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Philosophy Kitchen

La storia intellettuale è costellata di congiunture: ricorrenze – o meglio occorrenze – non necessariamente coincidenti con eventi cardine della vita di un autore, che invitano a prendere in esame il bilancio della sua eredità. Un’eredità, specialmente quella di coloro cui è stato assegnato l’oneroso epiteto di classici, che stimola al ripensamento, alla rilettura, alla messa all’opera dei concetti e – perché no? – al tradimento vivificante: come insegna il Nietzsche della prima Inattuale, critico del filisteismo còlto e di ogni comoda epigonalità, quale modo migliore per abitare in modo generativo un’opera se non «continuare a cercare» seguendone lo spirito «senza mai stancarsi in ciò» (Nietzsche 1991, p. 21)?


Sloterdijk

La riedizione, a vent’anni esatti dalla pubblicazione della prima traduzione italiana, del libro di Peter Sloterdijk Non siamo ancora stati salvati. Saggi dopo Heidegger (Tlon 2024) rappresenta, in un certo qual modo, un’occasione di questo genere. Il che non significa necessariamente azzardare pericolose definizioni come quella di «classico contemporaneo», per affibbiarla a un autore assai prolifico e soprattutto ancora in vita – né tantomeno deliberare sull’eredità di un pensiero ancora in corso che oltretutto si arricchisce, a un ritmo vertiginoso, di sempre nuovi contributi.

Questa riedizione rappresenta piuttosto il καιρός, il momento giusto per rilanciare la centralità di un’opera come Nicht Gerettet tanto all’interno della riflessione del suo autore, di cui rappresenta uno snodo vitale che consente di illuminare sia ciò che sta a monte sia ciò che sta a valle della sua pubblicazione, quanto all’interno del dibattito filosofico contemporaneo, rispetto al quale – almeno nella convinzione di chi scrive – la filosofia di Sloterdijk ha da offrire strumenti di un’efficace e irriverente vitalità.

Come afferma Antonio Lucci (2024, p. 427), curatore della presente riedizione e autore della postfazione – che permette di inquadrare con una precisione veramente chirurgica la posizione del testo entro la riflessione di Sloterdijk – l’attualità di Non siamo ancora stati salvati è l’«attualità di un libro ancora da pensare». Ma, anche, che dà ancora da pensare.

Pensare a che cosa? Rispondere a questa domanda non equivale soltanto a immergersi tra i dieci saggi che compongono il testo per osservare l’intrecciarsi del loro reciproco dialogo o ricostruire le oscillazioni, le continuità e discontinuità che li legano alla trama precedente e successiva delle opere di Sloterdijk. Ma anche a compiere, oltre queste due operazioni necessarie, una terza, non meno importante: prestare attenzione al gesto, alla postura e allo stile espressi nella sua prosa.

Se infatti la filosofia è un esercizio – come Sloterdijk stesso si è impegnato a mostrare – Non siamo ancora stati salvati è un esempio paradigmatico delle peculiarità di quello specifico esercizio filosofico che è il pensiero sloterdijkiano: talmente esemplare che potrebbe forse essere ritenuto il migliore viatico alla produzione dell’autore – da un punto di vista sia tematico, sia metodologico.

 È qualcosa che la postfazione di Lucci, riportando l’attenzione sul saggio – curiosamente poco considerato – che Sloterdijk dedica ad Adorno e al lascito della Teoria critica, Che cos’è la solidarietà con la metafisica nell’attimo della sua caduta?, sottolinea in modo inequivocabile. Se la Teoria critica è andata incontro a una vecchiaia precoce, a una perdita di spinta indotta dai suoi vizi interni (l’arma della critica come residuo criptognostico e criptoteologico, brandita da un osservatore esterno, immacolato e provvisto di un implicito carisma messianico), l’unico modo di rivitalizzarla e di assicurarne la continuità coincide, secondo Sloterdijk, col sostituire allo sguardo della critica, ormai svuotato e incapace di presa sulla realtà, uno sguardo ironico e iperbolico, isomorfo al suo oggetto nonché irrimediabilmente interno ad esso. È dunque al prezzo di uno svuotamento radicale, di una trasvalutazione della Teoria Critica nella Teoria Iperbolica che Sloterdijk, a metà tra l’ironico e il polemico, può rivendicare – contro Habermas – l’eredità di Adorno. Operazione, questa, ascrivibile al parassitismo metodico che costituisce la cifra più propria della filosofia sloterdijkiana – un modo di praticare il pensiero che:

costituisce al contempo un modo nuovo di abitare i testi e un nuovo genere di critica, una critica di secondo ordine che oltre a stanare i gesti irriflessi e l’inerzia intellettuale delle ovvietà obbliganti (come dovrebbe fare forse ogni filosofia) contempla al contempo l’ipotesi che la critica stessa sia revocabile e non abbia ragione di proporsi come veicolo per verità ultime da illuminare, le quali ricadrebbero comunque entro i vincoli di una logica identitaria (Bonaiuti 2019, p. 106).

Tra le pagine di Non siamo ancora stati salvati il parassitismo di Sloterdijk si esprime, allora, nel tentativo di elaborare un «controcanone filosofico» (Lucci 2024, p. 438) composto da divinità falsamente ritenute minori: Luhmann come patrono di un’ironia terapeutica e civilizzatrice, Cioran revanscista disinteressato, Gotthard Günther quale fautore di un superamento dell’ontologia monovalente, per la quale soltanto l’essere è, e della sua logica bivalente, in direzione di una logica polivalente in cui, tra vero e falso, tertium datur.

Ma si dà soprattutto a vedere nel corpo a corpo con la filosofia di Heidegger cristallizzato fin nel sottotitolo, nel quale Sloterdijk dichiara di voler filosofare nach Heidegger: vale a dire secondo Heidegger, in continuità con lo spirito del suo pensiero, ma anche dopo Heidegger, con Heidegger e contro Heidegger – senza il timore di tradirne e superarne la lettera dove necessario, attraverso innesti e ibridazioni multidisciplinari che ne garantiscano la sopravvivenza.

Questa liberazione «dall’ipnosi del maestro» (Sloterdijk 2024, p. 9) pervade in senso trasversale ogni contributo della raccolta. L’iniziale critica alla miopia heideggeriana nei confronti della motilità orizzontale, veicolata dal saggio Caduta e svolta, è il sasso che Sloterdijk getta nello stagno – o nella palude? – dell’ontologia fondamentale. Il riverbero che esso produce si propaga infatti alla giustificazione di una possibile continuazione sferologica dell’analitica esistenziale, delineata in «Il Dasein ha una tendenza essenziale alla vicinanza» e portata a compimento – in grande stile – dalla trilogia Sfere, la quale mira a esplicitare l’Essere e spazio rimasto implicito in Essere e tempo. Ma anche della possibilità di superare la diffidenza heideggeriana verso ogni antropologia per mostrare, come Sloterdijk propone tra La domesticazione dell’essere e Regole per il parco umano, che gli esseri umani siano originariamente esseri-del-trasferimento, plasmati e prodotti dalla cultura e dalla tecnica. «Storicizzare la temporalità e antropologizzare il movimento» (p. 435), sono dunque le premesse necessarie tanto alla plausibilità del concetto di sfera, quanto a quello di antropotecnica, così come del tentativo di risignificare – in Alétheia o la miccia della verità – la concezione heideggeriana della verità in termini storico-antropologici, quale «storia della tecnica e della sua socializzazione» (Sloterdijk 2024, p. 306), movimento esperienziale collettivo e cumulativo.

Proprio in questo disvelamento emerge il trait d’union che lega tutti i capitoli del saggio: il manifestarsi del mostruoso. Categoria, ancora una volta, heideggeriana, in cui Sloterdijk si installa per svuotarla e risemantizzarla dal suo interno. Mostruoso, smisurato, è innanzitutto l’essere umano; o meglio, lo è il suo enorme potere autoplastico espresso nel rapporto circolare e retroattivo che si dà tra i meccanismi spontanei alla base del processo di antropogenesi – insulazione, liberazione dai limiti corporei, neotenia e trasposizione – e la loro prosecuzione antropotecnica, primaria e secondaria. Le antiche pratiche immuno-sferiche preistoriche, così come le forme storiche di «modellamento diretto dell’uomo attraverso una messa in forma civilizzante» (Sloterdijk 2024, p. 216) e la loro continuazione nelle più recenti biotecnologie di manipolazione genetica, sono espressione di quella costitutiva tecnicità dell'umano, la cui natura è la cultura, che fa della comprensione sloterdijkiana del fenomeno homo sapiens una forma di filosofia della tecnica (Ferreira de Barros, Pavanini, Lemmens p. 2023). Dall’amigdala acheuleana al “taglio” e alla “ricucitura” del codice genetico; dal lancio di una pietra alle più astratte prestazioni concettuali – non sembra esserci, per Sloterdijk, soluzione di continuità.

Mostruosa è anche e soprattutto la modernità, intesa da Sloterdijk – si veda il titolo dell’ottavo saggio – come L’ora del crimine mostruoso: un crimine del quale siamo tutti inevitabilmente complici, la smisuratezza del quale non può essere descritta ma soltanto confessata, né tradotta in teoria ma soltanto fatta oggetto di «proiezioni iperboliche» (Sloterdijk 2024, p. 400). Una dismisura che si dà a vedere tanto a livello spaziale, nell’esplosione della globalizzazione europea, quanto a livello temporale, nella sincronizzazione della vita in un eterno presente post-storico, così come – e in modo particolare – a livello materiale, nell’arte e nella tecnica quale espressione della potenza poietica e autopoietica dell’essere umano; detto altrimenti, di ciò che l’uomo può fare. Rispetto a ciò, Sloterdijk propone di considerare una giustificazione filosofica dell’artificiale, corroborata dalla logica cibernetica di Günther, da leggersi in parallelo a quanto scritto nel saggio appena precedente, il settimo della raccolta, intitolato L’offesa delle macchine.

Proprio su questo punto è possibile misurare tutta l’attualità di un libro come Non siamo ancora stati salvati, che è ancora da pensare e che, si diceva, dà ancora da pensare. La prima edizione tedesca risale al 2001 e i saggi raccolti in essa sono stati elaborati da Sloterdijk tra il 1989 e i primi anni duemila: la temperie culturale e i suoi temi di riferimento, oggi, sono certo cambiati. Alcuni filoni di riflessione, fra tutti l’ossessione per una presunta fine della storia, sono stati smentiti da un brusco risveglio alla brutalità del reale. Tuttavia se, come sembra anche soltanto da un’analisi superficiale dello Zeitgeist contemporaneo, ci troviamo nel bel mezzo dell’epoca dell’Intelligenza Artificiale, non è forse passando attraverso la meditazione sloterdijkiana sul mostruoso contenuta in queste pagine che è possibile affrontare la questione a partire da un punto di vista né irrazionalmente tecnofobo, né acriticamente tecnofilo?

 A partire da Sloterdijk si può infatti comprendere come l’avanzare dell’artificiale, che si tratti dello scalpore suscitato dallo sviluppo di biotecniche di clonazione, di progressi nel campo della robotica, o ancora dell’incremento dell’efficacia di sistemi algoritmici di Machine Learning, non costituisca affatto l’ennesima ferita narcisistica per l’essere umano. Né tantomeno una minaccia alla supposta umanità dell’uomo. L’offesa delle macchine è infatti soltanto apparente, radicata nell’antico pregiudizio metafisico che non vede alternativa possibile alle coppie oppositive vivente-non vivente, soggetto-oggetto, materia-spirito, natura-artificio; laddove l’artificiale rappresenta un terzo termine che sarà comprensibile soltanto a seguito di una riforma, in senso polivalente, della logica e dell’ontologia [1]. Senza contare che, seguendo la «fantasia filosofica» sloterdijkiana (2024, p. 165), l’umano stesso, lungi dal corrispondere a una qualche essenza astorica e immutabile, è piuttosto il prodotto di una lunghissima storia, sempre aperta e contingente, all’incrocio tra evoluzione naturale e sviluppo culturale, tra antropogenesi e antropotecnica.

L’attualità di Non siamo stati salvati non si esaurisce però nel tentativo di una giustificazione filosofica dell’artificiale: la sua rilevanza, è anche una rilevanza politica. Se infatti le pratiche di ottimizzazione algoritmica possono essere concepite come antropotecniche, che in quanto tali implicano un «potere di selezione» e una qualche forma di «custodia dell’uomo» e «suo allevamento», cioè una forma di potere, chi si occuperà di «prendere in mano attivamente il gioco» e formulare in futuro un «codice delle antropotecniche» (pp. 348-349)? E sarà sufficiente una trasformazione della (allo)tecnica in omeotecnica, non padronale e co-operativa, a garantire «l’emergenza di una cultura della ragione postparanaoide» (p. 244)?

Quello dell’Intelligenza Artificiale è un orizzonte confuso e in costante evoluzione, di cui non è ancora possibile comprendere appieno la portata. Che abbiano ragione coloro che (Landgrebe, Smith 2023) sostengono l’impossibilità, per i limiti intrinseci alle capacità di modellizzazione matematica predittiva applicata ai sistemi complessi, di un’IA generale che eguagli o superi le prestazioni umane, o che l’abbiano gli ambasciatori di un’ipotetica superintelligenza, una cosa è certa: come scrive Sloterdijk (2024, p. 177), «è finita l’epoca in cui gli uomini pensavano di potersi sottrarre alle responsabilità del mostruoso; poiché ora sono diventati i tecnici del mostruoso» – a fronte di ciò, non sarà certo un dio a poterci salvare.

di Luca Valsecchi


Note

[1] Facendo leva sull’ontologia emergente dalla cibernetica come «teoria e prassi delle macchine intelligenti» e dalla biologia come «studio delle unità sistema-ambiente» (232), Sloterdijk invita a identificare la terzietà degli artifici nel polo impersonale dell’informazione, situato a metà tra soggetto e oggetto, spirito e materia. Perciò: «dalla frase “c’è informazione” dipendono frasi come: “Ci sono sistemi, ci sono memorie, ci sono culture, c’è l’intelligenza artificiale”» (233). In quest’ottica ogni posizione antitecnologica altro non sarebbe che una forma di ressentiment, una resistenza residuale alla decomposizione della metafisica. A proposito dell’ontologia cibernetica e della sua non-modernità si veda ad esempio: Pickering, A. (2010). The Cybernetic Brain. Sketches of Another Future, The University of Chicago Press: Chicago-London.


Bibliografia

Bonaiuti, G. (2019). Lo spettro sfinito. Note sul parassitismo metodico di Peter Sloterdijk. Mimesis: Milano-Udine.

Ferreira de Barros, M., Pavanini, M., Lemmens, P. (2023). Peter Sloterdijk’s Philosophy of Technology: From Anthropogenesis to the Anthropocene. Technophany: A Journal for Philosophy and Technology, 1(2), 84–123.

Landgrebe, J. & Smith, B. (2023). Why Machines Will Never Rule the World. Artificial Intelligence without Fear, Routledge: New York.

Lucci, A. (2024). Portare Heidegger all’estremo. Peter Sloterdijk tra antropologia e Teoria Iperbolica. In Sloterdijk, P. Non siamo ancora stati salvati. Saggi dopo Heidegger (427-446). Tlon: Roma.

Nietzsche, F. (1991). David Strauss. L’uomo di fede e lo scrittore. Trad. it. di S. Giametta. Adelphi: Milano.

Sloterdijk, P. (2024). Non siamo ancora stati salvati. Saggi dopo Heidegger. A cura di Antonio Lucci. Tlon: Roma.


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