L’intento di questa raccolta, che prende il titolo di “Soggettivazioni”, è stato quello di aprire una riflessione attorno alla teoria della soggettivazione lacaniana, così per come ce l’ha lasciata in eredità Lacan, a singhiozzi, nei testi stabiliti a partire dai suoi trent’anni di insegnamento orale. Cosa può dirci una psicoanalisi asistematica, distante dalle istituzioni universitarie rispetto a problemi di una concretezza innervata di realtà? Chi frequenta i dipartimenti di Psicologia e assieme l’insegnamento lacaniano sa che è incommensurabile la distanza che intercorre tra la specificità e la settorializzazione degli strumenti istituzionali a confronto con l’universalità dei concetti larghi e volontariamente mai definiti dello psicoanalista parigino. Tra l’estremamente particolare (l’ad hoc della psicologia contemporanea) e l’estremamente universale (il concetto, unità sintetica della filosofia) si rischia di incorrere in un deragliamento del punto focale, causato da uno scontro di metodi epistemologici che si sono stabilizzati ai bordi opposti l’uno rispetto all’altro. Nella scelta di prendere in considerazione un tema vasto e generale come la teoria della soggettivazione c’era l’interesse, da parte nostra, di porlo in dialogo con il campo altrettanto vasto e generale del presente. Speriamo che questa prima ricerca possa costituirsi come un’indagine (sebbene parziale) sullo statuto del soggetto in quanto campo epistemologico aperto: attingendo dalla teoria psicoanalitica e dal dibattito che ne è scaturito, il presente volume segue molteplici sentieri analitici e sottolinea di contributo in contributo la difficoltà di giungere a un’idea organica di soggetto, per la varietà di ipotesi spesso contrastanti in merito alla sua rappresentazione, formalizzazione e interpretazione. In questa raccolta crediamo che i punti maggiormente messi in rilievo da chi ha collaborato riguardino il problema della genesi, lo statuto della trasformazione, e infine un’attenzione specifica è stata rivolta al registro del Reale e ai suoi effetti.
Perché un’altra monografia su Deleuze? E perché dedicare un lavoro a Deleuze in una collana che si chiama «Eredi» (diretta da Massimo Recalcati), quando si è cominciato il proprio cammino filosofico studiando Bergson? Ma, soprattutto, perché scegliere un sottotitolo, Credere nel Reale, per un saggio consacrato al re dei simulacri, a colui che ha rovesciato ogni credenza e ogni realtà, similmente a ogni credenza nella realtà?Il Deleuze di Rocco Ronchi (Feltrinelli, Milano 2015) non è l’ennesimo saggio dedicato al filosofo francese a cui Michel Foucault, con una lungimiranza prossima alla veggenza, legò le sorti della filosofia a venire. Non è l’ennesimo saggio però proprio perché lo è: è ennesimo e lo vuole essere.Questo è solo il primo dei tre paradossi con cui è possibile afferrare l’operazione che Ronchi fa col suo ultimo lavoro. Gli altri due sono veicolati rispettivamente dal rapporto che quest’ultimo intrattiene col titolo della collana («Eredi») e col suo stesso sottotitolo (Credere nel reale). A partire da questi tre interrogativi, solo apparentemente aporetici, è cioè possibile trattenere per qualche istante l’attenzione sulla nuova immagine che, di Deleuze, emerge dall’ultimo libro di Ronchi., non stupendosi però che sia proprio una via paradossale e lastricata da cattive intenzioni a permetterci di toccare il senso di questo breve ma calibratissimo saggio.
Deleuze è stato infatti il filosofo che più di tutti, almeno nel 900, ha fatto del paradosso l’agente provocatore della filosofia, il lampo scatenante il tuono del pensiero. A esso, ci insegna, siamo costretti da un trauma, da un incontro imprevisto e letale al quale non possiamo sottrarci. Un unico e intempestivo incontro che poi risuona e si distribuisce frattalmente in piccoli traumi che si ripetono come “piccoli limiti” (L’Anti Edipo, 1972), traumi e limiti che coincidono con i singolari arresti della doxa, con i suoi controsensi e i suoi inciampi.
È qui che si comincia a pensare, perché è in un controtempo che Deleuze rintraccia la possibilità di “generare l’atto di pensare nel pensiero” (Differenza e ripetizione, 1968). E prima di lui fu Platone a intercettare la stessa possibilità nel contraccolpo provocato dai ta parakalunta, oggetti capaci di scuotere il pensiero provocando “sensazioni nello stesso tempo contrarie” (Filebo 46 c e Repubblica VII, 523 b). Pensare non è nulla di ovvio, afferma Ronchi (p. 77) e i ta parakalunta sono proprio le pieghe in cui si sospende il dativo dell’“a me pare”, sono gli scogli su cui si frantuma bruscamente l’opinione, i luoghi in cui si contorce e storce il duplice filo del senso comune e del buon senso.
Al bucolico e troppo irenico thaumazein di aristotelica memoria, Deleuze ha del resto sempre preferito il traumatizestai, l’essere ferito, la violenza dell’urto, l’impatto col Reale e col Fuori che, solo, forza il pensiero costringendolo al movimento. Il traumatizestai è dunque questa spinta paradossale e quella situazione ottica pura in cui, soltanto, gli eventi fanno segno (p. 63).
Che sia una via paradossale a permetterci di cogliere il senso di questo libro è dunque forse il primo e più significativo segno che non si tratta di lettera morta. Per dire, per esplicitare il sottinteso di una filosofia, lo storico, così come il saggista e lo scrittore, deve d’altronde condividere con quel pensiero una “causa comune”, la medesima urgenza nascosta magari tra le pieghe del discorso. In altre parole, l’atto ermeneutico è sempre creativo, ma creativo perché critico e critico perché violento.
«Con questo saggio non pretendo di aggiungere una mia introduzione all’opera di Gilles Deleuze alle tante, validissime, che circolano. La mia intenzione è un’altra. Ciò che mi sono proposto è scrivere un capitolo di storia della filosofia contemporanea» (p. 9). Tutto sta, quindi, nell’intendersi su cosa sia la storia della filosofia contemporanea e su cosa significhi scriverne un capitolo. Deleuze al riguardo è piuttosto chiaro: «Il mio modo di cavarmela –scrive ‒ consisteva soprattutto nel fatto di concepire la storia della filosofia come una specie di inculata o, che è lo stesso, di immacolata concezione. Mi immaginavo di arrivare alle spalle di un autore e fargli fare un figlio, che fosse suo e tuttavia fosse mostruoso» (Pourparler, 1990).
L’immacolata concezione evocata da Deleuze è critica radicale all’immagine dogmatica e stereotipata della filosofia e della storia che se ne scrive. «Critica» nel senso in cui, provocando un “crollo centrale” del pensiero, obbligandolo a pensare questo crollo e questa impotenza che è sua propria, essa apre una crisi che mette in causa il modello trascendentale implicato dall’immagine dogmatica, ossia il modello della ricognizione mediata dall’esercizio concorde di tutte le facoltà e garantita dall’identità dell’Io per un soggetto supposto identico. Nella sua differenza la filosofia deve, per Deleuze, opporre all’immagine l’avventura dell’incontro senza affinità né predestinazione. Detto altrimenti, in gioco è una certa tensione, da sopportare e da cui lasciarsi attraversare. Per Deleuze infatti non è questione di giudicare ma di “far esistere” (Critica e clinica, 1993), di creare, spingendo il pensiero critico fino in fondo, ossia al di là del principio della quadruplice e organica ragione.
“Sua e mostruosa”, in una parola, perturbante, la nuova immagine del pensiero (a cui Deleuze dà il nome di empirismo trascendentale) non è perciò una semplice rappresentazione ma un’intuizione e questa non tanto come sguardo panottico e distaccato che tenta il sorvolo quanto, piuttosto, come esperienza diretta, intensiva e affettiva di forze che si dispiegano e che disfano ogni elemento di trascendenza, il soggetto come l’oggetto. Questa è l’avanguardia deleuziana: stazionare, fuggire fermi sul posto, perché divenienti infinite variazioni. E quale filosofo non si augurerebbe di produrre una immagine del pensiero che non dipenda più dalla buona volontà del pensatore e dalla sua decisione premeditata? Chi cioè non vorrebbe affrancarsi dal dogmatico atteggiamento trascendentale che questiona le condizioni dell’esperienza possibile per guadagnare quella genitalità che è genesi statica e intrinseca dell’esperienza reale?
La differenza dunque risiede nella concezione di storia della filosofia che si presuppone e che, nel caso di Ronchi lettore di Deleuze, è indubbiamente mutuata dal suo oggetto di studio. Nessun racconto lineare in cui la vicenda si è già tutta consumata e che, da qualche parte nella “mente” dell’autore che si accinge a esporla, attende solo di essere “rivelata”. Nessun monumentale e mortifero allestimento di fatti avvenuti, e perciò morti, in cui il tempo del racconto non fa nulla (p. 9). Da Deleuze viene tutta un’altra idea di storia della filosofia che, accettando il suggerimento di Ronchi, si può definire “problematica”, campo e insieme teatro di una battaglia di cui non si conosce anticipatamente né l’esito né lo scioglimento. Del resto, solo l’assenza di presupposti punta dritta alla creazione. E lo fa procedendo senza concetto: come l’intuizione di Kant e al modo della differenza di Deleuze.
Affermare che il testo di Ronchi non è l’ennesimo saggio su Deleuze proprio perché lo è significa, allora, affermare quest’assenza di presupposti, ribadire quel “senza concetto”. Così vicino al “senza tempo” dell’inconscio di Freud, al “senza senso” del Reale che ossessiona Lacan, ma anche e soprattutto, al “senza immagini” che Deleuze attribuisce al pensiero.
E tuttavia, se il saggio di Ronchi non è l’ennesimo lavoro consacrato a Deleuze è perché, anzitutto, esso consiste in quell’atto, del vivente prima che della matematica (o della matematica perché del vivente) che è l’elevazione alla n, la “messa in potenza”. La n come lettera, viva, della ripetizione cara a Deleuze, della buona ripetizione in cui a tornare è la differenza. N è la lettera del ritornello a cui la musica fa subire il “trattamento molto speciale della diagonale o della trasversale” (Millepiani, 1980) strappandolo così alla sua territorialità. Ennesima è cioè la ripetizione che sfugge al concetto perché preferisce crearlo, è la differenza come forza selettiva. N è il tema assunto come radiale e non come terminale per dirla con Glenn Gould; è il marchio di quella “superfetazione di un atomo intuitivo e indicibile” che è il filosofo secondo Henri Bergson. N è, infine, il segno di una nuova immagine del pensiero.
A partire da un singolare anacronismo si sostanzia la scelta di dedicare a Deleuze e non a Bergson un saggio in una collana che si chiama «Eredi». Se infatti il filosofo, come Deleuze ama ricordare, è l’artista del concetto, egli è tale, ossia lo diviene, solo dopo essere stato un umile ritrattista. Perché è nel servizio, nell’apprendistato e nell’esercizio con la E maiuscola che si prepara il terreno propizio alla creazione. Ronchi ha cominciato ritraendo Bergson e lo ha fatto mostrando che ogni volta che si rileggono davvero, ossia integralmente e senza pregiudizi, i testi di autori famosi, di filosofi e maestri da tempo assegnati e «sistemati» entro la tradizione storico-critica, si scopre, con immenso stupore, quanto quest’ultima sia spesso in difetto rispetto alla verità. E siccome ogni apprentissage è, nel tempo, un’avventura dell’involontario (Proust e i segni, 1964), accade che, après-coup, dopo i colpi della tecnica e dell’esercizio, improvvisamente s’incontri qualcuno per la prima volta pur avendo certezza che sia l’ennesima. Primultima direbbe Jankélevitch.
In una collana dedicata ai maestri di cui ci sente eredi, Ronchi sceglie Deleuze proprio perché ha cominciato con Bergson. Ritraendo il filosofo dell’élan vital (cose antiche), egli si è infatti imbattuto nell’empirismo trascendentale (cose meno antiche). Meglio: è riuscito a ritrarre Bergson come un filosofo dell’interpretazione solo perché, senza saperlo, era già interpretante dei segni deleuziani (cose antiche che vengono dopo cose meno antiche). Come ricorda Deleuze: «apprendere è qualcosa che concerne essenzialmente i segni. Questi sono appunto oggetto di un apprendimento temporale e non di un sapere astratto […] Occorre essere predisposto ai segni, aprirsi al loro incontro, aprirsi alla loro violenza» (Proust e i segni, 1964).
Dalle cinque sezioni-sfondo in cui si articola il volume, si staglia l’immagine di un Deleuze radicalmente monista, inaspettatamente platonico e sorprendentemente reale. Contro ogni lettura della filosofia deleuziana in termini di metamorfismo energetico, caleidoscopico e, però, eminentemente entropico, Ronchi insiste su quell’unico ritornello, su quell’unico evento colto da diverse date e rifrangentesi in quella “multiversità dello spettro filosofico” (P.A. Rovatti) che è la filosofia di Deleuze, il quale, come l’autore sottolinea più volte, dice, in fondo, sempre la stessa cosa. In secondo luogo, ribaltando la vulgata tradizionale – quella che allestisce l’immagine, forse la più stereotipata, di un Deleuze eroe del rovesciamento del platonismo, colui che cioè ha realizzato, nel senso di portare a compimento, il programma nietzscheano ‒ Ronchi piazza al centro del pensiero contemporaneo l’immagine di un Deleuze profondamente platonico, di un Deleuze classico e perciò davvero eversivo. Infine, alla lettura militante ma sclerotizzata che ha fornito le chiavi per aprire e utilizzare quello scrigno di parole-azione che è L’Anti Edipo, immagine sacrificata all’aut-aut tra simbolico e immaginario, Ronchi sostituisce quella di un Deleuze speculativo, filosofo rigoroso e singolarmente realista, nel duplice senso di colui che, con un unico atto di fede nel Reale, dichiara simultaneamente scacco matto al re e alla regina. Né simbolico né immaginario, al di là del padre e della madre, il Deleuze di Ronchi è infatti assolutamente reale, vera e propria intrusione del primum et tertium, puro e anedipico, che spezza il doppio vincolo tra legge repressiva e godimento illimitato. Facendo dell’intuizione un metodo e della diairesis agonistica il suo banco di prova, la lettura che Ronchi propone di Deleuze è militante perché atletica, in lotta per l’affermazione dell’infinita uguaglianza dell’essere in ogni ente contro ogni oscena e fascista visione di questa univocità.
Si tratta, per riprendere una battuta delle pagine iniziali del testo, di essere “veggenti più che attanti”, di provare a vedere nella luce più che con gli occhi e di indicare, poi, ciò che si è visto, piuttosto che sforzarsi a organizzarne fin da subito la traduzione simbolica. Il mistico infatti “fissa, intensifica e completa in azione” ma, soprattutto, crede. Crede intransitivamente perché veggente. L’atto di fede è questa forza neghentropica che approda a un’immagine diretta del tempo e/o dell’evento e che spinge in direzione contraria all’entropia del senso comune (p. 18). E l’evento in questione è il ’68. A quella data Deleuze associa l’intrusione del Reale puro, del Reale univoco che è processo morfogenetico, produzione incessante della forma risalente all’indietro la china dell’indifferenziato. Se il Deleuze di Ronchi non né simbolico né immaginario è perché è un’esperienza pura, un’intuizione come simultaneità delle due direzioni contrarie e una penetrazione insieme impossibile (per la rappresentazione) e necessaria (alla filosofia).
Solo nell’opportuna espressione, che è inevitabile esplicatio, di questa esperienza e complicatio riecheggia quell’unico ritornello che intona ciò che tutti vogliamo e siamo: unitas multiplex. Ed è questo rumore di fondo, che è quello del processo ‒ per dirla con Whitehead ‒, dell’atto in atto – per usare un lessico caro a Gentile ‒ e/o della molteplicità illimitata e mouvante di forme finite, che sono le immagini mobili di Bergson e le figure atletiche di Deleuze, che bisogna allenarsi a ascoltare trasformando l’occhio in orecchio. Si tratta di esercitarsi a stazionare presso questo brusio fino a fare tutt’uno con esso, fino a sentirsi divenire quel rumore e quel fondo. Solo così si è degni dell’istante pulsionale in cui Alfa cortocircuita Omega.
Se questo, come rimarca Ronchi, è il programma di ogni ontologia è perché è anzitutto il compito primo della filosofia, della philosophia perennis et bona: «arrivare alla formula magica che cerchiamo tutti. Pluralismo=monismo, passando per tutti i dualismi che sono il nemico, ma il nemico assolutamente necessario, il mobile che non cessiamo di spostare» (p.79). Millepiani = un piano: questo è il sesamo per una filosofia dell’immanenza assoluta.
Dalla psico-analisi all'analisi critica del soggetto politico
In Lacan politico (Cronopio, 2015), Bruno Moroncini si cimenta nell'impresa, quantomai ardita, di estrarre dal corpus letterario di uno dei pensatori più controversi dell'ultimo secolo una serie di concetti di matrice politica, rilanciando così la partita della politicità intrinseca alla pratica psicoanalitica - in particolare se di orientamento freudo-lacaniano - e insieme la riflessione sull'annosa questione del “disagio della civiltà” che, pur latitando dall’attuale orizzonte filosofico, non può che rimandare direttamente alla questione dell’ordinamento politico. L'impresa è davvero ardita, e lo è al netto di ogni retorica se si considera che lungo l'intero arco del suo insegnamento Jaques Lacan si è sempre ben guardato dal parlare esplicitamente di politica e non ha mai nascosto un certo qual disprezzo per il materiale antropologico di cui dispone ogni partito, governo o istituzione impegnati in un progetto teso a migliorare le condizioni di vita di una collettività. Significativa, a tal riguardo, è un'intervista rilasciata a Roma nel 1974: Lacan arriva qui addirittura ad affermare che gli scienziati «cominciano ad avere un'ideuzza che si potrebbero creare dei batteri resistenti a tutto, che nessuno potrebbe più fermare. Forse così si ripulirebbe la superficie della terra da tutte le cose merdose, in particolare umane, che la abitano», per poi lasciarsi andare a una fantasia: «che sollievo sublime sarebbe se tutto d'un tratto avessimo a che fare con un vero e proprio flagello, un flagello uscito dalle mani dei biologi. Sarebbe veramente un trionfo» (Lacan, 2006, p. 96).
L'aneddoto dovrebbe bastarci a diffidare dell’autore degli illeggibili Scritti qualora ci trovassimo, come accade oggi, a dover rivitalizzare un discorso politico che riversa esangue a partire almeno dal 1989, data che inaugura la cosiddetta “fine della storia” e consegna all'ultimo uomo quella condizione di languido tormento, quell'eterno sabato di nietzscheana memoria che è un po' la cifra della civiltà occidentale post-moderna o, che dir si voglia, contemporanea. L'invito di Moroncini, invece, è quello di scavalcare la radicale impoliticità del pensiero di Lacan per provare a scovare, nei meandri della sua scrittura mistica e respingente, dei punti cardinali per la riflessione politica odierna e degli strumenti concettuali raffinati che possano orientare una critica del presente alternativa all’usuale paradigma marxista.
Il libro si apre con un dialogo serrato tra lo psicanalista francese e Alain Badiou sulla possibilità, per le scienze umane, di individuare una logica collettiva sulla quale fondare movimenti di resistenza, ovvero degli insiemi politici che possano alterare l'ordine di cose esistente. Attraverso una dettagliata analisi de Il tempo logico e l'asserzione di certezza anticipata (Lacan, 1974, pp. 191-207)¹, forse lo scritto che sintetizza al meglio le basculanti e difficili relazioni tra psicanalisi e politica, Moroncini mostra come per entrambi gli autori il cominciamento del politico possa essere individuato nel processo di decifrazione del reale in cui ogni singolo soggetto è necessariamente implicato, e evidenzia come lo stesso processo, che per la psicanalisi non è altro che il meccanismo attraverso cui si istituisce il soggetto individuale, sia assunto da Badiou come direttiva pratica per la creazione di un movimento politico.
Il tentativo di far rientrare la psicanalisi all'interno della prospettiva rivoluzionaria-comunista, però, deve fare i conti con alcuni fra i postulati più importanti del pensiero di Lacan: «Se Lacan parte dal soggetto singolare - singolarizzato dal significante che lo rappresenta nell'ordine simbolico -, il rapporto intersoggettivo non potrà mai essere pensato come preesistente e fondante, ma dovrà essere compreso come il risultato di uno scambio ambiguo e complesso fra il soggetto e l'Altro. Nè appunto quest'ultimo può essere confuso con un'intersoggettività fungente di stampo fenomenologico; l'Altro da questo punto di vista è solo una batteria ordinata di significanti e non è né un Soggetto-sostanza, come lo spirito hegeliano, né una pluralità di soggetti da sempre in relazione fra di loro come per Husserl o per Arendt. Per Lacan il soggetto è sempre quello barrato che ex-siste rispetto all'Altro, che, giusta la figura topologica dell'otto interno, è dentro-fuori l'Altro. Perché si costituisca qualcosa come una relazione intersoggettiva o anche un'organizzazione politica nel senso di Badiou, è necessario allora partire dal tentativo di decifrazione che ogni soggetto fa per proprio conto di ciò che vuole l'Altro dal momento che il significato soggettivo è contenuto in quest'ultimo come un tesoro sta nascosto in uno scrigno (è il motivo d'altronde per cui Lacan lo chiama il tesoro del significante). Una decifrazione appunto ai limiti dell'impossibile dal momento che l'Altro è (l')inconscio» (Moroncini, pp. 29-30).
Porre l'accento sulla natura costitutivamente separata del soggettomina infatti alle basi la possibilità stessa di un'intersoggettività immediata, assunta spesso dalla riflessione filosofica alla stregua di un dato naturale e appunto postulata nella riflessione di Badiou, che sembra occuparsi della definizione di una soggettività collettiva senza minimamente problematizzare quella del singolo. Si staglia con precisione, in questo passaggio, la differenza radicale che distanzia la psicologia di Lacan dalla filosofia e che rende impossibile, anche per Badiou, l'assimilazione del lacanismo a qualsiasi progetto politico che si affidi alla forma-partito: la necessità di pensare il soggetto come fondamentalmente isolato, resto individuale, come sintomo sociale del reale, prodotto dal discorso e dilaniato dal linguaggio che presiede alla sua stessa costituzione. La caustica ironia che, come nell'aneddotosopracitato, Lacan sfodera nei suoi seminari e negli interventi pubblici, lascia infatti trasparire un pensiero politicamente disilluso, animato da una sobria e lucida solitudine, che non riesce a sganciarsi dall'assunto radicale secondo cui il dramma dell'insolubilità che definisce i conflitti politici non sia altro che la manifestazione di una soggettività separata a se stessa, votata alla mancanza e costitutivamente insoddisfatta. E'questo il senso da attribuire alla massima «non esiste rapporto sessuale», con la quale Lacan allude all'impossibilità per due soggetti di «fare uno», di unirsi in un rapporto altro da quello puramente fantasmatico, essendo i soggetti appunto già divisi in se stessi da una lacerazione costitutiva.
Ma se a sbarrare l'unità del soggetto è il «discorso dell'Altro», la catena significante che insiste quale condizione materiale del pensiero, Moroncini approfondisce e problematizza, nella seconda parte del testo, il concetto di «discorso» sviluppato nel Seminario XVII, non a caso intitolato Il rovescio della psicanalisi², e propone di leggerlo alla luce della differenza saussuriana tra langue e parole: «Il discorso è una realtà linguistica che si pone fra la langue e la parole: della prima conserva il carattere formale, di struttura, della seconda l'aspetto determinato e singolare; il discorso insomma da un lato indica relazioni concrete, specifiche, modi determinati di produzione del sapere, ruoli e posizioni assunti dagli attori coinvolti in queste relazioni, dall'altro evita la proliferazione potenzialmente illimitata delle emissioni di paroles, la dispersione disordinata di enunciati singolari, l'assenza di invarianti e quindi l'impossibilità di qualunque insegnamento e trasmissione» (Moroncini, pp. 77-78). Moroncini individua quindi nel concetto lacaniano di «discorso» quel «legame sociale attraverso il quale si compie il processo della produzione, accumulazione e trasmissione del sapere, e insieme quello in cui si produce il soggetto del sapere, il fondamento cioè su cui questi poggia o si regge» (p. 80), ovvero lo strumento concettuale più adatto a fondare una critica filosofica e psicoanalitica del campo politico odierno, ponendo l'accento, più che sui rapporti di sfruttamento capitalistici, sui processi di soggettivazione. Disposizione strategica del pensiero, questa, che si fa carico dell'alto grado di complessità che caratterizza il mondo contemporaneo, sempre più intasato da narrazioni salvifiche, escatologie low-cost e programmi politici di stampo paranoide, dei quali una certa critica mainstream non sempre riesce a rendere conto.
E' così allora che nella terza parte del libro, intitolata Politiche dell'angoscia, richiamandosi agli studi freudiani sulla psicologia delle masse e facendo dialogare Heidegger con Lévinas, Moroncinipone l'accento su come il politico si ponga sin dalle sue fondamenta storiche come quell'ontologia tesa a suturare il reale «bucato» dal discorso dell'Altro, attraverso l'impossibile instaurazione di un metalinguaggio, e su come l'insistita reviviscenza nella storia della «massa primordiale» altro non sia che «l'origine della civiltà umana in generale, la cui tematizzazione è resa possibile però solo dalle attuali condizioni della vita soggettiva. Come la conoscenza dello scheletro umano permette quello della scimmia, così la realtà delle folle urbanizzate dissolve le brume dei primordi ancestrali» (p. 145).
Considerazioni, queste, che dovrebbero risuonare in tutta la loro carica sovversiva di fronte allo spettacolo increscioso e barbaro offerto dalla politica contemporanea, condannata allo stallo da una sorta di coazione a ripetere che riproduce il fenomeno della campagna elettorale nei contesti più disparati, esemplificando al meglio la deriva che può assumere il dibattito politico – e l'esercizio stesso dell'autorità istituzionale – qualora non siano esplicitati e messi in causa i moventi libidici, gli interessi particolari e strumentali che questo dibattito presuppone o nel caso in cui non si disponga di un arsenale interpretativo tale da poter decostruirne il linguaggio o meglio, il «discorso». «L'intrusione nel politico può essere fatta solo riconoscendo che non c'è discorso, e non solo analitico, se non del godimento, almeno quando ci si aspetta il lavoro della verità» (Lacan, 2001, p. 93): è con questa massima, allora, che potremmo riassumere la posizione privilegiata detenuta oggi dalla psicanalisi nel dibattito filosofico-politico. Concentrando le sue attenzioni sulla dimensione puramente impersonale del linguaggio e sottomettendo l'attività conscia del soggetto a qualcosa che è disciplinare per necessità, Lacan pone così le basi per un ripensamento critico delle forme concrete in cui si articola il nostro vivere sociale, e rilancia così la partita politica sul campo dell'interpretazione e dell'atto soggettivo che rende conto dei rapporti di subordinazione strutturali, istituiti a partire dalla realtà politica in quanto «realtà di linguaggio».
E' questo, allora, il contributo concreto che la psicoanalisi può fornire oggi al dibattito filosofico, per favorire una riflessione che dislochi il reale della politica dall'arena pubblica in cui è condannato a essere mimato, rimosso e mistificato allo spazio intimo e interno al soggetto, radicando così nell'atteggiamento individuale di fronte al mondo e nello sforzo singolare verso la comprensione quella tensione eticain grado di realizzare, anche se per poco, una relazione intersoggettiva scevra da illusioni e fantasie sociali. Una relazione che sia però consapevole dei limiti intrinseci dell'essere parlante: «L'inconscio, che vi dico così fragile sul piano ontico, è etico...e comunque sia bisogna andarci dentro» (Lacan, 2003, p. 34).
Note
1. Testo nel quale al lettore è sottoposto il famoso apologo dei prigionieri, rompicapo logico che riassume le problematiche sollevate dall'introduzione dell'inconscio (quello di Lacan, strutturato come un linguaggio) come variabile nella riflessione filosofico politica.
2. L'allusione è proprio la filosofia come disciplina che, pur fruendo delle potenzialità creative del linguaggio, non ne considera quegli effetti che potremmo considerare di «rinculo», o di «contraccolpo», che sono invece il campo dell'esperienza psicoanalitica: «Attraverso lo strumento del linguaggio si instaura un certo numero di relazioni stabili, all'interno delle quali è di certo possibile iscrivere qualcosa che è molto più ampio e che va ben oltre le enunciazioni effettive. Nessun bisogno di queste perché il nostro comportamento, i nostri atti si iscrivano eventualmente nel quadro di certi enunciati primordiali» (p.5)
Bibliografia
Lacan, J. (1974). Il tempo logico e l'asserzione di certezza anticipata (in Scritti, Vol. I). Einaudi : Torino
Lacan, J. (2001). Il Seminario XVII: Il rovescio della psicanalisi. Einaudi : Torino
Lacan, J. (2003). Seminario XI: I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi. Einaudi : Torino
Lacan, J. (2006). Dei Nomi del Padre seguito da Il trionfo della religione. Einaudi : Torino
Muoversi comporta costruire spazi. Che gli spazi siano costruiti non significa che la materialità di pianure mari monti fiumi foreste sia irrilevante: anzi, è proprio a partire dai vincoli imposti da tale materialità che procede il processo di ominizzazione. Il compito delle scienze umane, allora, consiste nel pensare l’intreccio tra questi vincoli ‒ la datità dell’elemento geografico, potremmo dire ‒ e quegli atti, collettivi e individuali, di conferimento di senso che rendono gli spazi l’a priori materiale della storicità. Non c’è storia, infatti, se non a partire da una geografia, come non c’è un abitare gli spazi del mondo che non sia impregnato dei significati che una collettività di parlanti condivide.
Il presente numero vuole invitare a riflettere sulle strutture categoriali che stanno alla base del cosiddetto spatial turn occorso nelle scienze umane. Si tratta di una svolta che ha accompagnato la necessità di analizzare attraverso uno sguardo unitario una serie di processi storici, culturali e politici che, in varia misura, mettono in evidenza come la comprensione delle pratiche sociali contemporanee debba partire dall’analisi dei modi in cui, di volta in volta, si attua l’entanglement (per usare l’espressione dell’archeologo Ian Hodder) tra spazi e pratiche sociali. Con il termine “globalizzazione” altro non si intende, infatti, che il modo in cui si dispongono l’uno accanto all’altro i vari spazi di flussi entro i quali i processi di soggettivazione hanno luogo. L’enumerazione di questi ultimi fa ormai parte delle retoriche che il senso comune utilizza per definire i tratti più caratteristici e maggiormente salienti della contemporaneità. Abbiamo il flusso di micro-organismi e agenti patogeni, il flusso di informazioni che circola nel web, il flusso delle materie prime e delle merci, il flusso di capitali che il mercato dei prodotti finanziari sposta incessantemente, il flusso dei lavoratori della conoscenza, il flusso dei migranti, il flusso dei rifiuti, i processi di gentrificazione e di trasformazione delle aree urbane, e infine i flussi di gruppi di specialisti, tecnologie informatiche e armi generati dalla gestione geostrategica delle varie aree del pianeta.
Può l’oggettualizzazione essere considerata una parte meravigliosa e inestirpabile della vita sessuale? È questa la spiazzante domanda che Martha Nussbaum si pone in un articolo risalente al 1995, ora disponibile in edizione italiana presso le Edizioni Centro Studi Erickson, dal titolo Persona oggetto. In quell’occasione la filosofa americana si inseriva in un dibattito che trovava quali interlocutrici privilegiate due voci autorevoli e irriverenti del femminismo radicale d’oltreoceano come Andrea Dworking e Catharine MacKinnon. L’oggetto del contendere – mi si perdoni il gioco di parole – consisteva nella ridefinizione di un concetto fondamentale della teoria femminista, per la quale appunto l’oggettualizzazione rappresentava il problema centrale nella vita delle donne – ma anche eventualmente per gli uomini, data la generalità della questione – e contro il quale andava concentrato tutto l’impegno politico. Il testo che qui proponiamo alla lettura tenta di fare chiarezza sul senso del termine oggettualizzazione, non tanto proponendone una definizione chiara ma piuttosto dimostrando la sua ambiguità sia logica che morale attraverso l’esempio fornito da sei estratti di altrettanti romanzi, nei quali sono narrati una serie di comportamenti che oggettualizzano il o la partner sessuale in modi difficilmente giudicabili in maniera univoca. Partendo da Lawrence e Joyce per giungere a Hollinghurst e Henry James, senza dimenticare Playboy e Laurence St. Clair, Nussbaum mostra come la definizione più elementare di tale comportamento, «trattare comeunoggetto ciò che in realtà non è un oggetto, ciò che è, di fatto, un essere umano», non renda la complessità di una simile pratica.
Complessità che affiora invece in maniera evidente dalle molteplici e stratificate connessioni logiche che intercorrono tra le sette nozioni fondamentali (Strumentalità, Negazione dell’autonomia, Inerzia/Passività, Fungibilità, Violabilità, Proprietà, Negazione della soggettività) riconosciute quali modalità determinanti nel trattare una persona come una cosa. Spesso infatti, ammonisce l’autrice, usiamo tale termine come un contenitore approssimativo applicando il quale giudichiamo solo uno di questi tratti, benché più frequentemente siano presenti una pluralità di elementi nel suo verificarsi. Dunque per capire che cosa accade e quando si tratta di oggettualizzazione bisogna chiedersi se ciascuna di queste voci sia una condizione sufficiente perché si possa definire un comportamento oggettualizzante. L’analisi che ne segue mette in luce una grande varietà nelle modalità attraverso le quali ci relazioniamo agli oggetti – tra loro molto differenti come una penna a sfera e un quadro di Monet – ma nello specifico mostra che gli elementi che caratterizzano maggiormente il nostro modo di trattare un oggetto sono la considerazione di nonautonomia e di strumentalità in quanto moralmente più esigenti. In particolare la non strumentalità risulta determinante nel veder garantita l’umanità altrui kantianamente intesa come fine in sé. Del resto trattiamo i nostri figli piccoli come soggetti non autonomi ma sarebbe riprovevole considerarli come meri strumenti per i nostri scopi. Il rapporto tra autonomia e strumentalità è invece messo in evidenza dalla condizione dei lavoratori e da quella degli schiavi.
Questi ultimi due esempi mostrano inoltre che riducendo a mero strumento un altro essere umano, sembra manifestarsi un’automatica tendenza nel produrre altre forme di oggettualizzazione non implicate logicamente dalla prima a causa di un blocco dell’immaginazione. Come se fosse più difficile rendersi conto dell’umanità altrui. Nonostante ciò anche la strumentalità – ci avverte Nussbaum – non risulta negativa in tutti i contesti ma solo quando l’altro viene trattato principalmente o esclusivamente come strumento. Non parleremo infatti di strumentalizzazione in senso negativo qualora usassi la pancia della mia amante come cuscino, a patto di avere il suo consenso naturalmente, ma anche in questa situazione si tratterebbe ugualmente di strumentalizzazione. Ciò che ne emerge è che per determinare un trattamento di oggettualizzazione nei confronti di qualcuno entrano in gioco valutazioni complesse che non si devono limitare all’individuazione di una sola delle nozioni indicate, ma piuttosto distinguere quali di queste si manifestano e in quale relazione si dispongono, con la consapevolezza che prese di per sé singolarmente e fuori contesto non possiedono un carattere intrinsecamente negativo o positivo.
È a questo punto che Nussbaum mostra il suo legame con la teoria kantiana del desiderio sessuale e del matrimonio. La filosofa americana concorda in parte con Kant rispetto all’idea che il desiderio sessuale sia una forza molto potente che contribuisce alla strumentalizzazione delle persone come se fossero cose, mezzi per la soddisfazione dei propri desideri. Nell’atto sessuale – secondo il filosofo tedesco – entrambi i soggetti smettono di considerare l’altro come autonomo e come dotato di soggettività poiché non si domandano più che cosa l’altra persona sente o pensa, protese come sono ad assicurarsi la propria soddisfazione. Al tempo stesso però il forte interesse reciproco di entrambe le parti per la soddisfazione sessuale le spingerà a permettere a se stesse di farsi trattare come cose, farsi cioè deumanizzare per deumanizzare a loro volta l’altro/a. Tale dinamica non presenta connotazioni di genere o asimmetrie gerarchiche di matrice sociale ma è intrinseca all’atto sessuale stesso. La reciprocità diviene dunque elemento rilevatore della natura intrinsecamente ambigua della relazione sessuale, nella quale strumentalizzazione, inerzia, passività etc., possono avere un ruolo positivo a seconda del contesto. «Il contesto è tutto» se affrontiamo un'analisi di questo genere poiché operiamo su di un terreno in cui la psicologia dei particolari individui coinvolti risulta determinante, così come la natura del loro rapporto e le sue dinamiche interne in relazione alle consuetudini culturali nel quale è immerso. Spesso intimi scambi di battute, atteggiamenti e comportamenti tra amanti, se avulsi dalla situazione in cui si verificano o vengono pronunciati, possono essere fraintesi poiché ciò che viene perduto dalla generalizzazione è proprio quella densità significante data dall’interrelazione tra essa e gli elementi che compongono, stratificandolo, il concetto di oggettualizzazione.
A questo livello opera la critica di Nussbaum nei confronti delle posizioni assunte da Dworking e MacKinnon che, se pur fedeli alla visione kantiana dell’incompatibilità tra rispetto e negazione dell’autonomia, della soggettività e strumentalizzazione, non sono disposte a credere che tali negazioni siano intrinseche alla natura stessa del desiderio sessuale, ma fanno pendere l’ago della bilancia interamente verso la socializzazione dell’erotismo in un contesto ricco di gerarchia e dominazione. Ciò impedisce loro di distinguere i differenti aspetti che costituiscono l’oggettualizzazione e che fanno emergere la complessità del desiderio e della sessualità. Questa semplificazione del campo di indagine si riflette soprattutto a livello politico poiché la soluzione addotta per questo stato di cose consisterà in un progressivo disfacimento di tutte le strutture istituzionali che inducono gli uomini a erotizzare il potere. Se pur in parte d’accordo sulla necessità di una profonda riforma sociale e istituzionale, Nussbaum pare meno incline a considerare le istituzioni soltanto in senso negativo; il punto non sembra tanto essere una questione di disfacimento, quanto piuttosto di modifica e riformulazione attraverso la conoscenza di come gli elementi che costituiscono la pratica dell’oggettualizzazione si connettono, interagiscono ed emergono dal contesto.
L’uso della letteratura assume proprio questo scopo, fungendo all’autrice da laboratorio sperimentale nel quale mettere alla prova la sua proposta e la critica alle sue interlocutrici, analisi questa che lasciamo percorrere al lettore.