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Analogia

L’analogia accompagna la storia della filosofia sin dai suoi albori[1]. Questa nozione viene elaborata nel contesto della riflessione matematica greca, in particolare da autori come Euclide ed Eudosso di Cnido, i quali la caratterizzano come un’uguaglianza di rapporti quantitativi, cioè una proporzione per cui A : B = C : D. Nella riflessione filosofica è utilizzata già da Platone, che nel Timeo la definisce “il più bello dei legami” (Plato, Tymaeus 31c) e nella Repubblica delinea la celebre analogia tra il Sole e l’Idea del Bene (Plato, Respublica 508d). Ben presente anche nella riflessione degli Accademici successivi, in particolare Speusippo, essa viene ripresa da Aristotele, che più di tutti ne fa un uso ampio e trasversale, applicandola ai diversi ambiti della sua speculazione filosofica e scientifica. A dispetto delle numerose occorrenze di questo termine negli scritti aristotelici, lo Stagirita ne fornisce una esplicita definizione soltanto in poche occasioni. Ad esempio, nella Poetica, dopo aver menzionato la metafora per analogia, spiega: «per analogia dico quando sono in uguale rapporto il secondo elemento con il primo e il quarto con il terzo. Si dirà allora il quarto per il secondo o il secondo per il quarto» (Aristoteles, Poetica, 21, 57b 16-33.). Nell’Etica Nicomachea, nel presentare il giusto come qualcosa che si stabilisce per mezzo di un’analogia, Aristotele afferma che questa costituisce «un’uguaglianza di rapporti, e si ha tra almeno quattro termini» (Aristoteles., Ethica Nicomachea, V, 6, 1131a 30 – 31). Infatti la giustizia, in modo particolare quella distributiva, si realizza nell’uguaglianza proporzionale tra le persone coinvolte e i beni assegnati. Ancora, nelle opere biologiche si fa un largo uso dell’analogia, intesa soprattutto come identità di funzione tra i termini considerati, al fine di istituire connessioni utili alla comprensione del mondo vegetale e animale: 

Intendo per analogia che alcuni animali hanno il polmone, altri non hanno il polmone ma un altro organo che sostituisce la funzione svolta dal polmone negli animali che lo possiedono; ancora, alcuni hanno il sangue, altri qualche cosa di analogo che possiede le stesse proprietà presentate dal sangue negli animali sanguigni (Id., De partibus animalium, I, 5, 645b 6-1).

L’analogia viene chiamata in causa anche in alcuni importanti passi della Metafisica. Nel libro V, trattando dell’uno per sé, Aristotele distingue livelli diversi di unità: per numero, specie, genere e analogia. Quest’ultima è definita come la relazione per cui questo sta a quello come altro sta ad altro, ed è presentata come il tipo più ampio e debole di unità, l’unico in grado di oltrepassare le distinzioni tra le categorie e così abbracciare la totalità dell’essere (Aristoteles, Metaphysica, V, 6, 1016b 30-35). Nel libro IX si afferma esplicitamente che le nozioni di potenza e atto, per via della loro generalità e del loro carattere fondativo, non possono essere definite, ma possono essere comprese soltanto mediante l’analogia. Infatti, è possibile dire che l’atto sta alla potenza come chi costruisce sta a chi può costruire, chi è sveglio a chi dorme, chi vede a chi ha gli occhi chiusi pur avendo la vista. Di conseguenza, tutte le cose si dicono in atto non nello stesso modo, ma solo per analogia: «come questo sta in questo o rispetto a questo, così quest’altro sta in quello o rispetto a quello» (Aristoteles, Metaphysica, IX, 6, 1048b 7-8). Alcune cose sono dette atto in quanto movimento rispetto alla quiete, altre come forma rispetto a una certa materia: stati diversi che però condividono il fatto di attualizzare in un determinato modo una potenza. Il libro XII, poi, contiene la famosa dottrina secondo la quale tutti gli enti in un certo senso possiedono i medesimi princìpi, mentre in un altro senso no. Quello che Aristotele intende dire è che tutti gli enti possiedono gli stessi princìpi non secondo il numero, come sostenevano i platonici, bensì soltanto per analogia, nella misura in cui enti diversi hanno princìpi diversi, i quali però svolgono la medesima funzione. Per ogni ente è infatti possibile individuare qualcosa di corrispondente al sostrato, alla privazione, alla forma e alla causa motrice, senza che questi siano numericamente identici per tutte le cose (Aristoteles, Metaphysica, XII, 4, 1070a 30 – 1070b 35).

Questa veloce panoramica ci consente di capire quanto sia pervasiva la presenza dell’analogia nel pensiero aristotelico: questa viene impiegata come una modalità di ragionamento duttile, dinamica, adattabile a contesti diversi e dalla spiccata capacità euristica. Aristotele mantiene comunque sempre fermo il nucleo di fondo della sua concezione dell’analogia, cioè l’idea che si tratti di una relazione che coinvolge due coppie di termini, delle quali si stabilisce l’uguaglianza (quantitativa o qualitativa) di rapporto. La tradizione successiva, tuttavia, finirà con l’attribuire ad Aristotele una concezione molto più ampia dell’analogia, facendovi rientrare anche la situazione descritta in un altro passo della Metafisica, uno dei più celebri dell’opera.

All’inizio del quarto libro Aristotele esordisce affermando che esiste una scienza che studia l’essere in quanto essere. Infatti, benché questo si dica in molti modi, tutti questi sono riferiti a un’unica natura, cioè alla sostanza. Tale relazione pros hen (letteralmente: “verso un’unica cosa”), cioè il riferimento costitutivo alla sostanza che tutte le categorie presentano, è ciò che conferisce all’essere, nonostante la dispersione dei modi in cui si manifesta, quel grado minimo di unità sufficiente a farne oggetto di scienza.

La tradizione esegetica successiva, nel tentativo di fornire una versione il più possibile sistematica del pensiero dello Stagirita, ha riservato un’attenzione particolare al primo paragrafo delle Categorie, dove vengono distinte le cose omonime (aventi lo stesso nome e una definizione diversa, come “animale” detto di un uomo e di un dipinto)[2], quelle sinonime (aventi lo stesso nome e la medesima definizione, come “animale” detto di un uomo e di un bue)[3] e quelle paronime (il cui nome deriva da un altro attraverso la modifica della terminazione, come “grammatico” da “grammatica”). Soprattutto a partire da Porfirio, i commentatori hanno cercato di comporre le indicazioni sparse nel corpus aristotelico circa i diversi tipi di relazione per elaborare una griglia esaustiva, che in seguito Severino Boezio, traducendo e commentando le Categorie, ha contribuito in modo determinante a diffondere nell’Occidente latino medievale:

All’interno di questa griglia è importante osservare principalmente due cose. Innanzitutto, viene sviluppata una suddivisione interna all’omonimia, per cui si distingue l’omonimia casuale (non c’è alcun legame tra l’attribuzione del nome e la definizione della cosa nominata) e quella razionale (c’è un certo legame tra l’attribuzione del nome e la definizione della cosa nominata). Tra i tipi di omonimia razionale compaiono sia l’analogia (cioè la proporzione, ad esempio quella in virtù di cui l’unità e il punto sono entrambi princìpi, rispettivamente del numero e della superficie), sia la relazione pros hen, che esprime il riferimento di tutte le categorie alla sostanza. In secondo luogo, la paronimia comincia a essere interpretata non soltanto come una relazione di tipo grammaticale (così come la intendeva Aristotele), ma, platonicamente, anche come una relazione di partecipazione reale, in virtù di cui, ad esempio, il coraggioso può essere detto tale nella misura in cui partecipa del coraggio.

Le varie riproposizioni e riformulazioni di questo schema avanzate dai commentatori greci tardo-antichi e dai filosofi arabi hanno prodotto, nel lungo periodo, una sovrapposizione tra tipi di relazione che in origine erano distinti: la relazione pros hen e la paronimia finiscono per fondersi, andando a occupare contemporaneamente una collocazione intermedia rispetto alle altre, e in riferimento a esse si comincia a utilizzare il lessico dell’analogia. Questo fatto viene registrato puntualmente nel Liber de praedicabilibus, trattato di logica composto da Alberto Magno:

Analoghi sono i termini che convengono proporzionalmente, come dicono gli arabi: sono intermedi tra gli univoci e gli equivoci e sono imposti a cose diverse nell’essere e nella sostanza in virtù del riferimento a un’unica cosa alla quale essi sono proporzionati (Albertus Magnus, Liber de praedicabilibus, I, 5).

Dalla tradizione araba gli europei ricavano quindi una nuova classe di termini, che non compariva come tale nella griglia elaborata da Porfirio e trasmessa da Boezio. I termini analogici sono presentati come intermedi tra quelli univoci (che Aristotele chiamava sinonimi) e quelli equivoci (omonimi), nella misura in cui sono meno rigidi dei primi e, rispetto ai secondi, garantiscono un grado minimo di unità e coerenza del discorso. I termini analogici sono utilizzati nelle situazioni in cui si riscontra un ordine di anteriorità e posteriorità nelle realtà nominate, dove perciò non è possibile ricorrere alla predicazione univoca. Questo è il caso dell’essere: dal momento che, aristotelicamente, si dice in molti modi, senza che questi possano essere risolti in una forma superiore di unità che li ricomprenda tutti, occorre spiegare in che modo l’essere conservi un certo grado di unità e in che senso sia la sostanza sia le altre categorie possono essere chiamate “enti” nonostante la superiorità della prima, dalla quale le altre dipendono quanto alla loro esistenza. Se Aristotele, come abbiamo visto, aveva giustificato l’unità dell’essere introducendo, nel IV libro della Metafisica, la relazione pros hen, i medievali cominceranno ad affermare che l’essere praedicatur analogice, si predica analogicamente. Oltre a questa applicazione ontologica, l’analogia si afferma anche come strumento fondamentale in teologia. A partire da una tradizione neoplatonica che ha in Proclo il suo punto di riferimento (e che si diffonde in ambito cristiano grazie agli scritti dello pseudo-Dionigi Aeropagita e in ambito islamico grazie al Liber de causis[4]), l’analogia viene impiegata anche per descrivere il modo in cui l’essere e le varie perfezioni vengono comunicate dalla Causa Prima a tutta la creazione proporzionalmente alla capacità recettiva di ogni ente, cioè alla sua maggiore o minore eminenza. 

In conformità con questo duplice campo di applicazione, Tommaso d’Aquino è solito introdurre l’analogia distinguendone due accezioni principali: 

il Creatore e la creatura si riconducono in unità non per una comunanza di univocità, bensì di analogia. Tale comunanza, però, può essere di due tipi: quello per cui alcune cose partecipano di alcunché di unico secondo anteriorità e posteriorità, come la potenza e l’atto partecipano della nozione di ente, e similmente la sostanza e l’accidente; oppure quello per cui un’unica cosa riceve dall’altra l’essere e la nozione, e tale è l’analogia che intercorre tra la creatura e il Creatore (Thomas De Aquino, Scriptum super I Sententiarum, Prologus, q.1, art. 2, ad 2.).

Tommaso è l’autore di solito accostato più strettamente all’analogia dell’essere, ma bisogna tenere presente che l’espressione analogia entis non compare mai nei suoi scritti. Egli chiama in causa l’analogia occasionalmente, in varie opere, presentandola di volta in volta in modo leggermente diverso in funzione del problema specifico che sta affrontando. Nella maggior parte dei casi, l’Aquinate se ne serve in un contesto teologico, al fine di precisare quale tipo di analogia ci consenta di attribuire a Dio l’essere, la bontà, la giustizia e altri attributi essenziali a partire dal modo in cui li sperimentiamo nelle creature. Nel corpus thomisticum coesistono perciò diverse formulazioni dell’analogia, che hanno posto gli interpreti di fronte alla difficoltà di capire se al riguardo esista effettivamente una dottrina tommasiana ufficiale, e se sì, quale sia. A prescindere da questo annoso problema, è possibile osservare che il maestro domenicano distingue spesso tra analogia duorum ad tertium (di due cose a una terza) e analogia unius ad alterum (di una cosa all’altra): la prima descrive il diverso rapportarsi di due cose a qualcosa di anteriore a entrambe, come quello della sostanza e dell’accidente alla ratio entis; la seconda descrive il rapporto esclusivo di una cosa verso ciò da cui dipende, come avviene per la creatura nei confronti del Creatore. Un’altra distinzione rilevante, che assume un’importanza preponderante all’interno della tradizione tomista successiva, è quella tra analogia di attribuzione (o proporzione) e analogia di proporzionalità. In realtà, questa terminologia non è strettamente tommasiana, ma deriva dall’opuscolo De nominum analogia composto dal commentatore tomista rinascimentale Tommaso De Vio, detto il Gaetano, che per secoli è stato considerato come la presentazione ufficiale della dottrina tommasiana dell’analogia. L’analogia di attribuzione descrive il fatto che tante realtà diverse sono tutte in relazione a un’unica e medesima natura, da cui dipendono; quella di proporzionalità mette in risalto l’identità di rapporto tra coppie diverse[5]. La prima è la relazione pros hen aristotelica, sovrapposta al movimento neoplatonico di exitus e reditus della creazione rispetto alla Causa Prima, che esprime il possesso, da parte delle creature, delle varie perfezioni (essere, bontà, sapienza etc.) pre-contenute in maniera sovraeminente in Dio; la seconda corrisponde al senso originale dell’ἀναλογία aristotelica. Entrambi questi significati, per Tommaso, costituiscono un tipo di analogia: 

Costituiscono un’unità per proporzione o analogia tutte le cose che convengono nel fatto che questa sta a quella come una cosa sta a un’altra. Questo, poi, si può intendere in due modi: o nel senso che due cose presentano relazioni diverse a un’unica cosa, come “sanativo” detto dell’urina significa la relazione di segno della salute, mentre è detto della medicina perché significa la relazione di causa rispetto alla stessa. Oppure nel senso per cui si dà un medesimo rapporto tra due cose e cose diverse, come quello della calma rispetto al mare e del sereno rispetto all’aria: infatti la calma è la quiete del mare, il sereno quella dell’aria (Thomas De Aquino, In XII libros Metaphysicorum Aristotelis Expositio, V, lec. 8, par. 879).

La tradizione tomista attribuirà grande importanza al ruolo svolto dall’analogia all’interno del pensiero dell’Aquinate, dando luogo a un dibattito interno, giunto sino ai giorni nostri, circa la superiorità dell’analogia di attribuzione o di quella di proporzionalità[6]. L’analogia in Tommaso è stata a lungo considerata un elemento perfettamente coerente con l’impianto aristotelico del suo pensiero, tanto che si è parlato di “dottrina aristotelico-tomista dell’analogia”. A partire dalla metà del secolo scorso, gli studiosi hanno messo in discussione questo assunto, soprattutto con l’obiettivo di tornare a una lettura diretta di Aristotele senza alcuna mediazione tomistica. Nel far questo, si è cominciato a valorizzare anche la tradizione esegetica antica, tardo antica e medievale araba, al fine di reperire quali slittamenti terminologici e concettuali abbiano reso possibile il progressivo costituirsi di quella che noi oggi conosciamo come la dottrina dell’analogia dell’essere.

di Giovanni Gambi


[1] Per una panoramica generale dei testi relativi alla filosofia antica e medievale e per la bibliografia rimando a G. Catapano, C. Martini, R. Salis (2020).

[2] Il termine zoon in greco significa sia “animale” sia “dipinto”, “ritratto”.

[3] L’uomo e il bue sono specie del genere animale, per cui ad essi il predicato “animale” si applica con lo stesso significato.

[4] Il libro del filosofo Aristotele sull’esposizione del Bene puro, sintesi sincretistica realizzata nel IX secolo nel circolo di al-Kindī sulla base degliElementi di Teologia di Proclo, conoscerà una larghissima diffusione in Europa a partire dal XIII secolo con il titolo di Liber de Causis.

[5] In Quaestiones disputatae de veritate, q. 2, art. 11, Resp. Tommaso distingue tra convenientia proportionis e convenientia proportionalitatis; in Summa theologiae, Pars I, q. 13, a. 5, Resp. distingue l’analogia per cui multa habent proportionem ad unum e quella per cui unum habet proportionem ad alterum.

[6] Per un veloce riepilogo delle posizioni sostenute in questo dibattito cfr. A. Donato, Il ruolo dell’analogia di attribuzione e di proporzionalità nella dottrina dell’Essere di Tommaso d’Aquino, «Medioevo. Rivista di storia della filosofia medievale», 28 (2003), pp. 163-190; spec. pp. 163-171.

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Bibliografia

Albertus Magnus, Liber de praedicabilibus.

Aristoteles, De partibus animalium.

Id., Ethica Nicomachea

Id., Metaphysica.

Id., Poetica.

Id., Respublica.

G. Catapano, C. Martini, R. Salis (a cura di), L’analogia dell’essere. Testi antichi e medievali, Padova University Press, Padova 2020.

A. Donato, Il ruolo dell’analogia di attribuzione e di proporzionalità nella dottrina dell’Essere di Tommaso d’Aquino, «Medioevo. Rivista di storia della filosofia medievale», 28 (2003), pp. 163-190.

Plato, Timæus.

Thomas De Aquinas, Quaestiones disputatae de veritate.

Id., Scriptum super I Sententiarum.

Id., Summa theologiae.

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