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Se nel 1977 Michel Foucault, nella sua prefazione alla prima edizione statunitense de L’anti-Edipo, scriveva che tale testo altro non fosse se non «un libro di etica» (p. xiii), ci sembra che un giudizio complessivo analogo si possa dare anche a L’intollerabile. Aristotele dopo Deleuze (Mimesis, 2022), terza monografia di Fabio Treppiedi. Discostandosi in parte dai due lavori precedenti (Treppiedi 2015 e Treppiedi 2016), l’autore sceglie questa volta di ibridare il pensatore parigino con un autore quale Aristotele, in un gesto teoretico singolare se si considera come Deleuze sia tradizionalmente accostato a un panthéon filosofico ben definito, tra i cui rappresentanti – da Bergson a Nietzsche, dagli stoici a Spinoza – Aristotele non figura affatto. Come anzi precisa lo stesso Treppiedi, «non sarà difficile considerare nemici Aristotele e Deleuze» (p. 14), dal momento che lo Stagirita rientra a pieno titolo tra i rappresentanti di quell’«Immagine dogmatica e moraleggiante del pensiero» (Deleuze 1997, p. 186) presa di mira nella terza sezione di Differenza e ripetizione.

Aristotele dopo Deleuze

Lungi dal configurarsi come una ricostruzione di taglio storico o filologico del rapporto tra i due pensatori – l’autore non fa mistero di volersi discostare da una simile impostazione: «va da sé, con buona pace degli specialisti, che Aristotele e Deleuze parlino in modi differenti di princìpi a loro volta differenti» (p. 17) – il saggio di Treppiedi mira a offrirne una lettura squisitamente teoretica, con particolare attenzione, come accennato, al côté etico e politico implicato da tale congiuntura. L’autore non fa mistero di come i tre capitoli del suo libro «propongano altrettante variazioni sul tema della metafisica in direzione di problemi che ci toccano da vicino: disillusione, perdita di socialità, crisi e apatie del presente, rapporti tra soggetti e potere» (p. 9). Muovendo dalla «posta in gioco dell’interrogarsi sul presente a partire dal passato inquieto della metafisica» (p. 98), che assurge così a principale asse portante del testo, e tenendo presente la distinzione deleuziana tra princìpi e concetti, Treppiedi precisa più nel dettaglio il senso in cui tale espressione va intesa: «diremmo che uno dei significati di metafisica […] sta proprio nella forza esercitata sul pensiero da un principio che spinge al di là del comune le capacità del pensatore» (p. 18).

A riprova della tesi di Differenza e ripetizione secondo cui «c’è nel mondo qualcosa che costringe a pensare» (Deleuze 1997, p. 182), si può dunque rilevare come in gioco vi siano al contempo la genesi del pensiero e la problematica dell’afferrabilità di ciò che costitutivamente vi sfugge: in questo senso, «metafisica è sperimentare la portata di un principio che infrange il pensiero e che i filosofi ci restituiscono a frammenti, attraverso concetti, cocci di un intero, l’intollerabile, che di qua dal suo collidere col pensare e rifrangersi in immagini resta impensato» (pp. 129-130). Ecco qui fare capolino l’intollerabile, nozione che non a caso compare nel titolo del saggio di Treppiedi; ed è proprio la metafisica, con i suoi “sforzi immani” (p. 95), a doversene far carico: se in Pourparler leggiamo che «si percepisce qualcosa d’intollerabile, d’insopportabile, persino nella vita più quotidiana» (Deleuze 2000, p. 73), ecco che la storia della metafisica si configura allora come una “polifonia dell’intollerabile” (p. 130), volta ad articolare il rapporto tra princìpi e concetti anche laddove i due stridono, delineando una traiettoria che ha luogo ai bordi del pensiero, poiché «il principio spinge infatti il pensiero al limite, come un suo perno internamente dinamico e variabile, agitato da sussulti che espongono il filosofo alla prova dell’intollerabile» (p. 14).

Qual è dunque il rapporto tra princìpi e concetti? In che misura l’intollerabile trova spazio a partire dalla loro disgiuntura? A tali domande sembra offrire una risposta il primo capitolo del testo, intitolato “L’attaccamento alla vita”, il quale mira a offrire un’originale lettura di quella dicotomia tra ϑεωρία ed ἐπιστήμη, tra βίος ϑεωρητικός e βίος πολιτικός, che la metafisica, sin dagli albori della sua storia, ha stabilito come uno dei propri temi privilegiati di riflessione.

Muovendosi entro le maglie di una variegata griglia di riferimenti (Aristotele 1966, Aristotele 2000, Bergson 2006), Treppiedi delinea i contorni di «una filosofia battagliera, che s’installa al cuore dei problemi da cui procedono le differenze ridotte dal tempo a mere contrapposizioni» (p. 24). La tesi di fondo, secondo cui «l’esperienza della realtà necessita dell’illusione» (p. 34), con quest’ultima a venire esplicitamente ricondotta a quella che, ne Le due fonti della morale e della religione, Bergson chiamava “fabulazione”, viene trattata soprattutto per quanto concerne il suo aspetto più concreto e pragmatico, ovvero a partire da quella «discrepanza tra il vivere acquietato sui ritmi collaudati della società e il vedere quanto d’intollerabile c’è in essa» (p. 34), in linea con quella «violenza di ciò che costringe a pensare» (Deleuze 1997, p. 184) già segnalata in Differenza e ripetizione. Procedendo da variazioni sul celebre tema del soldato in fuga dalla battaglia nei Secondi analitici, Treppiedi si sofferma sulla distinzione tra attenzione alla vita, ovvero «la tendenza a mantenere vivo il rapporto con la comunità in cui ci si ritrova» (p. 35), e attaccamento alla vita, ovvero «il “principio attivo” […] del vivere lì dove difficoltà e pericoli fanno oscillare la linea di confine tra chi sta bene e chi sta male» (p. 35). Grazie alla messa a fuoco dello spostamento che qui si genera, ovvero di quell’«andare e venire incessante dal concetto di attenzione alla vita al principio dell’attaccamento alla vita nei termini di un intimo differenziarsi della medesima ζωή, “una vita” secondo l’ultimo Deleuze» (p. 62), l’autore offre una disamina del rapporto tra comunità e società in chiave prettamente politica e dunque – come già rimarcato – per forza di cose etica. Ne risulta allora una messa a fuoco della difficile relazione tra ϑεωρία ed ἐπιστήμη, la cui gestione rientra a pieno titolo tra il gravoso compito della metafisica: se la ϑεωρία indica quella «capacità di considerare i concetti nella loro problematica unità con i princìpi» (p. 26), ne consegue che «chiedersi cosa ne è del concetto laddove lo si separa dal principio, che senso abbia il canto senza il grido che lo accompagna, […] vuol dire anche chiedersi cosa ne è della ϑεωρία laddove si eccede con l’ἐπιστήμη» (p. 33).

Il dissidio tra princìpi e concetti è anche il punto di partenza della seconda sezione, intitolata La farmacia di Aristotele, la quale si focalizza maggiormente sui due autori al centro del lavoro di Treppiedi, nella convinzione che Aristotele sia «il filosofo di cui Deleuze esplicita più volte il grido, facendone il paradigma dei gridi filosofici» (p. 66). La discrepanza tra princìpi e concetti troverebbe, per lo Stagirita, una formulazione apparentemente conciliatoria intorno alla nozione di ἀρχή: «in risposta all’impatto intollerabile col principio, Aristotele fa di questo un concetto e lo nomina ἀρχή», compiendo dunque «un’operazione che gli darà modo di arginare l’insorgere convulso e insostenibile del principio nella ϑεωρία mediante l’isolamento in essa di un apposito dinamismo, l’ἀρχή, un dispositivo capace di dirottare verso l’ἐπιστήμη la densa sperimentazione implicita nell’intuire il principio» (p. 74). Ben presto, tuttavia, il capitolo torna ad assumere una connotazione decisamente etica: quell’«atteggiamento di sfiducia e di scetticismo» che Treppiedi etichetta come “delusionismo” (p. 77), figlio in ultima analisi dell’aristotelismo – «è effetto collaterale del dispositivo aristotelico di potenza e atto, di un φάρμακον cui il nostro pensare si è nel tempo assuefatto» (p. 79) –, viene correlato dall’autore a una classica aporia aristotelica, ovvero al «problema del movimento e della sua indefinibilità, che costituisce per Deleuze il grido di Aristotele» e che «emerge effettivamente come la bestia nera dello Stagirita, un elemento ribelle e inaffidabile che sfugge ad ogni tentativo di definizione» (pp. 81-82). La concettualizzazione aristotelica della κίνησις ha come effetto la subordinazione della potenza all’atto; ne consegue, secondo l’autore, «è quindi la rappresentazione aristotelica del movimento che incide sul nostro pensare» (p. 83). È questo il φάρμακον aristotelico in opera per quanto concerne il delusionismo, un dispositivo che sorge da una μετάβασις εἰς ἄλλο γένος tra principio e concetto: «il φάρμακον aristotelico determina il riflusso del canto sul grido, un raggelarsi del concetto alla superficie del principio che ci fa rappresentare il primo come identico in tutto e per tutto al secondo» (p. 85). Ancora una volta si tratta di rendere più accettabile, più “digeribile”, l’intollerabile del titolo – un’operazione di fabulazione, direbbe Bergson –, esattamente come fa Aristotele con «quanto vi è di più intollerabile», ovvero con «quell’indefinibilità estrema del movimento» (p. 86) di cui si è detto. La soluzione, suggerisce Treppiedi richiamandosi ad Agamben 2005 e Stiegler 2014, è quella di provare ad «accorgerci che è la potenza ad aggiungere qualcosa all’atto» (pp. 90-91) e non viceversa, ovvero di provare a ripensare il movimento senza snaturarlo: «seppure in grado di sospendere la κίνησις […] quanto basta per immetterla nel circuito dell’ἐπιστήμη, l’ἀρχή non può nulla contro la prepotenza della κίνησις stessa, unico elemento che per Aristotele resta ἀόριστον – “indefinibile” si legge nella Fisica – e che per ciò stesso costituisce in tutto il suo sistema non il canto più incisivo, l’ἀρχή, ma il principio più intollerabile, il grido che lo Stagirita contiene nell’ἀρχή» (p. 91). È il ritratto della fabulazione di “un altro Aristotele” quello che qui emerge, un Aristotele «combattuto tra una ϑεωρία del movimento che lo obbligherebbe al silenzio e l’ipotesi di una ἐπιστήμη che lo costringe a sacrificarne una parte» (p. 92). Ancora una volta, ci accorgiamo di come l’intollerabile costituisca il cardine dell’oscillazione tra questi due poli.

Il terzo capitolo, "Rispondere all’intollerabile", spezza tuttavia una lancia in favore dello Stagirita: in lui «non si dovrà vedere solo l’avvelenatore, il responsabile del nostro delusionismo cronico», trattandosi al contrario di «una figura a metà tra il medico e il taumaturgo», siccome «è sempre tra gli scaffali della sua farmacia che troveremo l’antidoto al delusionismo» (p. 96). Aristotele sembra infatti poter offrire anche la necessaria griglia teorica atta a offrire una risposta all’intollerabile: facendo appello a Simondon 2006 e Stiegler 2005, Treppiedi mette in luce come la fabulazione dia prova di quanto l’uomo «sia capace di resistere, di scorgere l’intollerabile e rispondervi» (p. 104). L’indagine prende una svolta esplicitamente politica, poiché infatti «la metafisica dovrà arrivare […] a farsi lotta politica contro tutto ciò che rallenta la κίνησις» (p. 104), con il nesso tra filosofia e politica che sarebbe opera dello stesso Deleuze – «al cuore della filosofia vibrerebbe per Deleuze qualcosa di politico, talmente radicato in essa da imporsi come impensato» (p. 106). Se Treppiedi si spinge a dire che, a partire già dalla lotta iconoclasta all’“Immagine del pensiero”, «il concetto di resistenza è quello che […] Deleuze ha intesi più di altri lasciarci in eredità», la ragione sta appunto nel côté etico-politico qui racchiuso: «il potere è sempre minacciato non tanto da ciò che vi si contrappone quanto piuttosto da un’alterità irrappresentabile, ad esso profondamente immanente e tuttavia estranea» (p. 112), dal che segue che esso «opera come un’ἀρχή nella misura in cui non fa che negare, impedire e confinare», dando vita cioè a «un operare in cui riecheggia il più potente e ingannevole dei canti aristotelici» (pp. 115-116). La radicalizzazione del potere in controllo, denunciata, tra gli altri, dallo stesso Deleuze, ci impone però una riflessione sulle modalità di resistenza, riflessione che si può leggere «come il monito a dare una possibilità alla metafisica, a un discorso sui princìpi che è forse il più improbabile – inattuale? – degli approcci al presente» (p. 120). Per illustrarlo, Treppiedi fa leva sulle riflessioni deleuziane sul maggio 1968: attingendo a Pourparler (pp. 126-127), egli insiste infatti sulla necessità di «riprendere il concetto bergsoniano di fabulazione e dargli un senso politico» (Deleuze 2000, p. 229) – «la sola possibilità degli uomini è nel divenire rivoluzionario. Solo così possono scongiurare la vergogna o rispondere all’intollerabile» (Deleuze 2000, p. 225). Per questa ragione, dunque, la metafisica, «da astratta quale può sembrare, trapassa fulminea in una politica dell’impensato» (p. 135).

Il giudizio complessivo sul libro di Treppiedi non può che essere positivo. Benché di lettura non agevolissima, dal momento che, pur nella sua brevità, tende – come si è accennato – a tralasciare le ricostruzioni storiche o didascaliche a vantaggio di un impianto esclusivamente teoretico, con il rischio forse di disorientare il lettore che vi si approccia ricercando una ricostruzione del rapporto tra Deleuze e Aristotele che L’intollerabile. Aristotele dopo Deleuze programmaticamente non offre, tale testo può, a nostro avviso, rientrare a pieno titolo in quella rinnovata fioritura dei lavori marcatamente interpretativi dell’opera deleuziana cui sembra di assistere negli ultimi anni. Non ci sembra fuori luogo sostenere che la ricezione del variegato pensiero del filosofo parigino, dopo i fasti interpretativi degli anni novanta, che hanno in qualche modo tracciato le principali diramazioni ermeneutiche a venire – da Mengue 1994 e Zourabichvili 1998 a Badiou 2004, passando per Alliez 1995, Alliez 1998 e Hardt 2000 –, stia conoscendo oggi una nuova linfa teorica, dando vita a nuovi itinerari di pensiero – da Ronchi 2015 a Lapoujade 2020 – in cui anche il più recente lavoro di Treppiedi potrebbe senz’altro essere iscritto.

di Davide Pilotto


Bibliografia

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