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Strani strumenti. L'arte e la natura umana è un libro che tratta di arte, scritto da un filosofo. Eppure, non è un libro di filosofia dell’arte, o quantomeno non negli intenti del suo autore. Secondo Noë, l’arte non è un fenomeno da analizzare, come può esserlo invece un rito d’iniziazione, o la riproduzione cellulare. Di cosa si tratta allora? La tesi principale di Noë è che l’arte, proprio come la filosofia, sia piuttosto una pratica di ricerca. Gli oggetti artistici, in quest’ottica, non valgono propriamente come oggetti, ma come strumenti—strumenti dotati di una natura peculiare—attraverso cui è possibile fare luce sulla natura umana, tanto da chi li produce, quanto da chi ne fruisce. 

Pubblicato nel 2015 da Hill & Wang, e tradotto da Vincenzo Santarcangelo per Einaudi nel 2022, Strani strumenti propone una riflessione sui rapporti—solo in apparenza superficiali—tra arte e filosofia. Noë intende infatti queste due discipline come specie diverse di un genere comune: pratiche di ricerca «assillate dalla volontà di comprendere in che modo gli esseri umani sono organizzati e quali possibilità di riorganizzazione possiedono» (p. ix). L’analisi delle relazioni che intercorrono tra organizzazione e pratiche riorganizzative costituisce il cuore teorico della proposta di Noë. Cerchiamo di ricostruirne brevemente le dinamiche.

Innanzitutto, Noë osserva che il tratto fondamentale della vita umana e delle attività in cui essa si dispiega è l’organizzazione. «Parlare, camminare, mangiare, percepire, guidare: siamo costantemente catturati in strutture organizzative. È la nostra condizione naturale, anzi biologica. È ciò che ci rende esseri umani» (p. 13). Siamo dunque organizzati per natura—ed è questo un punto su cui sarebbe difficile non convenire. Il vero nocciolo della questione è piuttosto cercare di comprendere l’estensione del concetto di natura, e il suo rapporto con la sfera della cultura. Rispetto a questo tema, Noë sposa la tesi—sostenuta, nella sua veste più contemporanea, da Andy Clark e David Chalmers—della mente estesa. In breve, noi non siamo il nostro cervello: «Le nostre menti sgorgano dalle nostre teste e vanno a finire sulla carta, nel mondo» (p. 34). Da una parte, il livello cognitivo dipende costitutivamente dall’ambiente (naturale e sociale) in cui siamo inseriti, dall’altra, le nostre pratiche tecnologiche—ad esempio, scrivere, o disegnare su un pezzo di carta—sono parte integrante del livello cognitivo. Con le parole di Noë: «Il fatto è che noi non ci limitiamo a usare strumenti; noi pensiamo con essi» (p. 27).

L’attenzione di Strani strumenti si dirige soprattutto su quest’ultimo punto. Noë sostiene che gli esseri umani sono designer per natura. Le pratiche tecnologiche, come la scrittura, la produzione di immagini o di artefatti dotati di funzioni specifiche, sono fenomeno naturali che organizzano la vita umana: «Le persone usano gli strumenti in modo naturale, come fossero api che costruiscono alveari o uccelli che nidificano» (p. 25). Non vi è dunque soluzione di continuità tra natura e cultura, tra organizzazione biologica e organizzazione tecnologica. Gli strumenti tecnologici non sono che «l’armamentario grazie al quale svolgiamo le nostre attività organizzate» (p. 24), e dunque grazie al quale gli esseri umani esprimono le loro potenzialità.

Tuttavia, le nostre attività organizzate non sono di per loro autoriflessive, o autocritiche. In un certo senso, tali attività semplicemente si dispiegano. L’arte (come la filosofia) fa invece di più, poiché, secondo Noë, è una pratica di ricerca che si sostanzia di tali attività, che riflette sulla loro organizzazione e che così facendo è in grado di riorganizzarle, e dunque di riorganizzarci. Noë propone di individuare «due livelli: il livello 1 è quello dell’attività organizzata o della tecnologia; il livello 2 è quello in cui questa organizzazione di più basso livello è esposta e indagata» (p. 36). Al livello 2 troviamo così le diverse arti (pittura, musica, letteratura, ecc.) e la filosofia. La coreografia, per riprendere uno degli esempi più ricorrenti del libro, è una pratica che mette a tema l’attività della danza e ne riscrive le regole, la riorganizza. La pittura fa lo stesso con la produzione di immagini, mentre la filosofia con le idee, i concetti e le credenze.

La separazione tra il primo e il secondo livello non è netta. Vi è infatti una costante retroazione delle pratiche riorganizzative sulle attività organizzate. La coreografia riorganizza l’attività del ballo, e così facendo questa attività non sarà più la stessa di prima: «In un mondo in cui il ballo è stato già rappresentato, non sarà più possibile ballare prescindendo dall’immagine di tale attività» (p. 36). La danza ri-organizzata costituirà così il materiale per le coreografie a venire. La sfera delle attività di livello 1 e la sfera delle pratiche di livello 2 risultano dunque separabili solo analiticamente; di fatto, secondo Noë, sarebbe fuorviante pretendere di pensare a un modo di ballare che prescinde dalla rappresentazione del ballo (coreografia), e altrettanto impossibile sarebbe tornare a un vedere o a un modo di produrre immagini che precede la pittura. 

Come si può allora distinguere tra il ballo per così dire spontaneo, irriflesso, e una rappresentazione coreografica, oppure tra un’immagine pubblicitaria e un’opera d’arte conclamata? Una distinzione fondata sul loro modo di apparire risulterebbe inefficace. Noë sostiene infatti che «l’arte tenderà sempre a essere materialmente indistinguibile dalle sue fonti tecnologiche» (p. 75), dalle attività di livello 1 da cui attinge. Una pubblicità che mostra un paesaggio montano per spingerci a prenotare una vacanza e una fotografia artistica che raffigura la stessa scena sono materialmente indistinguibili; si basano sulla stessa tecnologia. La distinzione tra il livello delle arti e il livello delle attività organizzate e della tecnologia passa invece attraverso la nozione di funzionalità. Gli oggetti tecnologici sono propriamente degli strumenti che utilizziamo per ottenere determinati risultati. Gli oggetti artistici sono invece oggetti inutili, spogliati delle loro funzioni: «L’arte è nemica della funzionalità, è il sovvertimento della tecnologia» (p. 115). Ed è proprio per questo che gli oggetti d’arte si rivelano come strumenti anomali, ossia strumenti cui è stata sottratta la loro funzione

Noë porta avanti le sue tesi attingendo ampiamente dal panorama delle avanguardie artistiche. E non è certo un caso: le opere d’arte concettuale di Marcel Duchamp, le tele di Barnett Newman, le sculture di Robert Lazzarini e le installazioni di Robert Irwin—per ricordare alcuni degli artisti discussi in Strani strumenti—esemplificano perfettamente l’idea che l’arte sia una pratica che «interrompe, rende strano, e dunque sovverte» (p. 135) le nostre abitudini e attività organizzate. L’orinatoio Fontana di Duchamp è visibilmente un oggetto tecnologicamente elaborato spogliato della sua funzione originaria; il fatto che sia capovolto sottolinea il sovvertimento della sua funzione, e dunque un’operazione di straniamento rispetto al suo utilizzo abituale. Resta tuttavia da capire se tale concezione sia davvero in grado di abbracciare l’intero mondo dell’arte, attraverso le diverse epoche e latitudini, e se non sia invece una concezione troppo intellettualistica. In che senso—verrebbe spontaneo domandarsi—un dipinto rinascimentale o una statua greca dovrebbe essere uno strano strumento? Noë anticipa in realtà perplessità di questo genere, e riconosce che la carica sovversiva dei capolavori dei maestri del passato potrebbe non risultarci più perspicua, soprattutto se li osserviamo con il nostro sguardo contemporaneo. Si tratterà allora di guardarli di nuovo, di guardarli più a fondo per cercare di riattivarne il senso e riportare alla luce gli interrogativi e il potere sovversivo che rende quegli oggetti strani strumenti.

Ora, non vi è dubbio che si possa ripercorrere la storia dell’arte per trovare illustri esempi di opere capaci di mettere in crisi la nozione di rappresentazione, o di sovvertire le abitudini estetiche dei loro fruitori; ed è questa un’operazione assolutamente valida. Dei dubbi sorgono invece se si pensa che questa concezione dell’arte debba valere incondizionatamente. In altre parole, l’arte deve sovvertire per essere tale? Noë sembra piuttosto assertivo sulla questione, ma sarebbe forse più prudente rimodulare questa tesi e intendere la sovversione come una delle modalità dell’arte. In seguito, ci si potrebbe chiedere se questa modalità goda di uno statuto speciale, se sia la più nobile, e, nel caso, per quali ragioni. Forse quelle opere che lasciano il segno devono davvero essere sovversive. Ma è altrettanto chiaro che non tutti gli oggetti che, per motivi diversi, fanno parte del mondo dell’arte posseggono una carica sovversiva o sono in grado di sollevare questioni sostanziali. Il mercato dell’arte sembra spesso meno esigente, e i suoi oggetti meno strani (nel senso delineato in Strani strumenti), di quanto Noë probabilmente si auspicherebbe.

È dunque possibile che Strani strumenti non riesca a catturare il senso ultimo del fare arte; ed è del resto dubbio che una teoria possa riuscirci. In compenso, sulla base dei suoi lavori di filosofo e scienziato cognitivo, Noë riesce a metterci efficacemente in guardia da un approccio che una simile pretesa la ha, e che cerca risposte sul senso dell’arte nel posto sbagliato: il cervello. Vi è infatti, secondo Noë, una tendenza diffusa in campo scientifico a voler spiegare che cos’è l’arte facendo appello alle neuroscienze. Questo approccio accetterebbe acriticamente una tesi riduzionista, di provenienza cartesiana, secondo cui per comprendere un dato fenomeno bisogna guardare a quello che accade nel cervello. La neuroscienza dell’arte, ossia la neuroestetica, assume che gli oggetti d’arte siano «triggers per eventi che si producono nel sistema nervoso» (p. 149). Per Noë si tratta tuttavia di un approccio fallimentare: cercare il senso e il valore dell’arte dentro al cervello «sarebbe come cercare il valore dei soldi nella carta su cui sono stampate le banconote» (p. 114). Credo che la posizione di Noë su questo tema sia condivisibile; le ragioni a suo favore non vengono però sviluppate in modo perspicuo in Strani strumenti

Vale forse la pena spendere qualche parola in più su questo punto. In linea con le argomentazioni presentate da Noë, si potrebbe sostenere che una disciplina come la neuroestetica non può in alcun modo dirci che cosa sia l’arte. La ragione non è difficile da scorgere. La neuroestetica studia i correlati neurali delle nostre esperienze di fronte alle opere d’arte o durante i processi creativi. Un approccio di questo tipo potrà dunque essere altamente informativo su quello che accade nel cervello, ma dovrà tuttavia dare per presupposto che le esperienze prese in esame riguardino oggetti artistici, e non altro. In altre parole, la ripartizione degli oggetti del mondo in oggetti artistici e oggetti non artistici è un’operazione che precede l’attivazione di determinati correlati neurali, e non potrà dunque essere spiegata da essi. Un neuroscienziato che si accinge a studiare l’esperienza di un soggetto di fronte ad alcune opere d’arte dovrà già sapere—ancor prima di iniziare l’esperimento—che cosa vale come arte, e non potrà scoprirlo dopo aver compiuto la sua indagine. La domanda è allora la seguente: da dove proviene questa consapevolezza?

Noë ci mette qui sulla buona strada. Nessuno intende negare che l’arte interagisca con il sistema nervoso, ed è del tutto sensato affermare che senza un sistema nervoso non ci sarebbe alcuna esperienza dell’arte (né alcuna esperienza in generale). Tuttavia, il nesso causale che sussiste tra eventi neurali ed esperienza dell’arte non ci dice niente di significativo su quest’ultima. Il suo senso e il suo valore emergono altrove: «le opere d’arte sono atti comunicativi, transazioni che avvengono in una certa comunità, mosse nel contesto di un paesaggio fatto di nozioni e conoscenze condivise» (p. 114). In conclusione, il libro di Noë si rivela un valido strumento per ripensare il senso del fare arte, ma anche per smorzare le pretese di alcuni approcci riduzionistici contemporanei.

Federico Fantelli

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