Nel tempo delle catastrofi. Resistere alla barbarie a venire di Isabelle Stengers è un testo scritto nel 2008, recentemente uscito in traduzione italiana per Rosenberg & Sellier (2021). Si tratta, nelle parole del curatore Nicola Manghi, di un “pamphlet politico” (p. 7), scritto con l’intenzione, da parte dell’autrice, di “prendere parola” (p. 43), ossia di intervenire nel dibattito intorno al riscaldamento globale. A corredo del testo troviamo una ricca introduzione firmata dal curatore, insieme a un’intervista all’autrice tenuta nell’agosto del 2020: la prima ha il doppio merito di presentare al lettore da un lato la traiettoria e lo sviluppo del pensiero stengersiano (dall’interesse, pur eccentrico, per l’epistemologia sino alle più mature posizioni cosmologiche) e dall’altro di chiarire alcune questioni culturali (ma anche teoriche) che la voluta brevità del testo rende spesso poco più che implicite – per esempio il riferimento alle cosiddette Science wars, lo stretto rapporto intrattenuto dall’autrice con l’etnopsichiatria, la questione delle pratiche e dei praticiens; la seconda ci permette invece di misurare le intuizioni di Stengers alla luce degli sviluppi posteriori delle questioni connesse all’ecologia, come quella costruitasi attorno al termine passepartout “antropocene”.
È proprio a partire dalla lettura dell’intervista che emerge uno degli aspetti più impressionanti del testo, ovvero la sua capacità di anticipare molte questioni che sembrano effettivamente all’ordine del giorno: pur prendendo le mosse dall’onda lunga dell’altromondismo, degli scontri di Seattle e del dibattito sugli OGM, Stengers sa vedere lontano, ponendosi in una prospettiva deliberatamente “globale”, legata ai cambiamenti climatici e al destino del pianeta Terra, e intende al contempo ricalibrare le lotte che hanno caratterizzato la seconda metà del XX secolo, perlomeno dal ’68 in avanti, in una dimensione esplicitamente intersezionale (p. 50; p. 161). D’altra parte, l’asfittico scenario che Stengers vede squadernarsi all’orizzonte pare proprio richiedere un impegno di natura globale: si è infatti ormai triangolata un’alleanza «decisiva tra la razionalità scientifica, madre del progresso di tutti i saperi, uno Stato liberato dalle fonti di legittimità arcaiche che impedivano a una tale razionalità di svilupparsi, e lo sforzo industriale che le consente di tradursi in principio d’azione finalmente efficace» (p. 85). “Stato”, “Scienza” e “Impresa”, facendo progressivamente scomparire ogni “commons”, sembrano così perseguire unicamente la logica inflessibile della crescita, muta a qualsiasi riflessione rispetto alle conseguenze cui questa potrà in futuro condurre.
Eppure è proprio questo fosco scenario ad aver fatto germogliare condizioni che possono portare a una riapertura della questione o, per dir meglio, alla presa di consapevolezza della catastrofe imminente cui l’imperativo della crescita sembra ineluttabilmente condurre: si tratta dell’intrusione di “Gaia”, figura o quasi-essere (p. 66) in cui Stengers condensa la situazione propria della contemporaneità, così come l’estrema possibilità di pensare alternative rispetto allo stato di cose presente. Non si tratta tanto di quella “Gaia” ipotizzata dallo scienziato James Lovelock negli anni ‘60, sviluppata dalla biologa Lynn Margulis, e ripresa in tempi più recenti da Bruno Latour (p. 157), ossia di un essere senziente, corrispondente con la Terra e in grado di autoregolarsi, stabilizzando instancabilmente le proprie componenti; la Gaia nominata da Stengers è piuttosto un essere che, pur dotato di una sua propria «tenuta» (p. 66) e capace dunque di porre interrogativi concreti, risulta insensibile rispetto alle risposte da lei stimolate. Con accenti quasi leopardiani (p. 68), Stengers insiste sull’impassibilità di questo essere, pura trascendenza indifferente che non chiede nulla, ma che fa problema, che forza a pensare. È proprio la sua perentoria intrusione, cui dobbiamo dunque apprendere a renderci sensibili, a costituire una sfida decisiva e globale per il mondo contemporaneo.
Il testo – riassunto qui brutalmente – poggia nella sua interezza su un architrave speculativo significativo, che vorrei provare a dissezionare, ponendomi così in dialogo con alcune intuizioni presenti nell’introduzione del curatore (p. 9). Stengers convoca costantemente sulla scena due orientamenti ontologici “forti” che, tradizionalmente, si sono posizionati agli antipodi del pensiero occidentale, ovverosia il costruzionismo e il realismo. Da un lato, infatti, il testo è puntellato dal constante riferimento a una semantica della costruzione, della finzione e della composizione: Stengers ripete a più riprese che si tratta di «comporre con Gaia» (p. 75), di creare e inventare gli artifici (p. 142) e le condizioni per nuove lotte e pratiche che non siano il semplice prolungamento di quelle realizzate in passato. È infatti proprio la capacità di invenzione – che Stengers ha evidentemente mutuato dai propri studi epistemologici – ad aver fatto sviluppare la scienza moderna e l’intero mondo ad essa connesso, dal caso Galilei (p. 88) in avanti. Allo stesso tempo, però, il riferimento a Gaia come a una “intrusione” nel mondo contemporaneo conduce il discorso stengersiano nei pressi di un deciso realismo: Gaia è infatti un ostacolo reale, un essere che, seppur non direttamente interessato alle nostre risposte, pone delle domande cui dobbiamo provare a corrispondere, per evitare la catastrofe. Più in generale, è la contingenza del reale, per Stengers, a poter stimolare la capacità del pensiero di attivarsi, di uscire cioè dall’impasse della “stupidità”: qui il riferimento esplicito sono ovviamente le riflessioni che Gilles Deleuze (e prima di lui Antonin Artaud) ha dedicato al tema della genesi del pensiero (pp. 124-125), intesa come attività che si realizza solo “da fuori” a partire da uno stimolo dotato di forza vincolante. Costruzionismo e realismo trovano così, nel testo di Stengers, ma più in generale nella sua opera, un produttivo punto di indistinzione: ciò che si deve poter inventare (un nuovo “possibile”, inteso come creazione irriducibile a ogni suo precedente o condizione) coincide con ciò che siamo costretti e forzati a costruire a partire da una contingenza che ci viene incontro (l’intrusione di Gaia).
Isabelle Stengers a Nantes durante il festival "Tous terriens", 10 giugno 2016 (Wikimedia)
Ecco allora che, una volta perimetrato l’orizzonte entro cui muoversi, con altrettanta chiarezza a emergere saranno gli antagonisti, rispettivamente o eccessivamente realisti o esclusivamente costruzionisti. A venir criticate sono innanzitutto le posizioni relativiste, cui spesso il pensiero di Stengers è stato associato con intento denigratorio (p. 27): l’insistenza sulla natura “costruita” delle teorie scientifiche e sulle domande di senso che non preesistono e devono dunque essere “fabbricate” a partire dall’intrusione di Gaia non implicano ipso facto una logica di tipo relativistico. La capacità di corrispondere alla contingenza non ha nulla di relativo, poiché impegna chi cerca a trovare la soluzione che abbia la migliore “efficacia” possibile. Detto in altri termini, è la contingenza a richiedere una serie di pratiche concrete e che siano in grado di funzionare adeguatamente, le quali si sganceranno così inevitabilmente da qualsiasi riferimento ad astratte e/o pacificate posizioni relativistiche. Il trattamento più ostico è però riservato a quanti si richiamano oggi acriticamente alla stagione illuminista e al pensiero di Marx: invece che rinvigorirne l’eredità, neoilluministi e marxisti si sono progressivamente trasformati in rentier (p. 125), tramutando nel privilegio di un realismo testardo ma inefficace l’originaria potenza creativa propria di questi due movimenti culturali. Con raffinatezza teorica, Stengers raccoglie sotto una stessa categoria quanti oggi si contrappongono frontalmente alle politiche economico-sociali, vagheggiando sterili pretese utopistiche a coloro che, animati da una passione triste per l’oggettività della Verità, si impegnano nel continuo smascheramento dell’irrazionalità propria di ciarlatanerie, imposture e inganni (p. 126). Ad accomunare queste due posizioni è una stessa storia, quella della nascita della modernità, tesa su un asse che produce da un lato il racconto «epico» (p. 143) dell’uomo che illumina il mondo con i raggi della propria ragione neutra e universale e, dall’altro, con uno stesso gesto, esclude e disprezza inesorabilmente il suo “altro”, d’ora in avanti liquidato come irrazionale. Si direbbe così che dove il relativismo esprime l’inventiva di costruzionismo poco incline alla contingenza del concreto, la tradizione illuminista e marxista commette l’errore opposto, incagliandosi nell’angusto spazio di un realismo “critico” che, senza l’ausilio di una matrice creativa, si rovescia in definitiva in uno sterile «canto di morte» (p. 121)
Si potrebbe dire, allora, che Stengers propone una via autonoma, tesa a trovare un equilibrio tra la componente di critica nei confronti dell’ipertrofia del capitalismo (p. 73) e il tentativo di non farsi catturare da una contrapposizione frontale che denuncerebbe un frettoloso tentativo di fornire risposte certe senza aver adeguatamente formulato il problema da cui partire (p. 59). Si tratta di una posizione la cui ambiguità Stengers non intende celare e che viene anzi definita come intimamente «preziosa» (p. 101). Non si può tuttavia negare, in questo contesto, una serie di debolezze cui la proposta dell’autrice va inevitabilmente incontro: in primo luogo con il riferimento un poco vago alla capacità di «fare attenzione» (p. 81) e la conseguente «arte del pharmakon» (p. 111), la capacità cioè di saper calibrare in giusta proporzione veleni e rimedi nei differenti tentativi di rispondere a Gaia; in secondo luogo nel riportare alla stregua di casi emblematici – esperienze certo interessanti ma forse non così pregnanti – le giurie di cittadini “sorveglianti” che tentano di monitorare il lavoro (spesso economicamente interessato) dei cosiddetti “esperti”. Più in generale, si ha talvolta l’impressione, leggendo Nel tempo delle catastrofi, che all’appello alla concretezza delle pratiche – che dividerebbero le scienze e le pratiche “viventi” dalla Scienza, dallo Stato e dell’Impresa capitalisticamente orientati – corrisponda spesso un lessico che tradisce una certa evanescenza e una natura gergale, chiusa nei suoi riferimenti e dunque poco intellegibile per chi non abbia dimestichezza con gli autori e i dibattiti al cui interno si inserisce la prospettiva stengersiana.
Ciononostante Nel tempo delle catastrofi è un saggio certamente significativo poiché prova a concettualizzare in modi innovativi la maniera in cui rispondere ai problemi posti dalla contemporaneità senza richiamare in causa la grande narrazione dell’uomo emancipatore – come nel caso della modernità illuministica che si nasconde ancora oggi dietro il dibattito sull’antropocene – e senza, al contempo, ricadere in sterili e regressive forme di preservazionismo ecologico. Per fare ciò, Stengers ha in fondo scritto un testo squisitamente filosofico, per tre ragioni essenziali: in primo luogo perché «saggia» (p. 52) il modo in cui tenere insieme concettualmente creazione e resistenza, percepito e percipiente (p. 35); in secondo luogo perché ci mostra come alla base di ogni trasformazione del mondo non debba risiedere la veemenza con cui si intende imporre una risposta certa quanto prima di tutto la capacità di saper porre la giusta domanda alla realtà (p. 51); infine, perché collega l’esperienza tutta politica della sperimentazione a quella «gioia-evento» (p. 152) che già Spinoza aveva rinvenuto quale motore per la “produzione-scoperta” (anche qui, costruzionismo-realismo) del proprio adeguato modo di vita.
La pubblicazione di Philosophie du végétal. Botanique, épistémologie, ontologie. Textes réunis par Q. Hiernaux conferma le attese suscitate dalla dicitura della collana che la casa editrice Vrin (Parigi) propone per la collocazione del volume: trattasi davvero di un testo chiave di filosofia del vegetale. E lo è almeno per due semplici motivi. Primo, l’antologia – questa è la natura del volume – mette a disposizione in traduzione per un pubblico francofono brani di undici opere di filosofia vegetale e di botanica filosofica: opere che possono ritenersi rilevanti o perché storicamente influenti per lo sviluppo degli studi botanici, o perché significative per le posizioni e le prospettive sugli studi in oggetto, o perché corroboranti alle linee di ricerca in corso. Secondo, l’operazione di cernita e raccolta dei brani operata da Quentin Hiernaux rappresenta un tentativo organico e ragionato di messa a punto dello stato dell’arte di un ordine di saperi, se non si vuole osare con ‘disciplina’, attualmente molto operosi che, oltre a offrire un numero crescente di pubblicazioni, sembrano cercare una propria definizione (filosofia vegetale, filosofia della biologia vegetale, botanica filosofica ecc.) e una loro costituzione disciplinare (si pensi all’ormai nemmeno troppo recente manifesto, scritto nei primissimi anni Duemila, per inaugurare la cosiddetta Neurobiologia vegetale), fornendo così il doppio servizio d’evidenziare le radici storico-teoriche dei dibatti attuali (p.e. l’intelligenza vegetale o la domanda sui diritti per le piante) e di dare consistenza storica, teorica ed epistemologica ai dibattiti stessi.
Per il fatto che il curatore sembra avere sotto gli occhi sia la totalità del quadro filosofico e scientifico entro cui le ricerche sul vegetale si sono, nel corso dei secoli, talvolta manifestate o talaltra inabissate, sia la posizione da cui, oggi, i sostenitori e i detrattori prendono parola, destinare il volume ai soli specialisti o aspiranti tali è un’operazione editoriale comprensibile, per non dire scientificamente necessitata dalla “proliferazione” di nuovi settori all’interno della classificazione deweyana, ma decisamente riduttiva. Decidere su quale scaffale della biblioteca collocare un libro, con la titubanza o la risolutezza che si dà di caso in caso, è l’ultimo (oppure il primo?) momento delle fasi di realizzazione del libro stesso, e non è mai un’operazione neutra: incide sui percorsi di ricerca e decide il destino di una disciplina, comprese le relazioni che essa intrattiene con le altre. Ora, il fatto che una lettura attenta del volume faccia pensare che la dicitura “filosofia vegetale”, pur necessitata come ho detto, non renda del tutto merito alle varie ratio che si possono rintracciare percorrendo i diversi piani di lettura (cui a breve accennerò) dice forse qualcosa sui contorni e sull’autonomia dell’insieme di questi saperi, e interroga, al di là delle contingenti divisioni in settori disciplinari, sulla bontà del farne una disciplina a parte, a discapito della conoscenza nel suo complesso. Philosophie du végétal è sì un’antologia di filosofia vegetale, ma è anche e variamente, soprattutto in base alle competenze e alla provenienza di chi la legge, un’antologia di storia del pensiero scientifico (in filigrana: l’istituirsi della botanica vs la medicina, la farmacologia e lo studio delle piante medicinali, l’intermediazione araba nella conservazione e nello sviluppo delle scienze, lo sviluppo del metodo scientifico moderno e la storia dei metodi di classificazione delle specie), un’antologia di filosofia della scienza (p.e. ci sono cenni al dibattito sull’anima e sul calore come principio vitale, alla nascita della biologia moderna, allo sviluppo del pensiero trasformista ed evoluzionista) e, percorso ancora più interessante, un’antologia di storia della filosofia (un esempio su tutti: la ricezione pervasiva dell’aristotelismo) – soltanto per limitare la restituzione all’esperienza del lettore che io incarno. Perché, allora, verrebbe da chiedere, dedicare a un (s)oggetto escluso una disciplina a parte se l’intento di partenza è quello di toglierlo dallo sfondo e dargli spessore, invece di procedere a una riscrittura dall’interno delle discipline? Perché il bordo, e non la piega?
Il lettore si trova tra le mani un volume compatto di oltre quattrocento pagine che rappresenta uno degli esiti della ricerca di Hiernaux, sapientemente istruttivo nei confronti del lettore anche meno avvezzo e teoreticamente generoso verso l’intero dibattito. Infatti, l’“Introduzione generale” e le “Introduzioni” specifiche alle singole sezioni, così come la ricca “Bibliografia”, pur corredando il volume come vere e proprie mappe a uso e consumo di tutti, affinché ciascuno possa attraversare il testo con il proprio passo – l’antologia si presenta così come uno strumento fruibile più volte e secondo le diverse intenzioni –, sono anche dei saggi a sé stanti, delle opere dentro l’opera, in grado di far intravedere, per quanto discretamente, la postura filosofica del curatore. Postura la cui cifra potrebbe essere restituita sotto la forma del tentativo teorico attento e delicato, al limite dell’equilibrismo, di non agire alcuna cattura del fenomeno, ma di lasciarlo proliferare: per paradosso, stare fermi per lasciare che sia il vegetale a venirci incontro, lasciare che sia lui, “senza volto e senza sguardo” (p. 7), a guardarci. Un simile equilibrismo è tutt’altro che una fascinazione che lascia il tempo che trova: è piuttosto e innanzitutto la manifestazione di un’etica ecologica rispetto ai rapporti che intratteniamo con altre specie e altri regni, cioè con altri modi di fare mondo. Ancora di più, è l’indice di un’ecologia epistemologica che riguarda il rapporto tra soggetto di conoscenza e oggetto conosciuto, e il riconoscimento dei limiti, intesi anche come vie di uscita, dati dal fatto di trovarsi irrimediabilmente in una posizione di partenza che insieme ci condanna e ci salva, se si è disposti a lasciarsi catturare. Accostandoci, infatti, alle sempre più numerose pubblicazioni che si annoverano nell’elenco della filosofia del vegetale, per usare la dicitura di Vrin, viene spesso da chiedersi che cosa rappresenti, nell’economia del discorso, il vegetale: se il reale tentativo, per quanto possibile, di mettere scientemente a tema una forma di vita altra o il rinnovarsi del discorso sull’umano che, normalizzando le altre forme di vita, non fa che trovare nelle differenze di grado le ragioni della propria ratio, eludendo così la differenza di naturapalesata dall’altro e il problema da essa posto. Se è vero che la filosofia ha sovente indagato il rapporto costitutivo di attività e passività, tema che è anche della filosofia del vegetale, quanto è a suo agio quando tale rapporto riguarda prima di tutto sé stessa e la propria costituzione? A intendere che, forse, un contributo filosofico sugli studi clorofilliani potrebbe arrivare solo dopo un momento di esposizione alla passività, solo dopo che i suoi capisaldi mereologici e assiologici si sono fatti attraversare.
Fotografia di Igor Orizzonte
Hiernaux sceglie di ripercorrere l’intera storia delle nostre conoscenze filosofico-scientifiche: dal III sec. a.C. agli ultimi decenni degli anni Duemila, e si serve di rappresentanti proveniente da botanica, biologia e filosofia, di diverse regioni dell’“Occidente”, confermando così l’operazione critica di stabilizzazione della disciplina vegetale proprio all’interno di quel paradigma scientifico ed epistemologico che lo ha escluso, il nostro, e che – aggiungo – si è costituito anche in virtù di questa esclusione. Si tratta, va detto, di un’operazione ben consapevole, come dimostra il fatto che, qui (p.e. p. 258) e in altri luoghi (penso a Du comportement végétal à l’intelligence des plantes ?, Quæ 2000), la più ampia ricerca di Hiernaux restituisce notizia di altri paradigmi di cui, per esempio, l’antropologia ci dà conto e che la nostra filosofia non dovrebbe più trascurare, in cui il vegetale non ha mai avuto il ruolo di sfondo, come Bruta Natura, e nei quali la separazione con l’umano, per non parlare della sua subalternità, non è stata nemmeno lontanamente contemplata.
I brani presentati sono suddivisi in tre sezioni: 1. Storia filosofica della botanica e statuto della pianta; 2. Epistemologia delle scienze vegetali; 3. Ontologia ed etica del vegetale. L’obiettivo della sezione 1 è di «riscrivere la problematica della trattazione delle piante nella sua dimensione storica» «raggruppando i testi dedicati alla storia filosofica della botanica e allo statuto della pianta», con il corollario non secondario di «mostrare il potenziale filosofico della botanica» (p. 9, trad. mia). Interpellate le voci del coro composto da Teofrasto (371-288 a. C.), Andrea Cesalpino (1519-1603), Julien Offray de la Mettrie (1709-1751) e Agnes Arber (1979-1960), veniamo a conoscenza delle ricezioni e dei commenti alle opere di Aristotele, Cartesio, Goethe – per citare i più noti. Ciò che lega i primi quattro capitoli della HistoriaPlantarum diTeofrasto, ritenuto il fondatore della Botanica nella sua prefigurazione di scienza sperimentale, giacché le sue ricerche «s’ispirano all’esigenza di tener conto dei fatti e di limitare la trascendenza» (cfr. nota introduttiva di J. Tricot all’edizione de La Métaphysique, Vrin 1948, p. 534, trad. mia), il divin parlatore come lo ebbe a soprannominare il maestro Aristotele, di cui Teofrasto coniuga l’approccio naturalista alle influenze filosofiche del pitagorico Menestore di Sibari e dei fisiologi greci, Anassagora, Empedocle e Democrito; i primi cinque capitoli del De PlantisLIBRI XVI di Cesalpino, botanico, medico, anatomista e filosofo, allievo di Luigi Ghini e suo successore alla cattedra di botanica e al ruolo di prefetto dell’orto botanico dell’Università di Pisa (cfr. C. Colombero, Il pensiero filosofico di Andrea Cisalpino, «Rivista Critica di Storia della Filosofia», 32 (3), p. 270), perfetto rappresentante della tensione tra la tradizione dei saperi compilativi medievali sulle piante e la botanica teorica moderna su base fisiologica, cui si deve il contributo per la fondazione teorica della scienza botanica emancipata da medicina e farmacologia, pur nel solco della ricezione di Aristotele e Teofrasto; il breve testo del botanico, medico e filosofo de la Mettrie, Homme-Plante, esempio di riaffermazione della gerarchia del vivente di stampo aristotelico entro la cornice del meccanicismo cartesiano, espresso fedelmente dall’accostamento della pianta alla macchina; il capitolo quinto di The Natural Philosophy of the Plant Form della botanica Arber, allieva della botanica Ethel Sargant, traduttrice di Versuch die Metamorphose der Pflanzen di Goethe, prima donna botanica a essere accolta dalla Royal Society e prima donna insignita con la medaglia d’oro dalla Linnean Society of London per i suoi studi in anatomia e morfologia vegetale, che prendono posto accanto ai suoi studi di storia della botanica e di filosofia botanica, influenzati da Aristotele e Cisalpino, come pure da Spinoza, Bacone e de Condolle (cfr. per approfondire la figura di Arber, il saggio premessa di L. Tongiorgi Tomasi in A. Arber, Erbari. Origine ed evoluzione 1470-1670, Aboca 2019): è il tema dell’“ordinamento generale del mondo” o della continuità tra i regni, o per meglio dire delle forme di vita, a partire dalle determinazioni comuni che, da una parte, hanno accostato le forme di vita mostrandone la similitudine (fino ad arrivare all’idea trasformista delle variazioni individuali in seno a una norma o a un tipo specifico) ma che, dall’altra, hanno generato gerarchie pregiudizievoli circa la positività di cui ciascuna forma si fa portatrice. Se l’impronta zoomorfica che ha connotato, fin dal battesimo aristotelico, gli studi naturalistici (non solo quelli sulle piante!) sembrerebbe inevitabile, oltre che metodologicamente giustificata dal bisogno di spiegare ciò che è meno noto per mezzo di ciò che è più noto, è quantomeno opportuno considerare il rischio di distorsione che comporta prendere il modello animale come riferimento per gli studi dedicati ad altre forme di vita e per la conoscenza del vivente in generale (p.e. p. 25). «Fino alla fine del XIX secolo, la botanica si è presentata come scienza dei viventi non-animali, raggruppando indifferentemente lo studio delle piante e delle alghe, quello dei funghi, dei licheni, e anche dei coralli o dei batteri. Questi esseri, al di là o più tradizionalmente “al di qua” dell’animale che non sono, possono anche essere avvicinati in maniera non gerarchica e positiva, cioè secondo le loro specificità e i modi di vita propri» (p. 11, trad. mia). Dei tentativi erano stati fatti: già da Teofrasto si rintraccerebbe l’esercizio di studiare le piante “per sé stesse”: non secondo la caratterizzazione difettiva, secondo mancanza, rispetto al modello delle forme animali, ma per la positività che caratterizza specificamente la forma di vita vegetale, ovvero la capacità di variazione e l’elevata plasticità. «Quindi, che cosa significa, per la pianta, avere un corpo?» (p. 11, trad. mia; la formulazione fa venire in mente l’articolo: P. Calvo, What is it like to be a plant?, «Journal of Consciousness Studies», 24, 2017, 205–227). Quello che unisce «il pensiero naturalista della tradizione, almeno dopo Teofrasto, passando per la botanica moderna, per arrivare alla morfologia goethiana di Agnes Arber [è che] il corpo della pianta mette sottosopra l’organizzazione animale del tutto e della parte» (p. 12l, trad. mia). Sembra essere già percezione aristotelica che la differenza tra forme di vita animali e forme di vita vegetali stia nel fatto che le prime sono di tipo gerarchico e finalista, le seconde sono, per dirla à la Mancuso, organizzazioni orizzontali, poiché la loro crescita iterattiva e indefinita rende difficoltosa, se non impossibile, la delimitazione delle loro parti. Da una simile differenza di organizzazione, che altro non è che un differente rapporto organo/organi-organismo, segue un diverso senso della totalità: indivisibile per le forme animali, divisibile per le forme vegetali; un diverso senso dell’autonomia o dell’individualità, cioè dell’uno.
Fotografia di Igor Orizzonte
La sezione 2, su epistemologia e filosofia della biologia vegetale, è attraversata da due domande: «quale posto il vegetale occupa nello sviluppo della biologia del XX secolo?», «su quali principi e metodi si basa l’approccio scientifico del vegetale?» (p. 12, trad. mia). Per districarsi, Hiernaux seleziona due temi conduttori: il comportamento e l’individualità. «Dal XVIII secolo, i progressi sperimentali delle scienze naturali danno l’impressione che il concetto di anima possa essere abbandonato a profitto di un meccanismo per comprendere la vita delle piante. Dalla fine del XIX secolo, la concezione del vivente basata sull’anima fa progressivamente spazio alla biologia contemporanea. Poco a poco, s’impone il paradigma evoluzionista. La fisiologia inaugura importanti scoperte sperimentali sul funzionamento delle piante che rivoluzionano la botanica. Questa nuova disciplina di laboratorio, con protocolli e strumenti propri, si diffonde per tutta l’Europa. […] Gli sviluppi della fisiologia vegetale cambiano il rapporto verso la sensibilità delle piante. […] L’esclusività del registro delle spiegazioni causali e meccanicistiche non può essere ormai considerato legittimo» (pp. 127-128, trad. mia). Si affina così un’attenzione sempre maggiore verso la possibilità di rintracciare un ordine psichico o cognitivo anche nelle forme vegetali. Autrici e autori principali di questa sezione sono Léo Errera (1858-1905), Anthony Trewavas (1939), Fatima Cvrčková – Helena Lipavská – Viktor Zársky, Ellen Clarke; con loro si offre l’occasione di richiamare anche la scuola tedesca di J. von Sachs e W. Pfeffer, il lavoro di R. Francé, gli studi di Linneo e di Darwin, ma anche Porfirio, Duns Scoto, Leibniz, financo Simondon. Attraverso la proposta del dattiloscritto della conferenza del 1900 Les Plantes ont-elles une âme? di Errera, professore di botanica con formazione filosofica, fervente evoluzionista, istitutore del primo laboratorio belga di anatomia e fisiologia vegetale presso l’Université Libre de Bruxelles, già attento alle ricerche sui fenomeni di variazione elettrica rintracciabili nei vegetali tanto quanto nei fenomeni nervosi, che andrebbero a sostenere, in un quadro darwiniano, la continuità tra forme di vita oltre le fratture ontologiche tra regni, ricerche al centro dei dibattiti contemporanei; del capitolo nono di Plant Behaviour and Intelligence di Trewavas, fisiologo vegetale impegnato nel campo della segnalazione chimica delle piante, esponente della Neurobiologia vegetale, sostenitore dell’irriducibilità della spiegazione dei comportamenti a un ordine esclusivamente genetico o chimico aprendo così alla possibilità di una comparazione etologica con gli animali più semplici, osservatore e teorizzatore della comunicazione elettrica nelle forme vegetali spiegata in termini di “cognizione minima”; dell’articolo Plant Intelligence Why, why not or where? dei biologi praghesi Cvrčkovà, Lipavská e Zársky, che introducono il lettore alla domanda sull’intelligenza vegetale, contribuendo a fare ordine in vista della costruzione di una discussione scientifica sul tema: si delinea come il dibattito sul comportamento vegetale sia vincolato ad altri due aspetti che, nel corso dei secoli, sia in filosofia sia nelle scienze sperimentali, hanno pregiudicato la stessa ricerca fisiologica vegetale: 1) la mancanza negli organismi clorofilliani di un sistema nervoso, 2) la difficoltà di circoscrivere in essi l’individuo. Quello che preme sottolineare, per mostrare il dialogo tra le due sezioni del volume, è che la disquisizione tra sostenitori e detrattori del comportamento vegetale intelligente – ci sia perdonata la ridondanza – si gioca all’interno e nel confronto con un paradigma, il nostro, figlio, da una parte, della vulgata della tradizione aristotelica dell’anima (si noti il passaggio e l’evoluzione storica del concetto di “anima”, attraverso quello di “calore”, fino a quello di “comportamento”) e, dall’altra, della tradizione cartesiana del dualismo mente-corpo. Com’è possibile attribuire un’intenzionalità a un essere privo di mente? E anche, come circoscrivere e attribuire comportamenti a una soggettività che non è un individuo? Gli studi sul comportamento vegetale, allora, rappresenterebbero il viatico per proporre un altro paradigma metafisico (e un’altra assiologia) alternativo a quello di matrice zoocentrica. Sulle difficoltà, e i paradossi che ne conseguono, di far combaciare l’organismo verde e il concetto d’individuo delle scienze biologiche, ricade la scelta dell’articolo Plant individuality: a solution to the demographer’s dilemma di Clarke, filosofa ed epistemologa della biologia che «trae le conclusioni biologiche del problema della grande plasticità e della variabilità delle piante, [lasciato irrisolto] da Teofrasto e da Aristotele» (p. 137, trad. mia). Dalla lettura del contributo di Clarke si evince il circolo vizioso in cui ci si trova se non si possiede un concetto chiaro di individuo vegetale in seno alla teoria evoluzionistica.
La sezione 3 è dedicata interamente all’ontologia e all’etica, che si palesano, nel quadro del volume, indiscernibili. «La riflessione ontologica sul vegetale consiste da una parte nell’interessarsi ai suoi modi di esistenza […], dall’altra ci conduce a ripensare il modo di avvicinare il mondo, l’anima, il divenire ecc. nella loro relazione con le piante»; «l’etica, invece, s’interessa al modo in cui diamo valore a certe entità o azioni nel quadro dei nostri diritti, responsabilità e doveri verso le piante» (p. 247, trad. mia). L’articolo Plant-Soul: The Elusive Meanings of Vegetative Life di Michael Marder, filosofo dell’Università dei Paesi Baschi Vitoria-Gasteiz, che, all’incrocio tra fenomenologia, ecologia e pensiero politico, attribuisce al vegetale un’intenzionalità originaria non cosciente, tentando di sottrarlo sia alla definizione di essere mancante (tipica della svalutazione metafisica) sia a quella di essere indicibile (della feticizzazione pagana); e il prologo al libro La vie de plantes. Une métaphysique du mélange di Emanuele Coccia, filosofo italiano, formatosi anche sulle pagine della filosofia medievale, da cui egli deriva l’attenzione per la riflessione sulle diverse concezioni di “mondo”, lavorano entrambi per la formulazione di un paradigma maggiormente ecologico rintracciabile nel cosiddetto biocentrismo, rispetto al quale il contributo specifico del pensiero sul vegetale risiede nell’invito a ristrutturare ancora più marcatamente l’ontologia nei termini di “processo”, a detrazione di quelli di “sostanza”. Verrebbe da pensare che i concetti di “condivisione” di Marder e di “mescolanza”di Coccia vadano nella stessa direzione: mettono l’accento sulla continuità piuttosto che sulla frattura tra ordini del reale e sottolineano come il reale sia composto da intricate relazioni, se non vere e proprie relazioni di dipendenza, che riguardano anche l’umano rispetto al vegetale. “Le piante sono il mondo”, scrive Coccia, che in altri scritti arriva a radicalizzare fino al paradosso l’immagine delle piante giardinieri del giardino che siamo noi. In virtù del ripensamento delle relazioni tra mondo umano e mondo vegetale, chiude l’articolo Beyond “Second Animals”: Making Sense of Plant Ethics di Sylvie Pouteau, biologa vegetale, attiva nel dibattito sull’etica delle piante, diritti compresi. Con Pouteau, l’invito è di rivalutare il modo in cui letteralmente ci serviamo delle piante, giustificati da una visione gerarchica del mondo, alimentata a sua volta dall’ordine delle scienze naturali, per immaginarealtri rapporti possibili in cui l’utilità non sia l’unico e il solo. E, tuttavia, giunti alla fine del volume, come sollevati da una rivoluzione finalmente pensata, una frase scritta nell’“Introduzione” alla terza sezione rimette in gioco quelle che sembrano le nuove conclusioni cui siamo arrivati, e invita a ripercorrere il volume da capo, come un’ultima mano di carte sul tavolo riapre la partita: «Porsi la questione dell’autonomia della pianta verso il suo ambiente ha senso solo nella misura in cui siamo prigionieri dei nostri dualismi. Le piante, che sia per la loro cognizione senza cervello o per il loro metabolismo aperto sull’ambiente, rimescolano le carte dell’ontologia [ancora fin troppo, NdR] classica» (pp. 253-254, trad. mia).
Fotografia di Igor Orizzonte
Indizio per frequentare le pagine, sembrerebbe che l’obiettivo minimo dell’autore sia che, una volta chiuso il libro, il lettore trattenga che il vegetale sia più di una cosa inerte e meno di una cosa a disposizione (p. 19). Il che significa riconoscere al vegetale una propria agentività, financo una propria soggettività, secondo la logica per cui liberare dall’eteronomia implica riconoscere l’autonomia. Tuttavia, si tratta di un obiettivo troppo modesto alla luce dell’accuratezza con cui Hiernaux, che dà prova di essere un abile dissezionatore, taglia e ricompone i nessi alla base delle nostre conoscenze (e della nostra identità). Allora, altrove, a mio avviso, si rintraccia la vera domanda che dà l’avvio all’immaginazione di quest’antologia, declinata per la filosofia ma valida anche per gli altri saperi: «Si tratta di domandarsi non più come la filosofia ci permetta di comprendere le piante, ma come la comprensione delle piante possa trasformare la filosofia» (pp. 16-17, trad. mia). Che cosa succederebbe se un esile cirro iniziasse ad arrampicarsi su secoli e secoli di storia, pratiche e biblioteche, e con i suoi rami e germogli iniziasse a crescere e a scriverci sopra: saremmo in grado di reggere all’immagine di quella proliferazione clorofilliana o finiremmo per assomigliare di più a un edificio abbandonato?
Era il Maggio 1942, esattamente ottant’anni fa. A New York si tenne il seminario “Cerebral Inhibition”. Organizzato da Frank Fremont-Smith, allora direttore medico della Josiah Macy Jr. Foundation, il seminario vide tra i partecipanti svariati ricercatori provenienti da diversi ambiti del sapere: oltre agli antropologi Margaret Mead e Gregory Bateson, vi presero parte lo psicanalista Lawrence Kubie, lo scienziato sociale Lawrence K. Frank e due neurofisiologi: Warren McCulloch – che un anno dopo avrebbe pubblicato, insieme a Walter Pitts, un testo pioneristico sulle reti neurali artificiali – e Arturo Rosenblueth. Quest’ultimo, per l’occasione, presentò la ricerca, condotta insieme a Norbert Wiener e Julien Bigelow, che portò alla stesura del celebre articolo Behavior, Purpose and Teleology (1943), nel quale si mostrava l’equivalenza funzionale tra il comportamento finalizzato del vivente e quello esibito dalle macchine auto-regolate tramite retroazione.
Fu da questo nucleo di ricercatori che, finita la Seconda Guerra Mondiale, sotto l’egida della Macy Foundation, prese vita un ciclo di conferenze interdisciplinari con cadenza semestrale, che si tennero dal 1946 al 1953. Dapprima intitolate “Feedback Mechanisms and Circular Causal Systems in Biology and the Social Sciences”, dopo il 1948, con l’uscita di Cybernetics, or the Control and Communication in the Animal and in the Machine di Wiener, le conferenze presero il nome di “Cybernetics: Circular Causal, and Feedback Mechanisms in Biological and Social Systems”. Tra i partecipanti, vi furono matematici, psicologi sperimentali e gestaltisti, fisici, ingegneri, sociologi, ecologi, antropologi, biologi e linguisti.
Come ebbe modo di ribadire Fremont-Smith in occasione del sesto incontro, l’obiettivo delle conferenze era quello di fondare un ambiente di ricerca interdisciplinare in cui, a partire dalla costruzione di un linguaggio comune, si potessero affrontare problemi che, sebbene sorgessero in contesti disciplinari differenti, presentavano degli isomorfismi tali da renderli trattabili tramite modelli operativi condivisi. In estrema sintesi, i cibernetici perseguivano un ideale di unificazione delle scienze facendo leva su fenomeni e processi trasversali ai vari saperi. La storia delle conferenze di cibernetica fu, in buona sostanza, una ricerca incessante di mediazioni. Non a caso, le nozioni che si affermarono in quel contesto, e intorno alle quali ruotò buona parte delle conferenze, fungevano da mediatori: 1) l’informazione, concepita come entropia negativa, prometteva di mediare tra processi fisici, biologici, psichici e sociali; 2) i meccanismi circolari, fondamentali per comprendere tutti quei processi nei quali l’interazione tra sistemi o sottosistemi produce una dinamica omeostatica, promettevano di mediare tra l’ambito ingegneristico, quello fisiologico e quello sociologico; 3) il calcolatore elettronico – allora allo stato embrionale – prometteva di mediare tra processi mentali – ragionamento logico, comprensione degli universali, ecc. – e processi materiali – trasmissione di segnali elettrici in un circuito.
«Ce n’est plus d’une libération universalisante que l’homme a besoin, mais d’une médiation», scriverà Gilbert Simondon (1958, 103) a proposito dell’ideale enciclopedico della cibernetica, cogliendone appieno lo spirito. Questo ideale enciclopedico si accompagnava a una dichiarata volontà di rinnovamento delle categorie filosofiche e di superamento di molte dicotomie metafisiche. Nel primo capitolo di Cybernetics, intitolato “Newtonian and Bergsonian Time”, Wiener sosteneva che grazie alla cibernetica «the whole mechanist-vitalist controversy has been relegated to the limbo of badly posed questions» (Wiener 2019, 63). McCulloch e Pitts affermavano che la loro rete neurale era, di fatto, una risoluzione del mind-body problem: «[…] both the formal and the final aspects of that activity which we are wont to call mental are rigorously deducible from present neurophysiology […]. “Mind” no longer “goes more ghostly than a ghost”» (McCulloch 1988, 38). La macchina astratta di William Ross Ashby, come ebbe modo di notare Mauro Nasti nella presentazione della traduzione italiana di Introduzione alla cibernetica, sconvolgeva «tutta un’impostazione filosofica tradizionale […] con cui si contrapponeva irriducibilmente il mondo “materiale”, fisico, delle macchine a quello “immateriale” e “libero” della mente» (Nasti 1970, xvii-xviii).
L’ultima conferenza di cibernetica (tenutasi nel 1953), lungi dal coincidere con il dissolvimento dello spirito cibernetico, sancì di fatto la sua diffusione pressoché illimitata. Non vi fu campo del sapere in cui le idee cibernetiche non penetrarono, a volte accolte con entusiasmo, altre con riserva, altre ancora apertamente criticate. Dalla filosofia (Ruyer 1954, Jonas 1953) all’economia (Lange 1963); dalla fisica (de Broglie 1951) all’ecologia (Odum 1963); dalla politologia (Deutsch 1963) alla biologia (Monod 1970, Atlan 1972); dalla cosmologia (Ducrocq 1964) alla gestione aziendale (Beer 1964); dalla letteratura (Calvino 1967) al diritto (Knapp 1963); dall’architettura (Alexander 1964) all’etologia (Hassenstein 1966). La cibernetica trasformò il linguaggio dei saperi in cui penetrò, contribuendo alla nascita di nuovi ambiti di ricerca.
Nel contesto delle scienze della cognizione, nel 1968 Marvin Minsky ratificava che la cibernetica si era differenziata in tre programmi di ricerca oramai pienamente autonomi: 1) la teoria dei sistemi auto-organizzati, basata sulla simulazione di processi evolutivi e adattativi; 2) la simulazione del comportamento umano tramite modelli computazionali; 3) l’Intelligenza Artificiale propriamente detta, cioè la progettazione di macchine intelligenti non finalizzata alla simulazione di processi biologici e cognitivi.
Se gli ultimi due programmi si concepivano come corpi maturi e completamente emancipati dal loro passato cibernetico, il primo programma non smise di rivendicarne le radici, che trovarono nel Biological Computer Laboratory dell’Università dell’Illinois, diretto da Heinz von Foerster, un terreno fecondo in cui attecchire. È in questo contesto che poté nascere un’epistemologia cibernetica – la cibernetica di second’ordine, o cibernetica dell’osservazione dei sistemi che osservano – che favorì l’emergere della teoria dei sistemi autopoietici (Maturana & Varela 1980), della neurofenomenologia (Varela, Thompson, Rosch 1991), della teoria generale della società (Luhmann 1984), dell’elaborazione delle logiche polivalenti e delle ontologie trans-classiche (Günther 1962), della pragmatica della comunicazione (Watzlawick, Bavelas, Jackson 1967), del costruttivismo radicale (Glasersfeld 1974), ecc.
Con la chiusura del Biological Computer Laboratory nel 1974, la cibernetica entrò in una fase diasporica, che dura tutt’oggi. Una diaspora che, a differenza della prolificità della prima disseminazione, ha assunto le forme di un graduale dissolvimento. La cibernetica appare oggi come un’entità fantasma infestante una moltitudine di discorsi, le cui tracce possono essere scorte un po’ ovunque, spesso e volentieri non riconosciute come tali.
Tuttavia, a dispetto – o forse in virtù – del suo carattere fantasmatico, l’ultimo ventennio ha visto intensificarsi un interesse storiografico per la cibernetica, con la produzione di lavori che hanno ricostruito la storia della cibernetica americana (Kline 2015), britannica (Husbands & Holland 2008), francese (Le Roux 2018), italiana (Cordeschi & Numerico 2013), sovietica (Gerovicht 2002) e cinese (Liu 2019).
Parallelamente al crescente interesse per la sua storia, si è intensificato anche quello per le sue implicazioni teoretiche e politiche – a testimonianza del fatto che non si è smesso di pensare col suo spettro. Un interesse che ha riguardato, tra le altre cose, il rapporto tra la cibernetica e l’ontologia (Pickering 2010), la metafisica(Hui 2019), la filosofia politica (Guilhot 2020; Bates 2020), l’ecologia filosofica (Hörl 2013), la teoria dei media (Hansen & Mitchell 2010), il post/trans-umanesimo (Malapi-Nelson 2017), la french theory (Lafontaine 2007; Geoghegan 2020), ecc.
È il carattere spettrale e disseminato della cibernetica – il suo insistere negli interstizi dell’enciclopedia – che ci spinge a dedicarle il numero #18 di Philosophy Kitchen. L’obiettivo è quello di cartografare i luoghi del sapere in cui possono ravvisarsi le tracce lasciate dalla cibernetica, seguirne le piste, ricostruirne le trame, farne emergere i modi d’essere, interrogarne l’eredità e l’attualità.
In special modo, le linee che vorremmo esplorare sono:
- Cibernetica nella storia delle idee e nella storia della scienza
- Storia della storiografia cibernetica
- Epistemologia e ontologia della cibernetica
- Teoria generale delle macchine
- Cibernetica e scienza dei sistemi complessi
- Cibernetica nelle scienze biologiche e sociali
- Cibernetica e scienza della cognizione
- Cibernetica nella filosofia contemporanea
- Cibernetica e governamentalità
- Cibernetica, teorie della pianificazione e del progetto
Procedura: si prega di inviare, all'indirizzo redazione@philosophykitchen.com, entro il 30 aprile 2022, un abstract di massimo 6000 caratteri, indicando il titolo della proposta, le modalità in cui si intende sviluppare il tema e l'argomentazione, una bibliografia essenziale e ragionata nonché una breve biografia dell’autore o dell’autrice. Le proposte verranno valutate dai curatori e dalla redazione. Gli esiti della selezione verranno resi noti, via mail, entro il 7 maggio 2022. I contributi selezionati dovranno poi essere inviati entro il 31 ottobre 2022 e saranno sottoposti a double-blind peer review. La pubblicazione del volume è prevista per marzo 2023.
Dal momento in cui la pratica discorsiva del filosofo si è imposta come forma di sapere suprema, in grado di dar conto di se stessa e dei propri metodi, il pensiero metaforico è stato assunto come un procedimento ausiliario al quale ricorrere quando la teoria non funziona nel modo in cui è supposta funzionare – cioè senza buchi e senza sbavature, in grado di cogliere senza residui tutto ciò che c’è e di cui il soggetto fa esperienza. Anche se non sono mai mancati coloro che non ritenevano possibile eliminare del tutto la dimensione del metaforico – coloro per i quali lo spazio discorsivo della filosofia non poteva venir saturato solo facendo ricorso a ciò che coincide con quella forma specifica di cattura del reale che è il concetto – è solo nel corso del Novecento che il discorso filosofico ha superato ogni pregiudizio nei confronti della figuratività, dell’iconico, del narrativo intesi quali parti integranti dell’argomentazione filosofica. Ciò non è accaduto in virtù della volontà di prendere congedo dalla concettualità, bensì in virtù del fatto che quest’ultima, nell’atto del suo porsi, pone anche il proprio altro, di cui il metaforico è attestazione privilegiata. Con ciò, si è resa finalmente obsoleta l’idea secondo cui la metafora servisse al ragionamento filosofico solo quando questo incespica e zoppica, scoprendosi bisognoso di ausili e stampelle. Quattro esempi valgano a illustrare questo scenario filosofico, che costituisce il nucleo teorico del presente call for papers.
Emanuele Tesauro: Il cannocchiale aristotelico, o sia, Idea dell'arguta et ingeniosa elocutione : che serue à tutta l'arte oratoria, lapidaria, et simbolica (1670) - Internet Archive Book Images Flickr [particolare]
Hans Blumenberg non solo ha mostrato che non è possibile scrivere una storia dei concetti senza scrivere anche la storia delle metafore che hanno costellato la discorsività filosofica, ma ha anche offerto un quadro teorico-sistematico generale entro il quale comprendere la necessità del loro intreccio. Generata dal bisogno di tenere a bada la realtà e ciò che in essa resiste a un dominio immediato, la ragione – che co-evolve con Homo sapiens al pari degli altri artefatti di cui questi si serve per plasmare la nicchia ecologica che lo accoglie – produce tanto miti quanto modelli di razionalità e teorie scientifiche, tanto metafore quanto concetti, al fine di rendere più agevole un adattamento che risulta sempre alquanto precario (l’esistenza della specie umana, per Blumenberg, è quanto di più improbabile ci sia nel regno dei viventi). Ne viene fuori non che la metafora compensa ciò che manca al concetto, ma che tutte le misure di prevenzione messe in atto dalla ragione per arginare gli effetti della complessità del reale altro non siano che misure compensatorie.
Jacques Derrida ci ha indicato – una volta per tutte, si potrebbe dire – come la posizione del soggetto che guarda la differenza tra metafore e concetti costituisca la macchia cieca del pensiero: è infatti impossibile dar conto delle operazioni che giustificano tale differenza, essendo questa già da sempre presupposta da ogni pratica filosofica. Il soggetto del sapere filosofico, in altre parole, non si vede mentre opera con – e grazie alla – differenza tra metafore e concetti. Non si può far filosofia se non ipotizzando di sapere cosa differenzi un concetto da una metafora, ma l’articolazione di tale differenza non potrà mai essere maneggiata con i soli strumenti della concettualità. Un residuo metaforico, con tutta la sua impurità, intaccherà sempre la purezza di quella sfera in cui opera la concettualità.
Enzo Melandri, ne La linea e il circolo, ha indicato un percorso sistematico che non solo restituisce piena legittimità alla logica analogica – che non è da vedersi come una logica dimidiata, di secondo ordine – ma ha anche indicato in che senso una teoria dell’analogia aiuti a individuare in modo corretto il posto che il metaforico occupa in seno all’argomentazione filosofica. È vero che gli usi dell’analogia sono pressoché infiniti, ma, come mostra Melandri, le sue funzioni sono ben precise e delimitate: euristica, legata all’inventio, sintetica, quando si passa da un genere a un altro per produrre un sapere unitario e superare pragmaticamente la divisione dei saperi, ed evocativa, quando il valore intensionale o connotativo dell’analogia si autonomizza rispetto al suo valore estensionale e o denotativo. Ora, se si riesce a dimostrare a quali condizioni l’analogia diventi razionalmente possibile tanto come inferenza calcolabile quanto come concettualizzazione dotata di senso – ed era questo lo scopo perseguito da Melandri nel suo monumentale lavoro – allora diviene chiaro che la questione dell’analogia possiede una funzione trascendentale. Si tratta di comprendere non solo in che senso macchie empiriche intacchino sempre la purezza del trascendentale, o in che senso la genesi che conduce all’emergenza del soggetto trascendentale sia sempre una genesi empirica, ma soprattutto di porre a tema la questione della fondazione in termini dialettici, facendo posto al paradosso e alla negatività. Ragionare sull’analogia significa interrogare l’incompletezza del sistema del pensiero, significa cioè indicare come quel negativo che è esteriorità, alterità, rimosso, rientri nel sistema stesso per vie traverse e non dominabili interamente attraverso la concettualità pura.
Nel loro Metafora e vita quotidiana, George Lakoff e Mark Johnson sostengono che la metafora “è diffusa ovunque nel linguaggio quotidiano ma anche nel pensiero e nell’azione”: distinguendo tra tre tipologie di metafora (strutturali, di orientamento e ontologiche), Lakoff e Johnson propongono una teoria complessa la cui tesi fondamentale consiste nell’idea che il linguaggio sia strutturato metaforicamente in quanto il pensiero è strutturato metaforicamente e sottolineano il carattere ambiguo del linguaggio metaforico, che tende a enfatizzare un determinato aspetto concettuale oscurando una serie di altri aspetti non coerenti con la metafora utilizzata. Il meccanismo della metafora fa perno sul nostro essere incarnati, ovvero – ed è un aspetto decisivo – esso è funzione della nostra interazione corporea con il mondo: in questo senso, la metafora riflette la struttura percettiva umana e ritaglia una precisa ed essenziale forma di accesso cognitivo al mondo.
Si sono appena evocati alcuni nomi e autori, ma è chiaro che, evocandoli, lo scopo è quello di circoscrivere possibili aree di pensiero, non di attribuire a questi nomi un ruolo speciale. Grazie a loro, però, si è cercato di isolare il nucleo tematico di questo numero, che consiste nell’isolare, grazie alla messa a tema del ruolo della metafora, quell’oscillazione tra la sfera trascendentale e quella empirica che costituisce il pensiero della fondazione.
A partire da questi snodi il numero intende esplorare il tema della metafora nel discorso filosofico privilegiando i seguenti aspetti:
- l’uso della metafora e dell’analogia nella storia della filosofia: usi, evoluzione, obiettivi;
- crucialità dell’analisi della metafora nel pensiero di Hans Blumenberg nel suo complesso, con particolare riferimento al nesso tra la metafora e l’actio per distans, che Blumenberg individua quale forma precipua di adattamento al mondo;
- centralità della differenza tra metafora e concetto nella decostruzione derridiana della metafisica; valenza trascendentale del discorso derridiano sull’impossibilità di gestire concettualmente l’intreccio tra metafore e concetti;
- rapporto tra metafora e analogia nell’opera di Melandri, analisi degli esiti che assume l’argomentazione trascendentale quando questa ospita al proprio interno un’apertura dialettica nei confronti del metaforico e dell’analogico;
- a partire dall’opera di Lakoff e Johnson, analisi del rapporto tra la metaforicità del pensiero e le attività cognitive in quanto operazioni compiute da un soggetto incarnato, che si orienta nel mondo attraverso costruzioni narrative e concettuali che possono aspirare tanto più all’oggettività quanto più sapranno dar conto del proprio radicamento in una prassi incarnata;
- metafora, analogia e modellizzazione nel pensiero scientifico;
- le relazioni tra metafora e simbolizzazione degli spazi abitati: significati e fenomenologie del monumentale, inteso quale condensazione del metaforico nel linguaggio architettonico;
- rapporto tra funzionamento retorico-semiotico della metafora ed ermeneutica della metafora intesa quale asse portante delle strutture testuali.
Procedura: si prega di inviare, all'indirizzo redazione@philosophykitchen.com, entro il 27 febbraio 2022, un abstract di massimo 6000 caratteri, indicando il titolo della proposta, le modalità in cui si intende sviluppare il tema e l'argomentazione, una bibliografia essenziale e ragionata nonché una breve biografia dell’autore o dell’autrice. Le proposte verranno valutate dai curatori e dalla redazione. Gli esiti della selezione verranno resi noti, via mail, entro il 14 marzo 2022. I contributi selezionati dovranno poi essere inviati entro il 30 giugno 2022 e saranno sottoposti a double-blind peer review. La pubblicazione del volume è prevista per settembre 2022.
Capita spesso che alcune idee filosofiche abbiano una cattiva fama; fino a qualche secolo fa, per esempio, nell’Europa cristiana era piuttosto rischioso professare l’ateismo. Da questo punto di vista la situazione è migliorata e se si porta avanti delle idee proibite più che un rogo si rischia una shitstorm, ma è comunque interessante vedere quali sono i tabù filosofici di un’epoca. Che sia per via dei suddetti retaggi cristiani o a causa di una struttura sociale che ci vuole prima di tutto consumatori, a Occidente una di queste tesi sgradite è il rifiuto del libero arbitrio. La libertà dopotutto è un fondamento ideologico di democrazia e neoliberismo e negarla viene interpretato come un’aggressione filosofica. Mi auguro dunque di non ricevere troppo biasimo, perché mi trovo nella sgradevole condizione di sposare un’idea che la maggior parte delle persone aborre, ovvero che il futuro sia determinato. In breve, credo nella necessità degli eventi: non esistono eventi meramente possibili, ogni fatto o non ha luogo o ha luogo necessariamente.
Gustave Moreau: Oedipus and the Sphinx (1864), Metropolitan Museum of Art (Met). WikiArt
Più che esserne convinto la trovo addirittura un’ovvietà – ed è proprio questa sicurezza a insospettirmi, perché l’esperienza insegna che spesso ovvietà e verità non vanno d’accordo. Voglio dunque mettere al vaglio questa opinione, che per mia fortuna ha illustri precursori e sostenitrici. Oltre all’antico filosofo greco Diodoro Crono, che ha aperto la strada al determinismo col suo “Argomento dominatore”, come scrive il filosofo lettone Nicolai Hartmann nel suo Possibilità ed effettività,
«la concezione, per cui solo l’effettivo è realmente possibile, storicamente non è affatto svanita. Crisippo la combatté con argomenti che permettono di riconoscere ancora la sua forza. Cicerone l’adoperò volgarizzata nella sua dottrina del fato. Al culmine della Scolastica riemerse in forme nuove e – come pare – completamente autonome. Abelardo la applicò al fare creativo della divinità (Dio “può” soltanto creare ciò che crea effettivamente); Averroè sostenne una dottrina dello sviluppo secondo la quale tutto ciò che è possibile diviene anche effettivo».
Nella fisica moderna questa posizione ha prevalso fino allo sviluppo della meccanica quantistica, che ha messo in dubbio il determinismo einsteiniano a favore della tesi che a livello microscopico i fenomeni della natura sono descrivibili solo in termini probabilistici. Anche in quest’ambito però sussistono dei disaccordi, come dimostra la posizione superdeterminista di una studiosa come Sabine Hossenfelder, per la quale l’apparente casualità dei fenomeni quantistici deriva dalla nostra ignoranza di variabili nascoste, un’ipotesi che è stata scartata erroneamente. Per Hossenfelder,
«L’errore che i fisici hanno fatto decenni fa è stato quello di trarre la conclusione sbagliata da un teorema matematico dimostrato da John Bell nel 1964. Questo teorema dimostra che in qualsiasi teoria in cui le variabili nascoste ci permettono di prevedere i risultati delle misurazioni, le correlazioni tra i risultati delle misurazioni obbediscono a un limite. Da allora, innumerevoli esperimenti hanno dimostrato che questo limite può essere violato. Ne consegue che le teorie a variabili nascoste a cui si applica il Teorema di Bell sono state falsificate. La conclusione che i fisici hanno tratto è che la teoria quantistica è corretta e le variabili nascoste no, ma il teorema di Bell fa un’assunzione che non è supportata da prove: che le variabili nascoste (qualunque esse siano) siano indipendenti dalle impostazioni del rivelatore. Questa assunzione, chiamata “indipendenza statistica”, è ragionevole finché un esperimento coinvolge solo grandi oggetti come pillole, topi o cellule tumorali. (E in effetti, in questi casi una violazione dell’indipendenza statistica suggerirebbe che l’esperimento è stato manomesso). Se questo valga anche per le particelle quantistiche, tuttavia, resta ignoto. Per questo motivo possiamo anche dire che gli esperimenti che provano il teorema di Bell, piuttosto che sostenere la teoria quantistica, dimostrano che l’indipendenza statistica è stata violata».
La posizione di Hossenfelder è minoritaria e non ho le competenze per valutarla, ma finché non avremo una visione pacifica della fisica quantistica appellarsi a essa per confermare o negare una tesi resta una mossa rischiosa. Dopotutto il fatto che esistano eventi casuali resta ancora un’ipotesi e in ogni caso la loro esistenza, che falsificherebbe il determinismo causale, non avrebbe alcun effetto sul determinismo acausale che difendo – e che devo spiegare[1].
Nella Stanford Encyclopedia of Philosophy, sotto la voce determinismo, si legge che «Il mondo è governato dal (o è sotto l’influenza del) determinismo se e solo se, dato un determinato stato in cui le cose sono in un momento t, lo stato in cui le cose saranno in seguito è fissato da una legge naturale». Questa definizione sembra più vicina a quel che chiamo determinismo causale, ovvero l’idea che gli eventi futuri siano prevedibili o comunque causalmente determinati dagli eventi passati. La mia proposta è più debole: ciò che accade nel futuro è determinato, ma non è necessariamente legato al passato. Gli eventi futuri, infatti, potrebbero avvenire per caso o essere del tutto imprevedibili, ma non sarebbero per questo meno determinati.
Per spiegare questo inusuale concetto propongo un esempio: diciamo che cade una tegola da un tetto. Per l’indeterminismo, che è la posizione più vicina al senso comune, potevano darsi diverse condizioni tali che la tegola non sarebbe caduta; poteva non subire urti, non essere erosa dalla pioggia o spostata da un forte vento, eccetera. Il futuro è aperto e può accadere in vari modi. Per il determinismo causale, quello sostenuto da Einstein e Hossenfelder, è scritto nelle leggi della natura che la tegola sarebbe caduta, perché è altresì scritto che pochi istanti prima un colpo di vento l’avrebbe spostata, che le condizioni meteorologiche siano tali da far alzare il vento e così via, di causa in causa, fino all’inizio dell’universo. Il futuro è chiuso ed è causato dal passato. Anche per il determinismo acausale era necessario che la tegola cadesse, ma non che l’evento sia collegato alla ventata, come sostiene il determinista causale. Potrebbe infatti avvenire spontaneamente, senza una causa. Il futuro è chiuso, quale che sia il suo legame col passato.
Ora che ho chiarito (spero) cosa intendo per determinismo acausale, devo spiegare perché credo che gli eventi siano determinati al netto della loro relazione col passato. Per farla breve, il motivo per cui penso che necessità e possibilità coincidano è che credo nella verità di questa frase: «domani accadrà qualcosa, anche se non so cosa»; tanto basta per sapere che quel che avverrà domani è determinato, sebbene adesso lo ignori – qualsiasi cosa accada, infatti, non può che accadere così come accadrà. Ora non so se tra cinque minuti berrò un caffè, ma, qualora accada, non poteva che andare così. Un attimo: potevo decidere di non prendere il caffè! Sì, ma in tal caso sarebbe questo secondo evento a esser stato determinato. C’è insomma una previsione che posso sempre fare con assoluta certezza: qualcosa avverrà e a venire in essere sarà esattamente il fatto che ora ignoro. Se vivessi in un universo di cui concepisco solo due possibilità, come il “testa o croce” del lancio di una moneta, sarei sicuro che una di esse si verificherà – e sarà esattamente quella – ma non potrei dire quale. Insomma, so che accadrà un fatto e che nulla potrà impedirlo; l’unica differenza rispetto a un evento del passato è che non ne conosco la natura, perché è fuori dalla mia portata. Quel che accadrà è dunque inevitabile, perché una volta accaduto non può cambiare – anche se si potesse cambiare, inoltre, a essere inevitabile sarebbe l’evento modificato. Persino qualora si creda che per ogni evento la realtà si moltiplica in dieci, cento o infiniti piani temporali, a essere determinati saranno tutti gli eventi nei vari rami del tempo.
L’ipotesi che esistano alternative al passato mi sembra una proiezione retroattiva degli schemi che usiamo per prevedere e immaginare cosa accadrà nel futuro. Per quel che riguarda il passato, infatti, so che gli eventi sono accaduti in un solo modo. Cosa mi fa supporre che poteva andare diversamente? L’unica conoscenza di cui dispongo è che è accaduto esattamente quel che è accaduto. La possibilità è un concetto bifronte; applicato al futuro è una bussola per navigare nella nostra ignoranza, ma rivolta al passato è semplicemente un errore. Tutto il futuro però diventerà passato; come scrive Vladimir Jankélévitch in La morte,
«Tutto il possibile, dice Schelling, deve accadere; e noi aggiungiamo: tutto l’avvenire avverrà, essendo avvenire solo per venire effettivamente un giorno. Qualunque cosa accada, il futuro (come indica il suo nome) sarà, vale a dire finirà per essere, poiché è un essere semplicemente posticipato».
Anche se il tempo fosse infinito, infatti, ogni istante accade dopo un intervallo finito, dunque prima o poi diventa effettivo. Data la nostra abitudine ad anticipare il futuro tutto questo suona molto strano, eppure non abbiamo alcun indizio a favore del fatto che un evento non dovesse accadere esattamente com’è accaduto. Al contrario, ne abbiamo almeno uno a favore del fatto che doveva andare proprio in quel modo: il fatto stesso che sia accaduto. Su cosa fondiamo l’idea che “sarebbe potuta andare diversamente”, se sappiamo che l’ipotetica alternativa non è accaduta né accadrà mai?
Gustave Moreau: The Victorious Sphinx (1886). WikiArt
Tra i primi paladini del determinismo troviamo, come accennavo, il filosofo greco Diodoro Crono (fine 4° – inizi 3° sec. a.C). L’argomento da lui sviluppato contro la possibilità (noto con il nome di κυριεύων, il «dominante») schiaccia la nozione di possibile su quella di necessità: se una cosa è possibile, o è o sarà vera, giacché: a) ogni cosa passata è vera e necessaria; b) dal possibile non consegue l’impossibile. Nelle parole di Epitteto, l’idea di Crono è come segue:
«[...] c’è un mutuo conflitto tra le seguenti tre proposizioni insieme: [1] ogni verità passata è necessaria, [2] al possibile non segue l’impossibile, [3] c'è del possibile che né è vero né sarà vero. Diodoro, avendo visto questo conflitto, si valse della plausibilità delle prime due per stabilire che nulla, che né sia vero né sarà vero, è possibile».
Questo argomento ha subito varie riformulazioni, come quella del filosofo neozelandese Prior, e molte critiche, tra cui Crisippo, Occam, Pierce e lo stesso Hartmann, che pur sposando le conclusioni del dominatore, sostiene che «dopo un buon inizio, cala molto di livello». Non voglio addentrarmi in un’analisi della tesi di Crono, ma ne proporrò una versione ibridata con il celebre esempio che Aristotele fa nella sezione 9 di Sull’interpretazione, quello della battaglia navale. Invece delle navi però, userò Napoleone Bonaparte.
(1) Un evento impossibile è un evento che non è mai accaduto né potrà mai accadere. (2) Che Napoleone vinca a Waterloo non è vero nel passato, nel presente e nel futuro. (3) “Napoleone viene sconfitto a Waterloo il 18 giugno 1815” è vero in qualunque momento nel tempo, quindi era impossibile che vincesse.
Ancora una volta è la certezza che il futuro sarà esattamente in un modo, per quanto ignoto, che mi porta a credere nel determinismo (acausale); la possibilità è una proiezione della nostra ignoranza, più che una realtà effettiva.
Che un evento possieda varie versioni possibili è un’ipotesi che chiunque esclude per il passato e il presente, perché abbiamo (o crediamo di avere) una buona conoscenza dei fatti. Per il futuro invece la pensiamo diversamente. Eppure, come si diceva, tutto il futuro prima o poi diventa passato e anche se continuo a immaginare che “poteva andare altrimenti”, una volta accaduto il futuro non suggerisce in alcun modo altre opzioni. Se proietto sulla realtà questa mia fantasia è perché ho esperienza di fatti analoghi veri (ad esempio di altri condottieri che vincono o perdono battaglie), ma non ne ho mai di quel preciso fatto, come la vittoria di Napoleone a Waterloo, che non esiste né esisterà mai. Una previsione esatta espressa nel passato, se confermata dal futuro, resta tale anche nel passato e se un francese nel 1814 avesse affermato che “Napoleone viene sconfitto a Waterloo il 18 giugno 1815” avrebbe detto il vero, anche se la sua affermazione precede di un anno la battaglia.
Riprendo ora il precedente esempio di un universo con solo due stati immaginabili, come testa o croce: mentre lancio la moneta so che nel futuro un esito è vero e l’altro falso. Non so ancora quale sia falso, ma in ogni caso non è “possibile” – è solo falso.
Chi crede come me nella necessità del futuro, a questo punto si domanderà che cosa rende questa ipotesi assurda per la maggior parte delle persone. Un’ipotesi è che questa reticenza sia dovuta alla radicata abitudine di cercare di prevedere il futuro, un’operazione mentale per cui è indispensabile l’idea di “possibilità”. Un altro ostacolo nell’accogliere il determinismo è che va contro alla necessità psicologica di considerare le persone responsabili delle proprie azioni, soprattutto quando si parla di errori. Dato che il determinismo implica l’assenza del libero arbitrio, chi sposa questa tesi deve difendersi dalla critica che senza la libertà di scelta l’umanità sprofonderebbe in un caos etico, perché le persone si sentirebbero libere di compiere ogni efferatezza sapendosi prive di una reale responsabilità. Questa critica è filosoficamente debole, perché le conseguenze spiacevoli di un’ipotesi non dicono nulla sul suo valore di verità – è un po’ come ribattere a un medico che diagnostica una malattia che si sbaglia perché non si desidera essere malati.
L’idea che abbandonare il libero arbitrio sia un pericolo etico, inoltre, mi sembra priva di fondamento. Come scrive Sabine Hossenfelder in un articolo in cui cerca di smontare dieci errori in materia di determinismo, «se il risultato dei tuoi processi cerebrali rende difficile la vita di altri, sarai tu a essere incolpato, recluso, mandato in psicoterapia o preso a calci. È del tutto irrilevante che la tua elaborazione difettosa delle informazioni sia o meno inscritta nelle condizioni iniziali dell’universo; la questione rilevante è ciò che ti porterà il futuro, se altri cercano di sbarazzarsi di te» e ancora, «anche senza il libero arbitrio, le persone devono comunque prendere decisioni e saranno comunque biasimate se rendono infelice la vita di altre persone». Determinate o meno, le nostre azioni hanno conseguenze e a scomparire non è l’idea di responsabilità ma semmai quella di colpa – la cui sparizione non ritengo affatto un male.
In un lungo articolo sul libero arbitrio sul Guardian, Oliver Burkeman porta l’esempio di un assassino e di un pedofilo i cui crimini erano legati alla presenza di un tumore al cervello; una malattia che, in determinate condizioni, può mutare drasticamente i comportamenti e i desideri di chi la sviluppa. Una volta scoperta la vera causa del male, la nostra opinione su questi criminali cambia inevitabilmente. Se non esistesse il libero arbitrio, ogni delinquente sarebbe da considerare come una persona condannata alle sue azioni. Questa idea ci porta a rivedere la giustizia in chiave riabilitativa o come una quarantena per motivi di salute pubblica, rinunciando così alla legittimità della nostra indignazione. Sembrerebbe un effetto negativo, se non fosse che l’accanimento morale non ha alcuna utilità sociale, anzi, porta alla erronea impressione di essere immuni al male e alla giustificazione di ulteriori atti immorali, come un trattamento violento nei confronti dei criminali. La società non rischierebbe di sprofondare nel caos, perché il male resterebbe tale e le norme per proteggersi da chi lo attua rimarrebbero intatte, senza però indulgere in sadismi o accanimenti. Sempre nello stesso articolo Burkeman scrive:
«se il libero arbitrio si dimostrasse davvero inesistente le implicazioni potrebbero non essere del tutto negative. [...] È un buon motivo per essere più gentili con noi e con gli altri. Per chi tende a essere duro con se stesso, è terapeutico pensare di aver fatto esattamente quello che poteva fare e che, nel senso più profondo, non avrebbe potuto fare di più. E per chi tende a infuriarsi con gli altri per i loro piccoli misfatti, è rassicurante pensare con quanta facilità le loro colpe avrebbero potuto essere le nostre. Alcune ricerche hanno collegato l’incredulità nel libero arbitrio a una maggiore gentilezza. Harris sostiene che se comprendessimo a pieno la tesi dell'assenza di libero arbitrio, sarebbe difficile odiare gli altri: come si può odiare qualcuno che non si incolpa per le sue azioni? Ma l’amore ne uscirebbe in gran parte indenne: dal momento che “amare significa volere che coloro che amiamo siano felici, ed essere noi stessi felici di quel legame etico ed emotivo”, nessuna di queste cose ne risulterebbe indebolita. Anche altri aspetti positivi della vita rimarrebbero indenni. Come dice Strawson, in un mondo in cui non si crede nel libero arbitrio, “le fragole avrebbero comunque un buon sapore”».
Se si parla dell’effetto che fa una credenza, la risposta non può che essere personale. L’idea del “nulla” ad esempio, pur nelle sue molteplici declinazioni, è capace di causare sconforto a Occidente e di risultare salvifica a Oriente. Anche per quel che riguarda il determinismo non esiste l’effetto giusto, ma solo una moltitudine di reazioni che questa idea genera una volta a contatto con delle individualità che si diversificano per storia biografica, costituzione fisica e contesto culturale – ogni risposta, insomma, è personale e tutto quel che posso offrire è la mia.
Come ho detto non ho mai confidato nel libero arbitrio e in ogni mio gesto mi sono sempre sentito come spinto da una volontà che vivo senza decidere; come aveva già detto Schopenhauer, una persona fa ciò che vuole ma non può non volere ciò che vuole. Se osservo i miei processi mentali, mi sembra di notare che i pensieri, più che un deliberato prodotto della mente (quale mente decide cosa pensa la mente?) sono qualcosa che accade, su cui non ho alcun controllo. Ma non è una consapevolezza dolorosa, tutt’altro. Nei rari momenti in cui riesco a contemplare senza giudicare desideri e repulsioni, lo spettacolo che intessono coi miei pensieri ha la bellezza di un’innocua catastrofe.
Il determinismo acausale, inoltre, mi aiuta a essere più indulgente con me e con gli altri, senza per questo negare o rifiutarmi di correggere i miei errori – in fondo se non mi impegnassi per risolverli sarebbe solo una dimostrazione che sono destinato a non farlo. L’idea che il futuro esista di già mi permette di non avere troppa paura del tempo che passa, perché nulla nasce e nulla scompare, se non alla mia vista. Decostruendo l’idea di colpa, infine, mi sono convinto che nessuna persona merita il dolore e mi è più facile essere tollerante nei confronti di chi la pensa diversamente, perché nessuno decide come nascere. E se questa è la tanto temuta débâcle etica, be’, ben venga.
[1] Tra i nomi sotto cui ho trovato questo concetto segnalo anche “fatalismo logico” o “fatalismo metafisico”. Uso determinismo acausale perchè in italiano la parola “fatalismo” è un po’ fuorviante (cfr. Conee, Earl Brink, and Sider, Theodore. Riddles of Existence: A Guided Tour of Metaphysics. Clarendon Press 2014).
di Francesco D'Isa
Bibliografia
Aristotele, De interpretatione, a cura di Attilio Zadro, Napoli, Loffredo (collana Filosofi antichi. Nuova serie), 1999
Clark, C. J., Winegard, B. M., & Shariff, A. F. (2021). Motivated free will belief: The theory, new (preregistered) studies, and three meta-analyses. Journal of Experimental Psychology: General, 150(7), e22–e47. https://doi.org/10.1037/xge0000993
Conee, Earl Brink, and Sider, Theodore. Riddles of Existence: A Guided Tour of Metaphysics. Regno Unito, Clarendon Press, 2014.
Nella convinzione che non sia sostenibile una scrittura impersonale e non situata, chi scrive in questa sede lo fa da una posizione di soggettività queer e di adesione a un certo quadro epistemologico, quello di una psicoanalisi queer fin dai suoi quattro concetti fondamentali: l'inconscio, la ripetizione, il transfert e la pulsione.
Che si possa fare una psicoanalisi rigorosa, sia in sede teoretica che clinica, aderendo alla filologia lacaniana (se ce n’è una!) e al contempo attestandone il fondamento queer, lo mostra il saggio Queer Psychanalyse: clinique mineure et déconstructions du genre di Fabrice Bourlez (Éditions Hermann, Paris 2018), in traduzione italiana ad aprile per i tipi di Mimesis. Nella ricezione italiana dell’intersezione tra psicoanalisi e studi di genere, che si approssima al deserto concettuale, la scrittura di Bourlez colma una lacuna che non può persistere oltre. Una lacuna che ha prodotto effetti reali, attestati sia dal silenzio delle Scuole di Psicoanalisi impegnate in querelles lontane dalla causa analitica intesa come causa del desiderio, sia dai disagi soggettivi degli analizzanti che nei cabinets dei propri analisti non trovano risposta alle urgenze della contemporaneità e dei propri corpi.
Aspettando di leggere l’edizione italiana, diamo un occhio allo stato del terreno su cui andrà a installarsi. Da una parte, troviamo la proposta teologica del nostro pastore lacaniano Massimo Recalcati, fondata sul binomio Bibbia-Psicoanalisi, su una solida retorica del sacrificio? e su una speranza di guarigione dal sintomo che si approssima alla grazia divina; il tutto affiancato da una lettura delle tavole della sessuazione (Seminario XX) marcatamente binaria ed etero-patriarcale, poiché la sua intera opera risulta pervasa di dicotomie manichee e attestazione di differenze uomo-donna strutturanti, presuntamente fondate nella logica dell’inconscio: il queer non è chiaramente passato di qui. La carica di potere e autorità di cui gode il controtransfert dell’analista è – non esageriamo – quella di un dio, possibilmente maschio e paternalista, incarnato, e qualsiasi tentativo di rivendicare una psicoanalisi costitutivamente laica nei suoi fondamenti viene “punito” con scomuniche.
Differentemente, lo psicoanalista presentato da Bourlez è una figura etica, nel senso di un essere di desiderio, la cui consistenza non è l’autorità ma l’erratica, fallimentare e sempre eccentrica movenza del desiderio. Un analista che porta dei tacchi, coi quali gioca, cade, gode, performando la propria instabilità. Il tallone d’Achille, ossia la debolezza, il difetto, della psicoanalisi, diventa les talons hautes: i tacchi alti su cui essa svetta, solo a condizione di traballare e di poter cadere da un momento all’altro (pp. 142-44). La clinica di Bourlez ci permette di opporre al pugno duro del soggetto che è supposto sapere perché sa, o perché ha la presunzione di sapere, il tatto di chi abdica alla propria funzione e la decostruisce, limitandosi – eticamente – a occupare una posizione, che è quella del desiderio. Ecco dunque un primo punto per cui Queer Psychanalyse può portare buone notizie al neo-lacanismo italiano, arroccato in una condizione di neo-lacanismo classico, rigidamente milleriano e consacrato all’Uno: l’Uno dell’Unico Lettore (Miller fu così nominato da Lacan), l’Uno de La (Signora) Psicoanalisi, l’Uno del godimento masturbatorio di una pratica che, volendosi una, si vuole sola. Il caposaldo del neo-lacanismo L’Uno-tutto-solo di Jacques-Alain Miller conteneva a sua insaputa una profezia: la solitudine. Ma più che versare lacrime su un neo-lacanismo classico solo e moribondo, dobbiamo condannarne la violenza sistemica, che ha adoperato nella precisa scelta di escludere le psicoanalisi. Le psicoanalisi critiche, cliniche, decostruttive, che lo hanno minacciato con la loro alterità, costitutiva peraltro della sua materia-principe: l’inconscio che è discorso dell’Altro.
Queer Psychanalyse propone dunque non solo una clinica minore, ma minorizzata (minorisée), perché costretta dalla violenza padronale di un’esclusione a esprimersi dal margine. Ricorrendo a una metafora derridiana, possiamo dunque parlare della psicoanalisi diffusa – quasi con atteggiamento coloniale – da Miller come di un neo-lacanismo bianco, laddove “bianco” non (solo) indica il parlante in questione come maschio bianco cisgender eterosessuale ma soprattutto il tentativo di occultare dietro una supposta neutralità del discorso psicoanalitico (che non è mai neutrale, ma immediatamentepolitico) la messa a tacere, colpevole, violenta e intrinsecamente escludente, delle minoranze queer e trans. Bourlez ripristina un uso politico della psicoanalisi sottraendo l’uno-per-uno, l’esercito degli uni-tutti-soli, alla masturbazione paranoica del lettino, e riconsegnandoli alla specificità delle rivendicazioni del loro desiderio, che è passata attraverso il sangue di Stonewall e il “martirio” dei sieropositivi (cfr. pp. 37-38). Altra frontiera che Bourlez apre è il confronto con le teorie femministe, in particolare un urgente Butler con Lacan “Qu’y a-t il entre nous”? La linea che la nostra recensione persegue, riguardo l’imminente ricezione italiana di una psicoanalisi queer, non può che sostare su un fenomeno perlomeno bizzarro che ha colpito il neo-lacanismo: esso consiste nel dare centralità al godimento de la donna millantando un femminismo che non ha rapporto con alcuna delle quattro ondate femministe e che è avulso da rivendicazioni storiche e militanti. Insomma, un “puro” femminismo psicoanalitico, condotto – di nuovo – in solitudine sul lettino, una-per-una, combattendo coi propri fantasmi e accedendo a un godimento tanto singolare quanto innominabile, al di là del fallo: una vera deriva mistica.
La razionalità, il rigore, la logica radicale dell’inconscio – ben illustrata da Matte Blanco nel suo Saggio sulla bi-logica – sembrano rigettare questi accostamenti teologici e mistici, che non solo ridicolizzano l’impresa freudo-lacaniana ma occultano nuovamente la posizione del “chi parla” (né dio, né un al di là di…, ad esempio del fallo). Fortunatamente per noi, Bourlez corregge il tiro ricordandoci che tale godimento singolare (jouissance) può essere pronunciato perché l’esistenza di una comunità militante lgbtqia+ l’ha consentito, e decenni di lotte gay hanno fatto sì che l’innominabile assuma nomi, posizioni e colori di un arcobaleno, attraverso atti di nominazione del suddetto godimento, come il coming out: “sono psicoanalista e gay. L’ho detto, lo ripeto e ci ritornerò. Sarà meglio che vi abituiate” (cfr. p.19, trad. mia). In questo senso, anche l’ascolto (l’Ouïr) dell’analista deve essere un queer-ouïr. Bourlez gioca sulla medesimezza dei due fonemi, a cui aggiungerei jouir, per cui queer ouïr c’est jouir, l’ascolto queer è una forma di godimento: un ascolto in modo sempre già deviante, non coincidente con sé stesso, che diventa-altro e apre da dentro il fuori che rende i quadri clinici non chiudibili, infinitamente eccentrici, per far evolvere in maniera autenticamente critica i concetti fondamentali dell’inconscio. È quel che si intende con psicoanalisi open to revision, aperta alla revisione costante della sua prassi, e in questo senso inclusiva delle minoranze e spazio safe. In Francia i nomi per definirla proliferano: psychanalystes homosexuel.le.s, psylesbiennes, psy gay.e.s, homoanalystes, psy safeinclusif, analystes mineur.e.s, psy queer.
In questi spazi non aleggia il fantasma eteronormativo dell’analista uomo la cui analizzante è donna, con la presunzione maschile da parte del primo che vi sia tra i due un potenziale o un rischio di seduzione.
L’urgenza di far circolare in Italia Queer Psychanalyse di Bourlez deriva anche dall’errato confronto che è stato instaurato tra psicoanalisi lacaniana, femminismi e queerstudies allo stato attuale del dibattito: pensiamo a testi come L’essere e il genere. Essere uomo/donna dopo Lacan della filosofa e psicoanalista lacaniana Clotilde Leguil, che ha messo per iscritto qualcosa che non esito a definire come una catastrofe del queer. Il modello di “essere donna” che Leguil propone consiste nel “godere della propria esclusione”, atto che dalla prospettiva di Bourlez sarebbe insostenibile. Per Leguil essere donna, oltre che essere esclusa e, paradossalmente, goderne, significa “confrontarsi con la follia”, e “godere di un’inesistenza per arginare la propria mancanza a essere”. Questi brevi estratti si affiancano a una ricostruzione storica semplicistica e a un’opera permeata, fin dal titolo, di una logica identitaria e binaria. Il binarismo è affermato fin dalla contrapposizione delle due opposte letture del concetto di “gender”, da parte degli studi di genere e della psicoanalisi: per i primi il gender sarebbe un’“artiglieria pesante”, una “gabbia che paralizza l’essere”, da abolire; per la seconda sarebbe il “soffio vitale dell’essere”, la possibilità più propria del soggetto, il quale “rincorre il genere per cogliere e raggiungere qualcosa del suo essere”. Correggere il tiro rispetto a questi quadri teorici fallaci sull’intersezione tra psicoanalisi e gender studies sembra essere per Bourlez un preciso dovere morale: nel suo saggio mostra che attestare l’esistenza di un punto di impossibilità tra La Psicoanalisi e il Queer è un gesto deliberato di occultamento, quello di un pensiero straight, per dirlo à la Wittig, di una precisa matrice eterosessuale che si dà come discorso maggioritario e maggiore: un discorso che silenzia i punti di espressione delle letterature minori, quelle che spingono la lingua al limite facendo tremare la grammatica maggioritaria. Maggiore e minore sono due modi possibili di leggere il testo lacaniano. Bourlez lo mostra anche con le dibattute tavole della sessuazione del Seminario XX, Ancora: uno schema bipartito che distingue il modo di godere fallico da quello femminile, col rischio di creare due universali che governano due logiche differenti, e dunque di riprodurre la differenza dei sessi. Il due è l’unico a priori della sessuazione o possiamo porre, già trascendentalmente, n-sessi, n eccezioni singolari a una legge piena di buchi, che fa acqua da tutte le parti? Attenersi alla binarietà dello schema non ci rende complici di una costruzione culturale ancora intrinsecamente dualista? Leggere le tavole in modo minore significa, invece, sessuare in modo queer, non prima di esser passati da Butler e Fausto-Sterling, intersecando la psicoanalisi con la storia del femminismo e della biologia. Significa intendere i sessi come un continuum e come i colori di un prisma (p. 281), a partire da nient’altro che i corpi (chiaramente significanti e sessuati), dalla loro innata biologia della complessità e della diversità, fino a includerne quel punto tanto imprendibile quanto matematico che è il Reale di ciascuno.
Il saggio di Bourlez ha un andamento decostruttivo: in cinque capitoli, vengono ripensati, in-fondati e reintegrati i fondamenti della pratica analitica. Nel primo, Bourlez sostiene di dover dé-faire l’analyse: e così ri-farla. Per disfare un’analisi, serve scrivere, resistere, fare in un certo senso e a proprio modo coming out (pp. 9-15). Nel secondo, manda in rovina l’Edipo: lo mantiene come osso fondamentale dell’analisi e come contenuto dell’inconscio, ma aprendolo a delle possibilità; ossia che ci siano n-sessi coinvolti nel teatrino edipico e che ci sia un necessario al di là dell’Edipo (pp. 94-98). La sorpresa è che la decostruzione dei generi non viene da un’integrazione, ma da una lettura radicale del testo freudiano stesso.
Bourlez prosegue tematizzando un atto nuovo, quello di performare l’omo-analista: nel terzo capitolo si chiede se i cabinets di Freud e Lacan fossero degli spazi che col lessico di oggi definiremmo safe, o ancora gay-friendly. Perché Dora fugge dopo sole tre settimane di analisi? (pp. 148-153) Perché le diagnosi di isteria spesso celano l’omosessualità femminile dietro la seduzione dell’analizzante per l’analista uomo, investito libidicamente come padre? (p. 147). La migliore sovversione che le isteriche abbiano potuto attuare nel discorso analitico è consistita nell’averlo fatto cessare. Dopo averlo inconsciamente istituito coi propri sintomi, se ne sono sbarazzate. Come? Andandosene. Rispettivamente nel Frammento di un’analisi di isteria (caso Dora) e in Psicogenesi di un caso di omosessualità femminile (caso della giovane omosessuale) “le due donne hanno buttato via il trattamento e le interpretazioni freudiane che lo accompagnano. Le sue manie d'interpretazione del sesso da parte del Padre le hanno fatte inorridire. Sono scappate. Lo hanno lasciato da solo con le sue pipe, le sue statuette e il suo divano” (p. 149).
I successivi capitoli sono dedicati a due precise operazioni politiche: l’inversione dell’etero-sessimo e l’apertura di un al di là della differenza dei sessi (ben diverso dall’al di là del fallo), per smontare le mosse che governano, in ogni nostra terapia individuale, quella che Bourlez definisce la micropolitica dell’atto analitico.
Perché leggere Queer Psychanalyse in Italia e farne, al contempo, il point de départ e il point de capiton del dibattito psicoanalitico contemporaneo? Per farla finita col verbo lacaniano come “sacra scrittura” da riconsegnare alla corretta filologia definitoria, e dunque con le derive teologiche e paranoiche che esso incarna, reiterando il discorso del padrone. Per de-feticizzare la Grande Psicoanalisi intesa come sola e unica soluzione al sintomo, sostituendola con la proliferazione di psicoanalisi queer, transfemministe e decostruttive. Il senso delle psicoanalisi, inteso qui come il loro desiderio, alla luce del saggio di Bourlez, non è l’indagine su un presunto “solo” godimento, ma il re-inquadramento dei modi di godere in un’analisi politica affiancata a un’epistemologia critica della sessuazione. Solo così potremo interrogare preliminarmente la scena eterosessuale, smascherarla nei suoi statuti oppressori e violenti, individuare i modi di vivere maggioritari e incarnare le nostre resistenze soggettive nelle grammatiche che non scegliamo di abitare, aprendo nuove possibilità di sessuazioni queer.
di Sara Fontanelli
Bibliografia
F. Bourlez, Queer Psychanalyse. Clinique mineure et déconstructions du genre, Éditions Hermann, Paris 2018.
J. Derrida, La mitologia bianca (pp. 275-349), in Id., Margini della filosofia (1972), Einaudi, Torino 1997.
J. Lacan, Il Seminario. Libro XX. Ancora (1972-1973), Einaudi, Torino 1983.
C. Leguil, L’essere e il genere. Essere uomo/donna dopo Lacan, Rosenberg & Sellier, Torino 2019.
J.-A. Miller, A. Di Ciaccia, L’Uno-tutto-solo. L’orientamento lacaniano, Astrolabio, Roma 2018.
Recensione a V. Jullien, Ce que peuvent les sciences, Paris, Éditions matériologiques, 2020
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Questo libro di Vincent Jullien cerca di indagare, con un esercizio impressionante di sintesi, ciò che possono le scienze. Per farlo, l’autore si interroga innanzitutto su ciò che le costituisce e per ciò stesso cerca di giustificare il metodo dell’epistemologia storica. In seguito si occupa di mettere in discussione l’esistenza di una scienza fisico-matematica e nello stesso tempo l’idea di una rottura epistemologica fondamentale tra la fisica e le altre scienze. Infine, nella terza parte, Jullien affronta più direttamente ciò che possono le scienze, esponendo le conseguenze e i progressi che possiamo aspettarci dal loro sviluppo.
L’autore comincia la sua opera instaurando una rottura netta tra i fatti puri, come, ad esempio, «un sasso cade al suolo», e i fatti scientifici, come «un sasso cade al suolo perché l’attrazione gravitazionale lo costringe al suolo». Al pari di Bachelard, si oppone così fin dall’inizio ad alcuni filosofi delle scienze, Meyerson e Carnap, che difendevano l’idea di una continuità tra gli enunciati del senso comune e gli enunciati scientifici. È solo quando questi «stessi fatti materiali […] [sono] accompagnati da un’attività razionale [che] fanno parte delle scienze e della loro storia» (p. 26). La caduta di un sasso al suolo potrà entrare nella storia delle scienze solo dal momento in cui una teoria gli sarà associata. Dalla teoria aristotelica alla teoria della relatività generale, passando per le tesi galileiane e newtoniane, diverse teorie si sono succedute attraverso i secoli per tentare di capire perché e come un sasso cade al suolo. E se le tesi aristoteliche e poi newtoniane sono state confutate, comunque appartengono alla storia delle scienze. Allo stesso modo, le misure prese oppure i principi su cui ci si deve fondare potranno costantemente essere rimessi in discussione. Infatti, se le scienze sono costituite «da ciò che risulta dalla trasformazione razionale dei fatti elementari, di idee e di immaginazioni suggestive in enunciati o attività complessi, allora, le scienze e la loro storia […] non possono che essere in conflitto» (p. 34).
Jullien si interessa poi alla definizione stessa di una teoria scientifica e questo al fine di giustificare meglio la necessità di ricorrere a un’epistemologia storica. In effetti, secondo l’autore, non si può, come avevano preteso di fare in particolare i filosofi del Circolo di Vienna, descrivere la dinamica delle scienze «come un insieme astratto e formale da cui la struttura poteva essere descritta servendosi di considerazioni logiche e formali, insiemistiche, operatorie, algoritmiche» (pp. 46-47). È precisamente in questa stessa prospettiva logico-insiemistica che Carnap escludeva dall’analisi della scienza sia le prospettive storiche che quelle sociologiche. Secondo Jullien, se si può agevolmente prescindere dalle condizioni sociologiche all’interno delle quali una teoria scientifica è stata prodotta per comprenderla, questo non è valido per la sua storia: «la sociologia ci propone il contesto della teoria e la storia ci suggerisce il testo» (p. 48). Questa tesi concorda con quella difesa da Jullien, in appendice alla sua opera, sull’esternalismo. Le ragioni ideologiche, religiose, politiche o morali sono quindi considerate dal filosofo come esterne alle teorie scientifiche, poiché non giocano un ruolo probante nei confronti del contenuto delle teorie elaborate e neanche sui loro dispositivi sperimentali.
La storia costituisce dunque per Jullien la fonte principale di analisi della scienza e questo soprattutto per tre ragioni: innanzitutto perché dei concetti come principio, anomalia oppure refutazione trovano davvero un senso e un’efficacia solo all’interno della storia delle scienze; poi perché si capisce meglio lo stato presente di una scienza e dei suoi problemi alla luce della sua storia; infine perché alcune linee di argomentazione moderne sono la ripresa di argomentazioni apparse nelle controversie scientifiche passate, come per esempio la questione dell’unificazione concettuale dello spazio e della materia. Jullien precisa poi, basandosi in particolare su Bachelard, la specificità della storia delle scienze rispetto alla storia generale: la prima, al contrario della seconda, permette di giudicare le attività umane passate, in questo caso le attività scientifiche. Questo giudizio dello storico sarebbe possibile grazie all’idea di un palese progresso delle scienze attraverso la storia: «è solamente se si pensa che il progresso esiste nelle scienze che l’epistemologia può ”giudicare”» (p. 70). Non solo capiamo meglio lo stato attuale di una scienza alla luce delle sue problematiche passate, ma la conoscenza dello stato presente di essa sembra anche uno strumento indispensabile alla comprensione dei suoi stati anteriori. La teoria della relatività generale permette anche di capire meglio l’interesse della tesi cartesiana della materia estesa, che identificava già la materia e lo spazio. Jullien non difende peraltro una concezione whiggista della storia della scienza che consisterebbe soprattutto nel fare la storia dei vincitori. Questo però non deve neanche farci cadere nell’«illusione “storicista” che ci farebbe credere che possiamo pensare oggi le controversie nelle condizioni in cui si produssero» (p. 83).
La seconda parte dell’opera consiste nel dimostrare che, nonostante l’associazione molto stretta che unisce la matematica e la fisica, non si può realizzare la fusione di questi due domini in un’unica scienza, facendo sparire per ciò stesso la loro natura distinta. Proprio come ciò che chiamiamo tecnoscienza non può eliminare la distinzione essenziale tra tecnica e scienza, come spiega Jullien in appendice al suo libro. Questa seconda parte sembra costituire una parentesi, in quanto la terza parte pare rispondere e prolungare l’impresa iniziata nella prima. In realtà essa è imprescindibile, perché il mantenimento della distinzione essenziale tra gli oggetti e le procedure della fisica e della matematica permette di giustificare un approccio epistemologico comune per la totalità delle scienze della natura, senza negare l’intensità particolare del legame tra fisica e matematica.
Jullien comincia con l’esame dei rapporti che la fisica e la matematica hanno intrattenuto a partire dall’Antichità. Fino al XVII secolo, «lo studio del mondo sensibile, la filosofia naturale, è debolmente stimolata o animata dalla matematica» (p. 116). Dopo di che «con Galileo, ma anche con Keplero, Cartesio, […] la matematica occupa […] un posto chiaramente più grande nella costituzione delle teorie e delle attività fisiche.» (p. 123). Questa matematizzazione delle scienze dei corpi materiali inanimati è accompagnata da una duratura separazione dalle scienze biologiche. Tuttavia, benché questa associazione tra la fisica e la matematica sia maggiore, la distinzione tra loro non cessa di esistere. Infatti, secondo Jullien, non si deve confondere un’articolazione forte tra questi due domini – come nella legge della caduta dei gravi enunciata da Galileo – con una fusione di questi due domini che condurrebbe all’esistenza di oggetti e di procedure fisico-matematiche.
Se secondo Cartesio la matematica ha chiaramente solo un ruolo metodologico per la filosofia e la fisica, in quanto abitua lo spirito a riconoscere la verità così come a ragionare rigorosamente, la matematica occupa, nei Principia di Newton, un posto molto più centrale potendo lasciar supporre una fusione dei due domini. Tuttavia, ancora una volta, articolazione non è fusione e «la natura dei diversi piani della teoria fisica newtoniana è chiaramente distinta» (p. 136) poiché il livello superiore e inferiore della teoria sono fisici mentre i concatenamenti e gli sviluppi dipendono della matematica. Per Leibniz, la barriera che separa la matematica dalla fisica sembra molto più netta. La prima costituisce un vasto campo di possibilità da cui la fisica può attingere, al contrario di Newton che «costringe le forme matematiche utilizzate ad essere, fin da principio, delle espressioni delle cose fisiche» (p. 144). Dunque, una divisione del lavoro tra fisica e matematica è stata stabilita e la grande efficacia di questo nuovo metodo non deve farci credere in una dissoluzione di questa distinzione. Rispetto alla sua nascita nell’Antichità, è solo da tre o quattro secoli, in sostanza, che la fisica utilizza come strumento principale del suo sviluppo la matematica.
Quanto alla matematizzazione delle scienze biologiche, rifiutate da Buffon e Diderot, si dovrà aspettare la fine del XX secolo affinché si sviluppi davvero. Tuttavia, anche se «l’uso della matematica è diventata un’evidenza per la biologia nel corso del XX secolo», ciò non toglie che la matematica, come fa con la fisica, possa unicamente costituire un mezzo che permette un progresso più ampio delle scienze biologiche. Pertanto, «ciò che separa la fisica dalle altre scienze della natura è di minor rispetto a ciò per cui si assomigliano» (p. 190). Un grande numero di punti comuni permettono un avvicinamento tra l’epistemologia delle scienze biologiche e quella dei corpi inanimati: la costituzione dei fatti scientifici, il ruolo delle anomalie, l’elaborazione delle ipotesi e delle teorie, le attività di laboratorio, ecc.
La terza parte del libro ha come obiettivo principale quello di mostrare, questa volta direttamente, ciò che possono le scienze, sia biologiche sia fisiche. Le teorie scientifiche ci hanno permesso innanzitutto di ottenere una grande quantità di conoscenze, come per esempio l’età della Terra, il suo diametro o anche l’evoluzione delle specie. Tuttavia, dobbiamo notare che queste conoscenze sono valide indipendentemente dalle teorie che ci hanno permesso di scoprirle. È per questo che «se è pertinente convalidare il progresso delle conoscenze grazie alle scienze, lo stesso non può dirsi per le teorie scientifiche stesse. Il loro progresso è infinitamente più delicato da afferrare e soggetto a contestazione.» (p. 197). Diversi schemi esistono per descrivere il progresso delle teorie scientifiche: «il progresso per accumulazione, per inclusione o incastro, per perfezionamento o per sviluppo; può anche essere pensato come ciclico o asintotico» (p. 197). Lo schema dell’incastro, che è difeso dal positivismo logico, consiste nel fatto che teorie più potenti vengono a superare e includere le precedenti. Sia Kuhn che Popper o anche Bachelard si sono opposti, ognuno a suo modo, al modello dell’incastro. Se Jullien condivide, con questi tre autori, l’idea di un progresso delle teorie scientifiche attraverso le rivoluzioni, egli difende, allo scopo tuttavia di escludere il relativismo scientifico, l’idea che una nuova teoria può sostituirne un’altra solo se è più potente. Questo è il motivo per cui, e su questo punto Jullien diverge da Kuhn, si può instaurare una commensurabilità possibile tra le teorie.
Partendo da ciò, Jullien difende insieme il carattere provvisorio e confutabile delle teorie, che per ciò stesso non sono mai vere, e il progresso delle conoscenze e teorie scientifiche. Come però si possono sostenere insieme il progresso delle conoscenze e teorie scientifiche e nello stesso tempo il fatto che queste ultime non siano mai vere? La risoluzione di questo paradosso, centrale nell’opera, si basa sull’idea, difesa anche da Kuhn, che man mano che la scienza progredisce, lungi dal farci avvicinare a una verità della natura, accresce solo la nostra ignoranza di essa. Quando l’esistenza della volta celeste che comprende il mondo fu confutata, questo permise certo un incremento delle nostre conoscenze dell’Universo, ma ciò che c’era al di là delle stelle visibili diventò una fonte notevole di ignoranza. Le scienze non hanno quindi il potere di scoprire né di dirigersi verso la verità della natura, ma forse permettono di «migliorare senza fine la qualità del dialogo che la nostra ragione intrattiene con essa» (p. 17).
Jullien approfitta del capitolo seguente per affrontare il metodo induttivo. Per Darwin, le collezioni dei minerali come quelle dei fossili vegetali e animali accumulate dai naturalisti non costituiscono per niente una scienza geologica o degli esseri viventi: «i fatti puri, non importa quanti siano, rimangono in silenzio e non forniscono teorie, spiegazione, intelligibilità.» (p. 228). Anche la scoperta di Fleming della penicillina non costituisce un elemento probante a favore del metodo induttivo. Infatti, da decenni prima di questa scoperta, i batteriologi cercavano un anticorpo che impedisse la proliferazione dei batteri e «secondo Popper, non era la prima volta che si osservava l’impianto accidentale di una muffa battericida in una coltura microbica […]. Il lampo geniale di Fleming fu di congetturare che la penicillina aveva questo ruolo» (p. 241). È solo nella misura in cui sappiamo prima ciò che i fatti bruti possono insegnarci che essi possono acquisire un senso nello sviluppo delle scienze. Inoltre, la storia delle scienze ci mostra che «gli sviluppi scientifici non sono avvenuti sul modello dell’induzione» (p. 246).
Le scienze possono, infine, essere esplicative, cioè – nel senso di Cartesio – indicare le cause dei fenomeni. La storia delle scienze però mostra «delle belle e potenti teorie che rimangono debolmente o molto debolmente esplicative» (p. 257). Così, la debole capacità esplicativa della dottrina newtoniana non fu un ostacolo alla sua ricezione e al suo successo. Così come anche la funzione, per esempio il fatto di spiegare l’esistenza dell’occhio grazie alla necessità della vista, «non è in grado di proporci un orizzonte, un limite verso il quale tenderebbero le nostre conquiste scientifiche» (p. 267), non più del principio di economia.
Questo libro termina con alcune considerazioni sulla pandemia di Covid-19. Secondo l’autore, «lo schema di sviluppo […] di questo episodio scientifico ha alcune possibilità di rimanere valido e darci alcune idee di ciò che possono e di ciò che non possono le scienze» (p. 297). La matematizzazione delle scienze, attraverso in particolare l’epidemiologia, è qui notevolmente all’opera; un grande numero di piste di trattamenti o di vaccini ha potuto mostrare il ruolo centrale dell’immaginazione dei ricercatori. Inoltre, la velocità molto più grande con cui il virus ha potuto essere sequenziato attesta i progressi spettacolari delle conoscenze scientifiche. Progressi che, anche in questo caso, non si sono sviluppati senza un incremento dell’ignoranza.
Ciò che possono le scienze è un’opera che, grazie al suo sforzo di esaustività e alla sua ambizione, è decisamente stimolante. Jullien prova infatti ad interessarsi sia alla fisica sia alla chimica, alla geologia o alla biologia, ossia alla totalità delle scienze considerate come scienze della natura. Tuttavia questa esaustività non si spinge fino alla comprensione delle scienze umane e sociali – naturalmente c’è sempre una forma di ingiustizia nel rimproverare a un libro una mancanza di esaustività. Come afferma Jullien, «l’idea di scienza esige qualche informazione che risponde, seppure incompletamente, al perché o al come della cosa di cui si tratta» (p. 23). La storia, la sociologia ma anche l’economia non cercano anche loro di fornire delle informazioni che rispondono al perché o al come dell’oggetto in questione? Non cercano anche loro di spiegare i fenomeni quand’anche questi fossero i risultati delle azioni umane? Questa domanda ci sembra tanto più legittima considerato che una parte di queste scienze ricorre sempre di più allo strumento matematico. L’autore stesso si serve di un esempio proveniente dalle scienze economiche per mostrare i limiti dell’approccio induttivo nei Big Data: «così abbiamo visto le previsioni economiche di natura (IA, BD) incapaci di vedere arrivare le grandi crisi finanziarie degli anni 2008-2009, mentre i teorici le annunciavano» (p. 269). Ciononostante, sembra che sia possibile trovare un inizio di risposta alla fine del primo capitolo. In effetti, come ricorda Jullien, benché la storia delle scienze sia caratterizzata dalle sue controversie, dei vasti quadri teoretici finiscono sempre per essere accettati, anche provvisoriamente: «è anche, secondo me, una caratteristica di ciò che possiamo chiamare scienza, cioè questa facoltà che hanno le teorie scientifiche e le controversie all’interno delle quali si sviluppano, di offrire delle vaste sintesi (ciò che Kuhn chiama la scienza normale). A contrario, disponiamo probabilmente di un buon criterio per individuare le false scienze, questi domini dove non si impone mai un punto di vista consensuale e che non conoscono mai un ritmo “normale”» (p. 41). Questo significherebbe che le scienze umane e sociali sarebbero delle false scienze in cui non si impone mai un punto di vista consensuale? Bisognerebbe dedurre una differenza tra ciò che possono le scienze della natura e ciò che possono le scienze umane e sociali? Sfortunatamente, l’autore non risponde a queste domande.
Qual è la realtà dei colori? I colori esistono? Sono percezioni? Come è possibile affermare, come il pittore Velasco Vitali, in riferimento al colore giallo: «è il mio autoritratto»? L’indagine sui colori in ambito filosofico è un campo di studi che sta tornado ad essere di grande attualità; le trattazioni a riguardo sono numerose, ricche di spunti e toccano diversi ambiti. Il giallo del colore. Un’indagine filosofica (Jaca Book 2020) si propone di ripercorrere la storia del dibattito, in particolare nella filosofia angloamericana nell’ultimo secolo e non solo, tagliando trasversalmente l’argomento con temi che passano dall’ontologia in senso stretto a questioni epistemologiche e linguistiche, allacciandosi tanto alle moderne e attuali teorie neuroscientifiche, come alla filosofia del linguaggio e alla critica dell’arte.
Nonostante l’argomento di ricerca possa sembrare oltremodo specialistico, l’indagine sul problema del colore si colloca nel contesto più ampio che comprende il mind-body problem, la questione linguistica e più in generale l’infinita battaglia tra idealismo e realismo che la filosofia occidentale, con poche eccezioni, si trascina dall’illuminismo. Così il tema del colore, come caso particolare, in realtà fa eco a quelli che probabilmente sono i più grandi problemi che la filosofia si sia trovata ad affrontare.
Questo saggio è il primo lavoro di Alice barale che abbraccia a così ampio raggio la questione del colore e che si discosta dai suoi riferimenti abituali, comprendendo anche tematiche della filosofia analitica. Alice Barale studiosa di Estetica presso l’università di Milano Statale, è redattrice della rivista «Itinera» e corrispondente di «Aisthesis». Barale si è occupata a lungo di Aby Warburg e di Walter Benjamin. Di quest’ultimo ha curato una nuova edizione e traduzione italiana de L’Origine del dramma barocco tedesco (Carocci, 2018).
Il Giallo del colore può essere diviso in due segmenti: il primo, comprendente i primi due capitoli, ha la funzione di introdurre il lettore alle principali soluzioni che le varie discipline teoriche hanno dato al problema dei colori, individuando, tra le altre cose, la figura di Goethe, sia questa esplicita o meno essa funziona come perno intorno al quale ruotano le teorie presentate. Invece il secondo segmento, che racchiude gli ultimi capitoli, si focalizza da una parte sul colore e il suo legame con l’arte e dall’altra il colore in relazione al linguaggio.
Le prime due sezioni funzionano quindi, nell'organicità del libro, come fondamento delle trattazioni successive e come una vera e propria cartina, utile per muoversi all’interno del dibattito sul colore in ambito analitico. Le principali teorie presentate sono: l’eliminativismo, il relazionismo e il fisicalismo; in queste pagine l’autrice riporta studi e teorie relative al carattere epistemico del colore, avanzando tesi sui due ampi fronti del realismo e dell’idealismo, spaziando da fisiologi tedeschi, come Helmholtz, fino a teorie fisiche, Maxwell, e neuroscientifiche, mettendo in comunicazione teorie scientifiche e filosofiche. Vengono così messe in evidenza le criticità della nozione di colore per il filosofo, che in questo senso si trova separato dalla massa, in quanto la sua idea sui colori deve passare per un’inevitabile problematizzazione dell’esperienza che ne facciamo. Questa scissione tra l’esperienza e l’ontologia verrà messa in discussione dalle tesi presenti nel secondo capitolo che, pur confermando il carattere non semplice del colore in opposizione alla concezione classica delle qualità secondarie, mostrano le concezioni più ingenue, in cui il colore viene riportato su di un piano più vicino a quello dell’esperienza di un soggetto non avvezzo alle circonvoluzioni della filosofia. In questo modo si apre la strada a un campo che fino ad ora è stato escluso dalla ricerca sui colori e che verrà invece inserito nel terzo capitolo, quello della loro componente simbolica.
Inizia così a delinearsi la sagoma di una seconda figura quella di Wittgenstein, forse ancora più esclusa rispetto a quella di Goethe dalla narrazione costruita intorno al dibattito filosofico; questo autore irromperà nell’ultimo capitolo per scardinare le concezioni classiche sul colore. In particolare, il carattere inafferrabile di quest’ultimo appare sempre più evidente man mano che si passano in rassegna le varie soluzioni proposte e questo suo carattere perturbante sarà ciò che più animerà lo spirito del filosofo austriaco.
Osservando le tesi proposte dalla filosofia angloamericana, esposte nei primi capitoli, ci si rende conto che ad essere escluso dal discorso è proprio ciò che verrebbe più semplicemente in mente a chiunque non fosse avvezzo al discorso filosofico, cioè il rapporto che intercorre tra i colori e il loro valore simbolico e artistico. Questa componente mancante viene reintrodotta nel terzo capitolo tramite le trattazioni sull’araldica di Pastoureau e quelle successive su Gage. Questa sezione è ricca di riferimenti artistici contemporanei e non, da William Turner a John Piper, per avvalorare la tesi per cui i colori non solo si esperiscono a livello sensoriale, ma si vivono in un senso più intimo e significativo. Essi non sono semplici astrazioni, stimoli fisici o mentali, ma hanno una componente centrale nella nostra cultura e interpretazione del mondo. Questo tema viene approfondito con la trattazione della teoria di John Gage, il quale non sosteneva l'universalità dei colori, criticando le ricerche di stampo evoluzionistiche dell’epoca, ma optando più semplicemente per delle somiglianze che sussistono tra di essi, che via via si vanno ad assottigliare. I colori vengono così fatti diventare un linguaggio particolare capace di descrivere la realtà, «John Gage contesta alla filosofia la capacità di cogliere questa densità. proprio perché il colore non è traducibile in parole[...]» (p.90). Probabilmente è proprio il carattere non alfabetico di questo linguaggio dei colori, che l’artista conosce bene, ad aver portato all’esclusione della sua non-voce dalla narrazione filosofica sul tema, poiché l’artista non spiega nulla, mostra e gioca col colore. Queste due nozioni: quella di gioco e quella di mostrare non possono che farci venire in mente uno dei più grandi critici del linguaggio del ‘900, la cui presenza si preannuncia numerose volte all’interno dei primi capitoli, ma che, come si è detto, si afferma nell’ultima parte del testo, cioè quella di Wittgenstein. L’indagine sul colore così trattata dischiude la possibilità di un’altra dicotomia fondamentale della storia del pensiero filosofico e psicologico, quella per cui il linguaggio determina o meno la nostra esperienza, dicotomia che nel corso della trattazione del filosofo viennese verrà sempre meno a presentarsi come tale; questo perché si va ad affermare sempre più l’idea che il colore scaturisca dalla sovrapposizione di vari piani della comprensione umana, o come direbbe l’autrice «Il colore appare, ancora una volta, come qualcosa soltanto apparentemente semplice, che si costituisce nell’incontro tra dimensioni diverse» (p.133).
In un primo momento la tematica sui colori non sembra toccare particolarmente il filosofo austriaco (siamo nel periodo del Tractatus), una svista questa che però metterà più avanti in crisi il suo sistema filosofico. Da questa crisi si ha il punto di svolta il secondo Wittgenstein, in cui la questione del colore è centrale. Le considerazioni sul colore lo portano in un primo momento a rivedere le sue tesi sulle proposizioni semplici e le loro relazioni, completamente escluse nel Tractatus in virtù della loro indipendenza. Il tema delle foglie d’autunno, col loro verde che vira sul rosso, scuote profondamente l’animo del filosofo, poiché per esse non sembrano valere i principi logici fondamentali, come quello di non contraddizione, essendo le foglie autunnale sia verdi che rosse contemporaneamente. Successivamente, con la svolta teoretica dei giochi linguistici, già preannunciata nel periodo intermedio, e con la nozione di grammatica, il cui compito è quello di definire l’uso possibile o non possibile di certe proposizioni, il problema viene spostato dal piano logico a quello pratico. Forse l’unica vera pecca di Wittgenstein è, secondo il nostro parare, proprio da rintracciare in questa sua incapacità di emanciparsi dalla questione pratica dell’uso dei concetti, ovvero in quel piano intermedio tra empiria e logica che ora appare come posizione dei colori. Così scardinato il falso dualismo, che voleva il colore come derivato esclusivamente dell’esperienza comune come presente nelle concezioni linguistiche più relativistiche, si apre dunque la possibilità di una trattazione veramente filosofica sul colore. Poiché dove c’è dualismo possono nascere solo scienze particolari e non Filosofia.
Avviandosi verso la fine del libro, vengono poste le somiglianze tra colori come possibile risposta al quesito fino ad ora trattato. Sempre sul solco di Wittgenstein, il colore viene così inserito in questa concezione per cui noi possiamo dire che un colore è tale perché appartiene a un sistema di differenze e «non si può chiamare il rosso un colore, se esso non è inserito all’interno di un sistema di colori diversi» (p.141). Ma è soprattutto con le ricerche successive di Wittgenstein, dove il colore viene ricondotto nella categoria più ampia di gioco linguistico, che appare evidente il legame tra colore e vita, la parola gioco linguistico infatti è destinata a mettere in evidenza il fatto che il parlare sia una forma di attività, o una forma di vita. Il legame indissolubile tra i colori e la vita è evidente nel ruolo che gioca la memoria nella trattazione di Wittgenstein. Al filosofo di Vienna è chiaro che nella memoria di un colore non vi è solo un archivio di colori vissuti, con cui confrontare il colore presente qui ed ora nell’esperienza, ma «qualcosa che suona e che scatta quando vedo il colore giusto» (p.146) una vera e propria via per la ricerca di esso; così colore e memoria entrano a far parte di quella sfera pratica che è la vita. Anche se come giustamente notato dall’autrice, che conosce bene gli scritti di Benjamin su Baudelaire, Bergson e Proust, c’è effettivamente qualcosa che suona, un carattere temporale, lo stesso Wittgenstein sembra rendersi conto di questa peculiarità man mano che le strutture logiche dei primi scritti fanno spazio a un farsi dinamico di un insieme di nessi e di regole. In un certo senso le relazioni tra i colori, che nel Tractatus appaiono come relazioni logiche, vengono ricondotte all’interno di quella sfera temporale da cui erano state escluse. Così attraverso Wittgenstein, si raggiunge il cuore del problema e una sua possibile soluzione, ovvero non ha senso parlare di «un colore reale e un colore apparente, ma esiste soltanto un unico colore, che è il risultato dell’interazione tra i nostri concetti e le situazioni concrete in cui essi si trovano immersi» (p.153). Da questo discorso, quello che più emerge è il carattere perturbante del colore, la sua inafferrabilità, che scuote le elaborazioni classiche della filosofia, costringendoci a ripensare come problematiche le esperienze della vita quotidiana. Così la trattazione del colore fa vibrare le strutture concettuali filosofiche, diventando in questo modo un orizzonte di possibilità per la soluzione dei problemi più fondativi della filosofia.
In un film di qualche anno fa, Predestination (Australia 2014), i registi e fratelli gemelli Michael e Peter Spierig mettono in scena un vecchio racconto di fantascienza di Robert A. Heinlein, …All You Zombies… (1959), il cui protagonista è, al contempo, maschio e femmina, genitore e figlio/a, amante e amato/a. È la linearità (presunta) delle azioni che si susseguono nel tempo omogeneo a essere così, innanzitutto, radicalmente sovvertita. Una escogitazione narrativa originale, quella di un organismo nato all’interno della possibilità stessa di viaggiare nel tempo, autorizza un gesto che la metafisica si è sempre trattenuta dal compiere fino in fondo: elevare l’esperienza, con la sua radicale imprevedibilità, ad assoluto. Lo spettatore del film, come il suo protagonista (Jane/John), scoprono progressivamente un destino che nessuno ha scritto e che anzi si scrive, in maniera per forza di cose impersonale, attraverso il suo continuo accadere. Se si dovesse perciò trovare un’esemplificazione di quel che Federico Leoni affronta nel suo nuovo libro, L’automa. Leibniz, Bergson (Mimesis 2019), si dovrebbe, con ogni probabilità, fare ricorso a una figura analoga a quella al centro del film degli Spierig.
Anche l’automa, come la vicenda di Jane/John, è l’emblema di un divenire che si sottrae per definizione a ogni prevedibilità, come a qualsiasi pretesa di sovrana padronanza: che sfugge, in breve, alla calcolabilità dell’algoritmo. In fondo, il tema principale di questo piccolo ma importante libro, risiede nella differenza di natura che l’automa (spirituale o incorporeo, come lo definisce Leibniz) deve poter affermare rispetto alle macchine, e in particolare, in relazione alle molte macchine ‘pensanti’ con le quali oggi si tenta di strappare il divenire delle nostre vite alla sua radicale imprevedibilità. L’automa, insomma, è la figura di un organismo senza confini, di un essere che esiste tutto nel suo trasportarsi attraverso di sé, nel suo raggiungersi alla fine del proprio futuro come al principio del proprio passato, facendo così saltare per aria le paratie con le quali siamo soliti proteggerci dalla fatalità a cui ogni vita dovrebbe accordarsi. Imprevedibilità, in effetti, non significa né contingenza, né necessità, ma, piuttosto, continua ridefinizione del necessario come del possibile. Significa, in una parola, alterazione progressiva e cangiante delle stesse categorie con cui il pensiero tenta – tenta solamente – di irreggimentare l’automa.
L’argomentazione di Leoni prende due strade che, intrecciandosi l’una nell’altra come le due anime di una stessa corda, diventano progressivamente un'unica via. Il saggio, partendo dalla vicenda di Joë Bousquet, il poeta ferito di guerra paraplegico che già Gilles Deleuze eleggeva a simbolo della sua etica dell’evento (etica consistente per intero nel saper essere “all’altezza di ciò che ci accade”), mescola registro soggettivo e registro ontologico, determinando così quella indiscernibilità tra tempi distinti che fa appunto dell’automa la messa fuori gioco reiterata di tutte le opposizioni del pensiero metafisico. Una vita si scrive sempre in uno spazio che sfugge a ogni qualificazione nei termini della logica modale, vera e propria superficie di trascrizione ritmica e dialettica del divenire, allo stesso modo in cui il reale del mondo non si lascia acciuffare dalla scansione metafisica di sostanza e accidente, sostrato e accadere, soggetto e predicato. E viceversa, una vita non è un supporto al quale si aggiungono eventi, come il mondo non risponde alla distinzione di possibile e impossibile, contingenza e necessità. L’automa consiste tutto in questa ritrosia fondamentale, in tale riottosità del reale nei confronti dei nostri, umani troppo umani, schemi concettuali. La macchina, insomma, non è l’automa, perché l’automa è piuttosto la matrice informale e illocalizzabile di ogni macchina. Quel che l’automa, correttamente inteso, rivela è quindi l’impossibilità definitiva di calcolare e padroneggiare tecnicamente il divenire. Attraverso il suo situarsi sempre un passo al di là, o al di qua, di ogni concettualizzazione, come di tutte le prassi di adattamento tecnico del reale ai nostri bisogni, nel mentre che tutte le circoscrive e le include, l’automa offre la manifestazione di un’assoluta e crescente indisponibilità del reale. Reale è qui ciò che, come appunto l’automa, si muove da sé e non tollera quindi alcun genere di ingerenza, senza prima averla riassorbita.
Fritz Lang - Metropolis (1927)
Il paradosso di fronte al quale ci mette Leoni è infatti il seguente: il destino esiste solo fin quando vi si acconsente. Ogni manovra diversiva apre per ciò stesso una deviazione, istituisce “nuovo” destino, a sua volta imprevedibile. Leoni propone una sorta di psicoanalisi della metafisica, in cui la struttura nevrotica degli schemi concettuali tràditi diventa l’occasione di un lavoro decostruttivo che non può non essere, altresì, lavoro ricostruttivo. Emerge così qualcosa come una ontologia senza metafisica – un’ontologia della non invarianza dell’ontologia. Un’ontologia della perversione che dà luogo a un’ontologia che si perverte senza sosta. L’utopia, nel senso letterale della parola, è quindi costituire i prodromi di una «scienza del divenire» (p. 13), ovvero di ciò di cui, a detta di Aristotele (e con lui, di tutta l’episteme occidentale), non si dà scienza. Che il divenire sia isomorfo all’individuale è infatti fuor di dubbio: «Non esiste il movimento in generale» (p. 26). Il divenire è sempre singolare – e anzi, il divenire è il singolare. «Se si assume questo schema, scrive Leoni, la filosofia è possibile solo nella forma dell’esplorazione della propria impossibilità, è possibile solo come infinita rivisitazione della propria aporia» (p. 13). Ma la filosofia consiste proprio in questa sfida: occorre saper tramutare una impossibilità, quella della filosofia come scienza del non qualsiasi o del non generico, in effettività. Come fa, d’altronde, ogni creatore. Ogni creatore che si rispetti deve fronteggiarsi infatti con un compito impossibile – trasformare un fraintendimento in una risorsa. Harold Bloom, nel suo celebre L’angoscia dell’influenza, lo ha mostrato in relazione all’emergere di quanto definisce un «poeta forte». Ma il discorso vale vieppiù a proposito della vicenda filosofica. Anche in questo caso ne va della conversione di un travisamento inevitabile in un altrettanto inevitabile progresso, che si legittima à rebours quale correzione di quanto in passato era rimasto disatteso o, soltanto, era stato equivocato. La storia dell’automa coincide quindi con la storia della filosofia, come serie continua di tentativi riusciti proprio perché falliti. L’ontologia che Leoni lascia balenare nella sua istruttoria sull’automa registra questo fatto, elevandolo a cifra stessa del reale – di ciò che nel reale si presenta come l’essere qualsiasi. Paradosso ulteriore, quindi: il modo d’esistenza del singolare, ovvero del non-qualunque, è di essere, appunto, affatto qualsiasi. Di non avere scelta, per dir così.
Ecco allora che, nell’ultimo capitolo, L’inconscio, una storia di fantasmi, l’autore tira le fila del suo discorso con una mossa apparentemente inattesa: l’automa diventa un avatar, a sua volta, del fantasma. Lo scenario è vertiginoso e la batteria di concetti evocati vorticosa. Tutto non è altro che immagine, immagine in sé. Sono le celebri e difficili tesi del primo capitolo del bergsoniano Materia e memoria (1896), portate però qui al loro sviluppo più radicale. L’automa non è una macchina, dicevamo, ma ogni macchina è una forma, o un organo, dell’automatismo dell’automa. Pensare l’automa non significa considerare le connessioni di parti in esteriorità con cui ci si presenta il mondo notomizzato dall’intelligenza pragmatica; non è questione di funzionamenti di oggetti, ricavati dalla giustapposizione di realtà accomodate l’una all’altra secondo il loro profilo materiale. Pensare l’automa è pensare l’intramatura con la quale ogni lacerto di mondo, anche il più insignificante e infinitesimale, si installa e fugge al contempo in e da ogni altro. È vedere il mondo quale ribollio incessante di proliferazioni, di frattali in reciproca e diveniente ristrutturazione. Lo statuto dell’automa è lo statuto dell’esempio, di ciò che, senza scarti di alcun genere – senza la mediazione di una generalità interposta –, è il proprio stesso dover-essere. Di ciò che appunto è singolare: unico nel suo genere. «Ogni cosa è una ragione […] Ogni monade è insieme di un solo elemento, ma quel solo elemento non è un elemento solo, è sempre anche il proprio insieme» (pp. 44 e 74). Nell’atto di leggere Bergson e Leibniz, Leoni si precipita perciò al di là di loro – si spinge oltre il dualismo di tendenze che ancora caratterizza il dettato bergsoniano, come già Deleuze aveva notato, e il contingentismo che Leibniz fatica, malgrado tutto, a ricusare come a giustificare (significativo è che Leoni decida di non tematizzare direttamente la teodicea leibniziana). L’automa si presenta quindi come una meditazione sulla necessità di ontologizzare quanto si sottrae, in apparenza, a questa stessa eventualità: l’immaginazione – quella «funzione senza organo» (Georges Canguilhem) che, secondo il Kant della Critica del giudizio, può guadagnare in alcuni casi le prerogative di un «libero gioco» in cui non è più l’intelletto, con il suo quadro presupposto di categorie, a dettare le condizioni. Ecco che cosa vuol dire pensare una ontologia rescissa dai suoi vincoli metafisici: «E in questo senso ci sono solo nature al plurale, e ogni divisione produce una natura differente, ovvero la natura si divide producendosi in ogni divisione come un altro modo di essere natura, come un altro modo di naturare, un’altra genesi continua di discontinuità. In altre parole, tutto è artificiale, non c’è che artificio» (p. 17).
Il lavoro di Leoni, e non solo in questa occasione, ha come esito, dunque, una definitiva messa in mora della tentazione meccanicista che pure da sempre caratterizza una certa filosofia, intenta a cercare una clavis universalis con cui risolvere una volta per tutte i problemi della conoscenza e della vita. Speranza, d’altronde, dello stesso Leibniz che, con la sua characteristca universalis, immaginava di ridurre ogni controversia a un puro esercizio di calcolo. Fa notare l’Autore: «Ogni macchina contiene un appello alla trascendenza» (p. 51). Si tratta invece di lavorare a un concetto e una prassi conseguente di immanenza integrale. La suddetta chiave, sembra dirci infatti Leoni, semplicemente non esiste, perché deriva, al contrario, da un effetto interno a una potente tecnologia, che fa tutt’uno con quella alfabetica – la grammatica indoeuropea di soggetto e predicato, che struttura notoriamente gran parte della tradizione filosofica occidentale, almeno sino alla soglia del Novecento. Se pensiamo di poter ricostruire l’evento con i risultati della sua analisi (ricostruzione in atto già nella distinzione del flusso linguistico in parti del discorso), finiamo per cadere in una serie di perniciose aporie – tra le quali, e non per ultima, l’idea di un divenire che si aggiunge dall’esterno all’essere senza potersi mai davvero comporre con esso, di una molteplicità che si fa uno o di un’unità che si fa, non si capisce come, molteplice. Quel che va pensato, allora, è qualcosa che è «più di uno e meno di due» (p. 52), che resiste in questo bilico. Occorre solcare il paradosso senza cadere nell’aporia.
Fare filosofia ha sempre significato volersi cimentare con un compito inattuabile: trasformare la vita in un processo automatico. Perché si tratti di alcunché d’irrealizzabile, è presto detto: l’automa è la figura che rende impraticabile questa strada, nella stessa misura in cui la impone come inaggirabile. «Ogni automa è la macchina di ogni altro» (p. 59). La filosofia si identifica alla memoria, perenne perché ogni volta da rinnovare, di questa eccedenza o di questa sottrazione originaria, le quali rimandano entrambe, però, alla totale immanenza con cui l’automa prende forma, aderendo perfettamente solo a se medesimo. Perché di questo si tratta, di un prendere forma che resta tale – che resta in progress. L’automa, insomma, non è calcolabile. Tutto si può fare, tranne divenire-automi, se “divenire” significa passare dalla potenza all’atto. Semmai, si dovrà tornare a esserlo – tornare a essere quel che non si è mai cessato di diventare. L’unico vero automa, in altre parole, non è digitale, ma analogico. Nessun dio ci può salvare, va infine detto. Nemmeno quel dio minore che è il filosofo. Per fortuna.
Sul problema del realismo in filosofia tanto si è detto negli ultimi anni da renderlo un tema inflazionato. Non di meno, è innegabile che la svolta realista sia uno degli eventi più importanti per la filosofia contemporanea dell’ultimo decennio, ed è quindi doveroso porre attenzione a quelle pubblicazioni che affrontano il tema del realismo in modo serio e ponderato. Emergenza di Maurizio Ferraris (Einaudi 2016) appartiene certamente a tale categoria. Il concetto di emergenza è per Ferraris l’asse portante di tutto il lavoro ed egli lo racconta a partire da una premessa ontologica: la realtà che emerge è qualcosa che prima non c’era, mentre la verità è la scoperta di qualcosa che già esisteva. Ciò per Ferraris equivale a dire che l’essere viene prima del conoscere. Tale premessa è necessaria in qualsiasi realismo che voglia davvero definirsi tale. Una volta messa in chiaro questa premessa l’Autore fa un altro passo nell’approfondimento del proprio realismo, definendolo attraverso due aspetti tra loro strettamente connessi. Si tratta innanzitutto di un realismo “negativo”, nel senso che la realtà “resiste” al pensiero, ci colpisce con una forza che a volte non è controllabile, che si impone in modo talvolta anche violento. La realtà possiede, insomma, una inemendabilità difficile da smentire, a cui dobbiamo sottometterci. Ma questa inemendabilità costituisce anche il primo “invito” del reale, la sua disponibilità per noi, lo stimolo a conoscerlo e a trasformarlo. Oltre a queste due accezioni del realismo – negativa la prima, positiva la seconda – ve ne è poi una terza, di carattere trascendentale. Resistenza e invito costituiscono infatti un movimento circolare che nel suo ripetersi, nel suo “iterarsi” direbbe Ferraris, produce accumulo, “registrazione”, e quindi, disponendo di abbastanza informazioni e di abbastanza tempo, produce “senso”. La documentalità è quindi secondo l’Autore il vero trascendentale, intendendo con questo termine una sorta di memoria sempre presente e operante – come aveva sostenuto già Bergson – nella materia ogni qualvolta un nuovo senso emerge da quello precedente. Essendo la memoria la materia stessa. Questo vale sia per le dinamiche che regolano l’evoluzione del vivente che per quelle sociali, non essendoci tra le due soluzione di continuità, ma anzi volendo questa prospettiva superare nettamente il dualismo tra biologico e culturale, tra materia e spirito, tra naturale e artificiale, in favore di una visione documentale, appunto, del regno naturale. In una simile prospettiva, dunque, abbiamo un solo tipo di significato, quello che l’Autore definisce “emergenziale”, il quale nasce dall’iterazione e dall’iscrizione, dall’accumulo di “tracce” prima e di “segni” poi. Questi ultimi sono allora la fonte del significato emergenziale, che di spirituale ha solo l’aspetto ma non la sostanza. Prima viene la documentalità, la traccia “cieca”, i rituali delle api e la costruzione dei formicai, l’accumulo di tecniche, di pratiche, ma anche il casuale sedimentarsi di riti e modi di affrontare problemi pratici, e poi viene il senso, la riflessione e la coscienza di cosa si è sedimentato. L’epistemologia perfetta è quindi la storia in quanto accumulo, registrazione e iscrizione da parte dei singoli. Ecco allora esplicato il senso della premessa ontologica di cui dicevamo: l’essere/accumulo/documentalità viene prima del conoscere/traccia/senso. Una radicale pre-esistenza dell’essere al pensiero che però sancisce anche una radicale ri-unificazione tra essere e pensiero nella categoria portante di “mobilitazione”. Cos’è la natura in questo sistema se non una sorta di infinito dispositivo tecnologico che produce emergenza attraverso la dinamica che abbiamo brevemente illustrato? E la mobilitazione è la nozione che Ferraris utilizza per provare a illustrare questa dinamica che percorre l’inerte e il vivente conferendogli una innata competenza tecnica che è sempre avanti rispetto alla sua comprensione (una sorta di neo-finalismo sul modello di quello proposto da Raymond Ruyer all’inizio degli anni 50 del secolo scorso).
Il libro di Ferraris ha il grande merito di presentare in modo chiaro e conciso la posizione critica comune a gran parte dei realismi contemporanei, ovvero l’attacco frontale e senza compromessi all’idealismo trascendentale e ai suoi molti eredi. Tale critica si può riassumere nel modo seguente: l’intenzionalità non è il cominciamento dell’essere. La correlazione coscienza-mondo non è la condizione di esistenza del reale. C’è qualcosa che viene prima e fonda la correlazione, qualcosa esisteva prima della correlazione e continuerà ad esistere dopo. L’idealismo trascendentale sbagliava quindi nel sostenere che la radice dell’esperienza si situasse nell’Io penso. Ed è così che persino in pensatori “emancipati” da una fenomenologia troppo kantiana, come Sartre ad esempio, l’esternalità rivendicata per la coscienza irriflessa, il suo essere “là fuori” insieme agli oggetti del mondo, non è altro che un’esternalità claustrale, claustrofobica, che rimanda immediatamente ad un dentro camuffato da esterno. Lo stesso dicasi per Heidegger e la sua angoscia, per Levinas e i suoi Altri. Tutti tentativi di demandare il problema del fondamento della correlazione ad un irrelato che però assume subito un carattere paradossale e ambiguo. Una sorta di circolo vizioso tra pre-riflessività e auto-riflessività che, come si diceva poc’anzi, non sfonda realmente verso nessun Grande Fuori. Tutti tentativi questi, come nota giustamente Ferraris, figli della rivoluzione kantiana prima e dell’idealismo trascendentale poi. Non sfuggono alla critica del realista nemmeno le versioni postmoderne del correlazionismo, come ad esempio la filosofia analitica e il costruttivismo. Anch’esse mosse dall’intenzione di individuare nel linguaggio o nel concetto un a-priori al quale ancorare l’esistenza del reale che conosciamo.
Detto questo, bisogna anche dire però che le argomentazioni di Ferraris corrono su di una linea sottile e sono sempre minacciate dal pericolo di finire nel baratro dell’eccessiva semplificazione. Semplificazione che spalanca poi le porte a facili fraintendimenti. Infatti, una cosa è dire che da Kant in avanti la filosofia dell’esperienza ha messo eccessiva enfasi sul soggetto, rischiando di diventare sempre di più una sorta di antropologia; cosa ben diversa è invece sostenere senza mezzi termini che per l’idealismo trascendentale «il mondo è il frutto della costruzione di un Io penso onnipresente e, almeno sulla carta, onnipotente» (p. 76). E quindi sostenere che per gli idealisti trascendentali il pensiero crea la realtà e dunque nulla esiste all’infuori di quello che penso, assimilando il trascendentalismo al solispsismo. Kant e i suoi successori avrebbero quindi sposato una posizione ontologicamente molto forte secondo la quale la materia non sarebbe pre-esistita allo spirito, identificando completamente ontologia ed epistemologia. Esempio sommo di questo slittamento verso il regno del puro pensiero sarebbe l’attualismo di Gentile. La stessa operazione Ferraris la compie nei confronti del postmodernismo, arrivando quindi a concludere: «l’idea è sempre che ci sia una qualche dipendenza della ontologia dalla epistemologia, ossia, in altre parole, che il Big Bang non abbia potuto aver luogo realmente perché noi non c’eravamo, o che il Big Bang abbia avuto luogo solo perchè noi sappiamo che ha avuto luogo» (pp. 83-84).
Attraverso una simile interpretazione dell’idealismo trascendentale si perde però l’aspetto utile della critica. Qual è infatti il senso di tale critica? Chi scrive ritiene che il senso sia quello di mostrare come da Kant in avanti la filosofia abbia progressivamente rinunciato alla sua vocazione originaria a occuparsi del Tutto. Quel Tutto che, per forza di cose, comprende il soggetto come un suo momento, ma non certo come suo fondamento. Un altro aspetto di questa faccenda che la critica mette in evidenza è il paradosso generato da una soggettività così scettica da mettere in discussione persino la propria stessa capacità di far filosofia, ripiegandosi su se stessa e accettando solo se stessa come metro di tutte le cose. Scetticismo che poi, inevitabilmente, ricade su tutto ciò che non è soggetto, compreso il tanto problematico “mondo esterno”. Ma il problema è così serio proprio perché in questione è il diritto della filosofia a spingersi tanto avanti nel dubbio sul mondo, non perché tale dubbio abbia realmente una valenza ontologica. Che poi la vulgata abbia interpretato la domanda come una domanda ontologica vera e propria fa parte della dispersione intrinseca ad ogni teoria che non possiede una vera e propria pars construens, ma questo Ferraris lo sa certamente molto meglio di chi scrive...
“La scienza nasce polemica”: è questo ciò che si potrebbe dire alla luce della lettura del Galilei e la matematica della natura. Lo si potrebbe dire, senza timore di sbagliar troppo, perché il Galilei di Ferrarin è un uomo filosoficamente polemico, che prende continuamente posizione contro qualcuno o contro qualcosa. In primo luogo, ben lo si sa, Galilei si pone contro la tradizione. Non vi è alcuno spazio, nelle pagine di questo libro denso e breve, per un’impostazione anche solo latamente continuista; men che meno ve ne è per quelle tesi che desiderino tratteggiare un’immagine di Galilei come uomo essenzialmente premoderno, col fine malcelato di ridimensionare la portata della “rottura” all’origine della storia della scienza moderna. In una cornice di fondo che mi pare debba molto alla storiografia koyreana, Ferrarin dipinge il lavoro di Galilei proprio come punto di frattura – di coupure – tra due epoche. Una discontinuità che ridefinisce i rapporti tra il campo dell’esperienza e quello della teoria, che chiude definitivamente con certi schemi epistemologici e produce una nuova configurazione possibile dell’impresa della conoscenza. Per quanto infatti – anche sulla scorta di lavori di studiosi autorevoli come Stillman Drake – in molti abbiano manifestato la necessità di rivedere e complicare la tesi circa il platonismo di Galilei (avanzata tra gli altri proprio da Koyré), non è in ogni caso corretto, secondo Ferrarin, proporre l’immagine di un Galilei critico degli aristotelici e dell’aristotelismo di maniera ma, in fondo, genuino seguace di Aristotele, ben più fedele al Filosofo di quanto non lo fossero i peripatetici “ufficiali” delle Università. Galilei è certamente in polemica innanzitutto con tutti i Simplicio del proprio tempo ma, nota Ferrarin, lo stesso «Aristotele non viene risparmiato in niente; ed è ai suoi testi che si rivolge polemicamente per iniziare un nuovo sapere» (p. 22). La polemica di Galilei, dunque, è quella contro un modello di sapere antico quanto la filosofia; polemica contro un ideale di conoscenza piuttosto che contro un sistema; polemica contro un certo concetto dell’episteme, contro il suo statuto, contro la sua struttura. Se l’ipotesi di un Galilei platonico – ma anche pitagorico o archimedeo – deve essere rettificata e corretta, quantomeno specificando come il platonismo debba essere inteso, è nel nuovo ruolo del modello matematico nell’economia della conoscenza che deve essere ricercata la specificità della scienza galileiana e, per estensione, dell’intera impresa scientifica moderna. «Ogni filosofia», ci rammenta Ferrarin, «esprime un tratto essenziale del proprio tempo, e ogni filosofia si afferma come critica delle forme di pensiero precedenti» (p. 14). Viene allora in mente quell’immagine del pensiero come lotta e combattimento, avanzata da Deleuze e Guattari in Che cos’è la filosofia?,oppure, in maniera forse più pertinente a questo contesto, l’idea di Bachelard in La formazione dello spirito scientifico della storia della scienza come superamento di ostacoli epistemologici e come sforzo dello scienziato di superare l’immediatezza del senso comune. La scienza e la filosofia, insomma, condividono questo atteggiamento per cui ogni posizione realmente innovativa rappresenta una nuova costruzione che implica come proprio necessario antefatto un gesto distruttivo o decostruttivo. Questo è ciò che ci deve interessare del rapporto di Galilei con la tradizione e, in particolare con Aristotele: se è vero che il fondatore della fisica moderna si rivolge al testo aristotelico in maniera polemica, con il fine, criticandolo, di costruire una nuova configurazione epistemica per la conoscenza della natura, allora l’indagine sui punti di discontinuità e sugli obiettivi della critica ci potrà illuminare sulla natura e sui contorni di quella configurazione che ancora oggi chiamiamo «scienza moderna».
Ora, la consapevole novità introdotta da Galilei è l’inedito ruolo epistemologico assegnato alla modellizzazione matematica. Questo è il punto decisivo del gesto fondativo galileiano, il carattere fondamentale della frattura segnata dalla scienza moderna. La modellizzazione avviene, nella rivoluzione scientifica, non solo e non tanto attraverso il potenziamento della matematica pura in sé, ma mediante un inedito ruolo assunto dalle cosiddette «matematiche applicate» e, in particolare, dalla meccanica. Certo, ricorda Ferrarin, è «necessario ribadire, con Koyré, che la rivoluzione non è fatta né da tecnici né per tecnici. La figura dell’ingegnere – per esprimermi anacronisticamente: intendo l’artigiano, il fabbro, l’artista, l’architetto – non è né sufficiente né davvero adatta ad identificare il protagonista della rivoluzione scientifica» (p. 28). Nondimeno la scienza, per quanto non perda il carattere universale tipico della concezione classica del sapere, diviene un fare, una prassi (si pensi a Cartesio) e il mondo stesso ora appare come un artefatto, un’opera (Copernico, Keplero). In questa “prima” scienza moderna, lo sappiamo, tutto è macchina e dio è l’ingegnere o l’orologiaio supremo: «Come un architetto, Dio pensa un archetipo che poi pone in opera» (p. 30). Un tecnico, dunque, ma anche un architetto e, in un certo senso, un artista, almeno nella misura in cui l’opera che produce coinvolge certo la facoltà dell’immaginazione. Ma questa immaginazione produttiva non attinge alle risorse dell’irrazionale e dell’inconscio, ma è vincolata, al contrario, dalle regole pure della matematica. E infatti questa immaginazione è la stessa che entra in gioco nell’impresa della conoscenza scientifica della natura nella misura in cui, con Galilei, l’escogitare un esperimento materiale e l’invenzione di nuove macchine rappresentano momenti fondamentali della costruzione teorica. Ecco perché si assottiglia la differenza tra la conoscenza umana e quella divina: esse si distinguono ora per grado, ma vedono all’opera le medesime facoltà e gli stessi modelli epistemici.
Oltre al nuovo ruolo assegnato alla modellizzazione matematica, l’altro grande elemento di scarto con la concezione aristotelica, riguarda il ruolo della percezione. La teoria della verità aristotelica, infatti, implica una certa passività originaria e un certo positivismo di fondo: in Aristotele vi è un senso di «verità come ‘lasciar che le cose ci parlino e si manifestino secondo la loro propria natura’. Il mondo si presenta a noi; e ci si offre unitario e ordinato» (p. 23). È questa concezione del mondo e della verità che comporta che la fisica sia, innanzitutto, lo studio di ciò che si dà nella nostra percezione e dei principi del sensibile (p. 35). Fisica allora, lo sappiamo, come studio delle cose e del loro movimento. Ma il movimento di cui si interessa la physis di Aristotele non è lo stesso di cui parla la fisica galileiana: è un movimento determinato dalla natura delle sostanze, che si differenzia in base ai luoghi cui le sostanze stesse appartengono. Il movimento della fisica, invece, è considerato in purezza, così come lo spazio in cui si manifesta: «Per Galilei, come per la fisica moderna dopo di lui, si prescinde dalle sostanze (dalla natura del mobile) per concentrarsi esclusivamente sulla descrizione del movimento nelle sue coordinate spazio-temporali, velocità e direzione» (p. 40). La scienza moderna si costruisce attraverso la sostituzione di tutto un apparato concettuale: «in una materia omogenea mossa da cause esterne, come al principio interno del movimento si sostituisce la causa esterna, così all’anima (principio di nature soltanto particolari) si sostituisce la forza» (pp. 40-41). Questo, secondo Ferrarin, comporta una nuova visione dell’oggetto, non più inteso come sostanza, ma come prodotto/effetto di cause esterne date come sue precondizioni. Il sorgere del fenomeno (e della sua genesi) rappresenta il tramonto dell’essenza. E lo sguardo “interno”, essenzialistico, è sostituito dallo sguardo esterno – formale – della geometria.
Proprio di sguardo, allora, è necessario parlare se vogliamo rendere conto, al di là delle interpretazioni ormai “classiche”, della novità della matematizzazione galileiana nella conoscenza del mondo sensibile. «Non è possibile comprendere l’importanza di Galilei», infatti, «senza considerare come nelle sue scoperte la razionalità matematica si intrecci con un nuovo modo di vedere» (p. 46). Con il cannocchiale, e con l’uso galileiano del cannocchiale, la tecnica entra nel mondo della percezione o, in altre parole, la percezione diviene consapevolmente oggetto dell’intervento tecnico matematicamente istituito. Quello del cannocchiale, ci dice Ferrarin, è un atto di produzione di fenomeni: per questa ragione l’uso del cannocchiale suscita sospetto, inquietudine, persino rabbia nei contemporanei di Galilei. In un senso ingenuo, il cannocchiale riduce (o elimina) una distanza ma, in un altro senso, introduce invece «una distanza ora essenziale, la relazione esterna ed astratta tra fenomeni e osservazione: se l’indagine dei fenomeni è omogenea e indifferente, i fenomeni tutti vanno ugualmente oggettivati, cioè tenuti fermi, a distanza» (p. 57). Gli oggetti, in altre parole, vanno analizzati, smembrati, in proprietà matematizzabili. Questo comporta l’apertura della questione del platonismo galileiano: sebbene, come nota Ferrarin, sia «indubbio che risulterebbe difficile seguire la traiettoria della rivoluzione in astronomia senza una sorta di intima certezza platonica nella razionalità matematica del cosmo» (pp. 60-61), allo stesso tempo occorre capire con precisione quale Platone sia effettivamente in gioco nell’idea di una lingua pura e matematica della cui scrittura il mondo sarebbe intessuto. Rispondere alla domanda «a quale Platone si riferisce Galilei?» implica allora una risposta anche alla domanda «quale ruolo ha la matematica in Platone?». Nei dialoghi platonici, infatti, il reale rimanda alla dimensione ideale, è vero, ma come nota Ferrarin si tratta di due mondi separati e «occorre ricordare che contro la separazione platonica degli enti matematici dal sensibile Aristotele aveva sollevato obiezioni decisive» (p. 63). Il Platone galileiano, dunque, non è il Platone storico; per Galilei esiste una fondamentale omogeneità della geometria, sulla cui base è riposta l’omogeneità del mondo fisico: non si tratta allora di fare scienza nonostante i fenomeni, ma di fare la scienza dei fenomeni, che ritrovano così nuova dignità come effettivo oggetto dell’impresa conoscitiva. Non si tratta di postulare una partecipazione o metessi del reale nei confronti dell’ideale, ma di riconoscere l’effettiva costituzione ideale della realtà.
Ciò che è importante comprendere, per evitare frettolosi fraintendimenti dell’opera galileiana, è però il significato più profondo dell’idea che il mondo sia scritto in lingua matematica. Quest’affermazione non implica infatti che chiunque possieda pienamente la chiave di lettura del testo eidetico del mondo, anzi; ogni lingua, infatti, presuppone un apprendimento, un esercizio nella lettura e nella comprensione. Lo sguardo della geometria richiede un addestramento al “vedere” matematico: l’esperienza ingenua e l’immediatamente percepito sono esclusi dall’orizzonte della conoscenza, per essere sostituiti da un contenuto sensibile che è già, in sé, un’astrazione. L’ideale è già nel sensibile, ma è necessario imparare a coglierlo: «la scrittura geometrica rende possibile un’esattezza nella misurazione del sensibile che nessuna osservazione dei corpi attorno a noi potrà mai offrire» (p. 69). I sensi sono, platonicamente, inaffidabili ma non nel senso che dobbiamo abbandonare il contenuto sensibile in favore di logoi astratti e puri nella loro idealità: «è dell’esperienza che vogliamo dar conto. È che da soli i sensi non possono decidere casi in un tribunale» (p. 71). La sensibilità non è più recuperata, come in Aristotele, attraverso un atteggiamento passivo, che vorrebbe il mondo come “naturalmente” auto-offerentesi ai nostri sensi, ma attraverso un atteggiamento attivo, «di chi alla natura si accosta con domande precise e mezzi sufficienti per piegarla a risponderci» (p. 74). L’esperienza non è un punto di partenza assoluto, ma un costrutto, un dato risultato, che si innesta nella nostra dimostrazione per corroborarne le conclusioni. «Non si parte dal particolare – o meglio, non si può non considerarlo all’inizio, ma come uno scalino da buttare dopo che ci ha aperto una visione, perché il particolare nel frattempo è divenuto il caso di un concetto» (pp. 75-76). L’esperienza è momento fondamentale della scienza nella misura in cui, nell’idealità che essa contiene, ci permette un accesso all’universalità del concettuale: «come si vede, l’esperienza in senso galileiano – le “sensate esperienze” – è antiempirista» (p. 76).
Come sappiamo questo gesto epistemologico fondamentale di Galilei ha prodotto una serie di complesse conseguenze, che con Husserl potremmo esprimere come la sostituzione del mondo matematico-matematizzato al mondo della vita. Ferrarin riconosce che la storia di questo processo di progressiva sostituzione può essere narrata in modi diversi (tra questi Ferrarin tocca velocemente quelli di Cassirer, Mondolfo, Weyl, Jonas, Hegel, Husserl) e secondo le opposte prospettive dell’entusiasmo o dell’inquietudine per un mondo ormai poco qualitativo e poco umano. Al di là di queste prospettive di fondo resta però una domanda centrale: sostenere che il sensibile sia comprensibile nella sua dimensione quantitativa a prescindere da qualsiasi riferimento al suo senso (qualitativo, teleologico o soggettivo) non significa in fondo sottovalutare o addirittura sopprimere il problema del rapporto tra ciò che è oggettivo e ciò che è soggettivo nella conoscenza? Galilei non si limita a sdoppiare il sensibile per far emergere l’oggettività per differenza rispetto all’apparire, ma giunge a cancellare la traccia di questa differenza. Questo è il problema, secondo l’Autore, che si riproduce, con forza inedita, in Cartesio.
La novità dell’impresa cartesiana è data dalla riducibilità delle figure a simboli algebrici: l’essenza di un ente matematico non è più una figura, come in Euclide o in Galilei, ma una formula. In questo senso il concetto, per Cartesio, non deriva dall'intellezione o dall’astrazione del sensibile nell’ideale, ma dalla definizione. In questo senso la matematica non si occupa di imporre ordine e misura a un oggetto già dato in anticipo: «il nuovo metodo è ciò che si dà un oggetto nella forma di ordine e misura» (p. 90). Come si vede, tanto per Galilei quanto per Cartesio, sebbene in un senso diverso, l’apparenza del sensibile diviene un prodotto dell’attività del soggetto conoscente. E in questa attività, in entrambi i casi, assume un nuovo ruolo fondamentale l’immaginazione, in quanto facoltà in grado di presentarci un’esperienza vicaria dell’esperienza sensibile, che costituisce il punto di accesso all’idealità matematica.
È dunque l’immaginazione, tema che Ferrarin ha già esplorato in alcuni precedenti lavori, a divenire il punto di indagine di una ricerca che, da Galilei, si è ora allargata all’intera fondazione della scienza moderna. In Galilei, infatti, l’immaginazione permette un passo metodologico di importanza difficilmente sopravvalutabile, in quanto permette l’accesso a «un’esperienza possibile, che non soffre delle stesse limitazioni e approssimazioni dell’esperienza reale» (p. 93). Quasi come la variazione eidetica di Husserl, l’immaginazione galileiana «varia le circostanze date dall’osservazione fino a stabilire un nucleo invariate non più modificabile, che si imporrà come la vera e unicamente stringente necessità del fenomeno» (p. 93). L’immaginazione ha così un effetto propositivo (nella misura in cui amplia la nostra conoscenza possibile) e critica (perché può fornire elementi utili alla confutazione di un’esperienza limitata). Per contro, in Cartesio l’emergere dell’immaginazione scientifica si salda con la fine della coincidenza dell’ordine dell’intelletto con l’ordine della realtà. Il matematico moderno opera con una libertà inedita su simboli e segni ignorandone metodologicamente il significato: l’immagine non duplica la cosa stessa, ma vi rimanda come cifra o segno. E proprio per questo l’immaginazione assume un nuovo significato: «l’idea ora viene foggiata, sicché diventa importante concentrarsi sulla sua formazione e sulla sua relazione con un potere di sintesi e combinazione, l’immaginazione» (p. 103). Ma proprio in queste due concezioni dell’immaginazione emerge la differenza di fondo tra Galilei e Cartesio nella concezione dell’importanza della matematica rispetto all’esperienza: «In Cartesio la matematica fornisce un modello deduttivo rigoroso; in Galilei, la matematica è usata sì per definire lo statuto del sapere, ma nell’applicazione allo studio dei fenomeni» (p. 111). E proprio in questa differenza emerge il diverso modo dei due di recuperare l’eredità platonica e socratica. Per Galilei dubbio e ignoranza sono parte della scienza e questo ben si comprende nella distinzione tra conoscenza intensiva e conoscenza estensiva. In Cartesio, invece, non si dà possibilità di paragone tra la conoscenza umana e quella divina, che rimane totalmente altra rispetto a quella dello scienziato. Eppure, proprio questo assunto permette di eliminare qualsiasi dubbio sulla conoscibilità del reale, le cui leggi costitutive sono opera di un atto libero del Divino. Per Galilei ciò che importa della creazione è che il creatore abbia fatto ciò che è secondo una lingua a noi intelligibile, per Cartesio invece «la materia non è abbastanza ospitale per forme esatte» (p. 116), destinate a risiedere, invece, nella totale trascendenza della mente. Questo, ci dice Ferrarin, è «il diverso platonismo di Cartesio» (p. 116).
Lo sforzo di questo libro denso e breve è tanto teorico quanto storiografico. Ferrarin tenta la difficile impresa di voler, da un lato, evitare lo stereotipo storiografico, che accomuna lo Husserl de La crisi delle scienze europee con studi decisamente più recenti, di un “Galilei” utilizzato come etichetta o nome collettivo, utile a riassumere e semplificare una fase storica complessa e differenziata. D’altro canto, sempre sul piano storiografico, ciò che da queste pagine emerge è il tentativo di tratteggiare un Galilei figura eminente nel panorama della rivoluzione scientifica che, con Cartesio, opera una trasformazione radicale e netta, il cominciamento di un nuovo modello di sapere. Si tratta di provare a esprimere il significato trascendentale del gesto galileiano senza perdere di vista la concretezza della sua storicità effettiva, della sua testualità materiale. Questo è un problema che già Koyré e, più in generale, l’epistemologia storica hanno dovuto affrontare nel secolo scorso: quello del rapporto tra il livello di un’analisi trascendentale e quello della ricerca storiograficamente fondata. Hélène Metzger, importante storica della chimica e delle scienze della natura del secolo scorso, parlando del lavoro dello storico delle scienze, ebbe a dire che se questi «in premessa delle proprie ricerche, si lasciasse andare a discutere, com’è suo forte desiderio, le diverse opinioni che hanno corso sulla natura del sapere e dell’intelligenza umana, egli rischierebbe davvero di non poter mai cominciare il proprio lavoro»; ma subito si apprestava ad aggiungere: «oso credere che questo sarebbe un danno, e che il filosofo stesso se ne rammaricherebbe» (H. Metzger, La méthode philosophique en histoire des sciences. Textes 1914-1939, Fayard, Paris 1987, p. 42). D’altronde il lavoro dello storico delle scienze, se ben condotto, porta necessariamente alla posizione di questioni filosofiche ed epistemologiche di primo livello. È questo ciò che in effetti accade nel Galilei di Ferrarin, che da studio sulla figura dello scienziato pisano si muta sin dalle prime pagine in indagine genuinamente filosofica sul senso dell’esperienza, della teoria e dell’immaginazione nella conoscenza scientifica. Il rigoroso confronto con i testi e la profonda consapevolezza storiografica dell’autore non costituiscono qui un limite alla riflessione teorica e filosofica. Il volume, nella sua brevità, offre così un’ampia serie di spunti di ricerca tanto per lo studioso dell’età moderna quanto per il filosofo della scienza e l’epistemologo contemporanei. Si tratta infatti, a partire da Galilei e, in seconda battuta, da Cartesio, di porre le questioni del rapporto tra l’esperienza e la teoria, del rapporto tra il tratto eidetico e quello empirico nella conoscenza. Un compito arduo, che certo non può risolversi nell’indagine storica, ma che da questa può sicuramente prendere le mosse.
Nella quarta puntata di #philosophers, abbiamo incontrato Giovanni Leghissa, docente di Epistemologia delle Scienze umane presso l'Università degli Studi di Torino, nonché direttore di Philosophy Kitchen. Si è discusso, tra le altre cose, di postumano, specialismi filosofici e "scripts" del Neolitico.
La barca di Neurath. Sette saggi brevi, pubblicato quest’anno per le Edizioni della Normale, è un libro che ad una prima lettura potrà dare l’impressione di una certa frammentazione. L’itinerario che il lettore sarà chiamato a seguire procederà per svolte repentine e salti tematici che a prima vista lo indurranno a credere di essere di fronte a una raccolta di riflessioni tra loro scollegate, non soltanto per argomenti ma anche per gli autori di volta in volta chiamati sulla scena, facenti spesso parte di contesti geografici e accademici reciprocamente alieni. Se sono queste le prime considerazioni che balzano alla mente la ragione è che sempre più raramente siamo abituati a confrontarci con autori in grado di tener conto e servirsi in modo proficuo dei risultati e delle domande fondamentali sorte in ambiti di ricerca diversi da quelli di provenienza. In questa raccolta – che rappresenta il proseguimento di un itinerario iniziato nel 1997 con il suo celebre saggio Dell’incertezza e continuato nel 2011 con L’idea di incompletezza – Salvatore Veca non esamina soltanto questioni recentemente al centro del dibattito della filosofia politica e morale, come il rapporto tra equità, diritti fondamentali e beni comuni o i dilemmi generati da nozioni quali libertà e qualità della vita (capitoli dal 4 al 6), ma si impegna anche nell’analisi della recente querelle tra postmodernismo e nuovo realismo ricollocandola all’interno di una cornice decisamente più ampia, richiamando a quelle risorse concettuali disponibili nell’ormai classico dibattito anglosassone sul tema (capitoli dal 1 al 3).
Nel suo saggio Postumani per scelta. Verso un’ecosofia dei collettivi, ospite della collana “Spiritualità senza Dio?” diretta da Luigi Berzano, Giovanni Leghissa dà unitarietà a un tema che ormai lo vede occupato da alcuni anni (La fondazione, la fondazione dell’umano, il post-umano, 2013; Il postumano: un nuovo paradigma?, 2013; curatela di aut aut, La condizione postumana, 2014). Nonostante la brevità del saggio, l’autore si propone di soddisfare la duplice esigenza teorica di inquadrare da più vicino lo sfuggente dibattito sulla questione postumana e, insieme, di estrarne una possibile interpretazione critica. Così, alla messa in ordine di linee guida di una discussione spesso frammentaria, si affianca l’argomentazione di una tesi, frutto dell’incontro di assi di ricerca eterogenei ma convergenti. Le fonti e le questioni interpellate sono infatti numerose e provenienti dalle più disparate aree del sapere filosofico. Tra i “maestri” e le tradizioni di pensiero che vediamo avvicendarsi figurano l’illuminismo, l’evoluzionismo, la filosofia francese del dopoguerra, l’epistemologia, la fenomenologia husserliana, l’idea di un sapere enciclopedico alla Enzo Paci, la decostruzione e l’antropologia filosofica di Hans Blumenberg. Come dichiara l’autore, si tratterà allora di seguire questi molteplici stimoli nell’intento di definire la condizione postumana in termini filosofici, individuando e descrivendo schematicamente gli atteggiamenti caratteristici del suo approccio.