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Sfogliando gli indici del Vocabulaire des Institutions Indo-Européennes di Benveniste, ci si imbatte in una circostanza singolare. Tra i vocaboli che il grande linguista prende in esame, «nel vasto tesoro delle corrispondenze acquisite», per ripercorrere a ritroso la genealogia delle istituzioni indoeuropee, la parola mythos non compare affatto. Chi ricercasse l’uso originale, ricavato per comparazione dalle fonti, di mythos, rimarrebbe dunque inevitabilmente deluso. Che mythos non presenti ricorrenze significative nel Vocabulaire, potrebbe, però, alludere a una circostanza ben più decisiva, tale da investire la storia delle religioni, l’antropologia, la filologia, la linguistica, e, in ultima analisi, lo stesso statuto epistemico delle scienze umane. Si tratta, cioè, del dubbio circa l’esistenza dell’oggetto «mito», a cui la parola mythos non cessa tuttavia di rimandare.

È proprio da questa considerazione che, quattro anni dopo l’uscita del Vocabulaire, prendeva le mosse Furio Jesi (1941-1980) in Mito, pubblicato per la prima volta nel 1973 nell’Enciclopedia Filosofica Isedi. Il libro, ristampato nel 1980 da Mondadori e nel 2008 da Aragno, è ora disponibile nella nuova edizione Quodlibet (2023) curata da Andrea Cavalletti, corredato dal saggio finora inedito La nascita dello spazio-tempo. Tale edizione si colloca in una fase indubbiamente cruciale della ricezione dell’opera di Jesi. Se, nel 2011, un interprete autorevole del pensiero jesiano come Enrico Manera annunciava una Jesi-reinassance, segnata da un rinnovato interesse perlopiù circoscritto all’Italia, oggi pare di assistere a una seconda reinassance jesiana, stavolta estesa al mondo editoriale e accademico francese, tedesco e, soprattutto, anglofono.

In effetti, Mito di Jesi si apre con l’indagine degli usi omerici di mythos che Benveniste, nel Vocabulaire, aveva omesso. In Omero, mythos significa qualcosa come «decisione», «congiura», «progetto» esistenziale e «sentenza» divina. Il campo semantico del termine include, cioè, ciò che Benveniste avrebbe chiamato gli usi performativi del linguaggio e che Jesi, in singolare consonanza con le riflessioni che Northrop Frye andava maturando in quegli anni (e che Jesi, però, probabilmente non conosceva), chiama «parola efficace» (p. 24). In Omero, però, mythos può essere «parola efficace» anzitutto perché è, insieme, «astuzia presente» e «evocazione dei tempi passati», paradossale coincidenza di «oggi» e «tempi antichi» nell’istante dove «il passato anticipa e consacra, fa vero, il presente».

È il tardo conio della parola mythología a scandire, per Jesi, uno stadio decisivo nella genealogia del lemma mythos, che coincide con una crisi epocale nella storia della cultura europea. In un processo che affonda le sue radici nella crisi dell’epos antico, ma che trova in Platone il suo più alto punto di maturazione, mythos e lógos si dispongono ai poli opposti di un campo semantico che procede da un minimo a un massimo di performatività: mythos assume il significato di un «puro raccontare […] non obbligatorio» (p. 20); mentre lógos diviene parola persuasiva, vincolante in quanto vera, efficace.

A partire dalla Grecia classica, dunque, il mythos è consegnato alla scienza e alla politica europee anzitutto come significante vuoto, simulacro di una «parola efficace» ormai resa ineffettuale e, insieme, fantoccio, straw-man contro cui la ragione non cesserà di scagliarsi, proiettandovi, al tempo stesso, i propri demoni e, paradossalmente, le proprie nostalgie. È la designazione stessa della parola «mito» a vacillare, nel sempre rinnovato tentativo di ancorarsi alla spettrale realtà di un oggetto – il mito – che è sempre «già e non più accessibile» (p. 46). In questo senso – così suona la tesi fondamentale di Jesi – la moderna scienza del mito non può che configurarsi come paradossale «scienza di ciò che non c’è» (p. 94).

Giovanni Battista Piranesi: La Grande ruota (1761)
M. Johnston, Open Access Image from the Davison Art Center, Wesleyan University

Che cos’è il mito? –  Mito di Jesi ruota, appunto, attorno a questa domanda. In effetti, il suo tratto più caratteristico è proprio di non cessare di «girare in cerchio» (p. 120) intorno all’oggetto-mito. A giudicare dal sommario, Mito si presenta in tutto e per tutto come una introduzione allo studio del mito e delle sue interpretazioni in età moderna. Di fatto, Jesi, dopo aver individuato nella «crisi nei confronti dell’accesso moderno alla mitologia» (p. 47) il punto di insorgenza della «scienza del mito» – che va dunque situato in epoca post-rinascimentale, dal momento che «il primo umanesimo e la cultura del Rinascimento […] ”vissero” o credettero di vivere» il mito (p. 33) –, traccia un percorso che, dai primi decenni del XIX secolo, attraversa la teorizzazione illuministica (Charles François Dupuis) e romantica del mito (Buttmann, K.O. Müller, Creuzer, Bachofen), si snoda attraverso lo storicismo (Wilamowitz) e l’etnologia e le scienze antropologiche del XX sec. (Malinowski, Lévy-Strauss, Dumézil), approdando alla singolare sintesi della teoria junghiana degli archetipi con il modello morfologico di Propp, che costituisce la proposta teorica dello stesso Jesi.

Eppure il senso di tale itinerario si chiarisce soltanto alla luce dell’avvertenza che Jesi pone all’inizio della Prefazione. «Codesto libro – scrive Jesi – non è una sistematica breve storia della “scienza del mito”, né un’introduzione ad essa. È piuttosto un tentativo di circoscrivere il concetto di mito mediante una tecnica di “composizione” critica di dati e dottrine, fatti reagire tra loro, il cui modello metodologico si trova nella formula del conoscere per citazioni […]. Oggetto di codesto libro è il concetto di mito nell’ambito di una enciclopedia» (p. 11). In questo senso, Jesi prese alla lettera la sfida che Mario Antonelli gli pose proponendogli di scrivere Mito per la collana Enciclopedia Filosofica della Isedi. Che l’oggetto-mito possa essere accostato soltanto con uno stile di pensiero enciclopedico, cioè attraverso una enkýklios paideîa, una vera e propria «educazione circolare», in grado di tenersi costantemente equidistante dal nucleo che potrebbe (o non potrebbe) essere occupato dal mito, ciò costituisce precisamente l’ipotesi centrale della teoria della «macchina mitologica» che Jesi andava elaborando in quegli anni, e che trova in Mito una delle sue verifiche più cogenti.

Tale ipotetico nucleo è infatti, per Jesi, il sito di un paradosso che non può essere sciolto sul terreno della scienza, ma soltanto su quello della politica. In effetti, tale paradosso si articola storicamente nel decisivo aut aut che Jesi coglie in filigrana nello sviluppo della moderna scienza del mito. Alla domanda: Qual è il compito epistemologico del mitologo?, essa può rispondere soltanto articolando e riproponendo sempre di nuovo l’ alternativa secca tra accettazione e spiegazione dei materiali mitologici: con «la consapevolezza che lo studio deve in ultima istanza promuovere l’accettazione della mitologia, il “bere alla sorgente” (secondo le parole di Kerényi), oppure con la consapevolezza che lo studio deve trovare compimento nella spiegazione delle ragioni per cui il materiale mitologico si è plasmato in determinate forme» (p. 65).

È questa spaccatura a segnare irrimediabilmente la mitologia moderna. Anzitutto istituendo i due poli attorno a cui essa incessantemente oscilla: la fede o la non-fede nell’esistenza del mito inteso come sostanza autonoma – motore efficiente che, generando e assemblando senza posa i materiali mitologici, plasmerebbe lo spazio politico e l’ordine del discorso. In questa prospettiva, la vicenda storica della «scienza del mito» coincide con una verifica costante ciò che Jesi chiama «la qualità ideologica della scelta di affermare o negare la sostanza del mito». È così che la questione intorno alla presunta essenza del mito si trasforma nella domanda sulla sua esistenza: C’è o non c’è qualcosa come il mito tra le pareti della macchina mitologica? È il mito un semplice focus imaginarius, un centro ipotetico proiettato da una circolazione di materiali culturali, scientifici e ideologici che si sosterrebbe in ultima analisi sull’umano? O, viceversa, l’umano non è che un veicolo attraverso cui una sostanza extra-umana si esprime, configurando quei materiali in un mondo sostenuto soltanto dallo spettrale rimando al suo insondabile fondamento?

Tali questioni segnalano indubbiamente il profondo legame tra Jesi e la Mythos-Debatte degli anni Settanta in Germania da un lato, e, dall’altro, la sua affinità elettiva con autori come Derrida, che, poco più di un anno prima dell’uscita di Mito, aveva pubblicato su «Poétique» La mythologie blanche. Il gesto più caratteristico di Jesi è, forse, di lasciare sine conditione alla politica l’ultima parola sulle ipotesi della scienza del mito. Certo, la politica gioca un ruolo essenziale in un Blumenberg, un Marquard o un Derrida. Eppure, che la politica coincida con il piano ultimativo di verifica della mitologia, con il giudizio di ultima istanza sulla teoria, è una posizione che, in quegli anni, è stata formulata con chiarezza pari a Jesi soltanto da un autore come Jacob Taubes. Non a caso, fu proprio Taubes, in polemica con i mitologi e i teorici della cultura che ruotavano attorno a «Poetik und Hermeneutik», a denunciare con toni tipicamente jesiani il capovolgimento della mitologia di Eliade, Kerényi, Lévy-Strauss in una vera e propria mitografia («Comune a tutti – scrive Taubes – resta il fatto che essi danno una spiegazione mitica del mito e non mirano a un punto archimedico esterno alla situazione mitica; insomma producono un “mito della mitologia”»).

Una menzione particolare merita, poi, l’ambiguo (non-)rapporto tra Jesi e la storia delle religioni italiana. In effetti, nemmeno una pagina, in Mito, è dedicata a Raffaele Pettazzoni, Angelo Brelich o Ernesto De Martino. Circostanza tanto più sorprendente in quanto non solo Jesi, nella seconda metà degli anni Cinquanta, si accostò alla questione del mito proprio attraverso le pubblicazioni della celebre «Collana viola» di Einaudi, diretta da Pavese e dallo stesso De Martino, ma soprattutto perché la dicotomia tra accettazione e spiegazione, che, in Mito, scandisce la vicenda della mitologia moderna, ricalca da vicino la tensione metodologica tra fenomenologia e storicismo che, per il tramite di Pettazzoni, diventerà un tratto caratteristico della storia delle religioni in Italia.

Ma ancora più curioso è il silenzio che Jesi riserva a un autore come Brelich, che, da Gli eroi greci (1959) a Paides (1969), aveva individuato nel kerényiano rinnovamento dell’umanesimo il compito politico dello studio storico-religioso della civiltà greca e dei suoi miti. Fu proprio tale visione del ruolo politico dell’intellettuale a determinare la partecipazione di Brelich (come di Jesi) al Sessantotto italiano («La vicenda – scriveva Brelich in Verità e scienza – non mi avrebbe potuto trovare più pronto e aperto. Ero tra i primi docenti a parteggiare, senza esitazione e perfino […] in forma insolitamente attiva, per gli studenti che smascheravano “irrispettosamente” gli atteggiamenti delle autorità accademiche […], le loro connivenze con gli interessi della reazione»). In questa luce, il mancato confronto tra Jesi e la scuola italiana appare, in Mito, come una lacuna ambigua, un’omissione carica di tutta l’eloquenza del non-detto. 

Ma torniamo ora, in conclusione, alla tesi di Jesi e al meccanismo epistemologico-testuale di Mito. Se, come suona la classica tesi di Adorno, il mito è anzitutto il sempre-uguale, la scienza del mito, vittima e al tempo stesso artefice dell’eterno ritorno della domanda sull’esistenza del mito, si fa essa stessa mitopoietica. Di fronte a questa circostanza, Jesi risponde con un risoluto nichilismo metodologico. «Nell’ambito della “storia del mito” – egli dichiara – l’unica scienza oggi possibile è la storia della storiografia» (p. 46), cioè uno studio degli approcci moderni al mito che sia in grado di cogliere la loro tensione dialettica. Tale nichilismo non coincide, però, con una professione di assoluto nominalismo. È vero che il passaggio dal greco mythos al «mito» delle lingue moderne non può essere in nessun caso legittimo. Eppure, non si può nemmeno affermare la non-esistenza in via di principio di un referente di «mito». Occorre piuttosto, secondo Jesi, spostare l’asse della questione: dall’esistenza all’uso, dalla metafisica alla pragmatica, dall’epistemologia alla politica.

Che cos’è il mito? – è dunque, precisamente, la domanda a cui Jesi non dà risposta. Anzitutto, perché accoglierla equivarrebbe a rientrare nella casistica che si snoda lungo l’intero itinerario moderno della scienza del mito. In secondo luogo, perché la stessa formulazione della domanda è il trucco con cui la macchina mitologica esercita il suo fascino su manipolati e manipolatori, vittime e carnefici, illusi e illusionisti. È l’allusiva strizzata d’occhio con cui la macchina si ammanta di un’aura di suggestione e ci invita a lasciarci sedurre dal suo sguardo di Medusa: «Non badate tanto al mio modo di funzionare, quanto alla mia essenza» (p. 123). Girare in cerchio, enciclopedizzare, come fa Jesi in Mito, significa allora seguire con sobrietà i movimenti, le filiazioni, le disarticolazioni e riarticolazioni della macchina, sposando una strategia di resistenza genuinamente politica. 

Lorenzo Mizzau

Bibliografia

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