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Dopo Il valore delle cose (2015), Fictio legis (2016) e L’istituzione della natura (2020), il catalogo Quodlibet si arricchisce di un altro importante lavoro di Yan Thomas (1943–2008), già magistrato e viceconsole in India, poi professore di storia del diritto a Rouen e direttore della EHESS. La morte del padre. Sul crimine di parricidio nella Roma antica, uscito nel 2023, è il frutto estremo del lavorio intellettuale di Thomas, pubblicato postumo ma già sostanzialmente completato, anche se non rivisto, al momento della sua prematura morte. In questa versione italiana, il testo si presenta accompagnato dalla prefazione di Maurice Godelier che già arricchiva la pubblicazione francese (Albin Michel, Paris 2017), da una nota al testo di Michele Spanò, da un lungo e curato saggio di Valerio Marotta e da un pregevole indice delle fonti antiche a cura di Iolanda Ruggiero.

Nel volume confluiscono, rimaneggiati, cinque ampi saggi risalenti agli anni ’80 (ad eccezione del quarto, il quale è comunque la rielaborazione di un primo contributo coevo), periodo di studio dell’Autore presso l’École Française di Roma e pubblicati in rivista. Già da questo primo, significativo dato, emerge la natura seminale dei temi qui esaminati all’interno del più generale percorso di ricerca di Thomas: percorso caratterizzato dal costante ritorno tematico, dal reimpiego dei materiali, dal ripensamento e dall’espansione delle conclusioni, continuamente rimeditate e arricchite alla luce di nuove fonti o di nuove intuizioni. I cinque saggi dell’allora giovane studioso diventano, a distanza di vent’anni, i cinque capitoli di un’opera coesa, frutto della maturità scientifica del grande giurista (ma di più: del filosofo, dell’antropologo, dello scienziato sociale).

«Il parricidio», in apertura, offre una ricognizione generale della figura che dà il titolo al volume. Thomas muove dalla non riconducibilità, secondo un procedimento di genere a specie, del parricidio a mera sotto-categoria dell’omicidio. Nelle fonti romane, quest’ultimo è fatto di violenza privata, assoggettato alla dinamica tra i singoli gruppi familiari e regolato direttamente fra i medesimi (tramite vendetta o forme concordate di composizione dell’inimicizia). Ben diverso, invece, il caso del parricidio, «scelus incredibile», «monstrum», che colpisce colui che è non soltanto capo della famiglia ma anche cardine istituzionale di intersezione tra sfera privata-familiare e sfera pubblica-collettiva. Non solo: il pater familias è connotato da tale funzione intermediaria rispetto alla città e alle sue istituzioni proprio perché, e nella misura in cui, è esso stesso ascritto alla cerchia di coloro che hanno titolo a partecipare della vita della città e delle sue istituzioni. Cioè, si potrebbe dire, se è egli stesso istituzione (e, forse, se la famiglia stessa è, oltre che istituzione, anche civitas). Non stupisce allora né – da un lato – che il parricidio sia il solo omicidio degno di suscitare una repressione caratterizzata dall’intervento pubblico (pp. 31-32), né – dall’altro lato – che ben presto il lemma «parricida» venga associato al reato politico, massime all’omicidio politico che colpisce o tenta di colpire l’imperatore (pater patriae, dunque «pater» per eccellenza) (pp. 55-57): solo il parricidio colpisce un elemento strutturale della società – segnatamente: l’unico soggetto dotato di piena capacità di agire – mettendo quest’ultima concretamente in pericolo nelle sue articolazioni politico-istituzionali, il che giustifica la sottrazione del parricidio alla sfera dei rapporti privati e l’assunzione di priorità logica, giuridica e politica sull’omicidio comune.

«Il diritto paterno fra ordine domestico e ordine politico» approfondisce l’accennato ruolo intermediario del pater nel contesto della mutua interdipendenza delle sfere familiare e politica e contiene una delle intuizioni più interessanti dell’intero lavoro. Poiché una delle caratteristiche più peculiari della società romana è che il potere paterno non lascia spazio alcuno all’autonomia patrimoniale e familiare dei figli in potestate, l’intero ordinamento vive della tensione derivante dal fatto che l’esistenza del pater è in quanto tale un limite – giuridico e istituzionale – all’esistenza del figlio il quale, finché resta filius, non è: per essere, dovrà ascendere al rango di pater. Il Digesto si occupa più frequentemente di schiavi che di figli proprio perché mentre lo schiavo ha come tale un proprio ubi consistam all’interno dell’ordinamento, il filius si trova in una condizione sospesa, di soggetto in attesa di un evento (la morte del pater) capace di farlo diventare sui iuris. Fino a quel momento egli non può, se non indirettamente e mediatamente, essere titolare di rapporti con altri soggetti né, se non con l’assenso e la mediazione del genitore, intraprendere la carriera politica (p. 79): che si trattasse di un magistrato o di un senatore, egli restava incluso nella famiglia di origine e le sue spese dovevano essere approvate dal padre, che restava per lui responsabile. Ciò dà la misura di come la sfera familiare (l’«ordine domestico») e la sfera pubblica (l’«ordine politico») si coordinassero circuitando in un unico sistema, nel quale ciascuna delle due sfere risultava a un tempo dominante e dominata, inglobante e inglobata, includente e inclusa.

«La morte del padre» è un libro sul padre, ma – anzi: quindi – è anche un libro sul figlio. Le sezioni terza e quarta, intitolate «Il ventre della madre» e «Il nascituro e il “suus erede”» approfondiscono il tema, caro a Thomas, della finzione giuridica (su cui cfr. più in generale Thomas 1995). Con il termine «venter» – «opera esclusiva del diritto» priva di referenti in altri campi semantici (p. 159) – i giuristi indicavano il nascituro quale, contemporaneamente, porzione del corpo della madre (come tale, elemento del mondo naturale ma non del mondo giuridico) e soggetto giuridico capace di acquistare diritti. Il fatto che tale realtà sia introdotta nel mondo giuridico mediante una parola nuova e specifica non può essere sottovalutato, se è vero che l’esistenza stessa delle istituzioni è logicamente dipendente dalla pratica di attribuire un nomen iuris a qualcosa da identificare, neutralizzandone e trasfigurandone la natura empirica (Thomas 1978, p. 109). Questo avente diritto privo di corrispondente corporale trova il proprio significato unicamente nella proiezione verso il parto, autentico rito nel quale il venter cessa di essere tale per diventare filius: ciò che era giuridicamente privo di una propria corporeità la assume e ciò che era fisicamente parte della madre diviene soggetto al padre, che lo raccoglie e lo solleva con il gesto che instaura il legame familiare di generazione venendo a rappresentare una seconda nascita (p. 176). In quanto legame di potere, che implica sia l’assoggettamento al pater sia l’incorporazione del filius nella città e nelle sue regole, esso può tuttavia sorgere soltanto se entrambi i membri della relazione sono persone viventi. Questo impone la costruzione di un’altra fictio legis, consistente nel protrarre fino alla nascita del figlio postumo il potere del padre premorto. Il passaggio argomentativo è essenziale ed apre la strada alla comprensione di un tratto fondamentale del pensiero di Thomas. La vicenda del venter (e, in misura minore, quella del suus heres: dove, contrariamente a quanto si sarebbe portati a pensare, «suus» è soggetto e «heres» è attributo) dimostra la capacità dell’uomo romano di distinguere soggetti di vita e soggetti di diritto e, più in generale, mondo naturale e mondo giuridico, al punto da elaborare un articolato sistema di finzioni giuridiche per colmare la distanza, di volta in volta maggiore o minore, tra questo e quello, garantendo la continuità tra di essi, necessaria a garantire l’ordine della città nel suo reticolo di poteri.

Ad uno di questi è pertanto dedicata l’ultima sezione del volume, «Il potere di vita e di morte», nel quale Thomas si occupa fin da subito di sgombrare il campo da un equivoco affermando proprio in apertura di capitolo che la vita necisque potestas non ha nulla a che vedere con la pena di morte. A ben vedere, essa non ha nulla a che vedere con una qualunque prescrizione del diritto penale perché non è una sanzione e non pertiene ad alcuna funzione giurisdizionale, nemmeno domestica. La morte si limita ad essere strumento attraverso il quale stabilire un potere, tant’è che essa è sempre riguardata dall’esclusivo punto di vista del soggetto che ne è titolare e mai dell’oggetto che la subisce. Ne emerge la rappresentazione giuridica della paternità come potere permanente e della filiazione come soggezione permanente, essendo la vita del figlio una «grazia permanente del padre» (p. 251). Tale espressione è quindi pienamente normativa ed offre la misura della posizione del padre nell’ordine cittadino, oltre ad essere per converso l’unica in tutto il diritto romano in cui il termine «vita» assurge a vero e proprio concetto giuridico, restando per il resto confinato nella sfera semantica del fatto biologico oppure del costume inteso come modo di vita. Ben si comprende allora perché Agamben ritenga di trovare in questi passi di Thomas, nei quali si evidenzia che l’unica apparizione giuridica del lemma «vita» si ha in connessione con la possibilità della sua distruzione, una conferma delle proprie riflessioni intorno al concetto di nuda vita (Agamben 1998 e 2015, p. 10). In Livio (2, 5, 8), il console Bruto assiste all’esecuzione dei figli con «animus patrius», locuzione che Thomas propone di tradurre in senso totalmente anti-sentimentale e connessa a quella, assai espressiva, di «pater imperiosus» (p. 267). Essa designa non tanto l’atteggiamento del padre, quanto la sua funzione, a riprova del fatto che il ruolo del pater possiede una costante duplice declinazione, tale da rendere Roma una «città dei padri» in cui patria potestas e imperium si cumulano in un unico officium, a un tempo pubblico e privato, qualificabile, semplicemente, come «paterno» (p. 288).

Gli ampi svolgimenti del volume consentono di esplorare approfonditamente l’universo di Yan Thomas, tanto nei suoi profili metodologici quanto nei suoi raggiungimenti teorici. L’opera non ha carattere antiquario né puramente storiografico ed è piuttosto definibile in termini di archeologia delle operazioni giuridiche (cfr. Thomas 2011) nella quale l’ampio e puntuale esame filologico delle fonti e l’erudizione storica, giuridica e letteraria si dispiegano in costante contrappunto con la proposta, originale e acuta, dell’Autore, che merita in questa sede qualche ultima sottolineatura.

Centrale, in Thomas, è il rilievo che alla differenza radicale tra sfera della vita e sfera del diritto deve fare da contraltare una realtà giuridica capace di gestire la porosità tra l’una e l’altra mediante un opportuno sistema di finzioni, operazioni e astrazioni. Ciò con due importanti conseguenze. In primo luogo: la «natura» di cui il diritto si occupa altro non è che un’immagine dell’istituzione stessa, che pone l’uno e l’altra e che anzi nel porre il secondo pone necessariamente la prima. Il concetto di «natura» in senso giuridico è un concetto pienamente ed esclusivamente giuridico (più precisamente: normativo) consistente nella proiezione di un insieme di tratti prelevati dalla realtà empirica secondo criteri determinati dall’ordinamento. Essi portano, necessariamente, ad una schematizzazione del reale che – ed è questo il rischio – può degenerare nella sua atrofizzazione (prova ne sia la riduzione dell’individuo a «persona», cioè a maschera, ente soggettivizzato nel mondo giuridico perché – e nella misura in cui – capace di fungere da centro di imputazione di rapporti giuridici). Per questo, allora, Thomas invita ad evitare la «confusione» tra diritto e vita, da intendersi come riduzione dell’individuo alla sua maschera giuridica: è questo un tratto di profonda divergenza con l’idea, cara a un altro grande intellettuale francese di formazione giuridica ma il cui percorso non può essere ridotto a tale campo, che il diritto consista precisamente in «vitam instituere», cioè nel creare mediante le forme del discorso una proiezione dell’individuo quale unico suo strumento di interazione nella società (Legendre 1993, p. 27).

L’esame del rapporto tra paternità, potere e diritto in Roma fa sorgere e rafforza in Thomas l’intuizione, perfettamente consonante con quelle a noi forse più familiari di Agamben, che la progressiva inclusione da parte del diritto di ciò che esso precedentemente ha escluso non può che condurre alla progressiva giuridificazione di tutto l’esistente: conquista – o invasione – radicalmente faustiana, paragonabile a quella posta in essere da altri dispositivi quali la tecnica o il mercato, tale da comprimere, forse irrimediabilmente, gli spazi non-giuridici di interazione sociale. Se nell’impostazione di origine stoica trasfusasi nella giurisprudenza medievale «natura» era realtà prescrittiva, regola pregiuridica nella quale la regola giuridica trova il proprio fondamento, per il diritto moderno non vi è altra natura all’infuori di quella da esso stesso posta e inclusa come finzione. «Vita» è categoria esclusivamente giuridica, costruita precisamente affinché il diritto possa assicurarsene la presa; «natura» non è ciò che fonda il diritto, ma ciò verso cui il diritto proietta la propria applicazione e il proprio dominio. Il rischio, evidentemente, è quello anche altrove evidenziato (Irti 2004; Irti e Severino 2001) di un diritto senza limite alcuno, ridotto – in assenza di sostanza, posta sullo sfondo dal venir meno delle grandi narrazioni – a pura forma o tecnica, totalmente razionalizzato e pertanto capace di mettersi al servizio di fini totalmente irrazionali (cfr. Schmitt 1986, p. 43), come il Reno trasportava indifferentemente fiori, cannoni o cadaveri.

Sebastiano Sitta

Bibliografia 

Agamben G. (1998), Homo sacer. Il potere sovrano e la nuda vita, Einaudi, Torino.

Agamben G. (2015), Tra il diritto e la vita, prefazione a Thomas 2015.

Irti N. (2004), Nichilismo giuridico, Laterza, Roma-Bari.

Irti N. e Severino E. (2011), Dialogo su diritto e tecnica, Laterza, Roma-Bari.

Legendre P. (1993), Les enfants du texte: Étude sur la fonction parentale des États, Fayard, Paris.

Schmitt, C. (1986), Cattolicesimo romano e forma politica, Giuffrè, Milano.

Thomas Y. (1978), Le droit entre les mots et les choses. Rhétorique et jurisprudence à Rome, in «Archives de Philosophie du Droit», 23.

Thomas Y. (1995), Fictio legis: L’empire de la fiction romaine et ses limites médiévales, in «Droits», 21.

Thomas Y. (2011), Les opérations du droit, Le seuil, Paris.

Thomas Y. (2015), Il valore delle cose, Quodlibet, Macerata.

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