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Philosophy Kitchen

Il libro di Silvia Caprioglio Panizza The Ethics of Attention. Engaging the Real with Iris Murdoch and Simone Weil (2022) ci fa innanzitutto interrogare sulle nostre modalità di interazione col mondo. Secondo l'autrice, esiste un modo di relazionarsi "bene" con la realtà, e questo modo passa inevitabilmente attraverso l'attenzione, un concetto a cui sia Simone Weil che Iris Murdoch hanno dedicato un posto d’onore all’interno delle loro riflessioni sulla morale. Il libro ha molti meriti: in primo luogo, rilancia la centralità dell'attenzione in campo morale entrando in un dialogo dinamico e affascinante con Murdoch e Weil, il quale viene arricchito ulteriormente da rimandi alla letteratura psicologica contemporanea, nonché a concetti appartenenti alla tradizione del Buddismo zen. In secondo luogo, offre un'esplorazione avvincente e scrupolosa del ruolo che l'attenzione può svolgere quando si tratta di destreggiarsi tra questioni etiche attuali e oltremodo scomode, come la maniera in cui trattiamo gli animali e i venditori ambulanti. Il fil rouge che connette i capitoli è una sorta di magnetismo della verità, della realtà così com'è indipendentemente da noi e dalle nostre preoccupazioni; nel prendere sul serio questo magnetismo, il libro di Caprioglio Panizza è allo stesso tempo stimolante dal punto di vista teorico ed estremamente pratico. Iris Murdoch e Simone Weil.

Il capitolo 1 fornisce una definizione generale di attenzione e introduce, attraverso le concezioni divergenti di Weil e Murdoch, il fatto che per partecipare alla realtà, dobbiamo in qualche modo uscire di scena e lasciare che essa si riveli da sola. I capitoli 2 e 3 affrontano le tensioni che sorgono quando ci si concentra sul ruolo del sé nell'attenzione e le considerano attraverso due possibili percorsi: la visione addomesticata (“The Tame View”, capitolo 2), secondo cui l'attenzione risulta incompatibile solo con alcune parti del sé, e la visione radicale (“The Radical View”, capitolo 3), secondo cui l'attenzione è incompatibile con il sé tout court. Il capitolo 4 affronta ancora un'altra tensione, quella della conoscenza di sé: sembra che sia necessario concentrarsi su noi stessi per capire se stiamo partecipando correttamente, ma, allo stesso tempo, il "guardarsi dentro" risulta incompatibile con l'attenzione. Infine, i capitoli 5 e 6 difendono la seguente tesi: l'attenzione è necessaria per la percezione morale e sufficiente per la motivazione e per l'azione. 

Innanzitutto, che cos'è l'attenzione? L'autrice la presenta come una sorta di impegno nei confronti della realtà che si assume l’individuo nel momento in cui percepisce, o in qualche modo accetta il magnetismo della verità (24). L'elemento di "ricerca della verità" è ciò che rende l'attenzione una capacità morale, in quanto ci permette di vedere la verità e di agire su di essa; dunque, se vogliamo essere "buoni" agenti morali, dobbiamo essere agenti morali attenti. Questo requisito normativo si presenta in due dimensioni, le quali vengono esplorate da Caprioglio Panizza seguendo una distinzione su due "assi": l'asse verticale riguarda la presenza o l'assenza di attenzione, dove il requisito normativo è quello di prestare attenzione invece di mantenere un atteggiamento distratto o di fantasticheria nei confronti della realtà. L'asse orizzontale riguarda, dall’altra parte, gli oggetti dell'attenzione e il requisito normativo è quello di prestare attenzione a quelli "giusti" (le altre persone, particolari oggetti del mondo, la natura), poiché ciò a cui prestiamo attenzione dà forma ai nostri pensieri e alle nostre azioni (alla nostra "coscienza", Murdoch MGM 167). Nel capitolo 1 ci vengono presentati, inoltre, punti in comune e divergenze tra Murdoch e Weil. La ricerca della verità è un elemento cruciale per entrambe le filosofe, che pongono il Bene/Dio come ciò che in ultima analisi guida l'attenzione verso l'eros, ma ci si rende presto conto che esse hanno idee alquanto diverse in merito a ciò che è richiesto all'agente per partecipare correttamente alla realtà; la presenza o l'assenza di attenzione assume due forme distinte, con le quali l'autrice si confronta esaustivamente nei capitoli successivi.

Nel famoso esempio di M&D, in cui lo sguardo ri-orientato di M è proprio ciò che le permette di vedere realmente D, vi è un momento in cui M mette da parte se stessa per concentrarsi su D. I capitoli 2 e 3 esplorano la relazione tra attenzione e sé; in particolare, tra l'attenzione e, rispettivamente, le idee del sé di Murdoch (cap. 2) e di Weil (cap. 3). Iris Murdoch, pur essendo attratta dalla presa di posizione radicale di Weil, lavora con una concezione del sé che è sostanziale – per cui esiste una cosa, il sé, che può essere migliorata – e che trova un certo grado di unità nel sé morale. Dato l’elemento di ricerca della verità, l'attenzione diventa quindi ciò che permette all'agente morale di progredire moralmente; punto cruciale, diventa ciò che permette all’agente morale di progredire attraverso il proprio sé, non nonostante il proprio sé. Il capitolo 2 esplora il percorso di Murdoch attraverso quella che Caprioglio Panizza chiama "la visione addomesticata", poiché non cerca di eliminare il sé, ma piuttosto di sopprimere (o addomesticare) alcune parti di esso. Secondo questa visione, vi è solo una parte del sé che risulta problematica, quella dell'ego, ovverosia la parte che spinge a concentrarsi sulle proprie preoccupazioni e che impedisce di guardare il mondo con uno sguardo che sia indipendente da esse. In questo senso, il mettersi da parte di M è inteso come un ri-orientare lo sguardo; un distoglierlo dalle preoccupazioni del proprio sé (l’ego) per andarlo a posare esclusivamente su D, per  amare D vedendo D come una realtà indipendente da M. L'autrice ci guida nel notare come in entrambe le concezioni del sé di Murdoch e di Weil sia più o meno implicita la presenza di un'illusione; nel caso di Murdoch, si tratta dell’illusione dell'egocentrismo, nel caso di Weil, dell’illusione del sé in quanto entità separata dal mondo. Essere buoni agenti morali, in entrambi i casi, richiede di superare tali illusioni.

Il capitolo 3 inizia con tre preoccupazioni che l'autrice solleva riguardo alla visione addomesticata: la prima è che, secondo questa visione, l'attenzione non è pienamente raggiunta, poiché nel momento in cui il sé è ancora presente, allora l'oggetto non può essere del tutto presente. La seconda è che, pensando a una parte del sé come "cattiva", si potrebbe andare a scatenare una battaglia interiore che finirebbe solo per rafforzare la parte egocentrica del sé, rivolgendo la direzione dell’attenzione verso l'interno (il sé) anziché verso l'esterno (ciò che è indipendente dal sé). La terza preoccupazione è che, in modo analogo, assumendo che l'attenzione sia ciò che ci permette di migliorare noi stessi, potremmo finire per rendere il nostro sé ancora una volta oggetto di attenzione. A questo punto è difficile resistere davanti alla possibilità che vede, nell’attenzione, un sé del tutto assente. Caprioglio Panizza chiama questa possibilità la "visione radicale", rifacendosi alla concezione di Weil che vede il sé come un'interferenza con la realtà che non fa che alimentare la nostra separazione da essa, qualcosa di cui sbarazzarsi tout court se vogliamo essere fedeli alla spinta verso la verità propria dell’attenzione. "Vedere un paesaggio così com'è quando io non ci sono" (GG 42, in Caprioglio Panizza 91) afferma Weil, citata dall'autrice, per descrivere l'azione di partecipare al mondo con una concezione vuota di sé. L’azione richiesta non si configura come una "soppressione", né come una "rimozione", quanto piuttosto come un atto di "de-creazione" (93).  Ma come possiamo metterlo in atto? Come possiamo vedere il paesaggio come se non fossimo noi a vederlo? Come possiamo toglierci di mezzo per permetterci di vedere la realtà così com'è? Queste domande, per quanto legittime, sono figlie dell’illusione della separazione, ovverosia dell’illusione di credere che nel momento in cui concentro la mia attenzione sul paesaggio, vi siano due entità distinte: me stessa (da sopprimere) e il paesaggio. In realtà non vi è alcuna separazione; io e il paesaggio non siamo due entità distinte. In questo senso, la "de-creazione" implica prendere coscienza del fatto che il sé non è mai veramente esistito (92). Alla fine del capitolo, Caprioglio Panizza introduce il Buddhismo Zen come un possibile modo per comprendere che cosa implica il partecipare al mondo senza sé, e la risposta è sorprendente, diametralmente opposta a quella che si potrebbe aspettare. La filosofia Zen non richiede che, prima di tutto, si debba sopprimere il proprio io per poi, improvvisamente, vedere la realtà così com’è; piuttosto, afferma che è attraverso l'esperienza della non-dualità che possiamo sperimentare l'assenza dell'io. Quando siamo finalmente in questo stato di unità, quando possiamo finalmente vedere che, in realtà, non vi è proprio nulla da sopprimere perché la linea di demarcazione tra noi e il mondo era del tutto fittizia in primo luogo, solo allora staremo sperimentando l'attenzione. Questo parallelo con il Buddhismo Zen risulta estremamente utile poiché, seppur le metafisiche di Weil e dello Zen non coincidano, vi è significativa sovrapposizione fenomenologica tra le due concezioni di attenzione; nelle parole dell’autrice, "non sono soppressa, ma unita" (99), e questa è un'esperienza che è propria di entrambe le letture.

Sebbene Caprioglio Panizza sia esplicita nel manifestare sintonia con la soluzione radicale di Weil, il resto del libro si concentra principalmente sull’opzione moderata di Murdoch, la quale dà origine alla seguente tensione: come vi può essere compatibilità tra attenzione e consapevolezza di sé (capitolo 4)? M si rende conto che la sua percezione di D era sbagliata; ergo, vi è un momento in cui M deve per forza aver raggiunto una certa consapevolezza riguardo questa percezione distorta ("fammi guardare di nuovo"). Dunque, in un certo senso, sembra che la consapevolezza di sé, o la conoscenza del sé illusorio, sia in qualche modo necessaria per l'attenzione, poiché, altrimenti, non potremmo renderci conto di eventuali errori percettivi. Tuttavia, se l'attenzione si configura come l'atto di lasciare che la realtà si manifesti indipendentemente da noi, allora che spazio vi può essere per un tipo di conoscenza che inevitabilmente mette di nuovo il sé al centro di tutto? Potremmo dire che M si rende conto che la sua visione di D è distorta in quanto, dopo aver orientato l'attenzione su se stessa attraverso un atto di introspezione, si accorge di essere una persona con un certo tipo di schemi mentali, possibilmente da mitigare; tutto ciò riguarderebbe nuovamente M. La soluzione sembra essere quella di guardare i propri accadimenti interiori sia nel loro contesto (non solo ciò che sta accadendo, ma anche da dove potrebbe provenire) sia "dall'esterno", cioè attraverso le lenti degli altri. L'obiettivo di un'autoconoscenza non egocentrica non ha, dunque, a che fare con il tipo di io morale che sono ("sto agendo bene?"), ma piuttosto con ciò che potrebbe ostacolare l'attenzione. Questo, tuttavia, solleva un'altra tensione: alcuni degli stati mentali che hanno un impatto sulla nostra visione morale sono "privati", non accessibili "dall'esterno", quindi o siamo gli unici ad avere accesso esclusivo a questi stati mentali moralmente rilevanti, oppure, seguendo la lettura Murdochiana di Wittgenstein, dobbiamo lasciare le cose come stanno, poiché non vi sono categorie logiche attraverso le quali possiamo renderle pubbliche; il loro significato si perde se cerchiamo di metterle in parole. Caprioglio Panizza si confronta sia con Murdoch che con Wittgenstein, e difende un resoconto della vita interiore che è logicamente indipendente da quella esterna (alla Murdoch), ma che è anche trasparente al di là delle credenze/bias (alla Wittgenstein). Tornando all'esempio di M e D, vi è un aspetto privato moralmente rilevante della vita interiore di M che solo M può capire (comprensione “dall’interno”); ma vi è anche un elemento di trasparenza che permette a M di capire cosa le sta succedendo al di là delle sue credenze su D (comprensione “dall’esterno”). L'attenzione di M è concentrata su D e questo le permette di vedere quali forme ha assunto il suo concentrarsi su D. Questo è ciò che Caprioglio Panizza definisce "conoscenza di sé impegnata" (engaged self-knowledge, 125), ossia l'elemento dell'attenzione che ci permette di percepire come stiamo percependo, in virtù del fatto che ci preoccupiamo di percepire correttamente la realtà di un altro. L'elemento non egocentrico è preservato dal fatto che quando guardo come sto percependo, la conoscenza che ottengo dipende dall'oggetto della percezione, non da me. Io voglio vedere bene l’altro; non, io voglio vedere bene l’altro. L’enfasi è essenziale.

Infine, i capitoli 5 e 6 si concentrano sull'attenzione in quanto modellatrice della percezione (cap. 5), della motivazione e delle possibilità di azione (cap. 6). Per esplorare i nostri atteggiamenti errati nei confronti della realtà e come l'attenzione possa ri-orientarli al meglio, Caprioglio Panizza si concentra sull'esempio della sofferenza animale: "l'attenzione alla sofferenza degli [...] animali consente la percezione morale, che a sua volta ci motiva ad agire" (131). Quando assistiamo alla sofferenza proviamo disagio e distogliamo lo sguardo; ma se siamo veramente attenti, allora percepiamo che ciò che vediamo ci chiede qualcosa a cui sentiamo di dover rispondere. A questo punto ci si potrebbe domandare se l'attenzione non possa essere semplicemente un altro modo per indicare istanze di "empatia". L'autrice individua due modalità di partecipazione alla realtà che sono moralmente problematiche e che esemplificano la distinzione tra attenzione ed empatia: "spesso, quando vediamo la sofferenza, distogliamo lo sguardo proprio perché proviamo empatia: ci sentiamo male e vogliamo che questa sensazione cessi, quindi smettiamo di guardare" (155, enfasi mia). Tornando a Murdoch, nei casi in cui si distoglie lo sguardo, è l'ego che prende il sopravvento: stiamo soffrendo, quindi smettiamo di guardare. Inoltre, "percepire la sofferenza può dare origine non all'empatia, ma al godimento" (155; istanze di “sadismo quotidiano”, 158, o di “attenzione sadica”, 159). In questi casi, l'ego prende ancora una volta il sopravvento: noi stiamo godendo. L'empatia, quindi, è legata al modo in cui percepiamo l'altro, è vero, ma non tutti i casi di percezione dell’altro sono anche casi di attenzione. Se la percezione parziale o errata della sofferenza può generare il distogliere dello sguardo o atti di sadismo, la percezione attenta, invece, genera atti che intendono fermare quella sofferenza. Alla fine, Caprioglio Panizza suggerisce che questo è possibile perché l'attenzione "ci permette di vedere alcune possibilità che altrimenti non vedremmo" (161); nel momento in cui guardiamo l'animale sofferente non come se fosse carne, ma come se fosse la creatura vivente che è, vediamo la possibilità per quella creatura di non soffrire. L'animale che soffre appare, ora, soccorribile; la sofferenza stessa, eliminabile. Il suffisso "-abile" indica una affordance, una sorta di chiamata all’azione presente nella situazione. Una sofferenza posso vederla come "ferm-abile" o “evit-abile” solo nel momento in cui mi sto veramente concentrando sulla creatura che soffre. Nel pratico, nel momento in cui vedo l'animale come "carne", allora l'affordance a cui rispondo è "mangiabile"; si tratterebbe di un’istanza di cecità nei confronti della sofferenza e, dunque, di una percezione errata. Sebbene l'autrice sia tornata alla visione addomesticata nel suggerire come l'attenzione plasmi la nostra visione e le nostre azioni, il libro si conclude con una nota Weiliana: la realtà ci pone delle richieste (affordances) e, se siamo agenti morali attenti in modo corretto, non possiamo che obbedire ad esse.

Come abbiamo visto, nell'affrontare questioni e tensioni che emergono nel corso del libro, l'autrice si concentra su quello che identifica come l'approccio meno radicale, quello Murdochiano, che vede l'attenzione come compatibile con alcune parti del sé e, in generale, che configura le azioni moralmente buone come derivanti dall'attenzione sviluppata attraverso l'agente - cioè attraverso la formazione della sua visione morale - e non nonostante l'agente. Tuttavia, Caprioglio Panizza è chiara nell'affermare la sua vicinanza filosofica alla visione radicale, sebbene la consideri come una possibilità solo nel capitolo 3. Credo che questa scelta abbia a che fare con il messaggio generale del libro: l'attenzione è cruciale per la morale, ma è anche difficile da sostenere. Ci chiede di guardare veramente situazioni che ci possono mettere a disagio e di starci dentro, senza distogliere lo sguardo. La visione addomesticata rende tutto questo digeribile, mettendoci davanti al fatto che nonostante sia indubbiamente difficile, possiamo farlo senza dover rinunciare a ciò che è a noi tanto caro: il nostro sé. D'altra parte, l’autrice sembra suggerire che la storia potrebbe non finire qui. Vi è molto altro da scoprire se, come lei, ci sentiamo attratte dall’approccio radicale di Weil; forse, in particolare, attratte dall'intuizione che partecipare alla realtà è, sì, difficile, ma se smettessimo di pensarci come entità separate tra loro e orbitanti intorno a loro stesse, guardare il paesaggio morale in quanto paesaggio indipendente da noi potrebbe, in realtà, riuscire molto più naturale di quanto crediamo.

Matilde Liberti

Bibliografia

Caprioglio Panizza, S. (2022) The Ethics of Attention: Engaging the Real with Iris Murdoch and Simone Weil, London and New York, Routledge. 

Murdoch, I. (1992) Metaphysics as a Guide to Morals [MGM], London, Penguin. 

Weil, S. (2002) Gravity and Grace [GG], trans. Emma Crawford and Mario von der Ruhr. London and New York, Routledge.

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