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Nella prefazione delle Ricerche filosofiche, Ludwig Wittgenstein fornisce al lettore due coordinate fondamentali. In primo luogo, Wittgenstein scrive che quest’opera avrebbe dovuto essere pubblicata insieme al Tractatus, perché è solo e unicamente attraverso il confronto con tale lavoro che i nuovi pensieri possono ricevere la giusta luce. In secondo luogo, egli spiega che i “difetti” che contraddistinguono il suo lavoro – l’assenza di sistematicità, l’approssimazione nella formulazione delle idee, l’incapacità di approdare a un’elaborazione compatta - non sono dei veri difetti, e anzi dipendono dalla natura stessa della ricerca che egli intendeva perseguire. Se l’“essenza” del linguaggio non è una unità formale che giace al di sotto dei fenomeni linguistici ma l’insieme multiforme degli usi che ne facciamo e che possiamo farne, il testo filosofico non può che configurarsi come una raccolta di “schizzi paesistici”. 

Limitarsi a descrivere è così difficile perché si crede che per comprendere i fatti sia necessario integrarli. È come se uno vedesse uno schermo su cui sono sparse delle macchie di colore e dicesse: così come sono, sono inintelligibili; acquisteranno senso solo se le si integra in una figura. - Mentre quello che io voglio dire è, invece: è tutto qui. (Se lo integri, lo snaturi). (BPP I 257) 

Per analogia, si potrebbe dire che le osservazioni filosofiche composte da Wittgenstein dal ritorno a Cambridge nel 1929 fino alla sua morte nel 1951 sono simili a tali macchie di colore su uno schermo. Integrare una parte consistente di queste macchie di colore per estrapolare qualcosa come “la riflessione wittgensteniana sul mentale” corre, dunque, il serio rischio di snaturare tale riflessione. Seguire le tracce di tale riflessione e della sua evoluzione costituisce, tuttavia, l’ambizioso obiettivo che sta alla base di Wittgenstein filosofo della mente - il nuovo libro di Rosaria Egidi edito da Quodlibet. 

Se, nonostante la complessità, l’obiettivo viene perseguito con successo, ciò dipende, in prima istanza, dalla flessibilità della struttura del libro. Se è vero, infatti, che l’analisi segue un andamento cronologico - le prime due parti sono dedicate al cosiddetto “Wittgenstein intermedio”, mentre le due parti finali vertono sulla fase più matura della produzione filosofica wittgensteiniana - i capitoli e i paragrafi in cui queste quattro parti si strutturano esaminano da vicino tutti i singoli “nodi” [1] che impegnano Wittgenstein nella sua problematizzazione del mentale. Il successo dipende, in seconda istanza, dalla consapevolezza, dichiarata a più riprese dall’autrice, dell’impossibilità di disgiungere completamente il tema del mentale dagli altri temi che compongono il panorama filosofico dell’opera di Wittgenstein. L’“estrapolazione” di cui si parlava sopra, dunque, è un’estrapolazione solo presunta. Filosofia del linguaggio, filosofia della matematica e filosofia della mente risultano annodati “in una trama inestricabile” [2]. Di qui, ad esempio, l’ampia sezione dedicata ai “Paradossi filosofici del Regelfolgen” nella terza parte, che pur se non direttamente connessa all’area della filosofia della mente, dota il lettore dell’orizzonte di senso e dello strumentario concettuale fondamentali per comprendere appieno gli argomenti “classici” della psicologia filosofica wittgensteniana affrontati nelle sezioni successive. 

La filosofia della psicologia - fa notare Rosaria Egidi - è da sempre presente negli scritti di Wittgenstein. Nel Tractatus essa viene etichettata come “Teoria della conoscenza” e viene radicalmente distinta dalla psicologia intesa come scienza naturale della natura umana. La filosofia, dice chiaramente Wittgenstein, nel Tractatus, non è una scienza naturale. La filosofia è “qualcosa che sta sopra o sotto, non già presso, le scienze naturali” (4.111). Ciò deve valere anche per la filosofia della psicologia. Al di là di questa dichiarazione programmatica (e di qualche breve scambio polemico con la concezione russelliana degli atteggiamenti proposizionali), comunque, la teoria della conoscenza non viene, in questa prima fase, ulteriormente elaborata. Eppure, prosegue l’autrice, la riflessione sul mondo mentale, nella forma specifica dell’analisi dei fenomeni dell’esperienza immediata, costituisce il terreno su cui emergono i primi grandi sconvolgimenti della logica vero-funzionale del Tractatus. È costitutivamente impossibile, infatti, nota Wittgenstein già in Some Remarks on Logical Form (1929), catturare le relazioni logiche delle forme proposizionali relative ai colori, alle proprietà dello spazio visivo e ai suoni secondo i requisiti di indipendenza e non contraddittorietà che tale logica imponeva. Occorre dunque integrare la logica filosofica del Tractatus con una logica nuova. Occorre riconoscere che la logica delle funzioni di verità è solo una parte della sintassi comprensiva di un linguaggio fenomenologico - di una sorta di “Begriffsschrift” del contenuto sensoriale e rappresentazionale dell’esperienza - di un linguaggio primario che conferisce senso e struttura al linguaggio secondario che impieghiamo quotidianamente nei nostri scambi ordinari. Ma sarà, ancora una volta, l’approfondimento della questione sul mentale - nella forma specifica della questione dell’esperienza immediata -, a portare Wittgenstein a rigettare come un assurdo l’idea stessa di un linguaggio fenomenologico: dal momento che i fenomeni dell’esperienza immediata si sottraggono a ogni determinazione spazio-temporale e sfuggono, costitutivamente, alla logica dell’appartenenza a un determinato possessore, il concetto stesso di linguaggio fenomenologico diviene una contraddizione in termini, giacché il linguaggio, in quanto tale, è inevitabilmente un linguaggio discorsivo. “Il mondo dei dati” - chiosa l’autrice - “è essenzialmente un mondo senza linguaggio” [3]. Significativamente, nel cosiddetto Big Typescript, successivo di qualche anno rispetto a questi primi tentativi di autocritica, l’area tematica della psicologia filosofica viene designata con il termine di “grammatica”. Questo slittamento di terminologia nell’approccio ai problemi del mentale - dalla “Erkenttnisstheorie”, alla “Phänomenologie”, alla “Grammatik” - segna una svolta fondamentale sul piano dell’evoluzione filosofica. Da adesso in poi, comincia ad apparire sempre più chiaro che il grande problema del Tractatus non risiedeva tanto nel tipo di linguaggio primario con cui occorreva sostituire il linguaggio ordinario per portare alla luce la sua forma nascosta, ma nell’idea stessa che ci fosse qualcosa da sostituire. Non dobbiamo, sostiene ora Wittgenstein, postulare due sistemi di linguaggio, l’uno primario e l’altro secondario, che si riferiscono a due specie di oggetti radicalmente differenti, gli uni sensoriali e gli altri fisici; dobbiamo, piuttosto, cessare di pensare che il significato dei dati sensoriali dipenda dal riferimento a un qualche tipo di oggetto [4] e rivolgerci, piuttosto, alle regole grammaticali che definiscono l’uso delle espressioni con cui, nel linguaggio ordinario, parliamo di sensazioni, emozioni, pensieri e intenzioni, e così via. Non abbiamo bisogno di costruire un linguaggio filosofico artificiale che sia in grado di chiarire la struttura dell’esperienza presente. Abbiamo bisogno di una visione chiara del nostro linguaggio. Abbiamo bisogno di rappresentarlo perspicuamente. 

Non possiamo parlare dell'immagine visiva più di quanto non faccia il nostro linguaggio. E non possiamo nemmeno intendere (pensare) più di quanto il nostro linguaggio riesca a fare (non intendiamo più di quanto possiamo dire). (BT §101)

L’indagine sulle regole d’uso del nostro linguaggio, la conoscenza di queste regole e la loro rappresentazione perspicua (übersichtliche Darstellung), equivalgono ovvero fanno la stessa cosa di ciò che spesso si vuole fare/raggiungere con la costruzione di un linguaggio fenomenologico. (MS 114, 27)

Questa svolta - la “svolta grammaticale”, la definisce a più riprese Rosaria Egidi nel corso del testo - apre la stagione della formulazione più matura della filosofia della mente wittgensteiniana. Di qui le riflessioni sulla grammatica intransitiva e anti-referenzialista del linguaggio delle esperienze personali, sulla grammatica dell’intenzionalità, sull’asimmetria tra gli asserti in prima persona e gli asserti in terza persona sul linguaggio delle sensazioni, sull’espressivismo linguistico, sulla distinzione tra disposizioni e stati, sul solipsismo, sull’impossibilità del linguaggio privato e di una definizione ostensiva privata, e molto altro ancora. 

Non è mia intenzione ripercorrere, in questa sede, la ricostruzione dettagliata che Rosaria Egidi fa di ciascuno di questi snodi teorici nelle 700 pagine e più che compongono il volume e che riflettono un percorso di studio svolto nell’arco di una vita. Mi limiterò a mettere in risalto alcuni dei punti di forza che fanno di questo testo non soltanto una chiave d’accesso di grande valore per coloro che sono nuovi alla filosofia della mente che si delinea nell’opera di Wittgenstein, ma anche un contributo significativo per i lettori “più navigati”. 

Il primo di tali punti di forza, a mio avviso, è l’impiego sistematico di un approccio, per così dire, “genetico-filologico”. L’autrice non si limita a fondare le sue interpretazioni su precisi riferimenti testuali, ma mostra anche di riservare una attenzione scrupolosa alle vicende che contraddistinguono la composizione dei manoscritti e dei dattiloscritti che figurano nel Nachlass. A prescindere dal valore dell’interpretazione dei passaggi di volta in volta menzionati, riportare le osservazioni al contesto originario consente all’interprete di collocarsi nella giusta prospettiva per poter effettuare le proprie valutazioni nelle migliori condizioni possibili. Naturalmente, tale principio vale, o dovrebbe valere, per il pensiero di qualsiasi filosofo, ma vale forse ancor di più per il pensiero di Wittgenstein. Nel caso di Wittgenstein, infatti, prima di poter formulare la propria proposta interpretativa su questa o quella osservazione, l’interprete deve comprendere se l’osservazione in questione è un tentativo di chiarificazione che Wittgenstein sta rivolgendo a sé stesso o al lettore, se essa contiene qualcosa che Wittgenstein intende sostenere o se contiene qualcosa che ha sostenuto in passato e ora vuole rigettare e se quella che ci sta parlando è la voce dell’autore o la voce di un qualche interlocutore fittizio. Fare esplicito riferimento ai testi in cui le osservazioni sono riportate e alla collocazione di questi testi nell’orizzonte del Nachlass costituisce una condizione necessaria (per quanto, certo, non ancora sufficiente) per aggirare queste e altre insidie. Tanto per menzionare un esempio di quanto questo modo di procedere sia radicato nel lavoro di Rosaria Egidi, queste sono le parole con cui viene commentata, di sfuggita, l’analisi wittgensteiniana della Farbenmischung, a p. 203: “[…] questa che ho chiamato la versione concettuale della mescolanza di colori appare chiara solo se considerata il punto di arrivo della sequela di passaggi dal I all’VIII volume. È questa una prova, tra l’altro, dell’utilità del ricorso ai manoscritti per far luce sulla scansione degli argomenti e il processo di elaborazione delle analisi wittgensteiniane, non solo su quelle dei colori”.

Un altro importantissimo pregio dell’analisi condotta da Rosaria Egidi è il confronto costante con la storia della filosofia. Una delle ragioni per cui il pensiero di Wittgenstein può risultare molto ostico ai suoi lettori risiede nella difficoltà di comprendere quale sia esattamente il problema filosofico in gioco. Ciò accade perché, come fa notare Stern [5], la preoccupazione principale di Wittgenstein non è l’enunciazione sofisticata dei problemi filosofici e delle soluzioni teoriche a cui conducono, ma il modo (i modi) in cui tali problemi sorgono. Per quanto dunque Wittgenstein sia tutt’altro che un avido lettore dei grandi filosofi occidentali, il confronto con la storia della filosofia puntualmente condotto da Rosaria Egidi può costituire un ottimo varco attraverso cui fare il proprio ingresso nella dimensione problematica dell’autore. Molto calzante, ad esempio, è il confronto con Cartesio e Brentano per delineare la contrapposizione di Wittgenstein alla “Abgeschlossenheit” e alla privatezza degli stati mentali altrui caratteristiche della prospettiva mentalista: Wittgenstein rigetta l’idea del primato della conoscenza della propria mente (Eigenpsychisches) rispetto alla conoscenza del mondo esterno e delle altre persone (Fremdpsychisches) - “quel primato che per Cartesio conferisce il marchio della certezza e dell’indubitabilità alla conoscenza in prima persona e che consente a Brentano di attribuire ai fenomeni psichici l’esclusivo requisito che egli chiama ‘intenzionalità’” [6] - e nega l’idea per cui la conoscenza del mondo esterno e delle altre persone possa essere ottenuta “per analogia” con quella della propria mente. La conoscenza che io ho della mia mente, per Wittgenstein, non è una conoscenza genuina, giacché non può essere messa in dubbio. Nella prospettiva wittgensteiniana, dunque non c’è alcun primato e non c’è alcuna analogia. Ci sono grammatiche differenti. Ci sono criteri di significato e metodi di analisi che sono “incorporati in modi del tutto diversi nei nostri giochi linguistici” (BPP II, §54) e che tuttavia tendiamo erroneamente a omologare. 

Il paradosso scompare soltanto se rompiamo in modo radicale con l’idea che il linguaggio funzioni sempre in un unico modo, serva sempre allo stesso scopo: trasmettere pensieri intorno a case, a dolori, al bene e al male, o a qualunque altra cosa. (PU, §304). 

Forse la parola “descrivere” si prende gioco di noi. Io dico: “Descrivo il mio stato d’animo” e anche “Descrivo la mia stanza”. Dobbiamo richiamare alla memoria le differenze tra i giochi linguistici. (PU,  §290).

L’ascrizione in terza persona delle sensazioni asserisce qualcosa. L’ascrizione in prima persona esprime qualcosa - rimpiazza le espressioni pre-verbali delle sensazioni (grida, esclamazioni, lamenti, sospiri) che abbiamo appreso quando abbiamo appreso l’uso del linguaggio. 

Ecco qui una possibilità: Si collegano certe parole con l’espressione originaria, naturale, della sensazione e si sostituiscono ad essa. Un bambino si è fatto male e grida: gli adulti gli parlano e gli insegnano esclamazioni, e più tardi, proposizioni. Insegnano al bambino un nuovo comportamento del dolore […] l’espressione verbale del dolore sostituisce, non descrive, il grido. (PU,  §244).

Una funzione analoga a quella del confronto con la storia della filosofia viene svolta dal confronto con il dibattito corrente. Rosaria Egidi si serve, a più riprese, del confronto con le posizioni contemporanee al fine di (i) elucidare, il più chiaramente possibile, il significato filosofico di alcuni dei movimenti di pensiero messi in opera da Wittgenstein, (ii) illustrare l’impatto che tali movimenti hanno esercitato all’interno del dibattito filosofico contemporaneo [7] e (iii) mostrare come talvolta il pensiero del filosofo austriaco, se correttamente interpretato, contenga implicitamente le premesse per superare l’orizzonte problematico entro cui tale dibattito continua a svolgersi. Un’istanza significativa del punto (iii) è costituita dal confronto tra Wittgenstein e la questione del mito del Dato [8]. Il riferimento diretto, naturalmente, è Empiricism and Philosophy of Mind di Wilfrid Sellars, ma l’autrice menziona anche Strawson, Dummett, Davidson, Evans e Brandom. L’autocritica che Wittgenstein rivolge alla concezione sostenuta nel 1929, durante la breve stagione del suo pensiero in cui aveva assegnato alla fenomenologia il ruolo di una disciplina situata a metà strada tra logica e scienza e avente il compito di descrivere la “Welt der Daten” porta con sé la possibilità di trascendere l’intera questione. Nel percorrere la strada della naturalizzazione delle forme concettuali e quella, diametralmente opposta, della concettualizzazione dei dati sensoriali, Evans e McDowell (e con essi anche tutti quei pensatori che si attestano su posizioni intermedie), avrebbero, nella prospettiva di Wittgenstein, malconcepito il concetto stesso di dato. La prospettiva di Wittgenstein, infatti, “non intende dare alle domande del naturalismo o del trascendentalismo […] una nuova risposta che neutralizzi il mito del Dato”. Essa intende, piuttosto, “riconoscere l’esistenza del mito, la sua pervasività nelle forme del linguaggio in cui sono istituite le vite degli individui e della collettività” [9]. In altri termini, si potrebbe dire, la risposta di Wittgenstein al problema del mito del Dato è che esso non è un affatto un mito. Piuttosto, il Dato - e anzi “i dati” (è la stessa Rosaria Egidi a porre l’enfasi sul plurale [10]) - non sono qualcosa che sta dentro, sotto o dietro ma qualcosa che sta intorno, “nel senso che essi costituiscono il patrimonio di fondo, il background, che non è né vero né falso ma, in quanto depositario di regole del gioco istituzionalizzate, ci permette di distinguere il vero e il falso, il comportamento corretto da quello che non lo è” [11]. Per dirla nella maniera più concisa possibile: 

Ciò che si deve accettare, il dato, sono - potremmo dire - forme di vita. (PU, parte seconda, p. 295). 

Questi tre aspetti - unitamente al rigore esplorativo, alla presenza costante degli interlocutori filosofici principali di questa fase del pensiero di Wittgenstein (su tutti: James e Carnap), e al confronto con i limiti e i punti di forza che hanno segnato la storia delle interpretazioni filosofiche delle riflessioni di Wittgenstein sul mentale (l’interpretazione di Kripke sulla nozione di regola e sul rapporto di tale nozione con il linguaggio privato, ad esempio) - fanno di Wittgenstein filosofo della mente uno studio di grande spessore e al tempo stesso una risorsa utilissima per tutti coloro che, indipendentemente dal livello di familiarità pregressa, intendano approfondire i temi che compongono la psicologia filosofica wittgensteiniana. L’unico limite che si potrebbe imputare a questo testo è una certa carenza di organicità. Talvolta, leggendolo, si potrebbe avere l’impressione che alla profondità analitica non faccia sufficientemente da contraltare una restituzione dell’orizzonte unitario in cui i singoli problemi sono collocati. Certo, come già messo in luce nella nota introduttiva di questa recensione, questa carenza di organicità rispecchia fedelmente il modo di procedere dello stesso Wittgenstein - la necessità di percorrere una pluralità irriducibile di linee di investigazione “in lungo e in largo e in tutte le direzioni” (PU, prefazione) - e in più riflette, altrettanto fedelmente, la densità di pagine e pagine di manoscritti e dattiloscritti composte nell’arco di più di 30 anni. Eppure, si potrebbe rispondere, un orizzonte unitario, sia pur minimo, potrebbe esserci. Quell’orizzonte unitario, forse, è Wittgenstein stesso - la sua persona, le sue esigenze, le sue sofferenze. Si potrebbe sospettare che la motivazione filosofica profonda al fondo dell’attività filosofica svolta da Wittgenstein - e quindi anche dell’attività filosofica relativa al mentale - risieda in questo: riportare i concetti “a casa”, nel linguaggio ordinario, dove niente è nascosto, per uscire dal tormento a cui la filosofia costringe i filosofi e, in primis, Wittgenstein stesso. Forse, nel non esplicitare tutto questo, Rosaria Egidi è semplicemente più fedele alla lezione del Tractatus: questo ordine di cose non può dirsi, ma può soltanto mostrarsi. È quindi estremamente interessante, credo, notare come questo stesso ordine di cose si mostri, in modo intermittente, nelle pieghe del discorso di Rosaria Egidi. Concludo menzionando una di queste manifestazioni estemporanee, nel bel mezzo dell’analisi che l’autrice conduce sull’argomento wittgensteiniano del linguaggio privato nelle Ricerche filosofiche: “Con la sua confutazione Wittgenstein non intende tuttavia offrire una teoria alternativa ma liberare l’idea stessa di linguaggio privato dai fraintendimenti in cui è invischiato dissolvendo così in un sol colpo i problemi che esso pone. Lo scopo liberatorio che egli persegue il metodo terapeutico da adottare per realizzarlo sono espressi in due frasi lapidarie che compaiono nel testo in modo che può apparire inatteso e tali da figurare come riflessioni fuori contesto. […] L’una frase è posta quasi alla fine come a suggello dei §§243-315: ‘Qual è il tuo scopo in filosofia? - Indicare alla mosca la via d’uscita dalla trappola’ (§309); l’altra è collocata quasi all’inizio come a qualificare il metodo terapeutico con cui la filosofia ‘dovrebbe trattare’ i problemi: ‘Il filosofo tratta una questione; come una malattia’ (§255)”.

di Filippo Mosca


Note

[1] Parlo di nodi non a caso. “La filosofia scioglie i nodi del nostro pensiero, che abbiamo aggrovigliato in modo assurdo; ma per farlo, deve compiere movimenti altrettanto complicati dei nodi. Anche se il risultato della filosofia è semplice, i suoi metodi per arrivarci non possono esserlo.” Cf, Big Typescript, §89

[2] Egidi, R. (2023). Wittgenstein filosofo della mente, Quodlibet, Macerata, p. 467.

[3] Ibidem, p. 471. 

[4] Per dirla con le parole di Rosaria Egidi: “Wittgenstein riconoscerà che nell’adottare il linguaggio fenomenologico come fondamento o base del linguaggio fisico si corre il rischio di essere indotti a costruire i dati come oggetti interni sovrapponendo a essi la terminologia propria dei predicati caratteristici della Dingsprache”.

[5] Stern, D. G. (2004). Wittgenstein's Philosophical investigations: an introduction. Cambridge University Press, p. 74. 

[6] Egidi, R. (2023). Wittgenstein filosofo della mente, Quodlibet, Macerata, p. 561. 

[7] Un esempio importante è il ruolo della nozione wittgensteiniana di “Vorstellung” (rappresentazione) nel confronto tra le teorie rappresentazionali della mente e le teorie normative della mente. Ibidem, pp. 532-536. 

[8] Ibidem, p. 608.

[9] Ibidem, p. 608.

[10] Ibidem, p. 606.

[11] Ibidem, pp. 614-15. 

Bibliografia

Egidi, R. (2023). Wittgenstein filosofo della mente, Quodlibet, Macerata. 

Kerr, F. (2006). The Big Typescript TS 213: German-English Scholars’ Edition. International Philosophical Quarterly46(3), 372-374. [BT]

Sellars, W. (1956). Empiricism and the Philosophy of Mind. Minnesota studies in the philosophy of science1(19), 253-329.

Stern, D. G. (1995). Wittgenstein on mind and language. Oxford University Press, USA.

Stern, D. G. (2004). Wittgenstein's Philosophical investigations: an introduction. Cambridge University Press.

Wittgenstein, L. (1922), Tractatus Logico-Philosophicus, trad. a fronte di C.K. Ogden, London: Routledge & Kegan Paul. 

Wittgenstein, L. (1953), Philosophical Investigations, ed. G.E.M. Anscombe e R. Rhees, trad. di G.E.M. Anscombe. Oxford: Blackwell [PU]

Wittgenstein, L. (1983), Remarks on the Philosophy of Psychology, vol. I, ed. G.H. von Wright e H. Nyman, trad. di C. G. Luckhardt e M. A. E. Aue. Chicago: University of Chicago Press, [BPP I]

Wittgenstein, L. (2013). Some Remarks on Logical Form. In Essays on Wittgenstein's Tractatus (pp. 31-37). Routledge.

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