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Nella prefazione delle Ricerche filosofiche, Ludwig Wittgenstein fornisce al lettore due coordinate fondamentali. In primo luogo, Wittgenstein scrive che quest’opera avrebbe dovuto essere pubblicata insieme al Tractatus, perché è solo e unicamente attraverso il confronto con tale lavoro che i nuovi pensieri possono ricevere la giusta luce. In secondo luogo, egli spiega che i “difetti” che contraddistinguono il suo lavoro – l’assenza di sistematicità, l’approssimazione nella formulazione delle idee, l’incapacità di approdare a un’elaborazione compatta - non sono dei veri difetti, e anzi dipendono dalla natura stessa della ricerca che egli intendeva perseguire. Se l’“essenza” del linguaggio non è una unità formale che giace al di sotto dei fenomeni linguistici ma l’insieme multiforme degli usi che ne facciamo e che possiamo farne, il testo filosofico non può che configurarsi come una raccolta di “schizzi paesistici”.
Limitarsi a descrivere è così difficile perché si crede che per comprendere i fatti sia necessario integrarli. È come se uno vedesse uno schermo su cui sono sparse delle macchie di colore e dicesse: così come sono, sono inintelligibili; acquisteranno senso solo se le si integra in una figura. - Mentre quello che io voglio dire è, invece: è tutto qui. (Se lo integri, lo snaturi). (BPP I 257)
Per analogia, si potrebbe dire che le osservazioni filosofiche composte da Wittgenstein dal ritorno a Cambridge nel 1929 fino alla sua morte nel 1951 sono simili a tali macchie di colore su uno schermo. Integrare una parte consistente di queste macchie di colore per estrapolare qualcosa come “la riflessione wittgensteniana sul mentale” corre, dunque, il serio rischio di snaturare tale riflessione. Seguire le tracce di tale riflessione e della sua evoluzione costituisce, tuttavia, l’ambizioso obiettivo che sta alla base di Wittgenstein filosofo della mente - il nuovo libro di Rosaria Egidi edito da Quodlibet.
Se, nonostante la complessità, l’obiettivo viene perseguito con successo, ciò dipende, in prima istanza, dalla flessibilità della struttura del libro. Se è vero, infatti, che l’analisi segue un andamento cronologico - le prime due parti sono dedicate al cosiddetto “Wittgenstein intermedio”, mentre le due parti finali vertono sulla fase più matura della produzione filosofica wittgensteiniana - i capitoli e i paragrafi in cui queste quattro parti si strutturano esaminano da vicino tutti i singoli “nodi” [1] che impegnano Wittgenstein nella sua problematizzazione del mentale. Il successo dipende, in seconda istanza, dalla consapevolezza, dichiarata a più riprese dall’autrice, dell’impossibilità di disgiungere completamente il tema del mentale dagli altri temi che compongono il panorama filosofico dell’opera di Wittgenstein. L’“estrapolazione” di cui si parlava sopra, dunque, è un’estrapolazione solo presunta. Filosofia del linguaggio, filosofia della matematica e filosofia della mente risultano annodati “in una trama inestricabile” [2]. Di qui, ad esempio, l’ampia sezione dedicata ai “Paradossi filosofici del Regelfolgen” nella terza parte, che pur se non direttamente connessa all’area della filosofia della mente, dota il lettore dell’orizzonte di senso e dello strumentario concettuale fondamentali per comprendere appieno gli argomenti “classici” della psicologia filosofica wittgensteniana affrontati nelle sezioni successive.
La filosofia della psicologia - fa notare Rosaria Egidi - è da sempre presente negli scritti di Wittgenstein. Nel Tractatus essa viene etichettata come “Teoria della conoscenza” e viene radicalmente distinta dalla psicologia intesa come scienza naturale della natura umana. La filosofia, dice chiaramente Wittgenstein, nel Tractatus, non è una scienza naturale. La filosofia è “qualcosa che sta sopra o sotto, non già presso, le scienze naturali” (4.111). Ciò deve valere anche per la filosofia della psicologia. Al di là di questa dichiarazione programmatica (e di qualche breve scambio polemico con la concezione russelliana degli atteggiamenti proposizionali), comunque, la teoria della conoscenza non viene, in questa prima fase, ulteriormente elaborata. Eppure, prosegue l’autrice, la riflessione sul mondo mentale, nella forma specifica dell’analisi dei fenomeni dell’esperienza immediata, costituisce il terreno su cui emergono i primi grandi sconvolgimenti della logica vero-funzionale del Tractatus. È costitutivamente impossibile, infatti, nota Wittgenstein già in Some Remarks on Logical Form (1929), catturare le relazioni logiche delle forme proposizionali relative ai colori, alle proprietà dello spazio visivo e ai suoni secondo i requisiti di indipendenza e non contraddittorietà che tale logica imponeva. Occorre dunque integrare la logica filosofica del Tractatus con una logica nuova. Occorre riconoscere che la logica delle funzioni di verità è solo una parte della sintassi comprensiva di un linguaggio fenomenologico - di una sorta di “Begriffsschrift” del contenuto sensoriale e rappresentazionale dell’esperienza - di un linguaggio primario che conferisce senso e struttura al linguaggio secondario che impieghiamo quotidianamente nei nostri scambi ordinari. Ma sarà, ancora una volta, l’approfondimento della questione sul mentale - nella forma specifica della questione dell’esperienza immediata -, a portare Wittgenstein a rigettare come un assurdo l’idea stessa di un linguaggio fenomenologico: dal momento che i fenomeni dell’esperienza immediata si sottraggono a ogni determinazione spazio-temporale e sfuggono, costitutivamente, alla logica dell’appartenenza a un determinato possessore, il concetto stesso di linguaggio fenomenologico diviene una contraddizione in termini, giacché il linguaggio, in quanto tale, è inevitabilmente un linguaggio discorsivo. “Il mondo dei dati” - chiosa l’autrice - “è essenzialmente un mondo senza linguaggio” [3]. Significativamente, nel cosiddetto Big Typescript, successivo di qualche anno rispetto a questi primi tentativi di autocritica, l’area tematica della psicologia filosofica viene designata con il termine di “grammatica”. Questo slittamento di terminologia nell’approccio ai problemi del mentale - dalla “Erkenttnisstheorie”, alla “Phänomenologie”, alla “Grammatik” - segna una svolta fondamentale sul piano dell’evoluzione filosofica. Da adesso in poi, comincia ad apparire sempre più chiaro che il grande problema del Tractatus non risiedeva tanto nel tipo di linguaggio primario con cui occorreva sostituire il linguaggio ordinario per portare alla luce la sua forma nascosta, ma nell’idea stessa che ci fosse qualcosa da sostituire. Non dobbiamo, sostiene ora Wittgenstein, postulare due sistemi di linguaggio, l’uno primario e l’altro secondario, che si riferiscono a due specie di oggetti radicalmente differenti, gli uni sensoriali e gli altri fisici; dobbiamo, piuttosto, cessare di pensare che il significato dei dati sensoriali dipenda dal riferimento a un qualche tipo di oggetto [4] e rivolgerci, piuttosto, alle regole grammaticali che definiscono l’uso delle espressioni con cui, nel linguaggio ordinario, parliamo di sensazioni, emozioni, pensieri e intenzioni, e così via. Non abbiamo bisogno di costruire un linguaggio filosofico artificiale che sia in grado di chiarire la struttura dell’esperienza presente. Abbiamo bisogno di una visione chiara del nostro linguaggio. Abbiamo bisogno di rappresentarlo perspicuamente.
Non possiamo parlare dell'immagine visiva più di quanto non faccia il nostro linguaggio. E non possiamo nemmeno intendere (pensare) più di quanto il nostro linguaggio riesca a fare (non intendiamo più di quanto possiamo dire). (BT §101)
L’indagine sulle regole d’uso del nostro linguaggio, la conoscenza di queste regole e la loro rappresentazione perspicua (übersichtliche Darstellung), equivalgono ovvero fanno la stessa cosa di ciò che spesso si vuole fare/raggiungere con la costruzione di un linguaggio fenomenologico. (MS 114, 27)
Questa svolta - la “svolta grammaticale”, la definisce a più riprese Rosaria Egidi nel corso del testo - apre la stagione della formulazione più matura della filosofia della mente wittgensteiniana. Di qui le riflessioni sulla grammatica intransitiva e anti-referenzialista del linguaggio delle esperienze personali, sulla grammatica dell’intenzionalità, sull’asimmetria tra gli asserti in prima persona e gli asserti in terza persona sul linguaggio delle sensazioni, sull’espressivismo linguistico, sulla distinzione tra disposizioni e stati, sul solipsismo, sull’impossibilità del linguaggio privato e di una definizione ostensiva privata, e molto altro ancora.
Non è mia intenzione ripercorrere, in questa sede, la ricostruzione dettagliata che Rosaria Egidi fa di ciascuno di questi snodi teorici nelle 700 pagine e più che compongono il volume e che riflettono un percorso di studio svolto nell’arco di una vita. Mi limiterò a mettere in risalto alcuni dei punti di forza che fanno di questo testo non soltanto una chiave d’accesso di grande valore per coloro che sono nuovi alla filosofia della mente che si delinea nell’opera di Wittgenstein, ma anche un contributo significativo per i lettori “più navigati”.
Il primo di tali punti di forza, a mio avviso, è l’impiego sistematico di un approccio, per così dire, “genetico-filologico”. L’autrice non si limita a fondare le sue interpretazioni su precisi riferimenti testuali, ma mostra anche di riservare una attenzione scrupolosa alle vicende che contraddistinguono la composizione dei manoscritti e dei dattiloscritti che figurano nel Nachlass. A prescindere dal valore dell’interpretazione dei passaggi di volta in volta menzionati, riportare le osservazioni al contesto originario consente all’interprete di collocarsi nella giusta prospettiva per poter effettuare le proprie valutazioni nelle migliori condizioni possibili. Naturalmente, tale principio vale, o dovrebbe valere, per il pensiero di qualsiasi filosofo, ma vale forse ancor di più per il pensiero di Wittgenstein. Nel caso di Wittgenstein, infatti, prima di poter formulare la propria proposta interpretativa su questa o quella osservazione, l’interprete deve comprendere se l’osservazione in questione è un tentativo di chiarificazione che Wittgenstein sta rivolgendo a sé stesso o al lettore, se essa contiene qualcosa che Wittgenstein intende sostenere o se contiene qualcosa che ha sostenuto in passato e ora vuole rigettare e se quella che ci sta parlando è la voce dell’autore o la voce di un qualche interlocutore fittizio. Fare esplicito riferimento ai testi in cui le osservazioni sono riportate e alla collocazione di questi testi nell’orizzonte del Nachlass costituisce una condizione necessaria (per quanto, certo, non ancora sufficiente) per aggirare queste e altre insidie. Tanto per menzionare un esempio di quanto questo modo di procedere sia radicato nel lavoro di Rosaria Egidi, queste sono le parole con cui viene commentata, di sfuggita, l’analisi wittgensteiniana della Farbenmischung, a p. 203: “[…] questa che ho chiamato la versione concettuale della mescolanza di colori appare chiara solo se considerata il punto di arrivo della sequela di passaggi dal I all’VIII volume. È questa una prova, tra l’altro, dell’utilità del ricorso ai manoscritti per far luce sulla scansione degli argomenti e il processo di elaborazione delle analisi wittgensteiniane, non solo su quelle dei colori”.
Un altro importantissimo pregio dell’analisi condotta da Rosaria Egidi è il confronto costante con la storia della filosofia. Una delle ragioni per cui il pensiero di Wittgenstein può risultare molto ostico ai suoi lettori risiede nella difficoltà di comprendere quale sia esattamente il problema filosofico in gioco. Ciò accade perché, come fa notare Stern [5], la preoccupazione principale di Wittgenstein non è l’enunciazione sofisticata dei problemi filosofici e delle soluzioni teoriche a cui conducono, ma il modo (i modi) in cui tali problemi sorgono. Per quanto dunque Wittgenstein sia tutt’altro che un avido lettore dei grandi filosofi occidentali, il confronto con la storia della filosofia puntualmente condotto da Rosaria Egidi può costituire un ottimo varco attraverso cui fare il proprio ingresso nella dimensione problematica dell’autore. Molto calzante, ad esempio, è il confronto con Cartesio e Brentano per delineare la contrapposizione di Wittgenstein alla “Abgeschlossenheit” e alla privatezza degli stati mentali altrui caratteristiche della prospettiva mentalista: Wittgenstein rigetta l’idea del primato della conoscenza della propria mente (Eigenpsychisches) rispetto alla conoscenza del mondo esterno e delle altre persone (Fremdpsychisches) - “quel primato che per Cartesio conferisce il marchio della certezza e dell’indubitabilità alla conoscenza in prima persona e che consente a Brentano di attribuire ai fenomeni psichici l’esclusivo requisito che egli chiama ‘intenzionalità’” [6] - e nega l’idea per cui la conoscenza del mondo esterno e delle altre persone possa essere ottenuta “per analogia” con quella della propria mente. La conoscenza che io ho della mia mente, per Wittgenstein, non è una conoscenza genuina, giacché non può essere messa in dubbio. Nella prospettiva wittgensteiniana, dunque non c’è alcun primato e non c’è alcuna analogia. Ci sono grammatiche differenti. Ci sono criteri di significato e metodi di analisi che sono “incorporati in modi del tutto diversi nei nostri giochi linguistici” (BPP II, §54) e che tuttavia tendiamo erroneamente a omologare.
Il paradosso scompare soltanto se rompiamo in modo radicale con l’idea che il linguaggio funzioni sempre in un unico modo, serva sempre allo stesso scopo: trasmettere pensieri intorno a case, a dolori, al bene e al male, o a qualunque altra cosa. (PU, §304).
Forse la parola “descrivere” si prende gioco di noi. Io dico: “Descrivo il mio stato d’animo” e anche “Descrivo la mia stanza”. Dobbiamo richiamare alla memoria le differenze tra i giochi linguistici. (PU, §290).
L’ascrizione in terza persona delle sensazioni asserisce qualcosa. L’ascrizione in prima persona esprime qualcosa - rimpiazza le espressioni pre-verbali delle sensazioni (grida, esclamazioni, lamenti, sospiri) che abbiamo appreso quando abbiamo appreso l’uso del linguaggio.
Ecco qui una possibilità: Si collegano certe parole con l’espressione originaria, naturale, della sensazione e si sostituiscono ad essa. Un bambino si è fatto male e grida: gli adulti gli parlano e gli insegnano esclamazioni, e più tardi, proposizioni. Insegnano al bambino un nuovo comportamento del dolore […] l’espressione verbale del dolore sostituisce, non descrive, il grido. (PU, §244).
Una funzione analoga a quella del confronto con la storia della filosofia viene svolta dal confronto con il dibattito corrente. Rosaria Egidi si serve, a più riprese, del confronto con le posizioni contemporanee al fine di (i) elucidare, il più chiaramente possibile, il significato filosofico di alcuni dei movimenti di pensiero messi in opera da Wittgenstein, (ii) illustrare l’impatto che tali movimenti hanno esercitato all’interno del dibattito filosofico contemporaneo [7] e (iii) mostrare come talvolta il pensiero del filosofo austriaco, se correttamente interpretato, contenga implicitamente le premesse per superare l’orizzonte problematico entro cui tale dibattito continua a svolgersi. Un’istanza significativa del punto (iii) è costituita dal confronto tra Wittgenstein e la questione del mito del Dato [8]. Il riferimento diretto, naturalmente, è Empiricism and Philosophy of Mind di Wilfrid Sellars, ma l’autrice menziona anche Strawson, Dummett, Davidson, Evans e Brandom. L’autocritica che Wittgenstein rivolge alla concezione sostenuta nel 1929, durante la breve stagione del suo pensiero in cui aveva assegnato alla fenomenologia il ruolo di una disciplina situata a metà strada tra logica e scienza e avente il compito di descrivere la “Welt der Daten” porta con sé la possibilità di trascendere l’intera questione. Nel percorrere la strada della naturalizzazione delle forme concettuali e quella, diametralmente opposta, della concettualizzazione dei dati sensoriali, Evans e McDowell (e con essi anche tutti quei pensatori che si attestano su posizioni intermedie), avrebbero, nella prospettiva di Wittgenstein, malconcepito il concetto stesso di dato. La prospettiva di Wittgenstein, infatti, “non intende dare alle domande del naturalismo o del trascendentalismo […] una nuova risposta che neutralizzi il mito del Dato”. Essa intende, piuttosto, “riconoscere l’esistenza del mito, la sua pervasività nelle forme del linguaggio in cui sono istituite le vite degli individui e della collettività” [9]. In altri termini, si potrebbe dire, la risposta di Wittgenstein al problema del mito del Dato è che esso non è un affatto un mito. Piuttosto, il Dato - e anzi “i dati” (è la stessa Rosaria Egidi a porre l’enfasi sul plurale [10]) - non sono qualcosa che sta dentro, sotto o dietro ma qualcosa che sta intorno, “nel senso che essi costituiscono il patrimonio di fondo, il background, che non è né vero né falso ma, in quanto depositario di regole del gioco istituzionalizzate, ci permette di distinguere il vero e il falso, il comportamento corretto da quello che non lo è” [11]. Per dirla nella maniera più concisa possibile:
Ciò che si deve accettare, il dato, sono - potremmo dire - forme di vita. (PU, parte seconda, p. 295).
Questi tre aspetti - unitamente al rigore esplorativo, alla presenza costante degli interlocutori filosofici principali di questa fase del pensiero di Wittgenstein (su tutti: James e Carnap), e al confronto con i limiti e i punti di forza che hanno segnato la storia delle interpretazioni filosofiche delle riflessioni di Wittgenstein sul mentale (l’interpretazione di Kripke sulla nozione di regola e sul rapporto di tale nozione con il linguaggio privato, ad esempio) - fanno di Wittgenstein filosofo della mente uno studio di grande spessore e al tempo stesso una risorsa utilissima per tutti coloro che, indipendentemente dal livello di familiarità pregressa, intendano approfondire i temi che compongono la psicologia filosofica wittgensteiniana. L’unico limite che si potrebbe imputare a questo testo è una certa carenza di organicità. Talvolta, leggendolo, si potrebbe avere l’impressione che alla profondità analitica non faccia sufficientemente da contraltare una restituzione dell’orizzonte unitario in cui i singoli problemi sono collocati. Certo, come già messo in luce nella nota introduttiva di questa recensione, questa carenza di organicità rispecchia fedelmente il modo di procedere dello stesso Wittgenstein - la necessità di percorrere una pluralità irriducibile di linee di investigazione “in lungo e in largo e in tutte le direzioni” (PU, prefazione) - e in più riflette, altrettanto fedelmente, la densità di pagine e pagine di manoscritti e dattiloscritti composte nell’arco di più di 30 anni. Eppure, si potrebbe rispondere, un orizzonte unitario, sia pur minimo, potrebbe esserci. Quell’orizzonte unitario, forse, è Wittgenstein stesso - la sua persona, le sue esigenze, le sue sofferenze. Si potrebbe sospettare che la motivazione filosofica profonda al fondo dell’attività filosofica svolta da Wittgenstein - e quindi anche dell’attività filosofica relativa al mentale - risieda in questo: riportare i concetti “a casa”, nel linguaggio ordinario, dove niente è nascosto, per uscire dal tormento a cui la filosofia costringe i filosofi e, in primis, Wittgenstein stesso. Forse, nel non esplicitare tutto questo, Rosaria Egidi è semplicemente più fedele alla lezione del Tractatus: questo ordine di cose non può dirsi, ma può soltanto mostrarsi. È quindi estremamente interessante, credo, notare come questo stesso ordine di cose si mostri, in modo intermittente, nelle pieghe del discorso di Rosaria Egidi. Concludo menzionando una di queste manifestazioni estemporanee, nel bel mezzo dell’analisi che l’autrice conduce sull’argomento wittgensteiniano del linguaggio privato nelle Ricerche filosofiche: “Con la sua confutazione Wittgenstein non intende tuttavia offrire una teoria alternativa ma liberare l’idea stessa di linguaggio privato dai fraintendimenti in cui è invischiato dissolvendo così in un sol colpo i problemi che esso pone. Lo scopo liberatorio che egli persegue il metodo terapeutico da adottare per realizzarlo sono espressi in due frasi lapidarie che compaiono nel testo in modo che può apparire inatteso e tali da figurare come riflessioni fuori contesto. […] L’una frase è posta quasi alla fine come a suggello dei §§243-315: ‘Qual è il tuo scopo in filosofia? - Indicare alla mosca la via d’uscita dalla trappola’ (§309); l’altra è collocata quasi all’inizio come a qualificare il metodo terapeutico con cui la filosofia ‘dovrebbe trattare’ i problemi: ‘Il filosofo tratta una questione; come una malattia’ (§255)”.
di Filippo Mosca
Note
[1] Parlo di nodi non a caso. “La filosofia scioglie i nodi del nostro pensiero, che abbiamo aggrovigliato in modo assurdo; ma per farlo, deve compiere movimenti altrettanto complicati dei nodi. Anche se il risultato della filosofia è semplice, i suoi metodi per arrivarci non possono esserlo.” Cf, Big Typescript, §89
[2] Egidi, R. (2023). Wittgenstein filosofo della mente, Quodlibet, Macerata, p. 467.
[3] Ibidem, p. 471.
[4] Per dirla con le parole di Rosaria Egidi: “Wittgenstein riconoscerà che nell’adottare il linguaggio fenomenologico come fondamento o base del linguaggio fisico si corre il rischio di essere indotti a costruire i dati come oggetti interni sovrapponendo a essi la terminologia propria dei predicati caratteristici della Dingsprache”.
[5] Stern, D. G. (2004). Wittgenstein's Philosophical investigations: an introduction. Cambridge University Press, p. 74.
[6] Egidi, R. (2023). Wittgenstein filosofo della mente, Quodlibet, Macerata, p. 561.
[7] Un esempio importante è il ruolo della nozione wittgensteiniana di “Vorstellung” (rappresentazione) nel confronto tra le teorie rappresentazionali della mente e le teorie normative della mente. Ibidem, pp. 532-536.
[8] Ibidem, p. 608.
[9] Ibidem, p. 608.
[10] Ibidem, p. 606.
[11] Ibidem, pp. 614-15.
Bibliografia
Egidi, R. (2023). Wittgenstein filosofo della mente, Quodlibet, Macerata.
Kerr, F. (2006). The Big Typescript TS 213: German-English Scholars’ Edition. International Philosophical Quarterly, 46(3), 372-374. [BT]
Sellars, W. (1956). Empiricism and the Philosophy of Mind. Minnesota studies in the philosophy of science, 1(19), 253-329.
Stern, D. G. (1995). Wittgenstein on mind and language. Oxford University Press, USA.
Stern, D. G. (2004). Wittgenstein's Philosophical investigations: an introduction. Cambridge University Press.
Wittgenstein, L. (1922), Tractatus Logico-Philosophicus, trad. a fronte di C.K. Ogden, London: Routledge & Kegan Paul.
Wittgenstein, L. (1953), Philosophical Investigations, ed. G.E.M. Anscombe e R. Rhees, trad. di G.E.M. Anscombe. Oxford: Blackwell [PU]
Wittgenstein, L. (1983), Remarks on the Philosophy of Psychology, vol. I, ed. G.H. von Wright e H. Nyman, trad. di C. G. Luckhardt e M. A. E. Aue. Chicago: University of Chicago Press, [BPP I]
Wittgenstein, L. (2013). Some Remarks on Logical Form. In Essays on Wittgenstein's Tractatus (pp. 31-37). Routledge.
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«Girare in cerchio». Furio Jesi e l’enciclopedia del mito
Recensioni / Novembre 2023Sfogliando gli indici del Vocabulaire des Institutions Indo-Européennes di Benveniste, ci si imbatte in una circostanza singolare. Tra i vocaboli che il grande linguista prende in esame, «nel vasto tesoro delle corrispondenze acquisite», per ripercorrere a ritroso la genealogia delle istituzioni indoeuropee, la parola mythos non compare affatto. Chi ricercasse l’uso originale, ricavato per comparazione dalle fonti, di mythos, rimarrebbe dunque inevitabilmente deluso. Che mythos non presenti ricorrenze significative nel Vocabulaire, potrebbe, però, alludere a una circostanza ben più decisiva, tale da investire la storia delle religioni, l’antropologia, la filologia, la linguistica, e, in ultima analisi, lo stesso statuto epistemico delle scienze umane. Si tratta, cioè, del dubbio circa l’esistenza dell’oggetto «mito», a cui la parola mythos non cessa tuttavia di rimandare.
È proprio da questa considerazione che, quattro anni dopo l’uscita del Vocabulaire, prendeva le mosse Furio Jesi (1941-1980) in Mito, pubblicato per la prima volta nel 1973 nell’Enciclopedia Filosofica Isedi. Il libro, ristampato nel 1980 da Mondadori e nel 2008 da Aragno, è ora disponibile nella nuova edizione Quodlibet (2023) curata da Andrea Cavalletti, corredato dal saggio finora inedito La nascita dello spazio-tempo. Tale edizione si colloca in una fase indubbiamente cruciale della ricezione dell’opera di Jesi. Se, nel 2011, un interprete autorevole del pensiero jesiano come Enrico Manera annunciava una Jesi-reinassance, segnata da un rinnovato interesse perlopiù circoscritto all’Italia, oggi pare di assistere a una seconda reinassance jesiana, stavolta estesa al mondo editoriale e accademico francese, tedesco e, soprattutto, anglofono.
In effetti, Mito di Jesi si apre con l’indagine degli usi omerici di mythos che Benveniste, nel Vocabulaire, aveva omesso. In Omero, mythos significa qualcosa come «decisione», «congiura», «progetto» esistenziale e «sentenza» divina. Il campo semantico del termine include, cioè, ciò che Benveniste avrebbe chiamato gli usi performativi del linguaggio e che Jesi, in singolare consonanza con le riflessioni che Northrop Frye andava maturando in quegli anni (e che Jesi, però, probabilmente non conosceva), chiama «parola efficace» (p. 24). In Omero, però, mythos può essere «parola efficace» anzitutto perché è, insieme, «astuzia presente» e «evocazione dei tempi passati», paradossale coincidenza di «oggi» e «tempi antichi» nell’istante dove «il passato anticipa e consacra, fa vero, il presente».
È il tardo conio della parola mythología a scandire, per Jesi, uno stadio decisivo nella genealogia del lemma mythos, che coincide con una crisi epocale nella storia della cultura europea. In un processo che affonda le sue radici nella crisi dell’epos antico, ma che trova in Platone il suo più alto punto di maturazione, mythos e lógos si dispongono ai poli opposti di un campo semantico che procede da un minimo a un massimo di performatività: mythos assume il significato di un «puro raccontare […] non obbligatorio» (p. 20); mentre lógos diviene parola persuasiva, vincolante in quanto vera, efficace.
A partire dalla Grecia classica, dunque, il mythos è consegnato alla scienza e alla politica europee anzitutto come significante vuoto, simulacro di una «parola efficace» ormai resa ineffettuale e, insieme, fantoccio, straw-man contro cui la ragione non cesserà di scagliarsi, proiettandovi, al tempo stesso, i propri demoni e, paradossalmente, le proprie nostalgie. È la designazione stessa della parola «mito» a vacillare, nel sempre rinnovato tentativo di ancorarsi alla spettrale realtà di un oggetto – il mito – che è sempre «già e non più accessibile» (p. 46). In questo senso – così suona la tesi fondamentale di Jesi – la moderna scienza del mito non può che configurarsi come paradossale «scienza di ciò che non c’è» (p. 94).
Che cos’è il mito? – Mito di Jesi ruota, appunto, attorno a questa domanda. In effetti, il suo tratto più caratteristico è proprio di non cessare di «girare in cerchio» (p. 120) intorno all’oggetto-mito. A giudicare dal sommario, Mito si presenta in tutto e per tutto come una introduzione allo studio del mito e delle sue interpretazioni in età moderna. Di fatto, Jesi, dopo aver individuato nella «crisi nei confronti dell’accesso moderno alla mitologia» (p. 47) il punto di insorgenza della «scienza del mito» – che va dunque situato in epoca post-rinascimentale, dal momento che «il primo umanesimo e la cultura del Rinascimento […] ”vissero” o credettero di vivere» il mito (p. 33) –, traccia un percorso che, dai primi decenni del XIX secolo, attraversa la teorizzazione illuministica (Charles François Dupuis) e romantica del mito (Buttmann, K.O. Müller, Creuzer, Bachofen), si snoda attraverso lo storicismo (Wilamowitz) e l’etnologia e le scienze antropologiche del XX sec. (Malinowski, Lévy-Strauss, Dumézil), approdando alla singolare sintesi della teoria junghiana degli archetipi con il modello morfologico di Propp, che costituisce la proposta teorica dello stesso Jesi.
Eppure il senso di tale itinerario si chiarisce soltanto alla luce dell’avvertenza che Jesi pone all’inizio della Prefazione. «Codesto libro – scrive Jesi – non è una sistematica breve storia della “scienza del mito”, né un’introduzione ad essa. È piuttosto un tentativo di circoscrivere il concetto di mito mediante una tecnica di “composizione” critica di dati e dottrine, fatti reagire tra loro, il cui modello metodologico si trova nella formula del conoscere per citazioni […]. Oggetto di codesto libro è il concetto di mito nell’ambito di una enciclopedia» (p. 11). In questo senso, Jesi prese alla lettera la sfida che Mario Antonelli gli pose proponendogli di scrivere Mito per la collana Enciclopedia Filosofica della Isedi. Che l’oggetto-mito possa essere accostato soltanto con uno stile di pensiero enciclopedico, cioè attraverso una enkýklios paideîa, una vera e propria «educazione circolare», in grado di tenersi costantemente equidistante dal nucleo che potrebbe (o non potrebbe) essere occupato dal mito, ciò costituisce precisamente l’ipotesi centrale della teoria della «macchina mitologica» che Jesi andava elaborando in quegli anni, e che trova in Mito una delle sue verifiche più cogenti.
Tale ipotetico nucleo è infatti, per Jesi, il sito di un paradosso che non può essere sciolto sul terreno della scienza, ma soltanto su quello della politica. In effetti, tale paradosso si articola storicamente nel decisivo aut aut che Jesi coglie in filigrana nello sviluppo della moderna scienza del mito. Alla domanda: Qual è il compito epistemologico del mitologo?, essa può rispondere soltanto articolando e riproponendo sempre di nuovo l’ alternativa secca tra accettazione e spiegazione dei materiali mitologici: con «la consapevolezza che lo studio deve in ultima istanza promuovere l’accettazione della mitologia, il “bere alla sorgente” (secondo le parole di Kerényi), oppure con la consapevolezza che lo studio deve trovare compimento nella spiegazione delle ragioni per cui il materiale mitologico si è plasmato in determinate forme» (p. 65).
È questa spaccatura a segnare irrimediabilmente la mitologia moderna. Anzitutto istituendo i due poli attorno a cui essa incessantemente oscilla: la fede o la non-fede nell’esistenza del mito inteso come sostanza autonoma – motore efficiente che, generando e assemblando senza posa i materiali mitologici, plasmerebbe lo spazio politico e l’ordine del discorso. In questa prospettiva, la vicenda storica della «scienza del mito» coincide con una verifica costante ciò che Jesi chiama «la qualità ideologica della scelta di affermare o negare la sostanza del mito». È così che la questione intorno alla presunta essenza del mito si trasforma nella domanda sulla sua esistenza: C’è o non c’è qualcosa come il mito tra le pareti della macchina mitologica? È il mito un semplice focus imaginarius, un centro ipotetico proiettato da una circolazione di materiali culturali, scientifici e ideologici che si sosterrebbe in ultima analisi sull’umano? O, viceversa, l’umano non è che un veicolo attraverso cui una sostanza extra-umana si esprime, configurando quei materiali in un mondo sostenuto soltanto dallo spettrale rimando al suo insondabile fondamento?
Tali questioni segnalano indubbiamente il profondo legame tra Jesi e la Mythos-Debatte degli anni Settanta in Germania da un lato, e, dall’altro, la sua affinità elettiva con autori come Derrida, che, poco più di un anno prima dell’uscita di Mito, aveva pubblicato su «Poétique» La mythologie blanche. Il gesto più caratteristico di Jesi è, forse, di lasciare sine conditione alla politica l’ultima parola sulle ipotesi della scienza del mito. Certo, la politica gioca un ruolo essenziale in un Blumenberg, un Marquard o un Derrida. Eppure, che la politica coincida con il piano ultimativo di verifica della mitologia, con il giudizio di ultima istanza sulla teoria, è una posizione che, in quegli anni, è stata formulata con chiarezza pari a Jesi soltanto da un autore come Jacob Taubes. Non a caso, fu proprio Taubes, in polemica con i mitologi e i teorici della cultura che ruotavano attorno a «Poetik und Hermeneutik», a denunciare con toni tipicamente jesiani il capovolgimento della mitologia di Eliade, Kerényi, Lévy-Strauss in una vera e propria mitografia («Comune a tutti – scrive Taubes – resta il fatto che essi danno una spiegazione mitica del mito e non mirano a un punto archimedico esterno alla situazione mitica; insomma producono un “mito della mitologia”»).
Una menzione particolare merita, poi, l’ambiguo (non-)rapporto tra Jesi e la storia delle religioni italiana. In effetti, nemmeno una pagina, in Mito, è dedicata a Raffaele Pettazzoni, Angelo Brelich o Ernesto De Martino. Circostanza tanto più sorprendente in quanto non solo Jesi, nella seconda metà degli anni Cinquanta, si accostò alla questione del mito proprio attraverso le pubblicazioni della celebre «Collana viola» di Einaudi, diretta da Pavese e dallo stesso De Martino, ma soprattutto perché la dicotomia tra accettazione e spiegazione, che, in Mito, scandisce la vicenda della mitologia moderna, ricalca da vicino la tensione metodologica tra fenomenologia e storicismo che, per il tramite di Pettazzoni, diventerà un tratto caratteristico della storia delle religioni in Italia.
Ma ancora più curioso è il silenzio che Jesi riserva a un autore come Brelich, che, da Gli eroi greci (1959) a Paides (1969), aveva individuato nel kerényiano rinnovamento dell’umanesimo il compito politico dello studio storico-religioso della civiltà greca e dei suoi miti. Fu proprio tale visione del ruolo politico dell’intellettuale a determinare la partecipazione di Brelich (come di Jesi) al Sessantotto italiano («La vicenda – scriveva Brelich in Verità e scienza – non mi avrebbe potuto trovare più pronto e aperto. Ero tra i primi docenti a parteggiare, senza esitazione e perfino […] in forma insolitamente attiva, per gli studenti che smascheravano “irrispettosamente” gli atteggiamenti delle autorità accademiche […], le loro connivenze con gli interessi della reazione»). In questa luce, il mancato confronto tra Jesi e la scuola italiana appare, in Mito, come una lacuna ambigua, un’omissione carica di tutta l’eloquenza del non-detto.
Ma torniamo ora, in conclusione, alla tesi di Jesi e al meccanismo epistemologico-testuale di Mito. Se, come suona la classica tesi di Adorno, il mito è anzitutto il sempre-uguale, la scienza del mito, vittima e al tempo stesso artefice dell’eterno ritorno della domanda sull’esistenza del mito, si fa essa stessa mitopoietica. Di fronte a questa circostanza, Jesi risponde con un risoluto nichilismo metodologico. «Nell’ambito della “storia del mito” – egli dichiara – l’unica scienza oggi possibile è la storia della storiografia» (p. 46), cioè uno studio degli approcci moderni al mito che sia in grado di cogliere la loro tensione dialettica. Tale nichilismo non coincide, però, con una professione di assoluto nominalismo. È vero che il passaggio dal greco mythos al «mito» delle lingue moderne non può essere in nessun caso legittimo. Eppure, non si può nemmeno affermare la non-esistenza in via di principio di un referente di «mito». Occorre piuttosto, secondo Jesi, spostare l’asse della questione: dall’esistenza all’uso, dalla metafisica alla pragmatica, dall’epistemologia alla politica.
Che cos’è il mito? – è dunque, precisamente, la domanda a cui Jesi non dà risposta. Anzitutto, perché accoglierla equivarrebbe a rientrare nella casistica che si snoda lungo l’intero itinerario moderno della scienza del mito. In secondo luogo, perché la stessa formulazione della domanda è il trucco con cui la macchina mitologica esercita il suo fascino su manipolati e manipolatori, vittime e carnefici, illusi e illusionisti. È l’allusiva strizzata d’occhio con cui la macchina si ammanta di un’aura di suggestione e ci invita a lasciarci sedurre dal suo sguardo di Medusa: «Non badate tanto al mio modo di funzionare, quanto alla mia essenza» (p. 123). Girare in cerchio, enciclopedizzare, come fa Jesi in Mito, significa allora seguire con sobrietà i movimenti, le filiazioni, le disarticolazioni e riarticolazioni della macchina, sposando una strategia di resistenza genuinamente politica.
Lorenzo Mizzau
Bibliografia
Benveniste, E. (1969). Il vocabolario delle istituzioni indoeuropee. ed. it. a cura di M. Liborio. 2 voll. Torino 2001: Einaudi.
Carchia, G. (1997). Elaborazione della fine. Mito, gnosi, modernità. in id. L’amore del pensiero. Macerata 2000: Quodlibet.
Derrida, J. (1971). La mitologia bianca. in Id., Margini della filosofia. ed. it. a cura di M. Iofrida, Torino 1997: Einaudi.
Frye, N. (1982). Il grande codice. La Bibbia e la letteratura. ed. it. a cura di G. Rizzoni. Torino 1986: Einaudi.
Jesi, F. (1973). Lettura del Bateau ivre di Rimbaud in Id. Il tempo della festa. a cura di A. Cavalletti. Roma 2014: Nottetempo.
Jesi, F. (2023). Mito. a cura di A. Cavalletti. Macerata: Quodlibet.
Manera, E. (2012). Furio Jesi. Mito, violenza, memoria. Roma: Carocci.
Sarpi, P. (2013). Prefazione. in A. Brelich. Paides e parthenoi. a cura di A. Alessandri e C. Cremonesi. Roma: Editori Riuniti.
Spineto, N. (2023). Gli studi di storia delle religioni. Firenze: Le Monnier.
Taubes, J. (1954). Dal culto alla cultura, in Messianismo e cultura. cit.
Taubes, J. (1983). Sulla congiuntura del politeismo, in Messianismo e cultura. Saggi di politica, teologia e storia. ed. it. a cura di E. Stimilli. Milano 2001: Garzanti.
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Wittgenstein filosofo della storia
Recensioni / Settembre 2022Alla fine del secolo scorso, l’idea che la storia fosse finita fu salutata con fiducia da molti, nella speranza che la scomparsa dell’Unione Sovietica e il trionfo del capitalismo sancissero l’inizio di una fase di stabilità e armonia in cui l’umanità avrebbe trovato il suo compimento definitivo. Negli anni a venire, quell’idea si è così radicata da diventare di senso comune: il nostro è il migliore dei mondi possibili, mentre il solo pensare a un cambiamento dell’organizzazione politica e istituzionale appare, se va bene, come un anacronismo, se va male, come un rifiuto della realtà. Logica e Tumulti. Wittgenstein filosofo della storia (Quodlibet, 2021) di Marco Mazzeo si oppone con fermezza a questa narrazione. Col pretesto di uno studio sul più grande filosofo del Novecento, l’autore combatte una lotta senza quartiere in difesa della dimensione storica dell’esperienza umana.
Per prima cosa bisogna fugare un equivoco: storia non è il mero scorrere del tempo, il costante succedersi degli eventi. Non va dunque confusa con la filogenesi, né con la deriva dei continenti. È invece «l’insieme delle trasformazioni istituzionali e produttive grazie alle quali gli esseri umani riescono a salvare la pelle. La storia indica, in primo luogo, il modo nel quale i sapiens producono le condizioni di possibilità della propria vita» (p. 10). Indica quei cambiamenti «imprevedibili» – perché non riconducibili a un repertorio d’istinti – e «necessari», senza i quali non riusciremmo a produrre i mezzi della nostra sussistenza. Mentre il tempo dei fenomeni naturali è continuo, storia è sinonimo di discontinuità e fa rima con improvvisi tumulti repressi nel sangue o con una nuova tecnologia che sconvolge l’organizzazione della vita.
Tuttavia, in questa operazione di salvataggio, Wittgenstein non è un alleato. La diagnosi del libro è netta: il filosofo è cieco alla storia. Con un apparato filologico che lascia poco spazio a dubbi (vengono classificati tutti i termini riconducibili alla famiglia della «Geschichte» presenti nel lascito testamentario), Mazzeo dimostra che l’autore delle Ricerche filosofiche prospetta un’«antropologia senza storia» (p. 38): offre istantanee dirompenti, ma non vede la differenza tra il tempo umano e i mutamenti geologici. In questo è un degno «allievo di Spengler» (p. 55), una tra le sue fonti più importanti. Nel secondo capitolo del libro viene soppesato il debito di Wittgenstein con l’autore del Tramonto dell’Occidente il quale, sulla scorta di Goethe, paragona le epoche storiche alle fasi di sviluppo di organismi viventi come le piante, riconducendo la temporalità umana all’andamento ciclico che caratterizza la vita naturale in generale. E così una rivoluzione può diventare un’escrescenza da tagliare, un governo autoritario la piena maturazione di una cultura.
Nell’ipotesi interpretativa di Mazzeo, la discussa amicizia di Wittgenstein con Sraffa (a sua volta amico di Gramsci) sarebbe giunta al capolinea proprio in virtù di questa ritrosia nei confronti della storia. Il primo capitolo è dedicato a una ricostruzione del rapporto tra il logico e l’economista, il quale, oltre a ritenere «insopportabile» che l’amico abbia in Spengler un «punto di riferimento», nei suoi appunti denuncia «in modo esplicito» la «scarsa presenza della dimensione storica» (p. 30) nelle riflessioni dell’interlocutore.
Wittgenstein può però venirci in soccorso quando meno ce lo si aspetterebbe, cioè quando si occupa di matematica. Nelle sue annotazioni sul calcolo e sui teoremi trapela una nozione, quella di storia naturale, che può essere promettente approfondire. È quello che fa Mazzeo nel vertice teorico del volume, il terzo capitolo, in cui propone «una riflessione circa l’intreccio tra natura e storia umana, a prescindere dalla filologia wittgensteiniana» (p. 94) (la filologia tornerà presto, nelle due appendici, dedicate l’una a un confronto tra l’uso filosofico degli scacchi in Saussure e Wittgenstein, l’altra al poco studiato rapporto del filosofo austriaco con la fotografia). L’espressione «storia naturale» è gravata da una lunga tradizione che impedisce di coglierne appieno la portata teorica, e di cui l’Historia naturalis di Plinio il Vecchio costituisce l’illustre testo fondativo. Il paradigma tradizionale, che nel corso dei secoli ha avuto grande fortuna, consiste in una sorta di modello enciclopedico, il cui obiettivo è raccogliere e descrivere gli oggetti che appartengono al regno della natura. La ricerca è simile a quella del collezionista che punta a reperire quanti più documenti possibile, ma senza un vero criterio di selezione. Motivo per cui vi si possono trovare aneddoti circa i lupi mannari accanto a descrizioni di cercopitechi, oppure ipotesi sul senso del pericolo degli elefanti, ma anche cataloghi delle tecniche di cattura da parte degli esseri umani. In tempi recenti questo genere letterario è entrato in una seconda giovinezza: il lemma «storia naturale» figura nel titolo di studi eterogenei, che possono riguardare la morale umana da una prospettiva evoluzionistica, oppure «il profumo, gli alberi, la birra», fino ad arrivare al «concetto di distopia» (p. 83). Al netto delle evidenti differenze tematiche, i corpi che popolano questo variegato firmamento sono accomunati dalla «temporalizzazione dei fenomeni naturali senza un confronto esplicito con la dimensione storica. Si tratta di una disposizione spaziale del sapere scientifico» (p. 87). La temporalità tipicamente umana viene eliminata, annacquando la specificità della nostra forma di vita in un generico calderone in cui tutte le vacche sono nere. Mazzeo propone, al contrario, di prendere sul serio la dicitura «storia naturale», la quale, oltre che un ossimoro, contiene anche un guanto di sfida: come tenere insieme «natura (ontogenesi, filogenesi) e storia (le trasformazioni istituzionali di lingue, riti, forme della tecnica, modi di produzione)» (p. 87)? È possibile un «naturalismo non rinunciatario» (p. 87), che non ceda alla tentazione di nascondere sotto al tappeto le continue trasformazioni culturali che sembrano segnare così profondamente la nostra specie?
La domanda è retorica, alcuni suggerimenti per provare a rispondere ce li fornisce Mazzeo in un elenco di «paradossi» (p. 94), anche se forse sarebbe più corretto chiamarli «tesi sul concetto di storia naturale». Non è in questa sede possibile ripercorrerne l’andamento con dovizia di particolari, mi limiterò a riprendere un punto particolarmente degno di nota, la critica al concetto di adeguatezza. Bersaglio polemico è l’idea ingenua, ma non per questo non diffusa, secondo la quale le condotte umane possono venir lette nei termini di «risposte perfezionate a esigenze precedenti» (p. 98), come se le vicende storiche – ivi comprese le trasformazioni dell’assetto produttivo – non fossero altro che una serie di graduali adattamenti in direzione di una fitness completamente realizzata, di una suprema armonia tra l’anthropos e i suoi bisogni. Wittgenstein è polemico con questa concezione e si chiede, non senza ironia: «viviamo perché è pratico vivere? Pensiamo perché è pratico pensare?» (Wittgenstein 1978, V, § 14) E poi: «è adeguato ai nostri bisogni che noi contiamo come contiamo» (Item 163, p. 30r), cioè in base dieci e non in base sessanta (come, per esempio, facevano i babilonesi)? Il fatto che si calcoli così, o che, più in generale, si viva così, implica che si faccia così e non altrimenti: è sempre possibile una strada alternativa. In altri termini,
«l’insistenza di un gesto che indica cosa facciamo "qui e ora" non esorta a contemplare la bellezza di una sovrapposizione perfetta e atemporale tra la vita e la sua forma, tra la natura e la cultura. Punta a far emergere il carattere contingente di quel che potrebbe essere completamente diverso perché non è chiamato a rispondere a criteri di adeguatezza. Questa contingenza, adeguata solo a cose fatte, si chiama "storia" (p. 99)».
In altri termini ancora, questa volta più filosofico-linguistici, le regole che guidano la nostra prassi – in modo eminente quella verbale – non possono essere considerate alla stregua di leggi biologiche o chimiche. Tra regola e applicazione vi è uno scarto tale che niente obbliga a rispondere a un insulto con un pugno e non con una frase sardonica, a un comando con obbedienza e non con sdegnata insubordinazione.
La storia naturale di Mazzeo è, insomma, un concetto con cui combattere una battaglia ideologica contro una precisa narrativa del potere. Uno strumento di difesa nei confronti di chi fa sua un’idea di natura per nulla innocua, che in fin dei conti uccide una croce, ma anche una delizia, tipica della vita umana, la contingenza. Infatti, se ciò che i sapiens fanno è motivato esclusivamente da un criterio di adeguatezza, da una fatale tendenza all’adattamento, allora è inevitabile che le cose vadano così e non altrimenti, angusto lo spazio per mettere in discussione l’organizzazione della vita caratteristica del mondo contemporaneo. Per chi condivide una simile battaglia, varrà la pena di dare uno sguardo alle criptiche riflessioni del filosofo viennese sulla matematica. Chissà che questo Wittgenstein non possa fornire un prezioso antidoto contro la rassegnazione allo status quo.
di Adriano Bertollini
Bibliografia
Mazzeo, M. (2021). Logica e tumulti. Wittgenstein filosofo della storia. Macerata: Quodlibet.
Wittgenstein, L. (1988). Osservazioni sopra i fondamenti della matematica. Trad. it. di M. Trinchero, Torino: Einaudi.
Wittgenstein, L. Wittgenstein’s Nachlass, Electronic Bergen Edition, Oxford University Press, Oxford
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Il libro di Manlio Iofrida, Per un paradigma del corpo: una rifondazione filosofica dell’ecologia, uscito per Quodlibet alla fine del 2019, si presenta come uno snodo ricco e importante per un approccio teoretico, etico e critico all’attuale questione ecologica. In questo senso, il libro s’inserisce nel cuore stesso del dibattito – non solo italiano – incrociando tematiche come il corpo, il concetto di Natura, lo statuto filosofico del vivente e della sua relazione con la tecnica (a questi temi si aggiungano la critica della cultura, la storia dell’arte, il dialogo tra filosofia e altri campi del sapere, i rapporti tra la cultura Europea e i suoi grandi altri ecc.).
Il libro assume quella che potremmo definire un’ottica cosmopolitica e si presenta come il crocevia d’intuizioni, idee e riflessioni che animano il gruppo di ricerca Officine Filosofiche (il gruppo gestisce anche un’omonima collana editoriale), fondato e diretto dallo stesso Iofrida assieme a Ubaldo Fadini. Molti argomenti sviluppati nel libro intrecciano le principali linee di lavoro del gruppo, contribuendo così a fare dell’ecologia filosofica uno dei campi di ricerca più innovativi e stimolanti dell’attuale panorama filosofico italiano.
Si può dunque comprendere, sin da queste prime considerazioni, che riportare in maniera analitica o anche solo accidentale tutti gli impliciti teorici – nonché la profonda erudizione dell’autore che conferisce all’ecologia un ampio spessore culturale – è compito improbo per una recensione e, probabilmente, anche inutile. Quel che ci proponiamo di fare in questa sede è di attraversare il testo in maniera “libera” tentando di esplicitare alcuni aspetti che sembrano restituire, nella parzialità della nostra lettura, alcune delle intenzioni di base dell’autore.
Non si può non partire dalla centralità teorica del tema del corpo che, non nuova nel lavoro di Iofrida, si richiama esplicitamente all’opera complessiva di Merleau-Ponty e all’attualità del suo concetto di Natura (pp. 19-31) «come limite che la cultura non può sorpassare» (p. 30). Sotto tale aspetto, questo studio si riallaccia (pp. 9-16), pur con oltre dieci anni di distanza, al precedente lavoro dell’autore Per una storia della filosofia francese contemporanea: da Jacques Derrida a Maurice Merleau-Ponty. Dire che questo sia un libro “merleau-pontyano” è senza dubbio corretto e tuttavia rischierebbe di schiacciarne la profondità su un “arroccamento” teorico, una semplice riproposizione ermeneutica. Devono essere menzionati, infatti, almeno altri due autori classici presenti come linee di basso nell’architettura del testo: Schelling ritorna diffusamente nel testo, utilizzato in chiave anti fichtiana-attualista (pp. 38, 141) o hegeliano-sintetico (anche se Hegel resta comunque un autore importante nell’impostazione ecologica iofridiana, pp. 138-140); ma è soprattutto il Kant della Critica della facoltà di giudizio a fornire un’impalcatura teorica di primo piano (vanno, poi, almeno ricordati i nomi di Goethe, Schiller e Adorno, per completare la batteria tedesca di riferimento, cfr. pp. 47-52). Ci sia concesso dunque di entrare nel vivo del libro approcciandolo alla lontana, così da poter restituire, se non altro, il profumo della complessa architettonica di Iofrida.
In siffatta architettonica, l’ecologia non si presenta tanto, né solo, come una disciplina scientifica (pp. 45-47) ma, potremmo dire, si tratta di una questione di gusto, di istituire un paradigma del gusto ecologico. Come si può intuire, molto lessico di Iofrida è intriso di una semantica post-kantiana. Il gusto, permettendoci l’ardire di parafrasare Kant, è quella strana facoltà di giudicare secondo sentimento (leggendo in questa chiave il giudizio riflettente).
Sappiamo anche che il sentimento è un vero e proprio mondo intermedio che si situa tra la facoltà di conoscere e quella di desiderare, ossia tra l’intelletto e la ragione, tra la “necessità naturale” e la “libertà umana” (che Iofrida definisce prometeica, cfr. pp. 59-61). Dire, dunque, che l’ecologia è questione di gusto significa affermare che essa si situa nel mezzo di un’ardita relazione tra la Natura e la Cultura – dualismo principale di molte riflessioni ecologiche. Ma, altresì, ci dà delle informazioni sugli aspetti “filosofici” dell’ecologia: il gusto, sappiamo dal §40 sul senso comune della Terza Critica, va educato. L’ecologia, secondo Iofrida, non consiste né nella descrizione di uno stato di cose oggettive (ci sia concessa la banalizzazione: filosoficamente, l’ecologia non può essere ridotta a una disciplina naturalistica) né, occorre fare attenzione, nella prescrizione di massime della ragione (che si limiterebbe a un greenwashing della Ragion Pura Pratica): l’ecologia è filosoficamente fondata nella misura in cui è capace di una vera e propria educazione sentimentale. Così, l’ecologia filosofica non è né scientifica (occorre «declinare l’ecologia come critica anti-intellettualista», p. 54) né morale («non si pone come sussunzione dominante», p. 119), ma è intimamente etica (l’ecologia, ci ricorda l’autore, è un pensiero della finitezza, pp. 52-56). È a partire da una esigenza etica (e, con Merleau-Ponty, connesso a un certo spinozismo schellinghiano, da un’esigenza anche ontologica) che va letta la proposta di un paradigma del corpo. Non si tratta, così, di fondare un principio di rappresentazione, o massime pratiche, ma di sviluppare delle ipotesi etiche, per dir così, da un punto di vista pragmatico.
Fatta questa premessa, possiamo addentrarci in alcuni aspetti concettuali. Uno dei concetti chiave per leggere la proposta iofridiana è quello di inerenza (pp. 29-31). Di matrice fenomenologica, l’inerenza è un fenomeno corporeo e rimanda a una «ontologia relazionale» (p. 41) che si pone in antitesi tanto con le ontologie costruttiviste del pensiero debole (p. 43) quanto con le ontologie realiste di certi modi di intendere il materialismo (pp. 60-61). L’inerenza è il concetto cardine di un’ecologia che si propone di lavorare in chiave ontologica sulla «nostra relazione coi milieux» (p. 41) – i riferimenti sono alla «geografia […] fenomenologica» (p. 39) di A. Berque: la relazione degli “individui” con gli ambienti (o paesaggi) «non è quella della sostanza pensante con la sostanza estesa; […] piuttosto c’è uno sconfinamento, un’interpenetrazione» (p. 41). L’inerenza ci offre una cifra filosofica importante: essa è la relazione chiasmatica – è evidente nel lessico iofridiano l’influenza di Merleau-Ponty – del vivente con i suoi dintorni, le sue Umwelten, il co-appartenersi di individuo e ambiente. Intreccio, potremmo dire, della parte con il tutto.
In quanto etica ontologicamente orientata, l’ecologia si interessa non alle partizioni sostanziali – che comportano, sul piano etico, la costruzione di un’impalcatura morale – bensì agli assunti relazionali (ci sia concessa un’assonanza col lavoro di Giuseppe Semerari 2009) che solo centrando l’analisi filosofica sulle potenze corporee possono essere messi in risalto. Questa inerenza, che è una mediazione senza soggetto – e che anzi produce soggettività – non è pensabile come Aufhebung, bensì come un’unità senza concetto (p. 115) attuata per il tramite del corpo «e la sua apprensione orizzontale del mondo» (p. 25). L’esigenza di un paradigma del corpo è dunque insito nella tematica stessa della relazione ecologica, così che, per Iofrida, ogni ecologia, sul piano etico, non può non passare – anche implicitamente, come traspare mediante la critica alla smaterializzazione postmoderna (pp. 67-68) – per il tramite di un paradigma del corpo.
Il problema del corpo è però l’altra faccia di un ulteriore assunto di Iofrida, ovvero l’idea complementare che la Natura non sia un oggetto (p. 45) e che il vivente non sia meccanizzabile (p. 30). Il rischio di interpretare in chiave puramente valoriale, facendo di tali assunti delle massime della Ragione, è grosso. Occorre dunque tentare di essere chiari, ancora una volta, sul lessico dell’autore. Siamo pur sempre, lo si è detto, sul piano del giudizio riflettente. I riferimenti sono ancora all’opera di Merleau-Ponty e, tramite lui, Schelling e Kant. In ultima istanza, l’orizzonte concettuale ci appare ancora di matrice kantiana. L’idea che il vivente non sia meccanizzabile vuol dire che lo specifico fenomeno di inerenza dell’umano agli altri viventi (che compongono i suoi dintorni) non è un rapporto conoscitivo, o intellettuale, né tuttavia un rapporto pratico. Non è conoscitivo perché, in quanto soggetti empirici, non tutti gli umani sono “scienziati”, e questo non pone particolari problemi. Ma non è neppure un rapporto pratico, perché non è possibile estrapolare una massima categorica da questa idea: non tutti i viventi possono agire conformemente a scopi (tralasciamo i motivi di tale impossibilità). L’idea che il vivente non sia meccanizzabile non è un enunciato che riguardi il regno della libertà. Concessa la formula, quella tra viventi non è una relazione tra esseri (radicalmente) liberi, situandosi, invece, nel regno intermedio tra la necessità dell’oggetto naturale e la libertà radicale del soggetto trascendentale (Merleau-Ponty 1996, 312-313).
Il problema del vivente – che possiamo anche chiamare, se ci è concesso, il problema della finalità senza scopo – è un problema sentimentale e affettivo. È ancora un paradigma del corpo che permette di comprenderlo: un corpo è il medium non solo, e non tanto, della natura e della libertà, bensì della inerenza al mondo e agli altri viventi. È mediante il corpo – un’utilità non strumentale – che si è costitutivamente aperti ad altre modalità dell’esistere e del vivere. Una mediazione senza soggetto che si fa nel mezzo delle relazioni inter-individuali: l’inerenza come vero e proprio fenomeno trans-individuale, contatti molteplici e variegati tra corporeità (cfr. Merleau-Ponty 1996, 254-261). Appare, in queste considerazioni, un altro dei concetti cardine della proposta di Iofrida, concetto che crea un ponte col suo lavoro precedente: si tratta della nozione di libertà strutturale. Una concezione strutturale – o ecologica – della libertà comporta che essa non sia la radicale assenza di limiti, bensì che trovi la propria potenza esistenziale ed espressiva nella composizione delle relazioni, nella ricchezza e varietà degli affetti e degli incontri corporei.
È una libertà che non è competenza di una filosofia della prassi, ma di un’etica, come accennato, dal punto di vista pragmatico. Un’ecologia della libertà richiede pratica e attenzione [Aufmerksamkeit] (p. 146), un’educazione sentimentale finalizzata a un uso ragionevole degli affetti. Insomma, la libertà, in una prospettiva ecologicamente orientata, presuppone una capacità tecnica. È in quest’ottica che leggiamo, infatti, la proposta di Iofrida di una tecnica ecologica (pp. 84-90). Si tratta di una formula ambigua, ma le ambiguità spariscono se non usciamo dalla semantica nella quale ci stiamo muovendo. Un tale epiteto, infatti, è lontano da un greenwashing delle attuali configurazioni tecnico-tecnologiche del tardo capitalismo: insomma, non si prospetta la necessità di una Green Economy. Si tratta, invece, di una concezione ecologica della tecnica che tenga conto del portato affettivo – cioè esistenziale e vitale – della tecnica.
In questo senso, una tecnica ecologica è di segno contrario rispetto alle attuali configurazioni produttive (si tratta di uscire dal dualismo manicheo «produzione o libertà», p. 60; andare al di là dell’alleanza demoniaca di capitalismo e schizofrenia, cfr. Pignarre & Stengers 2016) configurandosi invece come rivolta alla convivialità – tra umani e tra umani e non umani – incastonata nella complessità variegata degli ambienti di vita (fondamentale in quest’ottica il capitolo dedicato alla teoria dei sistemi, pp. 121-140). È ancora una semantica del giudizio: la tecnica rimanda all’arte, cioè una tecnica ecologica diventa una vera e propria arte dello stare in vita da parte dei viventi – ecologicamente, vi è tecnica ovunque vi sia fragilità e ostinazione della vita: occorre «concepire l’arte come un nuovo modo di rapportarsi al mondo […] poiché, già in se stessa, tale prassi priva di finalità è un’altra e superiore modalità di azione del nostro corpo vivente rispetto a quella meramente utilitaria, essa può essere punto di partenza di una prassi concreta […] e punto di arrivo di una costruzione dal basso, partecipata, intersoggettiva» (p. 152).
Senza dubbio si tratta di una concezione ottimistica della tecnica: nessuna caduta da un eden ormai perduto, né solo nichilistica distruzione della vita da accettare passivamente come un destino. Si tratta, invece, di un’arte pericolosa, quella dello stare in vita, proprio perché la vita – un vivente – è insieme ostinazione e fragilità: l’educazione sentimentale serve a saper «reggere delle crisi, saper gestire il rischio […], anche se rischio significa appunto che la crisi non è mai del tutto esclusa e che il disordine può avere sempre il sopravvento» (p. 123). È una concezione ecologica e ottimistica della tecnica, sì, ma non è il frutto di una anima bella (ecco comparire una certa ispirazione hegeliana). Rifacendosi al lavoro di Kurt Goldstein (2016), neurologo tedesco del secolo scorso, tra le fonti di Merleau-Ponty, Iofrida ci ricorda che «un organismo vivente, e l’uomo in particolare, è teso ad accrescere continuamente la propria complessità […]; esso cerca dunque la relazione e anche il conflitto, in un mondo in cui l’ordine è sempre un momento precario all’interno di una lotta di forze eterogenee che genera un perenne dinamismo» (p. 127).
Educazione sentimentale, teoria degli affetti e concezione tecnica del vivente: i tre capisaldi che istituiscono la fondazione filosofica dell’ecologia proposta attraverso un paradigma del corpo. Tale paradigma fa sì che un’ecologia filosofica si trovi a proprio agio non nel contemplare un’astratta e fondativa Natura Naturante, un’origine ormai perduta o distrutta dalla cattiveria dell’Uomo, bensì nel concepire modi possibili del vivere in comune, forme collettive di esistenza con i più ampi margini di gioco transindividuali, vincoli che non obbligano capaci di aumentare le potenze esistenziali e le capacità creative dei viventi umani e non (è questo il principale rimando al concetto di natura di Merleau-Ponty). Si tratta di una concezione minoritaria della storia, del divenire minoritario dell’umano, dei suoi affetti, delle sue ibridazioni, delle sue contaminazioni (cfr. Deleuze & Guattari 2015, 349-357). Una storia minore che non ha la Natura come Grande Altro, bensì che è caratterizzata dalla sua inerenza all’elemento naturale, alla sua imprevedibilità, alle sue complessità ontologiche (ma anche epistemologiche, dato che, ecologicamente, l’ontologia è inscindibile da un’epistemologia): si tratta di una storia universale della contingenza (Deleuze & Guattari 2002, 86).
L’ecologia filosofica proposta da un paradigma del corpo è così una filosofia artistica, un’arte, pericolosa e sublime a un tempo, del vivere insieme, del condividere la Terra con altri viventi (l’Autore parla di «un materialismo della Terra», p. 44). Un’arte, per chiudere restituendo il ruolo di Michel Foucault nel nuovo paradigma ecologico (pp. 205-211), che sia una «estetizzazione della vita come progetto condiviso di una comunità di eguali che dialogano e, esercitando la socievolezza, istituiscono con il mondo e gli altri una relazione che non è quella della ragione strumentale, brutalmente utilitaria, ma che può a tutti gli effetti definirsi ecologica: non è il bello quella dimensione sempre mobile di limite in cui ci apriamo al mondo e agli altri non in funzione di un dominio, ma per essere passivi quanto attivi, copresenti in una relazione con l’alterità che può definirsi col termine, anch’esso fenomenologico, di attenzione?» (p. 211).
Bibliografia minima
Deleuze, G. & Guattari, F. (2002; ed or. 1991). Che cos’è la filosofia?. Torino: Einaudi.
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di Gianluca De Fazio