legati al fatto che il mito è innanzitutto una prassi, che si colloca cioè in una dimensione performativa che si avvale di peculiari materiali e pratiche: il mito rappresenta la tessitura – in termini foucaultiani – di un vero e proprio ordine discorsivo, di un dispositivo di sapere-potere. In questo senso, esso ha persino una propria “razionalità”, nella misura in cui possiede una struttura e delle modalità di funzionamento e dispiegamento irriducibili ad altro e – soprattutto – insubordinabili a quelle proprie della ragione in senso stretto. Senza che ciò debba tradursi nella celebrazione della narrazione mitica a discapito della discorsività argomentativa, evidentemente; anzi, occorre proprio cominciare a vederle come complementari piuttosto che dirette antagoniste.
In particolare, il mito gioca un ruolo decisivo nella messa in opera della realtà politica e nella costruzione dell’identità sociale: il mito è produzione di memoria, di coesione, di immaginario, è fondazione del legame socio-culturale e dell’articolazione storico-temporale, offre un punto di riferimento per la stabilità di un gruppo. Il mito produce tutto ciò proprio mentre è da tutto ciò prodotto e riprodotto: il mito orienta. È per questo che esso non può essere semplicemente “demistificato”, in nome della ragion pura come della denuncia delle ideologie: il mito non è un vestito che ricopre una supposta realtà originaria e fatto proprio da una determinata classe sociale per tenerne sotto scacco un’altra; è – piuttosto – una modalità di accesso alla realtà che accomuna le diverse (supposte o effettive) classi sociali, che consente loro di far parte della medesima società. In poche parole, il mito ha una peculiare funzione soprattutto sociale, fonda la socialità umana, è un fattore di coesione e condensazione rispetto alla vita associata: il mito istituisce proteggendo e preservando – immunizzando. Ed è proprio qui che la sua funzione stabilizzatrice diventa indisgiungibile dal rischio di tradursi in un fattore di sclerotizzazione o eccessiva solidificazione; è perciò che il mito può essere tanto un orizzonte di condivisibilità quanto una cornice intrascendibile, che la sua macchina può generare forme di conoscenza e di circolazione linguistica, immaginale e simbolica che si autocertificano come verità naturali e immodificabili.
Il secondo asse attorno a cui si costruisce il volume consente però proprio di spiegare meglio il senso di questa utilità e il motivo profondo per cui il mito non può essere superato. Infatti, riprendendo soprattutto la lezione di Blumenberg, la funzione simbolico-performativa del mito va letta in chiave antropogenetica, vale a dire che l’utilità del mito è antropologica: il mito è uno dei modi tramite cui l’animale umano articola il senso della propria esistenza e il rapporto al proprio ambiente. Più specificamente, il mito consente di addomesticare il mondo e di dare così stabilità all’esistenza, è una forma di metaforizzazione della realtà e della propria posizione al suo interno che consente di dare a entrambe una figura. In altri termini, per quell’essere – quale l’uomo è – esposto, vulnerabile e consegnato al compito di dar attivamente forma al proprio rapporto con il mondo e di condurre esplicitamente la propria esistenza, il mito rappresenta un sistema di prevenzione da un’eccessiva prossimità con il reale e conseguentemente un meccanismo di misurazione delle giuste distanze da esso: troppe domande sull’origine del mondo generano angoscia, certo, ma la medesima angoscia si produrrebbe qualora non venisse prodotto nessun tipo di risposta. Il mito è proprio il tentativo di fornire una risposta che, pur non rifiutando la domanda sul senso del mondo, cerca però di limitarne la proliferazione indefinita, di interromperne il regresso all’infinito: finché l’uomo dovrà orientarsi nel mondo – a dire: finché l’uomo esisterà – il mito interverrà a offrire sostegno e supporto. In breve: il suo spettro di variazioni storiche e culturali fa dunque da controcanto all’invariante antropologica del bisogno di metafore capaci di far fronte all’assolutismo della realtà. Certamente, si potrebbe sostenere che il richiamo a Blumenberg comporti un eccessivo ricorso a quel “paradigma dell’incompletezza” o “fiction dell’essere carente” che gli sviluppi contemporanei dell’antropologia filosofica hanno cercato di ripensare (a partire da Sloterdijk, non a caso uno degli autori comunque chiamati in causa dagli interventi), così come implicherebbe di conseguenza anche un’eccessiva insistenza sul bisogno di protezione e riduzione del rischio e meno su quello di esplorazione e soddisfazione della curiosità. Come a dire che il mito può o deve essere considerato anche un dispositivo di scoperta di possibilità, oltre che di contenimento della loro dispersività, ossia che – pensando soprattutto alla dimensione sociale – al mito va riconosciuta più nettamente una dimensione simbolico-espressiva a fianco di quella contenitivo-stabilizzante. Tuttavia, ciò nulla toglie al punto di fondo da tener fermo: riconoscere che il mito è un paradossale “zero efficiente”, un nulla performativo, in ragione della stessa costituzione umana, e non il residuo di un passato oscuro da scrostarsi di dosso una volta per tutte. Ed è da questo punto fermo che il volume chiede di ripartire e di pensare.
Per chiudere, come viene pregevolmente evidenziato dai curatori, padroneggiare totalmente le problematiche scientifiche come le dimensioni pratiche connesse al mito è un’impresa ai limiti dell’insormontabilità: mito si dice e si fa senza dubbio in molti modi. Ma l’altrettanto indubbio pregio dell’opera è sforzarsi di mostrare questa molteplicità, è offrire un quadro insieme complessivo e articolato di quel solo apparente ossimoro che è la “filosofia del mito”, al fine di contribuire a rendere meno cogente la sottile violenza con cui tende a presentarsi ciò che è ovvio e a indicare così nuovi spazi di libertà possibili. Siamo insomma di fronte alla piena assunzione del compito forse più peculiare e controverso di cui la filosofia tenta di farsi carico: pensare il proprio tempo in rapporto al suo trascorrere.
A partire dall’inizio degli anni Settanta, Pierre Klossowski si lascia quasi del tutto alle spalle una lunga carriera di romanziere, saggista, filosofo e traduttore, per dedicarsi alla pratica del disegno. Quella grafico-pittorica, del resto, è un’arte che gli era familiare fin dall’infanzia, visto che entrambi i suoi genitori si dedicavano a essa, mentre il fratello maggiore, Balthasar, è divenuto un pittore di fama internazionale col nome di Balthus. La dedizione di Klossowski alle arti visive diventa ancor più appassionata ed esclusiva a partire dal 1972, in coincidenza col passaggio dai disegni a grafite a quelli effettuati con le matite colorate. Si tratta di una tecnica resa originale dal fatto di essere applicata su grandi superfici di carta, il che consente all’artista di ottenere dei quadri che hanno spesso l’imponenza di affreschi murali. Pur non avendo alcun problema a trovare galleristi e critici disposti ad appoggiare la sua nuova scelta di vita, e pur considerando l’espressione visiva come più diretta ed efficace rispetto a quella letteraria o saggistica, Klossowski non è mai riuscito a liberarsi dal medium della parola. Ha ritenuto infatti necessario ricorrere a esso per spiegare la propria idea di pittura e replicare alle obiezioni di coloro che trovavano da ridire sui suoi lavori, giudicandoli troppo letterari per un verso (in quanto i temi dei quadri sono spesso collegabili a quelli delle opere narrative precedenti) e troppo rétro e maldestri dal punto di vista formale. Tuttavia i testi da lui scritti in proposito nell’ultimo trentennio di vita sono interessanti non soltanto come autodifese o dichiarazioni di poetica, ma anche per le loro implicazioni teoriche generali, concernenti lo statuto dell’opera d’arte pittorica.
Giuseppe Zuccarino è critico e traduttore. Ha pubblicato vari saggi:La scrittura impossibile, Genova, Graphos, 1995; L’immagine e l’enigma, ivi, 1998; Critica e commento. Benjamin, Foucault, Derrida, ivi, 2000; Percorsi anomali, Udine, Campanotto, 2002; Il desiderio, la follia, la morte, ivi, 2005; Il dialogo e il silenzio, ivi, 2008; Da un’arte all’altra, Novi Ligure, Joker, 2009; Note al palinsesto, ivi, 2012; Il farsi della scrittura, Milano-Udine, Mimesis, 2012. Tra i libri da lui tradotti figurano opere di Mallarmé, Bataille, Klossowski, Blanchot, Caillois e Barthes.
Nella prima puntata di #philosophers, abbiamo incontrato Francesco Vitale, professore di estetica presso l'Università degli Studi di Salerno e studioso di Derrida. Abbiamo parlato di decostruzione, cinema, beach bar, futuro del pensiero, e molte altre cose ancora.
Philosophy Kitchen incontra i filosofi: pensieri, ricerche, racconti, aneddoti, curiosità
#philosophers è la prima videorubrica di Philosophy Kitchen, ideata da Carlo Molinar Min e Giulio Piatti, con il contributo di Francesco Della Noce. Gli ingredienti sono semplici: linguaggio fresco, domande inedite, per raccontare alcuni dei principali protagonisti dell'attuale dibattito filosofico, da un'angolatura inedita.
Da giovane Maurice Blanchot, oltre a interessarsi di letteratura, ha compiuto studi universitari in ambito filosofico. Lo ha ricordato l’autore stesso: «Credo si sappia quanto devo a Emmanuel Levinas, oggi il mio amico di più vecchia data, il solo che mi autorizzi a dargli del tu. È anche noto che ci siamo incontrati all’Università di Strasburgo nel 1926, dove tanti grandi maestri non ci rendevano mediocre la filosofia» (Blanchot 2008, p. 237; trad. it. 2004, p. 185). Eppure, in seguito, egli si è astenuto dal pubblicare opere che si presentassero esplicitamente come filosofiche; anzi, una parte importante della sua produzione è di tipo non saggistico bensì narrativo. Ciò vale già per il volume d’esordio, ossia il romanzo Thomas l’obscur (Blanchot, 1941). Tuttavia una lettura di questo testo enigmatico permette di trovare in esso delle tracce esplicite, ancorché imprevedibili, dell’interesse di Blanchot verso alcuni pensatori di primo piano nella tradizione filosofica. Ciò appare tanto più singolare in quanto le sue opere narrative si tengono sempre ben lontane dal cosiddetto romanzo a tesi, dalla nobile e seria riflessione sul senso dell’esistenza e sulle scelte etiche dell’uomo, ossia dal genere di testi che amavano redigere gli scrittori legati all’esistenzialismo francese, come Sartre e Camus. A differenza di quest’ultimo, per esempio, Blanchot si sarebbe ben guardato dall’asserire che «un romanzo non è mai altro che una filosofia tradotta in immagini» (cfr., per Camus, Todd, 2012, p. 272) Scarica il PDF
A cura di:
Giuseppe Zuccarino è critico e traduttore. Ha pubblicato vari saggi:La scrittura impossibile, Genova, Graphos, 1995; L’immagine e l’enigma, ivi, 1998; Critica e commento. Benjamin, Foucault, Derrida, ivi, 2000; Percorsi anomali, Udine, Campanotto, 2002; Il desiderio, la follia, la morte, ivi, 2005; Il dialogo e il silenzio, ivi, 2008; Da un’arte all’altra, Novi Ligure, Joker, 2009; Note al palinsesto, ivi, 2012; Il farsi della scrittura, Milano-Udine, Mimesis, 2012. Tra i libri da lui tradotti figurano opere di Mallarmé, Bataille, Klossowski, Blanchot, Caillois e Barthes.
La rubrica si occuperà dei margini della filosofia, cioè dei punti in cui a essa può accadere di sconfinare, evadendo dal proprio territorio, o all’opposto di subire invasioni da parte di «non addetti ai lavori». Per essere più espliciti, diremo che a essere in causa è il rapporto tra la filosofia e le arti, in particolare la letteratura. Si tratterà dunque di mostrare, tramite esempi significativi, come i pensatori del secolo scorso e di quello presente si siano rapportati alle opere di poeti, narratori o artisti visivi. Ma spesso saranno anche presi in esame casi in cui, viceversa, sono stati gli scrittori a dimostrare interesse per le opere dei filosofi, antichi o recenti. Date le competenze specifiche del curatore, l’attenzione sarà rivolta perlopiù all’area culturale francese.
Giuseppe Zuccarino è critico e traduttore. Ha pubblicato vari saggi:La scrittura impossibile, Genova, Graphos, 1995; L’immagine e l’enigma, ivi, 1998; Critica e commento. Benjamin, Foucault, Derrida, ivi, 2000; Percorsi anomali, Udine, Campanotto, 2002; Il desiderio, la follia, la morte, ivi, 2005; Il dialogo e il silenzio, ivi, 2008; Da un’arte all’altra, Novi Ligure, Joker, 2009; Note al palinsesto, ivi, 2012; Il farsi della scrittura, Milano-Udine, Mimesis, 2012. Tra i libri da lui tradotti figurano opere di Mallarmé, Bataille, Klossowski, Blanchot, Caillois e Barthes.
Lea Melandri affronta i temi che nel corso della sua carriera di pensatrice hanno segnato i momenti più significativi della sua vita e della ricerca, dall’infanzia fino alla scoperta del femminismo, passando per l’incontro con il movimento non autoritario nella scuola. Una narrazione che, partendo dai vissuti personali, mette a fuoco gli snodi culturali, e storici, della società, come la dinamica di potere tra i sessi, la lotta per il riconoscimento, il sogno d’amore e la violenza, l’educazione e, più in generale, il rapporto tra individuo e collettivo, un intreccio sempre presente anche nel privato delle stanze. Vita e pensiero che hanno fatto del fuori tema, inteso come il rimosso e l’escluso, la cifra specifica di una ricerca che ha attraversato la cultura degli ultimi cinquant’anni, restando fedele a quel movimento di pensiero oltre che di liberazione che è stato il femminismo, oggi ancora attuale.
Lea Melandri (Fusignano, 1941) – L' infamia originaria. Facciamola finita col cuore e la politica (L’erba voglio 1977), Come nasce il sogno d’amore (Rizzoli 1987, Bollati Boringhieri 2002), Una visceralità indicibile. La pratica dell'inconscio nel movimento delle donne degli anni Settanta (FrancoAngeli 2000), Le passioni del corpo. La vicenda dei sessi tra origine e storia (Bollati Boringhieri 2001), Preistorie. Di cronaca e d'altro (Filema 2004), La perdita (Bollati Boringhieri 2008), Amore e violenza. Il fattore molesto della civiltà (Bollati Boringhieri 2011).
La fenomenologia, secondo Lambert Wiesing (Il me della percezione. Un’autopsia, a cura di Tonino Griffero, Christian Marinotti edizioni, 2014), deve diventare – ritornare? - greca, in almeno quattro sensi differenti. Innanzitutto facendo proprio un adagio scettico: la natura delle cose è inesplicabile. Più che lanciarsi in ipotesi metafisiche – poco importa di quale natura – bisogna ritornare, con Husserl, a un più modesto ma efficace approccio descrittivo: “quale sia stata la sua genesi, è una cosa che non ci riguarda”. In secondo luogo, liberandosi da utopie di stampo scientista, la fenomenologia dovrebbe porsi alla stregua di un testo protrettico (p. 78). Descrivere fenomenologicamente una percezione non significa trasporre una serie di proposizioni analitiche dal carattere strettamente logico-scientifico, ma invitare e convincere il lettore a praticare quelle stesse esperienze trascritte dal fenomenologo. La fenomenologia si nutre - come già notava in senso critico Derrida - di un’intuizione, una presenza originaria, impossibile da comunicare per iscritto, ma, nonostante ciò, compiutamente universale in quanto esperibile. In terzo luogo il pensiero fenomenologico dovrebbe dirigersi senza indugi verso la percezione, evento umano primario e inestirpabile. Come già sosteneva Epicuro – e prima di lui i sofisti - le percezioni sono sempre vere. E questo – aggiunge Wiesing – perché non possono mai essere concepite in altro modo, non essendo passibili di alcuna falsificazione
Infine – e questo ci introduce al nodo centrale del libro - una sana fenomenologia deve seguire l’Aristotele della Politica: “il tutto viene prima delle parti”. Nel caso della percezione, a cui Wiesing dedica l’intero libro, si tratta allora di superare la parti – percipiente e percepito – per indirizzarsi primariamente al Tutto – la percezione, intesa come situazione che tiene assieme i due poli del soggetto e dell’oggetto.
E’ questo il nerbo centrale della prospettiva avanzata da Wiesing, che intende capovolgere così il criticismo kantiano: invece di individuare nel soggetto, come nell’Estetica trascendentale della Critica della ragion pura, le condizioni di possibilità della percezione, bisognerebbe piuttosto analizzarne le conseguenze della realtà. Se la situazione percettiva sembra una realtà a tutti gli effetti inemendabile e fenomenologicamente irriducibile, la domanda da porre deve allora essere la seguente: cosa mi accade nel momento in cui vengo a trovarmi in una situazione percettiva? Schivando così sia l’oggettivismo empiristico proprio degli approcci analitici sia il soggettivismo interpretante delle filosofie ermeneutiche, Wiesing riporta al centro un discorso squisitamente fenomenologico, volto a indagare la relazione intenzionale che inequivocabilmente la percezione pone in essere. Il soggetto, da costitutore del reale o specchio di un mondo di oggetti, diventa così a tutti gli effetti il prodotto di una situazione percettiva che gli si impone. Wiesing ripete più volte quanto la percezione sia in definitiva un’imposizione – anche tragica- per il percipiente, che non può fare a meno di prendere parte alla relazione percettiva. La percezione non produce comodi naufragi con spettatore, per dirla alla Blumenberg, quanto un’inevitabile partecipazione al mondo, nell’unica forma – intenzionale - in cui questo può darsi al soggetto.
Nella costellazione ridisegnata da Wiesing, il trittico soggetto/oggetto/percezione si riconfigura, portando in primo piano la percezione come suo centro propulsore, in maniera non dissimile da quanto portato avanti, in un altro contesto, da Gilbert Simondon prima e da Bernard Stiegler oggi: nel passaggio all’individuazione non bisogna concentrarsi né sull’origine né sul termine, ma sul processo trasduttivo e relazionale in grado di articolare i due momenti. Al di qua della sclerotizzazione tra un soggettivismo autoreferenziale e un oggettivismo semplicistico, Simondon, Stiegler e Wiesing, in modi ovviamente differenti, propongono uno sguardo “terzo”, bergsonianamente orientato sui movimenti che riconfigurano le essenze statiche in poli di un processo.
A partire dalla questione percettiva, così reinterpretata, Wiesing deduce, in maniera cartesiana, tutte le possibili conseguenze: il soggetto diventa, come si è detto, un partecipante attivo del mondo, dotato di un corpo-proprio (Leib) a cui la percezione si impone come una causa (pp. 136-140) capace di gettarlo in una dimensione sia pubblica – da qui la possibilità dell’intersoggettività (pp. 140-144) - sia continua – da qui la conferma dell’identità personale (pp.144-150).
Non siamo però sempre e soltanto condannati a percepire: secondo Wiesing lo schema dell’imposizione lascia spazio ad alcune particolari pause dalla partecipazione al mondo. Si tratta della percezione iconica, quando ci si trova di fronte a un’immagine che, presenza “diminuita”, possiede soltanto la caratteristica della visibilità. In questo caso, sebbene si possa provare empatia nei confronti, per esempio, di un film, il percipiente non si sente tuttavia “in gioco”, preso irrevocabilmente in una situazione percettiva. Il naufragio con spettatore, metafora di un a-storico mondo premoderno “a distanza di sicurezza”, ritrova allora per Wiesing pieno senso nell’esperienza compiutamente estetica, che non si impone più al percipiente. Difficile non vedere qui, come bene mostra Tonino Griffero nell’introduzione, una critica ai più entusiastici rappresentanti del cosiddetto visual o pictorial turn, convinti del potere fin troppo immersivo delle immagini estetiche.
A incorniciare la prospettiva di Wiesing corre per tutto il libro una sorta di pars destruens nei confronti delle molte e differenti prospettive filosofiche che hanno affrontato il problema della percezione. Al di là dell’ovvio tributo pagato a Descartes, Husserl e Merleau-Ponty, Wiesing si impegna a decostruire due grandi rami della ricerca filosofica sull’aisthesis: da un parte i sostenitori del “mito del dato”, dall’empirismo secentesco sino alle sue più attuali recrudescenze neuro-analitiche e dall’altra i sostenitori del “mito del mediato”, da Thomas Reid a Gadamer, passando per Nietzsche e Kant. Sia che si pensi alla datità di un oggetto accessibile immediatamente da parte di un soggetto recettivo, sia che si veda nell’attività interpretante del soggetto l’unico possibile aggancio alla percezione, si ha a che fare, per Wiesing solo e soltanto con ipostasi metafisiche, racconti mitici più o meno riusciti e più o meno efficaci, ma pur sempre costruiti sulla base di modelli ipotetici. Se la scienza non può che procedere per modelli o paradigmi, la filosofia non può che farne un uso soltanto funzionale o euristico; un modello non è altro che un metodo e non può mai, per uno sguardo filosofico serio, assumere un valore di verità. Dalla confusione di verità e metodo nascono allora due prospettive che, pur combattendosi alacremente, affondano in un pregiudizio comune.
Ecco allora che Wiesing ripropone una prospettiva strettamente fenomenologica, senza modelli, capace di ritornare a una descrizione genuina della realtà. Arrivati a questo punto non si può fare a meno di chiedersi se la costellazione percettiva configurata da Wiesing – situazione percettiva antecedente a percipiente e percepito – non finisca tuttavia per essere anch’essa un modello, soprattutto quando fa derivare dalla situazione percettiva una serie di deduzioni che potremmo definire contro-trascendentali. Probabilmente è impossibile praticare un pensiero filosofico senza modelli: ciò che si può tentare di fare è allora verificare ogni volta che il modello non si sganci dal reale, ingenerando una mitologia pericolosa soprattutto in quanto inconsapevole. Quando il modello fenomenologico è ampiamento dissezionato nei suoi fondamenti, come fa Wiesing, si schivano le possibilità di una ricaduta nel mito (pseudo)filosofico. E’ questo, in particolare, il caso dell’intenzionalità, che l’autore trasla su un piano unicamente percettivo e ridefinisce nella sua consistenza relazionale. Forse la stessa fenomenologia, come sta accadendo sempre più spesso, per riproporsi oggi efficacemente, ha bisogno di ridiscutere continuamente i propri presupposti.
***
Come le recenti dichiarazioni del neuroscienziato Giacomo Rizzolatti sulla precisione del pensiero filosofico in ambito scientifico sembrano confermare, l’attenzione della scienza nei confronti della filosofia, e in particolare della fenomenologia, sembra oggi più vivo che mai. In questo contesto, la prospettiva promossa da Wiesing, umile nel richiamo alla protrettica e insieme ambiziosa nel suo universalismo fenomenologico, può allora, riportando intelligentemente al centro della riflessione filosofica l’auto-evidenza della percezione, aprire qualche nuova strada di indagine sull’uomo, vero e proprio animale percettivo.
La società contemporanea potrebbe essere a ben diritto essere descritta come società della comunicazione. Con ciò non si vuole ovviamente significare che solo di recente gli esseri umani abbiano appreso a comunicare gli uni con gli altri, né che di recente la comunicazione fra esseri umani abbia fatto grandi passi in avanti: entrambe queste posizioni sarebbero risibili dal momento che la capacità di scambiare messaggi di vario genere è probabilmente più antica della stessa specie homo sapiens, e che proprio nell'età dello strapotere mediatico lo spazio del fraintendimento e dell'ambiguità nella comunicazione pubblica e privata sembra essersi dilatato e dismisura.
Che cosa vogliamo dire dunque quando parliamo di società della comunicazione? Una delle risposte possibili è che attraverso tale etichetta vogliamo descrivere una società nella quale le pratiche comunicative hanno assunto un carattere sempre più centrale e irrinunciabile.
Alle funzioni classiche e per così dire “naturali” della comunicazione – avvertire gli altri dell'avvicinarsi di un predatore, descrivere la posizione di risorse naturali, manifestare la propria subalternità o superiorità rispetto ad un altro individuo nel branco – e alle funzioni più evolute del linguaggio – dimostrare un teorema matematico, esaltare la bellezza di un tramonto estivo, proporre una organizzazione sociale più egualitaria – nell'era contemporanea che abitiamo se ne sono aggiunte innumerevoli altre, come numerosi filosofi e teorici hanno osservato. Fra tutti, basti ricordare l'avvertimento di Guy Debord ne “la società dello spettacolo”, laddove definisce appunto lo spettacolo – termine con il quale egli designa la quasi totalità delle pratiche della comunicazione pubblica e privata, pubblicitaria e politica – in questi termini: lo spettacolo è il capitale giunto a un tale grado di accumulazione da divenire immagine. Il capitale, elemento più puro della struttura sociale, in termini marxisti, diventa sovrastruttura, dipende dalla sovrastruttura. Per di più, ciò non avviene in forza di un indebolimento, ma di un salto qualitativo dovuto alla progressiva accumulazione. Che si voglia partecipare o meno dell'ostilità dichiarata di Debord verso un tale processo, è oggi un fatto che nella sua analisi si ritrovino elementi fondamentali ad una interpretazione del cortocircuito fra rappresentazione e produzione, immagine e merce.
Di questo cortocircuito, che non ci permette più di considerare il linguaggio come una forma di rappresentazione più o meno accurata della realtà, e ci obbliga a considerarlo come il principale strumento di costruzione e trasformazione della realtà in cui viviamo, si è col tempo sviluppata una teoria meno militante e più neutrale, indebitamente chiamata scienza, che tocca le sue vette più alte nel marketing di prodotti[1]. Per rendere più chiara possibile la transizione fra una società in cui le relazioni e le pratiche sono interpretate, giustificate e guidate da una serie di dispositivi simbolici e retorici, e una società nella quale relazioni e pratiche sono costituite da una serie di dispositivi simbolici e retorici, il modo più semplice è dunque quello di esaminare uno dei concetti base di tale scienza della comunicazione. Laddove essa tuttavia se ne serve come di uno strumento, sta a noi, che ci muoviamo fuori dalla filosofia con un andamento filosofico, farne un problema.
Il concetto in questione è quello di target: sfruttando una metafora balistica, il marketing insegna che la comunicazione deve essere, soprattutto, mirata. Ragionando sull'interlocutore ideale, e sulla risposta emotiva che si vuole suscitare, il buon comunicatore saprà come articolare il proprio messaggio. Senza soffermarci sul fatto che il concetto di target lascia ben poco spazio a ciò che si vuole dire – ed è piuttosto evidente che i linguaggi propagandistici e pubblicitari non vogliono dire nulla, mirano semplicemente a un effetto – consideriamo come funziona un caso specifico di targeting.
Ad un primo sguardo, la questione potrebbe sembrare tanto semplice da risultare addirittura banale: si definisce in base a criteri demografici e sociografici il target, vale a dire il pubblico specifico, si studiano i linguaggi e gli argomenti ai quali tale segmento di popolazione risponde più prontamente, e si confeziona un messaggio ad hoc. Fin qui, nulla di nuovo: pur disponendo di strumenti statistici meno raffinati, la precauzione di regolarsi sull'auditorio non era di certo ignota ai retori romani del II secolo. Il modo di procedere dei moderni pubblicitari, tuttavia, deve discostarsi da quello degli antichi retori, per il fatto che mentre Cicerone doveva convincere il suo auditorio di aver bene agito, il moderno comunicatore deve convincere il telespettatore a comprare il prodotto reclamizzato, e per quanto una preposizione possa essere una particella minuscola e trascurata, c'è tutta la differenza del mondo fra convincere di e convincere a. Nel primo caso è coinvolto il giudizio dell'ascoltatore, nel secondo la sua propensione a compiere un'azione. Da questa differenza ne seguono altre, a cascata.
Per formulare un giudizio, o una obiezione, bisogna adoperare strumenti razionali, e la razionalità è innanzitutto un criterio negativo: deve prevenire l'errore. Dunque il retore antico, maestro di razionalità – anche se in malafede e per i suoi scopi –, mostrava paragoni, elaborava categorie, si serviva di topoi retorici, vale a dire luoghi comuni, per dimostrare di essere nel giusto e difendersi dalle obiezioni. Vinceva laddove otteneva quella speciale passività che è il consenso.
Per agire – e per comprare – al contrario, bisogna volere, e la volontà è una spinta positiva, dunque il comunicatore moderno dev'essere maestro di desiderio, scuotere l'inerzia con immagini che “bucano lo schermo”. Egli deve intercettare la volontà del suo pubblico, non il consenso. E dunque, dopo aver effettuato uno studio attento del target, deve cercare di capire non cosa vuole il pubblico, ma come gli si potrebbe far volere proprio quella cosa lì, che deve volere per poterla comprare. È qui che troviamo esibito il nuovo ruolo che nella nostra società assume la comunicazione: i bisogni più malleabili, quelli più facili da ridirezionare, sono bisogni comunicativi, riguardanti il nostro posto nel mondo e la relazione con gli altri esseri umani che lo abitano. Come abbiamo detto, questa è l'era della comunicazione perché piuttosto che rappresentare il mondo il linguaggio lo costituisce. Così accade che il prodotto reclamizzato sia reclamizzato non in quanto prodotto, ma in quanto segno, matrice di una possibilità comunicativa: è esattamente questo, fra l'altro, il significato del concetto di branding.
Lo studio del target non si riflette solo nella scelta delle parole e dei linguaggi adatti alla comprensione di questo o quel segmento sociale, ma serve a raddoppiare narrativamente il soggetto: ciò che lo spettatore vede sullo schermo è la narrazione di un processo comunicativo: nei panni del locutore troviamo una rappresentazione idealizzata e tuttavia riconoscibile del consumatore, mentre nei panni del codice che permette l'espressione di un senso e lo svilupparsi di pratiche simboliche troviamo la merce. Tutto il resto – l'atmosfera, il contesto – è l'esaltazione del successo dell'attività comunicativa.
Siccome la comunicazione si basa su una relazione, il targeting non deve riguardare solo colui che deve consumare, ma anche la relazione in base alla quale il consumo diviene significativo: così nel caso dei prodotti per bambini, una scenetta familiare individuerà il ruolo del prodotto nella comunicazione che esso permette fra madre e figlio, nel caso di una macchina di lusso, una scena di seduzione metterà in evidenza il ruolo comunicativo dell'automobile nel rapporto fra l'uomo di potere ed una bellissima donna.
Va rilevato, tuttavia, che le relazioni comunicative che la nuova retorica del marketing costruisce, hanno una forte componente di virtualità: se uno dei due termini – il locutore – benché idealizzato, si ispira ad un soggetto reale, appunto il target della campagna pubblicitaria che deve riconoscervisi, l'altro – il destinatario del messaggio nel processo comunicativo rappresentato – può benissimo essere del tutto virtuale. Di fatto, un tale stile comunicativo ci inganna sistematicamente sulla natura dei nostri rapporti con gli altri, proponendoci interazioni virtuali ed emotivamente sovraccariche come modello delle nostre relazioni quotidiane, che diverranno, se a tali modelli prestiamo fede, vieppiù insoddisfacenti e vuote.
All'ideale filosofico della chiarezza, che si sviluppa in una pratica della vita comune, per conoscere se stessi e gli altri coinvolgendoli in un vero dialogo, abbiamo così man mano sostituito una pratica quotidiana di analfabetizzazione emotiva e sociale. La cosa peggiore è che l'abbiamo fatto con l'unico intento di vendere più saponette.
[1] Dando ancora ragione a Debord, che teorizza la relazione fondamentale fra merce e spettacolo: “In questo movimento essenziale dello spettacolo, che consiste nel riprendere in sé tutto ciò che nell'attività umana esisteva allo stato fluido, per possederlo allo stato coagulato […], noi riconosciamo la nostra vecchia nemica che sa così bene apparire a prima vista come una cosa triviale, ovvia, mentre è al contrario così complessa e così piena di sottigliezze metafisiche, la merce.” La società dello spettacolo, paragrafo 35
Fra le abitudini filosofiche più antiche e inveterate, forse la più antica e la meglio documentata è quella di rendere conto di cosa si sta facendo, quando si fa filosofia. Non solo può trovarsene traccia consistente nell'opera di qualunque filosofo, a dispetto delle differenze abissali che fra un'epoca e l'altra mostrano le attività del pensiero che si raccolgono a posteriori sotto il nome di filosofia, ma non sarebbe nemmeno difficile sostenere che proprio a partire da questa caratteristica sia possibile rispondere – con una certa circolarità – alla questione: che cos'è la filosofia.
In questo medesimo tratto ritroviamo la più antica delle virtù filosofiche, e al tempo stesso il peccato originale della filosofia: di volta in volta la si esalta o condanna per la sua pretesa di reggersi da sé, e di giustificarsi con le sue proprie forze, differenziandosi così una volta per tutte da quelle altre discipline che piuttosto devono cercare fuori dai propri confini – nella filosofia, appunto – la propria legittimità.
Nell'ambito di questa rubrica non pretendiamo di affrontare tale annosa questione, che proseguirà probabilmente in eterno accompagnando ogni successivo sviluppo del pensiero filosofico, dal momento che, come Arthur Danto ricorda all'inizio del terzo capitolo del suo best-seller filosofico La trasfigurazione del banale il rapporto simbiotico fra la filosofia e quello che essa prende ad oggetto è tale da far procedere simultaneamente la cognizione che la filosofia ha del suo oggetto e quella che essa ha di se stessa, dimodoché ogni filosofia è anche istantaneamente una metafilosofia.
Non possiamo fare a meno di rimandare a questa peculiare e centralissima circolarità filosofica, tuttavia, per introdurre un tema differente, ben più periferico e “terra terra” rispetto all'ambito più o meno definito del pensiero filosofico ufficiale, vale a dire quello dell'utilizzo “volgare” del termine filosofia.
Succede infatti sempre più spesso di sentir parlare di filosofia fuori dall'ambito della filosofia propriamente detta. Non è raro infatti che, in ogni ambito del discorso pubblico che agglutina e rende indistinguibili informazione e spettacolo, qualcuno enunci la “sua filosofia”. Dal conduttore televisivo la cui filosofia è “riportare i fatti” alla grande azienda la cui filosofia è incentrata sul rispetto dell'ambiente o del consumatore, allo sportivo la cui filosofia è non arrendersi mai e non farsi scoraggiare dalle avversità, l'utilizzo del termine filosofia sembra aver subito una sorta di diaspora: lo si trova ora associato a delle massime di natura etica, ora all'enunciazione di precauzioni metodologiche, ora all'espressione di obiettivi esistenziali, o ancora a “pillole di saggezza” delle quali si rivendica una autenticità che fa il paio con l'efficacia pragmatica.
La tentazione del filosofo professionista, di fronte al proliferare delle filosofie aziendali, delle filosofie di vita e così via, è quella di derubricare tali occorrenze a un uso improprio o scorretto del termine: dopo tutto, anche se in una forma meno netta di quella delle scienze hard, anche i filosofi possono rivendicare un linguaggio tecnico, e nulla vieta di pensare che in filosofia il termine “filosofia” si usi appunto in senso tecnico, vale a dire meno “alla leggera” e in un'accezione differente, più o meno come in fisica il termine “forza” significa qualcosa di molto diverso da ciò che il termine significa nell'uso quotidiano.
Tali osservazioni, benché siano senz'altro corrette, non ci mettono tuttavia al riparo da una ulteriore riflessione. A ben guardare, infatti, ognuna delle accezioni nelle quali oggi si parla di “filosofia” porta con sé un frammento del significato del termine preso nel suo habitat naturale. Nel corso dei secoli infatti la filosofia ha inteso davvero sviluppare un'etica, proporre una disciplina del linguaggio e dell'azione, interpretare la condizione umana e fornire strumenti per affrontare l'esistenza. Se tuttavia possiamo dunque notare una essenziale concordanza nello scopo fra La filosofia, quella che si studia nelle università, e le filosofie di cui ciascuno si fa portatore, dobbiamo anche rilevare un diverso statuto e soprattutto un diverso modo di giustificazione. Se infatti del carattere essenziale della filosofia fa parte, come abbiamo ricordato, quella caratteristica secondo la quale essa deve giustificare secondo la sua propria razionalità sia i suoi scopi che i suoi procedimenti, i succedanei filosofici che si disseminano come un'eco nella semiosfera che ci circonda non hanno alcuna pretesa del genere. Ciò che gli manca, ciò che soprattutto li distingue dalla filosofia propriamente detta, è non solo e non tanto una mancanza di precisione e di consapevolezza storica, una maggiore ingenuità, ma soprattutto il fatto che esse non devono legittimare se stesse razionalmente. La questione delle condizioni di possibilità e dell'origine dei valori e dei principi che propongono non si pone: agli annosi interrogativi filosofici sulla verità e la vita si fa fronte con uno stile che è quantomai antifilosofico.
Che cosa legittima dunque i filosofemi che riempiono l'aria e l'etere, se li si esime dal dovere filosofico essenziale di giustificare se stessi? Cosa rimane di una filosofia dalla quale è stata completamente espunta la critica e il discorso sul fondamento? Benché formulare una risposta definitiva a questa domanda sia ancora azzardato, possiamo tuttavia proporre un'ipotesi plausibile: per occupare oggi, in questo tempo dominato dal mito dell'efficacia e della prestazione, il posto del filosofo, bisogna essere dotati non della capacità di fondare razionalmente il corso della propria azione, ma del sacro segno del successo. È a coloro che si distinguono – non importa se nello sport o negli affari, nella carriera politica o nell'invenzione di un prodotto di successo – che la coscienza contemporanea chiede lumi sul suo posto nel mondo, ponendo sempre le solite domande, le stesse alle quali Kant cercava risposta: “Cosa debbo fare? Cosa mi è lecito sperare?”
In definitiva, se tale ipotesi ha qualche plausibilità, il filosofo di professione ha ben ragione di temere, né può trovare conforto nella sciatteria filosofica dei contenuti proposti sotto il nome variamente declinato di filosofia. Tali contenuti rispondono essenzialmente alle stesse questioni che spettano alla filosofia, né devono prendersi la briga di essere giustificati: a giustificarli basterà la posizione – di potere, fama o successo – dalla quale sono pronunciati.
Il cosiddetto “principio dell'handicap”, elaborato per la prima volta dal biologo Amotz Zahavi nasce per rendere coerenti con la teoria dell'evoluzione alcuni caratteri delle specie viventi che sembrano del tutto ingiustificati, ovvero non presentano alcun vantaggio evolutivo per la specie che li sviluppa. L'esempio classico è quello della coda del pavone: essa è piumata, visibile, ma anche ingombrante, tale da rendere difficile sia lo spostamento che la mimetizzazione.
I pavoni con la coda più grande, ingombrante e difficile da gestire, tuttavia, a dispetto dell'impraticità, risultano spesso anche i più apprezzati dagli esemplari femmina della stessa specie. La spiegazione addotta da Zahavi si basa sul fatto che la coda rappresenta un “segnale onesto”, ovvero che proprio le difficoltà aggiuntive poste alla sopravvivenza del pavone superdotato “dicono” alla femmina che egli dispone di buona salute, e che è tanto forte, veloce e intelligente da compensare la scomodità della coda. Nel caso dello stotting delle gazzelle – un tipo di corsa lenta, nella quale si compiono tuttavia salti notevoli – l'handicap serve da segnale ai predatori: ad essere cacciate saranno le gazzelle che saltano meno in alto, dimostrando una capacità di fuga inferiore. Fortunatamente, tali comportamenti appartenenti al regno animale non sono propri dell'uomo, che attraverso le forme superiori del pensiero razionale ha superato la necessità di impelagarsi in comportamenti improduttivi, fastidiosi, dolorosi e rischiosi solo per dimostrare qualcosa (che in genere è il proprio valore riproduttivo). Oppure no? In effetti, forse, estendendo il principio di handicap all'analisi dei comportamenti umani, potremmo trovare che esso è tutt'altro che fuori luogo, e anzi si applica egregiamente in tutta una serie di casi che trovano difficilmente una spiegazione altrimenti.
Si potrebbe argomentare che il principio di handicap è molto vicino al concetto di “lusso”. I vestiti di lusso, le auto di lusso, i palazzi di lusso, le cose di lusso hanno costi esorbitanti e spesso una efficienza minima (basti pensare alla immane scomodità di guidare un SUV in città). Anzi, spesso la loro significatività sta proprio nella immane quantità di denaro speso per procurarseli, denaro che parla di altro denaro, che ci rassicura sul fatto che quella persona alla guida del SUV non ha né avrà problemi economici. Oltre al concetto di lusso, si può riportare il principio di handicap a una serie di accessori e comportamenti femminili. Forse che camminare su un paio di tacchi è più facile, più comodo che farne a meno? Il principio di handicap applicato alla moda femminile potrebbe forse fornire più d'una elucidazione. È interessante notare anche, a tal proposito, che la moda maschile ha fatto a sua volta la sua comparsa (con i suoi spiacevoli e scomodi effetti) proprio nel momento in cui la scelta del partner smetteva di dipendere esclusivamente dall'uomo – secondo la regola tradizionalmente invalsa nelle culture patriarcali – e cominciava a riguardare anche l'universo femminile.
Ma non dobbiamo limitarci a guardare lontano da noi stessi, per rintracciare il lavorìo incessante del principio di handicap. Esso, lungi dal presentarsi solo nei luoghi più riparati e lontani dalla razionalità, come un riflesso vestigiale dell'evoluzione che ci riguarda solo in quanto residuo istintuale, pre-razionale, può essere ritrovato nell'attività squisitamente accademica della stesura di bibliografie ipertrofiche impressionanti, sovradimensionate, faticosissime a mettersi insieme. Oppure nell'ostentazione di conoscenze enciclopediche. O ancora nella proliferazione di cautele metodiche meticolose fino all'ossessione compulsiva. La nostra risposta a tali bizzarrie dell'intelletto, che sconfinano talvolta nel vizio vero e proprio, è quella di considerarli segni di intelligenza. Ma stiano in guardia gli studiosi, soprattutto quelli giovani e inesperti, quando valutano se imitare o meno questi stili di scrittura e di pensiero: a volte l'intelligenza e il genio si annuncia tramite tali bizzarrie proprio perché occorre intelligenza e quasi genio per produrre qualcosa di sensato o valevole nonostante tali difetti.
Dopotutto, se fare filosofia può dirsi talvolta un lusso, ci piace pensare che oltre all'immenso piacere di leggere, scrivere, ascoltare e dibattere di idee e sistemi ci sia qualcosa di più profondamente necessario che si fa, facendo della filosofia, e a volte nonostante il fatto di stare facendo della filosofia. (Ma se potessi scriverlo in otto parole in coda a questo intervento a cosa servirebbero le istituzioni?)