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Che cosa fanno gli affetti? É questa domanda ad ispirare l’ultimo progetto di Georges Didi-Huberman, una trilogia sul carattere performativo dell’affettività i cui primi sviluppi sono confluiti in Brouillards de peines et de désirs. Faits d’affects 1, pubblicato a gennaio 2023 per Les Éditions de Minuit.  

La composizione del testo (532 pagine) è atipica. Si tratta di un’ampia e composita raccolta di appunti – anche autobiografici – datati e redatti in maniera relativamente indipendente tra l’ottobre del 2019 e il dicembre 2020 per un seminario tuttora in corso all’École des Hautes Études en Sciences Sociales di Parigi. 

La loro organizzazione non è cronologica, ma suddivisa tematicamente in due parti. La prima, A parole, raccoglie gli scritti che ripercorrono la concettualizzazione degli affetti nella tradizione occidentale, decostruendola e mostrando i più ampi limiti di un approccio definitorio. La seconda, A gesti, getta invece le basi per una nuova comprensione non (esclusivamente) logico-linguistica del loro operare, vera e propria posta in gioco della trilogia. «Questa ricerca ontologica su cosa siano le emozioni deve cedere il posto ad un’interrogazione più modesta, ma più rigorosa, su cosa dei tali processi facciano» (p. 22) e, secondo l’autore, «altre relazioni, oltre a quelle logiche, sono possibili. Diventa allora necessario esplorarne le risorse» (p. 401).  

Ma prima di introdurci più nel merito delle argomentazioni, è importante sottolineare come questo approccio pragmatico non sia prerogativa di Didi-Huberman. Al contrario, è il fulcro della cosiddetta Affective Turn che, al di là del possibile sapore posticcio di un’etichettatura di questo tipo, dal 2007 indica il ripresentarsi di un interesse pratico-politico e anti-essenzialistico per l’affettività, le cui radici sono da ricercarsi innanzitutto nella domanda spinoziana su cosa possa un corpo. E il testo di Didi-Huberman si colloca consapevolmente all’interno di questa cornice, confrontandosi soprattutto con i suoi sviluppi in area francese, rifacendosi ampiamente a Gilles Deleuze (in particolare, pp. 234-241) e polemizzando, ad esempio, con l’approccio de La société des affects di Frédéric Lordon (p. 18). 

Il presupposto condiviso dalle differenti voci del dibattito è infatti l’inversione del tradizionale rapporto tra soggetti e affetti, per pensare questi ultimi non come stati mentali o comunque correlativi soggettivi, ma come dimensioni fattuali dell’esperienza che abbiano, tra gli altri poteri, quello individuante. 

In questo senso, 

Gli affetti sono a tutti gli effetti dei fatti. Ci rendono ciò che siamo quando appariamo ai nostri simili per esprimere loro – nel senso radicale del termine, spinoziano o deleuziano – qualcosa. Sono dei fatti nella misura in cui, lungi dall’essere solamente attivi o passivi, fanno: creano una nuova configurazione all’interfaccia della nostra psiche, del nostro corpo e del mondo; danno la luce a nuove significazioni; improvvisano una relazione inedita agli altri; fondano una temporalità imprevista, spesso decisiva per la nostra storia (p.15). 

E, come anticipato, alla critica della tradizione è dedicata la prima parte di Brouillards de peines et de désirs, una sorta di genealogia non lineare dell’affettività e di quello che l’autore ritiene essere il suo grande fraintendimento. Dopo alcune considerazioni preliminari di carattere per lo più autobiografico, il testo si apre con l’analisi di uno dei pochi esempi virtuosi, insieme alla poetica di Giacomo Leopardi (pp. 51-58), della concettualizzazione occidentale degli affetti. È l’Iliade di Omero (pp. 33-50), in cui appare una complessa concezione delle emozioni come «nubi» (p. 34) impersonali e autonome che catturano gli individui influenzandone la sfera d’azione, in una metafisica non dualistica della porosità. L’affetto ha nell’Iliade grande dignità, perché è «un’emozione che dura, che si sviluppa in mille conseguenze: che quindi instaura una temporalità» (p. 33) e l’ira di Achille ne è infatti protagonista. Ma già con Platone e Aristotele (p. 39) inizia un lento processo di sottomissione dell’affettività alla ragione e poi al cogito, rafforzata dallo sclerotizzarsi di alcune dicotomie che, nel corso del testo, vengono messe in moto e fatte implodere: azione-passione, soggetto-affetto, ragione-sensibilità. 

In questa prospettiva si inserisce ad esempio la critica alla concezione evoluzionistica delle emozioni (pp. 77-92), la quale distingue tra un’area cerebrale primitiva dedicata all’affettività e una corteccia prefrontale in cui si svolgerebbero le funzioni intellettive. L’autore mostra come questa distinzione sia fonte di discriminazioni di genere e razza, in quanto concepisce come meno sviluppati coloro che mostrano un’emotività più esplicita, non controllata e inibita dall’intelletto. «Parlare delle emozioni in termini di “riflessi” o di centri nervosi “primitivi”, meno “evoluti” che i “superiori”, ecco come si evince – anche solo per la scelta del vocabolario – una scala di valori filosofici o antropologici i cui presupposti morali sono evidenti» (p. 80). Oppure l’associazione tra pathos e patologico, in cui l’affettività è erroneamente ridotta ad una dimensione oggettiva e sintomatologica, in cui è perso il suo significato originale e costitutivo per la soggettività. E, per decostruire questo appiattimento teorico (e ancora una volta politico), Didi-Huberman riprende il celebre saggio di Georges Canguilhem, Il normale e il patologico (p. 95-96). O, ancora, la critica nietzscheana alla distinzione kantiana tra sensazione e sentimento che scinde l’aspetto percettivo della sensibilità da quello affettivo (pp. 59-64). I riferimenti di Didi-Huberman sono infatti vastissimi e questo carattere enciclopedico è uno dei principali punti di forza del testo. 

La prima parte dell’opera si chiude infine con una considerazione sull’analfabetismo affettivo (p. 139-166) come momento da cui è necessario passare per un ripensamento radicale degli affetti, ma in cui, paradossalmente, l’approccio riduzionista e stereotipato all’affettività rischia maggiormente di imporsi. È l’occasione per fare riferimento all’appiattimento nell’espressione delle emozioni causato dal diffondersi degli emoticons (pp. 142-148), rispetto a cui Didi-Huberman dichiara: «Ecco, quindi, il modo peggiore di essere analfabeti: sottomettersi ad un alfabeto che è già stato deciso per voi» (p. 148). Ad esso si contrappone l’analfabetismo poetico, cerniera con la seconda parte, costruttiva, del testo:

Si potrebbe dire, in questa prospettiva, che l’omaggio di Michel Foucault a Jorge Luis Borges non fu nient’altro che una maniera di introdurre il miglior modo d’essere analfabeti: il modo poetico, il quale non elude mai la “feroce materialità” delle lingue, delle immagini o delle emozioni. (…) Borges, in effetti, non ha mai smesso di far sorgere questo “disordine che fa scintillare i frammenti di un gran numero di ordini possibili” (p. 162). 

Nella seconda parte dell’opera, Didi-Huberman indaga infatti i momenti in cui l’affettività, liberata dal giogo del logos, ha potuto esprimersi in maniere differenti. Attraverso di essi, si inaugura un percorso di ripensamento non linguistico-concettuale degli affetti che sarà probabilmente ripreso e ampliato nei successivi due volumi della trilogia. Vasto spazio è dedicato, in questo senso, all’analisi delle pitture rupestri (pp. 293-309) e, in particolare, alle impronte delle mani impresse sulle grotte di Chauvet e Lascaux, mani tese in cui «tanto il fare segno è potente, quanto la significazione resta problematica» (p. 297). All’espressività di questo gesto, sono affiancate differenti analisi filosofico-antropologiche: l’intenzionalità husserliana e il legame heideggeriano tra affettività e temporalità (pp. 203-220), la già citata concezione intensiva degli affetti di Nietzsche e Deleuze (pp. 221-244), ma soprattutto le indagini di Leroi-Gouhran (p. 294) e l’antropologia bataillana fondata sul desiderio dell’impossibile (p. 302). Analisi che effettivamente si discostano dalla tradizionale concezione dell’affettività, ma che restano concettuali, mostrando un’ambiguità dell’opera: l’oscillare tra il desiderio di voler superare nettamente l’approccio logico-linguistico all’affettività o, più modestamente (ma forse anche più efficacemente), un ripensamento della sua concettualità. Ambiguità che è sicuramente dovuta anche alla struttura non lineare del testo, in cui piani argomentativi differenti si sovrappongono, e che forse sarà risolta nei volumi successivi. 

Sempre alla seconda parte del testo, A gesti, appartengono infine interessanti analisi del rapporto tra affetti e movimento (p. 324) e quindi della capacità dell’affettività di produrre senso – anche inteso come orientamento spaziale; della rappresentazione del gesto in arte – da Caravaggio al contemporaneo (pp. 309-348); delle Pathosformeln di Aby Warburg (pp. 452-457) o della danza (pp. 494-508), emblema di un approccio non definitorio, ma espressivo, alla vita affettiva, con cui il testo si chiude. «Far danzare il pensiero sarà allora, in questa prospettiva, aprire tutte le proprie ragioni all’emozione, alla commozione» (p. 506). 

Riteniamo che quest’opera inaugurale possa offrire un’interessante chiave d’accesso al dibattito sugli affetti perché, grazie al suo carattere storico ed enciclopedico, fornisce una ricchissima introduzione al tema e una sintesi della sua trattazione in tradizioni e discipline differenti – una sorta di stato dell’arte che non va però a scapito della profondità teoretica degli autori citati. Uno dei meriti del testo è infatti la sua capacità di tenere insieme un’eterogeneità di riferimenti, senza appiattirli.

Un ulteriore motivo di interesse per il pubblico italiano è inoltre l’ampia conoscenza che Didi-Huberman dimostra di questa particolare regione del dibattito, richiamandosi, tra gli altri, ai lavori sul contatto di Colli (pp. 326-328), all’atmosferologia di Griffero (p. 421), o allo studio del rapporto tra percezione e nuovi media di Carbone (p. 190) e Pinotti (p. 401).  

Attendiamo quindi il completamento della trilogia per seguirne i promettenti sviluppi. 

Francesca Perotto

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