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"Non voglio che la mia rabbia, il mio dolore e la mia paura per il cancro si fossilizzino in un altro silenzio, né che mi venga tolta tutta la forza che può esserci nel cuore di questa esperienza, se riconosciuta ed esaminata apertamente" (Audre Lorde, The Cancer Journal).

Im/Paziente. Un’esplorazione femminista del cancro al seno non è, semplicemente, la storia di Sigonneau (scomparsa nel 2019) e del suo cancro al seno: la co-autrice, pur essendo prepotentemente presente in queste pagine, si rende un ponte per una decifrazione collettiva della malattia. Come insegna il femminismo, non c’è nulla che non abbia tanto riverberi quanto radici politiche – pur con tutta la fatica che deriva dal farsi carico di una collettività, quando anche lo spazio intimo e individuale si fa così spossante e doloroso. 

Le voci di Sigonneau e di El Kotni si intrecciano e si rispondono: la prima, paziente e – dopo la diagnosi – attivista femminista; la seconda, antropologa interessata alla salute delle donne. Insieme tracciano alcune traiettorie chiave nell’analisi del cancro, e del cancro al seno nello specifico: la comunicazione tra il mondo medico e le pazienti; il fenomeno delle violenze oncologiche; le dimensioni di genere coinvolte; il concetto di prevenzione; le dinamiche economiche; le differenze di privilegi e oppressione tra le pazienti e, infine, in quale senso «il cancro è politico». Pare scontato premetterlo, ma è importante specificare che in nessun modo il saggio invita alla sottrazione rispetto alla presa in carico medica del cancro. Si prefigge piuttosto di scoperchiare quali aspetti di questa esperienza possano essere fronteggiati attraverso strategie che migliorino la vita delle donne. Va da sé, inoltre, che le dinamiche di ingiustizia presentate nel saggio non debbano necessariamente riguardare tutte le donne che iniziano, loro malgrado, questo percorso. 

Ciò da cui prende le mosse il saggio è la sperimentazione, dolorosa e per lei nuova, della marginalità: Sigonneau, in quanto giovane malata di cancro al seno metastatico, si trova a posizionarsi liminalmente rispetto ai coetanei e rispetto alla maggioranza delle donne malate di cancro. Impara con fatica ad ambientarsi in questa posizione di marginalità. Trova quindi lo spazio per esprimere rabbia rispetto a modalità stantìe di sussumere le esperienze (femminili) di cancro, con lo scopo di mobilitare tutte e tutti verso una migliore alleanza tra società, persona malata, medicina. 

Sigonneau denuncia, in primo luogo, una comunicazione medica inadeguata, accompagnata da una pratica a tratti disumanizzante. In alcuni casi i sintomi vengono sottovalutati, e successivamente non sono chiari i passaggi diagnostici, il corpo viene toccato e manipolato in modi inaspettati, il sospetto e poi la diagnosi di cancro vengono annunciati con una certa noncuranza. Tutte queste esperienze, inizialmente parte del suo vissuto individuale, vengono modellate attraverso la raccolta di altre testimonianze, e attraverso gli scambi personali avuti con altre pazienti: diventano pertanto parte di un vissuto collettivo e quindi contestabile dal punto di vista politico e sociale. Registra l’importanza di accompagnare la dimensione della malattia con uno scambio che non sia escludente e traumatizzante per le pazienti. Le modalità in cui si effettuano queste comunicazioni possono apparire irrilevanti di fronte alla “nudità” della diagnosi, che non cambia a seconda dei metodi con cui viene spiegata e condivisa: è urgente invece evidenziare il peso che hanno queste comunicazioni, che possono rappresentare un’ulteriore forma di violenza in un momento di grande fragilità emotiva. 

Le autrici propongono il termine “violenza oncologica”, analogamente a quello già diffuso nell’ambito dell’ostetricia. Attraverso questo concetto, analizzano alcuni episodi che possono trovarsi a vivere le persone malate di cancro, concentrandosi in particolare sulle donne e sulla specificità del cancro al seno. La violenza oncologica si manifesta, per esempio, nell’aggressione verbale, nella mancata richiesta di consenso nelle procedure cliniche, nella convinzione che le pazienti non riescano a capire le loro condizioni e i suggerimenti medici, nell’assenza di un supporto psicologico ed emotivo nei vari step, nella colpevolizzazione delle pazienti, negli standard di cura e igienici inadeguati nei contesti ospedalieri. Scrive Sigonneau:

Solitamente, le violenze – fisiche, psicologiche o verbali – si manifestano nei contatti passeggeri: biopsie, ecografie, prelievi… […] Noi pazienti non sappiamo neppure come si chiamano queste persone e quest’anonimato, più o meno consapevolmente, può dare un senso di impunità e favorire o mantenere la violenza (p. 62).

Il vissuto può drasticamente cambiare a seconda del posizionamento della paziente: per esempio, a seconda che abbia una rete (familiare, amicale) di supporto, o che possieda gli strumenti concettuali per interpretare la propria esperienza e la dimensione terapeutica in generale (anche nel caso in cui dovesse subire discriminazioni, forme di violenza, compromissione dei propri diritti in quanto paziente). 

Il saggio tratteggia poi le dinamiche di genere insite, in generale, nello spazio terapeutico, per poi approfondire specificamente quelle agglutinate attorno al cancro al seno.

Sharon Donati

Dal punto di vista generale, le donne possono sperimentare episodi di discriminazione nelle relazioni terapeutiche: da un lato, aspetti della loro vita (specialmente riproduttiva) vengono frequentemente medicalizzati e farmacologizzati. Dall’altro lato, paradossalmente, le richieste di aiuto delle donne possono essere trascurate, fino ad una vera e propria riduzione al silenzio. Per esempio, è ormai nota la tendenza ad ignorare o minimizzare il dolore riportato dalle donne, in particolare dalle donne nere [1]. Ciò si innesta in una dinamica di genere che va ben oltre il campo clinico: il fatto che per le donne sia più difficile farsi ascoltare, essere prese sul serio, ed in generale essere considerate parlanti credibili [2]. Gli scambi terapeutici, inoltre, possono essere sessualizzati, riproducendo un binarismo – eccessivamente – asimmetrico tra l’uomo (l’esperto, l’autorità) e la donna (la paziente di cui esplorare i sintomi).

Per quanto riguarda il cancro al seno, il saggio delinea una serie di rappresentazioni e pressioni pervasive con cui le donne si trovano a fare i conti. «Il cancro», scrive El Kotni, diventa «solo un ambito ulteriore in cui si moltiplicano le ingiunzioni a rientrare nella norma» (p. 92). La prima è la sollecitazione a proseguire una performance adeguata della femminilità: ciò si invera, per esempio, nell’enfasi sull’utilizzo delle parrucche per le donne che perdono i capelli durante la chemioterapia o nelle soluzioni estetiche e cosmetiche più o meno invasive proposte alle pazienti (per esempio, l’uso del make-up, o la ricostruzione del seno post-mastectomia) [3], o che generano un senso di validazione (per esempio, la perdita dei peli o il dimagrimento durante la chemioterapia). Le donne malate di cancro vengono inoltre appiattite sull’ambito sessuale-riproduttivo e seduttivo, con una serie di ingiunzioni che ricordano loro di mantenere una vita sessuale adeguata e un’enfasi sproporzionata, rispetto agli uomini, sulla fertilità. A livello personale si trovano invece a dover rinegoziare questi ambiti della propria vita. 

Questa posizione di liminalità permette a Sigonneau di esplorare il contenuto e la struttura della femminilità. «Avere capelli, seni, unghie ma non peli; è questo essere una donna?» (p. 96). Comincia quindi a sviluppare un approccio più contestatorio rispetto agli imperativi che subisce in quanto donna: per lei (e quindi, non necessariamente per tutte) la spinta ad aggrapparsi alla propria “femminilità” non è che un tentativo di mascheramento della malattia. Sigonneau verifica, addirittura, una dimensione positiva di questa “sospensione” della sua femminilità: il suo corpo nello spazio pubblico, finalmente, non è più “marcato”, ma quasi invisibile. Vivere in questo luogo ai margini del genere, tuttavia, dà anche una sensazione di spaesamento.

Questa forma di marginalità è però solo una delle tante sperimentate dalle donne col cancro al seno. Il saggio restituisce difatti un prisma sfaccettato e intersezionale. Naturalmente, alcuni aspetti vengono soltanto esacerbati dall’esperienza di malattia. Queste direttive si increspano e si scontrano con tutte le altre, tanto che analizzarle disgiuntamente non è che un artificio retorico, volto più che altro ad una maggiore chiarezza concettuale.

In primo luogo, si discute della precarietà economica. Il cancro può incrementare le spese, che possono includere gli spostamenti verso i centri oncologici, i dispositivi tecnologici e cosmetici che possono allievarne i sintomi, l’eventuale supporto psicologico. Il tempo e le energie spese nelle terapie e i loro effetti debilitanti (dal punto di vista fisico e psicologico) rendono poi difficile la ripresa regolare del lavoro, già particolarmente precario per le donne. Molte di queste energie sono focalizzate inoltre nelle questioni burocratiche, attorno alle quali Sigonneau denuncia una mancanza totale di supporto da parte dell’assistenza sociale.  

Il cancro, quindi, non ha un costo elevato soltanto dal punto di vista economico (oltre a quello, naturalmente, della salute in senso stretto), ma riguarda anche più specificamente il tempo. Sigonneau insiste sulla difficoltà ad accettare che il proprio tempo, prezioso, in molti casi poco, si disperda tra moduli, telefonate, richieste di informazioni, lunghe attese ospedaliere. 

La faticosa gestione del proprio tempo e delle proprie energie collide anche con numerosi imperativi di genere. Questa dimensione emerge in realtà sin dall’inizio, ancor prima della malattia conclamata. Il ritardo diagnostico può dipendere anche dal carico di lavoro, spesso invisibile, di cura: le donne si occupano della famiglia, della comunità, dello spazio domestico. La mancanza di tempo può spingere a minimizzare i sintomi e ad accantonare il dolore. Durante le terapie, la spossatezza e la sofferenza fisica e psicologica hanno poi un impatto profondo sulle donne, che faticano a mantenere una costanza nel lavoro domestico e genericamente di cura, oppure nell’attività sessuale. La difficoltà a mantenere questi standard non scritti può risolversi in uno sfaldamento delle relazioni di coppia, per esempio, oppure può generare un senso di colpa o inadeguatezza nelle donne. La loro richiesta di tempo e cura, inoltre, può destabilizzare il terreno familiare con – a volte – esiti produttivi: «il cancro può essere un’esperienza in cui le donne tornano a concentrarsi su se stesse e osano, magari per la prima volta nella vita, rendersi indisponibili al lavoro e alla cura dei cari» (p. 227). [4]

Dentro e fuori dagli imperativi di genere, il saggio insiste sull’urgenza di riappropriarsi del proprio tempo, scegliendo come usarlo, specialmente quando si è malate. Invita ad essere, in questo senso, profondamente impazienti: di quell’irrequietezza che ci spoglia del superfluo, del dovere imposto, e ci avvinghia alla vita. «Una volta che ci disfiamo di ciò che non ci corrisponde», scrive Sigonneau, «la vita diventa più semplice» (p. 127).

Le autrici, infine, affrontano il tema della prevenzione, da diverse prospettive. Si concentrano per esempio sulla promozione di prodotti e pratiche legata alla raccolta di fondi per la lotta al cancro al seno. Senza mai delegittimare l’utilità di queste pratiche – per esempio, la piacevolezza di essere toccate durante un trattamento di skincare, specialmente se non si sperimenta frequentemente un tocco gentile nello spazio terapeutico –, le autrici nondimeno presentano le ambivalenze di queste campagne di marketing. Di esse non sono sempre chiari gli effetti sulla ricerca, hanno un costo molto alto per le pazienti e enfatizzano, solo nel caso delle donne, una cura specificamente estetica nell’esperienza di malattia. [5] 

Ho trovato però particolarmente acuto il taglio fortemente politico con cui si affronta il tema della prevenzione nell’ultimo capitolo. Che cosa può significare prevenire il cancro? Il saggio devia infatti l’attenzione che viene solitamente posta sulla prevenzione individuale – certamente legittima –, aggiungendo un tassello fondamentale: la trattazione del cancro come questione sociale e ambientale e quindi, in definitiva, politica. 

Da questo punto di vista le autrici si allineano quindi con la riflessione sulla cosiddetta ingiustizia climatica, che sottolinea come gli effetti della crisi climatica colpiscano in modo sproporzionato seguendo gli assi del genere, della razza, della classe e della disabilità. Le minoranze sono difatti impattate in maniera maggiore dall’inquinamento e dai suoi effetti: anche quelli sulla salute individuale. Le soggettività ai margini subiscono quindi un’esposizione sproporzionata, per esempio, alla tossicità (del traffico stradale, dei rifiuti, delle industrie). Questi processi hanno quindi esiti disabilitanti: la crisi climatica prodotta dal sistema capitalista può esacerbare o produrre malattie o disabilità. È necessario pertanto ricordare quanto, nell’emersione di una condizione multi-fattoriale com’è il cancro, debbano essere considerati i contesti in cui sono posizionate le persone che si ammalano: la loro condizione economica, lo stile di vita che conducono (o che possono permettersi), e i fattori di inquinamento ambientale. Il cancro al seno diventa pertanto per Sigonneau, non senza fatica, territorio di lotta femminista, per cui le scelte individuali sono da vagliare congiuntamente alle cause sistemiche. [6]

Chiudo questa recensione con un’ammissione: mi sono ritrovata a percepire, in prima battuta leggendo e successivamente scrivendo, una certa resistenza. In quanto donna di trent’anni, quindi coetanea di Sigonneau, ho sperimentato in prima persona ciò che, tra i numerosi temi, viene veicolato nel saggio: la tendenza sociale e culturale a sottrarsi dalla narrazione dell’esperienza del cancro (in questo caso, al seno) [7]. El Kotni e Sigonneau riescono, prima di tutto, in questa funzione: vincere la forma di respingimento che vorremmo attuare di fronte alla sofferenza e all’ingiustizia della violenza oncologica, convincendoci che, anche nel caso in cui non sperimenteremo mai questa esperienza, anche questo può essere il nostro ruolo. Leggere, guardare, ascoltare, per poter «elaborare», insieme, «un discorso pubblico maturo sul cancro, sulla morte e sulle violenze mediche» (Prefazione, p. 16). Esplorare i fenomeni attraverso una lente femminista significa proprio questo: muoversi anche negli interstizi più in ombra, rintracciando la prevaricazione e le distorsioni sociali, e proponendo delle traiettorie più sostenibili per tutte e tutti [8].

Chiara Montalti

[1] Cfr. Joe Fassler, How Doctors Take Women’s Pain Less Seriously, https://www.theatlantic.com/health/archive/2015/10/emergency-room-wait-times-sexism/410515/; Kelly M. Hoffman et al., Racial bias in pain assessment and treatment recommendations, and false beliefs about biological differences between blacks and whites, Proceedings of the National Academy of Sciences, 113(2016)16: 4296-301; Leslie Jamison, Grand Unified Theory of Pain in The Empathy Exam, Graywolf, 2014.

[2]  Cfr. Miranda Fricker, Epistemic Injustice. Power and the Ethics of Knowing, Oxford University Press, 2007.

[3] Cfr. Audre Lorde, The Cancer Journal, Penguin, 2020.

[4] Su questo punto cfr. anche Charmaz, The Self as Habit: The Reconstruction of Self in Chronic Illness, “Occupational Therapy Journal of Research”, 22(2002)1, 31S-41S.

[5] Cfr. Philippa Hetherington, More than Pink, 2023, https://aeon.co/essays/how-breast-cancer-rips-up-conventional-markers-of-gender, e il documentario di Samantha King Pink Ribbons Inc, 2006.

[6]  Basti pensare al caso italiano dell’Ilva di Taranto, o alla cosiddetta Cancer Alley in Louisiana. 

[7] Cfr. Susan Sontag, Malattia come metafora e L’Aids e le sue metafore, Nottetempo, 2020 e Audre Lorde, La trasformazione del silenzio in linguaggio e azione, in Sorella outsider. Scritti politici, Meltemi, 2022.

[8] Ringrazio M. P., che mi ha accordato la sua fiducia permettendomi di includere un suo ritratto in questa recensione, in virtù dell’affinità col tema trattato. Ringrazio inoltre la fotografa, Sharon Donati, che ascolta sempre con attenzione i corpi che parlano.

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