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Dopo aver intrapreso una carriera come geografo, poi come funzionario pubblico sulla scala locale, poi come attivista politico, Alan Taylor si è avvicinato alla musica soltanto verso la metà della sua vita e da allora ha conseguito un dottorato di ricerca sul tema dell’immaginazione musicale. È inoltre un musicista dall’attività vivace: conduce due ensemble, si esibisce regolarmente e dirige il Festival musicale di Herne Hill. Questo percorso eterogeneo e multiforme gli permette di adottare una prospettiva molto particolare sui temi dell’invenzione musicale e della creazione artistica collettiva, realtà che l’autore conosce per averne fatto l’esperienza diretta, al di là della riflessione teorica.

In The Imagination of Experiences, Taylor comincia con l’esaminare il mito del genio, concepito in questo contesto come un’ideologia capace di influenzare sia il pubblico sia i musicisti. Si tratta di un retaggio dell’epoca romantica, quando figure come Liszt o Chopin, ma anche, retrospettivamente, Mozart o Beethoven, furono erette come paradigmi del creatore solitario, capace di produrre senza sforzo grandi opere d’arte, eccezionale nell’intelligenza e nel talento (Berstein, 1998, pp. 59-81). Taylor sottolinea come certi aspetti del modo in cui funziona l’immaginazione possono indurre gli artisti a credere che le loro idee scaturiscano esclusivamente dalla loro mente, e a iscriversi quindi in una concezione della creazione che deriva direttamente dal topos del genio romantico. Tuttavia, l’intenzione dell’autore è di prendere in contropiede questa tendenza, evidenziando che la pratica compositiva è spesso collaborativa e non corrisponde affatto all’idealizzazione del creatore solitario. Inoltre, un corollario di questa illusione è che la musica d’arte occidentale sia concepita come una raccolta di opere singolari ed irriducibili, figlie proprio di un processo di creazione inconoscibile poiché legato alla mente eccezionale di un personaggio geniale (Kanga, 2014, p. 155). Anche questo aspetto è contestato da Taylor, che osserva come esso sia legato a un momento specifico della storia della musica, e che non si possa quindi applicarlo tale e quale alla musica di altri periodi, senza contare che non corrisponde davvero alla realtà empirica della musica eseguita.

Una volta presa posizione in questo senso, Taylor illustra tre caratteristiche principali del processo immaginativo (p. 25): 1) le idee emergono dalle interazioni tra le numerose influenze assorbite dall’individuo, e sono quindi naturalmente complesse; 2) l’immaginazione dipende e viene provocata dal coinvolgimento con la società e con l’ambiente circostante; 3) le idee appaiono nella mente cosciente come dal nulla, dopo una riflessione nel subconscio. Questa terza caratteristica è dunque la ragione della persistenza del mito del genio romantico, che trova così riscontro nell’esperienza creativa individuale. Per quanto riguarda invece la seconda caratteristica, la sua manifestazione più elementare è l’interazione con i mezzi e gli oggetti fisici necessari all’attività musicale, che si tratti di immaginarli per comporre o di usarli per suonare. In questo contesto, scrive Taylor, l’immaginazione è inestricabilmente legata al corpo (p. 38), secondo il quadro proposto da Marc Leman (2008): partendo dal presupposto che il corpo svolge un ruolo centrale in tutte le attività musicali e basando il suo approccio su un’ipotesi di relazione tra l’esperienza della percezione musicale e la materia sonora, questi sostiene che il corpo umano è un intermediario capace di trasferire il suono fisico a un livello mentale e, invertendo il processo, di trasferire la rappresentazione mentale in forma materiale.

Taylor distingue inoltre tra due attività immaginative separate: il sopravvenire di un’idea e la scelta di una collocazione o di un uso per quest’idea (p. 44). Si può quindi rilevare una differenza tra un momento generativo e un momento valutativo nel processo di immaginazione.

Dopo aver descritto la natura dell’immaginazione creativa, l’autore presenta poi la questione della collaborazione artistica e della condivisione del lavoro immaginativo, e più precisamente di come sia possibile condividere il processo di elaborazione subconscia per gli artisti che lavorano insieme (p. 54). Si fa dunque sensibile la necessità di una comunicazione efficace, nel riconoscimento dei limiti reciproci. Come si esprime il compositore statunitense John Adams: «La collaborazione artistica non è mai facile. […] Si tratta forse della cosa più dolorosa che due persone possano fare insieme» (2008, p. 220). In un tentativo di schematizzazione, Taylor suddivide le modalità cooperative possibili in una relazione di creazione artistica in due casi esemplari (p. 61): il primo, quando esiste un progetto o uno schema concordato, magari già prodotto in collaborazione, e i partner apportano i loro contributi in modo separato ma paritario; e, il secondo, quando i partner lavorano fianco a fianco sui loro contributi rispettivi, condividendo le decisioni man mano che procedono. Nel primo caso, si può parlare di cooperazione pre-pianificata, mentre per il secondo è più opportuno parlare di cooperazione interattiva. Questa distinzione non riguarda soltanto le circostanze della condivisione del lavoro immaginativo, ma anche il modo in cui questa viene vissuta. Inoltre, come si è detto, la condivisione del lavoro immaginativo dipende dalla capacità di comunicazione degli artisti coinvolti, e Taylor sottolinea il bisogno di un linguaggio conveniente per assicurare una comunicazione capace di produrre i risultati voluti (p. 67). Tuttavia, sarebbe erroneo presupporre che questo linguaggio debba essere di natura verbale: gli improvvisatori jazz comunicano attraverso l’ascolto e l’impiego di materiale musicale in un idioma familiare, e i ballerini possono comunicare attraverso il movimento. 

In un secondo tempo, Taylor si interroga infine sui processi di creazione del significato musicale e l’immaginazione che viene quindi indagata in questo momento non è più quella del compositore, ma quella dell’ascoltatore. La prima preoccupazione dell’autore in questo frangente è la distinzione tra il significato musicale e l’emozione musicale (p. 76): quest’ultima sarebbe il senso di emozione o di significato non specificato e forse non precisabile provocato da un brano musicale, mentre il primo sarebbe invece il tentativo di verbalizzazione di questo senso. In effetti, la verbalizzazione è una fase necessaria per lo studio di quel senso non ancora determinato che Taylor identifica con l’emozione musicale e, se questa è forse condivisa tra ascoltatori diversi, è molto probabile che resoconti dettagliati delle impressioni prodotte dallo stesso brano possano differire drasticamente da un ascoltatore all’altro (cfr. Downey 1897, pp. 63-69; e Nattiez, 1990, pp. 244-246). L’autore riporta inoltre un’esperienza originale e interessante, in cui ha studiato la percezione da parte del pubblico di due dei suoi propri brani (2020). L’esperimento gli ha permesso di constatare che, sebbene il pubblico abbia descritto una varietà di significati più o meno collegati al carattere generale dei brani come era stato immaginato dal compositore, le loro risposte condividevano due caratteristiche: erano molto più elaborate rispetto allo stadio di elaborazione immaginativa a cui il compositore era giunto durante il processo creativo, e descrivevano comprensioni contrastanti dei brani. Per questa ragione, sembra più probabile che i membri del pubblico creino dei significati individuali a partire dalla loro esperienza della musica, piuttosto che decodificando dei significati che la musica comunicherebbe in maniera inequivocabile.

Anche nel caso dell’immaginazione ricettiva, e non creativa, il ruolo del corpo non è irrilevante (cfr. Juslin et al., 2011). Anzi, come viene evidenziato da Taylor, poiché la cognizione della musica dipende da meccanismi di reazione tra cervello e corpo, si può spiegare perché la musica è percepita come significativa in relazione all’esperienza pregressa. Infatti, il coinvolgimento corporeo porta a percepire delle somiglianze tra la musica e le esperienze anteriori che hanno provocato sensazioni simili, e a costruire quindi il significato della prima sulla base di analogie con queste ultime (pp. 89-90). Riassumendo, questo processo può essere razionalizzato in tre fasi (p. 95): 1) la musica viene ascoltata e le aree motorie e sensoriali del cervello registrano gli stimoli acustici e di movimento grazie a un meccanismo di reazione tra cervello e corpo; 2) le aree semantiche e cognitive del cervello sono convocate nel processo di creazione del senso; 3) qualsiasi senso di comprensione degli stimoli musicali deriverà dall’esperienza pregressa dell’ascoltatore. L’implicazione è quindi che il processo di percezione dei significati musicali attraverso l’analogia è probabilmente involontario, almeno in una certa misura.

In conclusione, in The Imagination of Experiences, Taylor asserisce dunque contro il mito del genio solitario che l’immaginazione musicale è una capacità posseduta da tutti, e si posiziona in questo senso nella scia di alcune ricerche recenti che sostengono l’universalità della musica in tutte le culture umane e il ruolo importante che questa avrebbe svolto da un punto di vista evolutivo (Mithen, 2005). Recentemente, per esempio, partendo dai Neanderthal e dai primi sapiens, il musicologo Gary Tomlinson ha descritto le conquiste incrementali che hanno gettato le basi di comportamenti musicali più prossimi ai tempi odierni, modificando la comunicazione e l’organizzazione delle società umane (2015). Tuttavia, tornando a The Imagination of Experiences, il fatto che l’immaginazione musicale sia radicata nel subconscio è un ostacolo rispetto alle possibilità di condivisione dei processi immaginativi quando gli artisti si trovano a lavorare insieme. Inoltre, un’altra conseguenza significativa di questa circostanza è che i significati musicali non sono comunicati direttamente dai compositori agli ascoltatori.

Lucia Pasini

Bibliografia

Adams, J. (2008). Hallelujah Junction. Composing an American Life. New York, NY: Faber and Faber.

Bernstein, S. (1998). Virtuosity of the Nineteenth Century: Performing Music and Language in Heine, Liszt and Baudelaire. Redwood City, CA: Stanford University Press.

Downey, J.E. (1897). A Musical Experiment. The American Journal of Psychology, 9 (1), 63-9.

Juslin, P.N., Liljeström, S., Västfjäll, D., Lundqvist, L.-O. (2011). How Does Music Evoke Emotions? Exploring the Underlying Mechanisms. In P.N. Juslin e J.A. Sloboda (a cura di), Handbook of Music and Emotion: Theory, Research, Applications (605-42). Oxford: Oxford University Press.

Kanga, Z.R. (2014). Inside the Collaborative Process: Realising New Works for Piano. Tesi di dottorato inedita, Royal Academy of Music, Londra, Regno Unito.

Leman, M. (2008). Embodied Music Cognition and Mediation Technology. Cambridge, MA: MIT Press.

Mithen, S. (2005). The Singing Neanderthals. The Origins of Music, Language, Mind and Body. Londra: Weidenfeld & Nicolson.

Nattiez, J.-J. (1990). Can One Speak of Narrativity in Music? Journal of the Royal Musical Association, 115, 240-57.

Taylor, A. (2020). Death of the Composer? Meaning Making from Musical Performance. Music & Practice, 6.Tomlinson, G. (2015). A Million Years of Music. The Emergence of Human Modernity. New York, NY: Zone Books.

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