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Extra#2 \ TURNS. Dialoghi tra architettura e filosofia
Extra / Febbraio 2018TURNS. Dialoghi tra architettura e filosofia è la traccia di un dialogo spesso acceso, ricco di incomprensioni e riconciliazioni, che coinvolge architetti e filosofi, docenti e professionisti, e ancora biologi, dottori di ricerca, studenti. È il racconto di due discipline, architettura e filosofia, che si voltano per guardarsi reciprocamente, provando a innescare una svolta concettuale che deve divenire un nuovo punto di partenza. Precisamente questo è il doppio significato del termine “Turns”.
Da un lato infatti, il filosofo ha sempre avuto difficoltà a interloquire con l’architetto, sia per ragioni storiche sia per ragioni strettamente legate al suo metodo e ai suoi obiettivi. L’architetto sembra infatti presentarsi allo sguardo del filosofo come un personaggio al contempo perturbante e conturbante, in un misto di attrazione e biasimo, di invidia e ammirazione: una figura tanto sfuggente da investire la riflessione filosofica con effetto retroattivo, facendo scricchiolare le sue fondamenta concettuali e mettendo in dubbio nozioni fondamentali quali verità, libertà, realtà, conoscenza, invenzione, possibilità, necessità, che hanno rappresentato per secoli il lessico base del pensiero occidentale. L’interesse verso una simile figura sembrerebbe ovvio. Eppure, quasi sempre è il filosofo che viene interpellato, utilizzato o coinvolto nel lavoro dell’architetto, in molti casi con l’intento di distillare spazialmente il senso dei suoi discorsi nel progetto. Non che ciò sia impossibile, ma, forse, dovremmo domandarci se è proprio questo quello che vogliamo: o se invece non sia compito del filosofo esercitare una sistematica e implacabile strategia di provocazione interessata, al fine di produrre un effetto, una particolare condizione dello sguardo. Creare la crisi, mettendo in discussione ciò che è dato, sapendo che, come spesso accade, l’apertura verso un nuovo oggetto di conoscenza lascia insoluti quei quesiti che lo vedono direttamente implicato per produrre un effetto retroattivo di chiarificazione nel soggetto indagatore, impegnato a leggersi ora attraverso una nuova forma di mediazione.
Dall’altro lato, per l’architettura il rapporto con la filosofia è storicamente naturale, quasi che questa fosse una visione complementare sul mondo rispetto al suo operato: questo era possibile perché la società si evolveva in modo relativamente lento, attraverso sedimentazioni di usi che diventavano convenzioni sociali, di pensiero, di stile. Così andava nell’architettura egizia, in quella classica, nel medioevo, nel rinascimento, finanche nel Modernismo: i significati erano decifrabili perché si condivideva un sostrato convenzionale. Ma qualcosa è cambiato. Le correnti durano pochi anni: poi passano, come le mode, spesso senza lasciar traccia – tranne edifici già superati, ovviamente. Così, spariscono le teorie dell’architettura, cioè sistemi che dicano cosa sia giusto costruire. E senza una teoria che legittimi le scelte, fioriscono le retoriche e le poetiche personali, spesso così ridicole da essere persino (e giustamente) oggetto di satira. La condizione di fragilità dell’architettura contemporanea è ormai fisiologica. Ed è qui che la filosofia diventa non solo utile, ma necessaria. A patto, certo, di non usarla in senso analogico, con derivazioni dirette che trasformano concetti in forme e pensieri in stili. Dialogare con i filosofi serve perché essi ragionano su temi che, in qualche modo, toccano gli architetti – ad esempio, lo spazio, l’invenzione, la città, la generazione della forma, il potere. Capire qualcosa di quei temi aiuterà a progettare con una maggior consapevolezza, o una più approfondita convinzione sulle ragioni del progetto, e a capirne meglio effetti ed esiti.
A cura di Carlo Deregibus e Alberto Giustiniano
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DOI: https://doi.org/10.13135/2385-1945/1.2018
Pubblicato: gennaio 2018
Indice
Alberto Giustiniano - ARCHITECTURAL TURN. Il filosofo e le sfide del progetto [PDF It]
Carlo Deregibus - PHILOSOPHICAL TURN. Fragilità dell’architettura contemporanea [PDF It]
(S)Block-Seminar
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DA LASCAUX AI JUNKSPACE
Giovanni Leghissa - Da Lascaux ai junkspaces (passando per Ippodamo da Mileto) [PDF It]
Giovanni Durbiano – Descrivere il progetto dello spazio [PDF It]
Riccardo Palma – Molteplicità e non naturalità degli spazi nella produzione del progetto di architettura [PDF It]
RIFERIMENTI di Andrea Dutto [PDF It]
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DECOSTRUZIONE, IMMANENZA, ILOMORFISMO
Giulio Piatti – Simondon e Deleuze di fronte all’ilomorfismo. Appunti sul rapporto forma-materia [PDF It]
Carlo Deregibus – Appunti su Chōra, spazio e architettura. Da Platone a Derrida [PDF It]
Paola Gregory – Le nuove scienze e la conquista dell’informale [PDF It]
Riccardo Palma – L’assenza necessaria dell’architettura [PDF It]
RIFERIMENTI di Andrea Canclini [PDF It]
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FENOMENOLOGIA E PROGETTO
Claudio Tarditi – Fenomenologia e architettura. Introduzione al problema della percezione spaziale in Edmund Husserl [PDF It]
Alberto Giustiniano – Tempo, forma, azione. Il senso del progetto nel dialogo tra Enzo Paci e Ernesto Nathan Rogers [PDF It]
Silvia Malcovati – Per un razionalismo relazionale [PDF It]
Carlo Deregibus – L’orizzonte del progetto e la responsabilità dell’architetto [PDF It]
RIFERIMENTI di Federico Tosca [PDF It]
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MORFOGENESI E AUTOORGANIZZAZIONE
Veronica Cavedagna & Danilo Zagaria - Quale spazio per la morfogenesi e l'auto-organizzazione? [PDF It]
Paola Gregory – Morfogenesi architettonica e “vita artificiale” [PDF It]
Carlo Deregibus – Progetto e complessità. Fascino dell’analogia e libero arbitrio [PDF It]
RIFERIMENTI di Edoardo Fregonese [PDF It]
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ANTROPOGENESI E COSTRUZIONE DELLO SPAZIO
Roberto Mastroianni – Regimi dello sguardo. Sloterdijk e la metafora spaziale [PDF It]
Alessandro Armando – La scrittura del futuro e la promessa del progetto [PDF It]
Daniele Campobenedetto – Leggibilità e materialità dello spazio [PDF It]
RIFERIMENTI di Federico Cesareo [PDF It]
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POTERE E SPAZIO
Luigi Giroldo – Genealogie dello spazio contemporaneo. Utopie moderne e nascita dell’urbanistica [PDF It]
RIFERIMENTI di Andrea Canclini [PDF It]
BIBLIOGRAFIA
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Nello spazio di questa rubrica dal titolo Start Up desidero riflettere su un discorso oggi “nell’aria”, curiosamente tanto in un piccolo paesino della Sardegna quanto in una città mito come New York: il discorso è quello dell’innovazione, della pratica innovativa e del soggetto innovatore. Il discorso, come forse saprete, si dice rivoluzionario: cambierà, dice, letteralmente il mondo. Qui, intendo prendere sul serio il dispiegarsi di queste parole pericolose nello spazio - direbbe Foucault - per comprendere come un discorso, sintomo al contempo di desideri, istanze difensive e mancanze a essere, si faccia corpo. Per fare questo, la rubrica vuole occuparsi della molteplicità di spazi che la materialità di tale discorso richiede, richiama e evoca per e nel suo farsi materia. Una genealogia spaziale dell’innovazione attraverso lo spazio urbano, organizzativo, immaginario e infine, del soggetto che là dove è occupa sempre uno spazio.
Nel corso della rubrica si attingerà alle note del diario etnografico frutto dell’osservazione svolta presso un incubatore d’impresa e spazio co-working milanese nell’ambito del mio progetto di Dottorato in Urban and Regional Development, Politecnico di Torino e Università degli Studi di Torino, attualmente Visiting research student presso The New School, New York.
Contatto: annapaola.quaglia@polito.it
Su gentile concessione dell’artista Daniel Horowitz, alcune immagini di sue opere esposte a New York nelle esibizioni Totem e taboo e Civilization and its Discontents, accompagneranno le puntate della rubrica.
D. B. Horowitz, Lawless Boy, 2016, oil on antique hand-colored engraving
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«L’economia politica globale dei nostri giorni ci pone di fronte a un nuovo, allarmante problema: l’emergere della logica dell’espulsione» (p. 7). Con questa frase emblematica Saskia Sassen, sociologa alla Columbia University in The City of New York, inizia il suo testo Espulsioni. Brutalità e complessità nell’economia globale, edito per il Mulino lo scorso marzo. Il testo è interamente dedicato a difendere un’ipotesi innovativa e feconda, e cioè il fatto che i cambiamenti sociali degli ultimi decenni possano essere compresi attraverso il concetto di espulsione di alcuni individui dal lavoro, dallo spazio – sia sociale che geografico – e dai diritti. L’idea di base è che la crescita economica degli anni Novanta abbia avuto luogo in un contesto in cui era più conveniente espellere (o, come comunemente si dice, escludere) qualcuno da qualcosa piuttosto che includerlo: senza questa esclusione, sostiene l’autrice, la crescita economica non sarebbe stata possibile. Sassen sostiene che l’esclusione consista nell’allontanare gli individui dal proprio spazio vitale e che le principali cause di questo fenomeno siano la finanziarizzazione dell’economia e la concentrazione della gran parte delle ricchezze nelle mani di alcuni gruppi sociali. Stando alle riflessioni dell’autrice, tali fattori generano disuguaglianza, la quale a sua volta si configura come il presupposto dell’esclusione: quanto più è elevato il livello di disuguaglianza all’interno di una società, tanto più pervasive sono le conseguenze dell’esclusione. Tuttavia, al contrario di ciò che a questo punto si potrebbe pensare, la sociologa sottolinea in più punti dell’opera che la disuguaglianza, intesa come condizione di possibilità dell’esclusione, non deve essere considerata un effetto collaterale del modello economico fondato sulla finanziarizzazione e sulla concentrazione di ricchezze, bensì uno strumento di cui, a partire dagli anni Ottanta, il sistema economico si serve. Infatti per Sassen gli spazi, siano essi geografici o sociali, sono delimitati da chi ha il potere di farlo, e chi è provvisto di questo potere, in base alle proprie necessità, traccia confini che stabiliscano chi è “dentro” e chi è “fuori” in un dato momento storico.
I quattro capitoli che compongono il testo affrontano tre temi fondamentali: il rapporto dell’individuo con lo spazio fisico, quello dell’individuo con l’economia e la relazione che intercorre tra queste due dimensioni. L’autrice sostiene che l’espulsione non consiste soltanto o semplicemente nell’impossibilità di partecipare alla vita sociale ed economica di uno Stato, ossia un’«espulsione […] dai progetti di vita, dall’accesso ai mezzi di sussistenza, dal contratto sociale» (p. 37), ma essa è anche fisica, ovvero un’esclusione spaziale definita da confini geografici precisi; di conseguenza si può dire che l’esclusione da uno spazio fisico implichi spesso l’esclusione da uno spazio sociale e viceversa. In altre parole, l’analisi di Sassen suggerisce che lo spazio fisico è direttamente interconnesso allo spazio sociale dato che le persone sono sempre più spesso espulse non solo da alcuni spazi sociali per motivi geografici, ma anche da certi territori per motivi sociali (basti pensare al fenomeno della migrazione e a quello della disoccupazione). Sassen dunque dipinge un quadro internazionale impietoso e complesso, confermato da alcune recenti ricerche economiche e sociologiche, sull’analisi dei tassi di disoccupazione, sulla considerazione della distribuzione delle ricchezze e sul numero di persone coinvolte nei flussi migratori.
Il rapporto dell’individuo con l’economia è forse l’aspetto più interessante: quello in cui ci troviamo a vivere è, secondo ciò che l’autrice definisce nel primo capitolo, il periodo del “capitalismo avanzato” (p. 19). Le sue caratteristiche sono molteplici. Per spiegare questo concetto, Sassen introduce una locuzione efficace, quella di “formazioni predatorie”. Con questa locuzione l’autrice intende designare formazioni sociali complesse: «ciò che vediamo emergere non sono tanto élite predatorie quanto “formazioni” predatorie, una combinazione di élite e capacità sistemiche, il cui fondamentale fattore abilitante è la finanza, che spinge il sistema in direzione di una concentrazione sempre più acuta» (p. 20).
Secondo Sassen l’esistenza di queste formazioni predatorie è la causa più profonda dei fenomeni di esclusione precedentemente descritti perché tali formazioni sono sorte allo scopo di consentire soltanto a una piccola parte della popolazione di arricchirsi. Le formazioni predatorie non sono identificabili solo in singole azioni, ma in un sistema di
operazioni compatibili con diversi territori (dagli USA alle cosiddette “Tigri Asiatiche”) che fanno sì che le disparità economiche siano in continua crescita. Dal punto di vista di Sassen la crisi economica del 2008 ha portato alla luce un sistema – la formazione predatoria di cui sopra – che, per essere compreso, non può essere analizzato solo localmente o prendendo in considerazione singoli aspetti di esso, come per esempio fa chi cerca di stabilire i diretti responsabili del modello del capitalismo avanzato e della recente crisi, poiché il fenomeno in questione si inserisce all’interno di un sistema complesso che ha ramificazioni globali. Perciò la prima fondamentale conclusione alla quale giunge Sassen è di natura metodologica: non è possibile capire ed eventualmente risolvere un problema generale se ci si ostina a pensare soltanto a dettagli particolari. C’è però un altro tema altrettanto importante all’interno del testo, quello della relazione tra spazio fisico e individuo: la locuzione ‘refugees werhousing’ (l’internamento di rifugiati), coniata dalle organizzazioni per i diritti umani, per esempio, può aiutare a comprendere meglio la condizione di chi, seppur appartenente a un flusso di persone che si spostano da un Paese a un altro, si trova proprio in virtù di ciò privato della libertà di movimento per lungo tempo e costretto a un’inattività forzata in accampamenti o in simili strutture di accoglienza o segregazione. Altra questione simile trattata dall’autrice è il problema dell’incarcerazione: tradizionalmente legata ai regimi dittatoriali, essa sta emergendo, secondo Sassen, come strumento di espulsione fisica in diversi territori democratici.
Diversi anni dopo La città nell’economia globale (il Mulino, Bologna 2010), la sociologa è tornata a scrivere un testo chiave per la comprensione dello stato di cose presente, attraverso la medesima interpretazione sotto il profilo globale dei sistemi esistenti. Espulsioni. Brutalità e complessità nell’economia globale permette di costruire un complesso quadro della situazione odierna, soprattutto dei paesi comunemente considerati sviluppati, utile per essere a sua volta composto e ricomposto in diversi modi, a seconda del punto di vista da cui lo si guardi. Dal mio punto di vista disgregare e riassemblare le analisi sul tema è probabilmente il modo migliore di utilizzare il testo di Sassen.
di Camilla Cupelli
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Fare l’immagine. Deleuze su Beckett
Sconfinamenti, Serial / Febbraio 2016Uno degli scrittori più presenti nel lavoro di Gilles Deleuze è senz’altro Samuel Beckett. È vero che il filosofo non gli ha dedicato un volume monografico – cosa che ha fatto invece per altri due grandi della letteratura, Proust e Kafka –, ma all’interno dei suoi libri troviamo un elevato numero di riferimenti all’autore irlandese, che mostrano quale importanza particolare egli gli attribuisca. Esistono inoltre due testi (uno breve, l’altro più ampio) esplicitamente destinati a commentare opere beckettiane, e proprio a essi rivolgeremo l’attenzione... Scarica il PDF
A cura di:
Giuseppe Zuccarino è critico e traduttore. Ha pubblicato vari saggi: La scrittura impossibile, Genova, Graphos, 1995; L’immagine e l’enigma, ivi, 1998; Critica e commento. Benjamin, Foucault, Derrida, ivi, 2000; Percorsi anomali, Udine, Campanotto, 2002; Il desiderio, la follia, la morte, ivi, 2005; Il dialogo e il silenzio, ivi, 2008; Da un’arte all’altra, Novi Ligure, Joker, 2009; Note al palinsesto, ivi, 2012; Il farsi della scrittura, Milano-Udine, Mimesis, 2012. Tra i libri da lui tradotti figurano opere di Mallarmé, Bataille, Klossowski, Blanchot, Caillois e Barthes.
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variante 200 – corso grosseto #3
Serial / Febbraio 2015Uno sferragliare incede, coprendo le nostre parole, distraendo i nostri ragionamenti fino a perderli. Si sa, così come i ricordi giungono inaspettati come il sapore di una madeleine, allo stesso modo svaporano quando vengono sorpresi dall'impellente ritmo della quotidianità.
«L'esplorazione di un campo spaziale prefissato presuppone, dunque, l'aver stabilito delle basi e l'aver calcolato le direzioni di penetrazione» Guy Debord
Il treno calamita gli occhi su di sé e non lascia spazio ad altro. Lo seguiamo mentre percorre i binari che costeggiano l'autostrada avvicinandosi inesorabile alla città. Ma il rumore si spegne con un boato appena la motrice scompare sotto i nostri piedi e s'addentra nelle viscere di Torino. Sappiamo bene che non lo vedremo sbucare dall'altra parte del ponte, direzionarsi verso il palazzo della San Paolo e pian piano farsi sempre più piccolo; eppure, per un automatismo dettato dall'esigenza di consequenzialità cinetica, voltiamo comunque lo sguardo.
Ricompare il cantiere e la nuda terra acquista adesso profondità. I binari che conducono fin sotto al grattacielo si snodano nel passante ferroviario sotterraneo e di conseguenza solo i residenti di vecchia data nelle aree centrali della città mantengono, forse, nella propria memoria l'immagine e la fastidiosa litania delle carrozze che giungono a Porta Susa; i nuovi arrivati, invece, si ricordano del treno solo quando sentono un tremore sui muri e i suoi pavimenti delle loro case. La ferita aperta dal grattacielo, che come un cuneo si è affondato nel suolo lasciando una grossa crepa che taglia a metà Torino, è stata man mano ricucita dalle ruspe e dai bulldozer e ora attende un intervento di chirurgia estetica per nasconderne la cicatrice: compariranno presto elementi architettonici in superficie che, come qualsiasi opera di maquillage, faranno dimenticare le tracce, il rumore e la traiettoria dei binari.
(si veda la passeggiata Corso Grosseto #1, foto n. 2)
Le modificazioni dell'aspetto urbano, infatti, trovano la loro forza nella diretta proporzionalità tra la velocità del cambiamento e quella di adattamento delle abitudini della popolazione. Il rischio è quindi quello di un oblio generalizzato sulla direzione dei flussi e sulla concatenazione di trasformazioni urbane che così costituiscono, sedimentandosi, il continuo presente degli abitanti della città.
Forse un giorno, quando il cantiere scomparirà, dal ponte di corso Grosseto nessuno potrà più intuire, come possiamo fare noi oggi, la stretta relazione centripeta che unisce il grattacielo, le nuove stazioni e le compagini urbane. L'asse di terra battuta che con il suo vuoto cattura lo sguardo sul punto di fuga, è una visione che solo ora si caratterizza nettamente come la direttrice strategica di una nuova entrata in città. Tuttavia è una considerazione parziale che – come già detto – è derivante dalla nostra prospettiva topologica e in quanto tale non può far riferimento a quell'innumerevole insieme di informazioni di cui necessiterebbe la comprensione dello spazio urbano.
Ci diciamo che sarebbe d'aiuto il poter vedere dall'alto del grattacielo le gru, i vuoti, le fratture, e come si dispongono lungo tutte le direttrici trasversali, poiché solo da lì, dal centro in cui si intersecano gli assi, la prospettiva renderebbe ragione in un sol colpo d'occhio di buona parte di quell'ingente mole di dati di cui sentiamo la necessità. Esistono infatti alcuni luoghi che si ergono a condensatori dei tempi, producono processi sociali e ne impartiscono la forma; quella torre di vetro è uno di questi.
Se poco prima ci eravamo detti che nessuna inquadratura può essere completamente esaustiva, non avevamo considerato che, al di là della conoscenza profonda della costituzione fisica della città e della massa mobile da lei informata, esiste una rappresentazione che è in grado di modificare la realtà perché è quella prodotta da chi ha i mezzi e gli strumenti tecnici per attuarla. È scontato dire che questa rappresentazione ci è preclusa, in quanto è una distanza siderale quella che ci separa da chi possiede tali requisiti.
E' necessario tener presente che i grandiosi scorci sulle città resi possibili dalle nuove costruzioni ferroviarie furono per lungo tempo accessibili soltanto a operai e ingegneri. Chi altri, infatti, oltre all'ingegnere e al proletario saliva i gradini che, soli, rendevano l'accesso al nuovo, al decisivo – al senso dello spazio di queste costruzioni?
Quando – e se – avremo la possibilità di salire sul grattacielo sarà il giorno in cui il maquillage sarà approntato. Davanti agli occhi avremo solo la maschera di Torino.
«Vedo sì, Prometeo, e voglio darti il consiglio migliore, anche se tu sei già astuto. Devi sempre sapere chi sei e adattarti alle regole nuove: perché nuovo è questo tiranno che domina tra gli dèi. Se scagli parole così tracotanti e taglienti, subito anche se il suo trono sta molto più in alto, Zeus le può sentire: e allora la mole di pene che ora subisci ti sembrerà un gioco da bambini» Eschilo
Per ora non ci resta che attraversare il ponte e cercare di proseguire lungo la linea immaginifica del progetto della Variante 200. Ci hanno raccontato di una città infinita, di un urbano sempre più difficile da definire, eppure non c'è nessuna moltiplicazione rizomatica da cercare di descrivere. Ci sono degli assi, dei nuovi centri e sì, anche delle ramificazioni più o meno articolate, più o meno pregne di importanza strategica. Tutto questo, però, è già previsto nello sviluppo gerarchico dell'arborescenza: seguirne un ramo significa riconoscere le frontiere che traccia, le aree che congiunge e soprattutto i piani longitudinali che costruisce a partire da determinate relazioni sociali. Vero è che il corpo urbano non può essere rappresentato solo da queste strutture, ma per descrivere tutto ciò che è altro è inutile avere sotto agli occhi un piano strategico; sarebbe necessario, invece, essere a conoscenza delle storie e delle pratiche di coloro che alla conformazione spaziale non si adattano.