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PK#17 \ Metafora. Tra esperienza e pensiero
Rivista / Dicembre 2022Dal momento in cui la pratica discorsiva del filosofo si è imposta come forma di sapere superiore a tutte le altre la metafora è stata vista come un semplice ausilio al quale ricorrere quando la teoria non funziona nel modo in cui è supposta funzionare. Non sono mai mancati, tuttavia, coloro che ritenevano la dimensione del concetto incapace di saturare il senso rendendo possibile eliminare del tutto il metaforico. Sarà Novecento che il discorso filosofico supererà ogni pregiudizio nei confronti della figuratività, dell’iconico, del narrativo integrandoli quali parte integrante dell’argomentazione filosofica. Nel presente numero si farà riferimento ad alcuni autori utili ad illustrare in modo paradigmatico lo scenario appena delineato.
From the moment the discursive practice of the philosopher emerged as a form of knowledge superior to all others, metaphor was seen as a mere aid to be resorted to when theory does not work the way it is supposed to work. There has never been a shortage, however, of those who considered the concept dimension incapable of saturating the meaning, making it possible to eliminate the metaphorical. It would be during the course of the 20th century that philosophical discourse would overcome any prejudice against figurativeness, the iconic, the narrative, integrating them as an integral part of philosophical argumentation. In this issue, reference will be made to a few authors useful in illustrating the scenario just outlined in a paradigmatic manner.
A cura di Federica Buongiorno e Giovanni Leghissa
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DOI: https://doi.org/10.13135/2385-1945/17.2022
Pubblicato: ottobre 2022
Indice
EDITORIALE
I. PAESAGGI FONDATIVI
Patrick Marot - Gain et perte dans l’économie moderne des métaphores [PDF Fr]
Lorenzo Palombini - La metafora trascendentale [PDF It]
Nicola Zambon - Cosa rende ‘potenti’ le metafore? [PDF It]
II. TRA ESPERIENZA E PENSIERO
Luca Cabassa - Esistono buone metafore in scienza? Note in margine a "La linea e il circolo" [PDF It]
Alessandro Settimo - Concupiscenza saggistica. Melandri, Adorno, Maistre o della prosa analogica [PDF It]
Nicola Turrini - I fenomeni di evanescenza. Alcune note sulla nozione di Abklangsphänomen nella filosofia del tempo di Husserl [PDF It]
Pascal Lemmer - Metaphor, Relevance Theory, and the Curious Nature of Cut-Off Points. A Philosophical Attempt to Understand the Tension Caused by Non-Propositional Effects [PDF En]
Stefana Garello & Marco Carapezza - Lakoff & Johnson lettori di Blumenberg? Le analogie tra metaforologia e teoria della metafora concettuale [PDF It]
III. DISSEMINAZIONI
Tommaso Morawski - La tavola e la mappa. Paradigmi per una metaforologia mediale dell’immaginazione cartografica in Kant [PDF It]
Mariacarla Molé - Casa come me. Villa Malaparte: storia di una metafora annunciata [PDF It]
Nicole Miglio - Absolute Metaphors and Metaphors of the Maternal [PDF En]
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Aristotele dopo Deleuze
Recensioni / Ottobre 2022Se nel 1977 Michel Foucault, nella sua prefazione alla prima edizione statunitense de L’anti-Edipo, scriveva che tale testo altro non fosse se non «un libro di etica» (p. xiii), ci sembra che un giudizio complessivo analogo si possa dare anche a L’intollerabile. Aristotele dopo Deleuze (Mimesis, 2022), terza monografia di Fabio Treppiedi. Discostandosi in parte dai due lavori precedenti (Treppiedi 2015 e Treppiedi 2016), l’autore sceglie questa volta di ibridare il pensatore parigino con un autore quale Aristotele, in un gesto teoretico singolare se si considera come Deleuze sia tradizionalmente accostato a un panthéon filosofico ben definito, tra i cui rappresentanti – da Bergson a Nietzsche, dagli stoici a Spinoza – Aristotele non figura affatto. Come anzi precisa lo stesso Treppiedi, «non sarà difficile considerare nemici Aristotele e Deleuze» (p. 14), dal momento che lo Stagirita rientra a pieno titolo tra i rappresentanti di quell’«Immagine dogmatica e moraleggiante del pensiero» (Deleuze 1997, p. 186) presa di mira nella terza sezione di Differenza e ripetizione.
Lungi dal configurarsi come una ricostruzione di taglio storico o filologico del rapporto tra i due pensatori – l’autore non fa mistero di volersi discostare da una simile impostazione: «va da sé, con buona pace degli specialisti, che Aristotele e Deleuze parlino in modi differenti di princìpi a loro volta differenti» (p. 17) – il saggio di Treppiedi mira a offrirne una lettura squisitamente teoretica, con particolare attenzione, come accennato, al côté etico e politico implicato da tale congiuntura. L’autore non fa mistero di come i tre capitoli del suo libro «propongano altrettante variazioni sul tema della metafisica in direzione di problemi che ci toccano da vicino: disillusione, perdita di socialità, crisi e apatie del presente, rapporti tra soggetti e potere» (p. 9). Muovendo dalla «posta in gioco dell’interrogarsi sul presente a partire dal passato inquieto della metafisica» (p. 98), che assurge così a principale asse portante del testo, e tenendo presente la distinzione deleuziana tra princìpi e concetti, Treppiedi precisa più nel dettaglio il senso in cui tale espressione va intesa: «diremmo che uno dei significati di metafisica […] sta proprio nella forza esercitata sul pensiero da un principio che spinge al di là del comune le capacità del pensatore» (p. 18).
A riprova della tesi di Differenza e ripetizione secondo cui «c’è nel mondo qualcosa che costringe a pensare» (Deleuze 1997, p. 182), si può dunque rilevare come in gioco vi siano al contempo la genesi del pensiero e la problematica dell’afferrabilità di ciò che costitutivamente vi sfugge: in questo senso, «metafisica è sperimentare la portata di un principio che infrange il pensiero e che i filosofi ci restituiscono a frammenti, attraverso concetti, cocci di un intero, l’intollerabile, che di qua dal suo collidere col pensare e rifrangersi in immagini resta impensato» (pp. 129-130). Ecco qui fare capolino l’intollerabile, nozione che non a caso compare nel titolo del saggio di Treppiedi; ed è proprio la metafisica, con i suoi “sforzi immani” (p. 95), a doversene far carico: se in Pourparler leggiamo che «si percepisce qualcosa d’intollerabile, d’insopportabile, persino nella vita più quotidiana» (Deleuze 2000, p. 73), ecco che la storia della metafisica si configura allora come una “polifonia dell’intollerabile” (p. 130), volta ad articolare il rapporto tra princìpi e concetti anche laddove i due stridono, delineando una traiettoria che ha luogo ai bordi del pensiero, poiché «il principio spinge infatti il pensiero al limite, come un suo perno internamente dinamico e variabile, agitato da sussulti che espongono il filosofo alla prova dell’intollerabile» (p. 14).
Qual è dunque il rapporto tra princìpi e concetti? In che misura l’intollerabile trova spazio a partire dalla loro disgiuntura? A tali domande sembra offrire una risposta il primo capitolo del testo, intitolato “L’attaccamento alla vita”, il quale mira a offrire un’originale lettura di quella dicotomia tra ϑεωρία ed ἐπιστήμη, tra βίος ϑεωρητικός e βίος πολιτικός, che la metafisica, sin dagli albori della sua storia, ha stabilito come uno dei propri temi privilegiati di riflessione.
Muovendosi entro le maglie di una variegata griglia di riferimenti (Aristotele 1966, Aristotele 2000, Bergson 2006), Treppiedi delinea i contorni di «una filosofia battagliera, che s’installa al cuore dei problemi da cui procedono le differenze ridotte dal tempo a mere contrapposizioni» (p. 24). La tesi di fondo, secondo cui «l’esperienza della realtà necessita dell’illusione» (p. 34), con quest’ultima a venire esplicitamente ricondotta a quella che, ne Le due fonti della morale e della religione, Bergson chiamava “fabulazione”, viene trattata soprattutto per quanto concerne il suo aspetto più concreto e pragmatico, ovvero a partire da quella «discrepanza tra il vivere acquietato sui ritmi collaudati della società e il vedere quanto d’intollerabile c’è in essa» (p. 34), in linea con quella «violenza di ciò che costringe a pensare» (Deleuze 1997, p. 184) già segnalata in Differenza e ripetizione. Procedendo da variazioni sul celebre tema del soldato in fuga dalla battaglia nei Secondi analitici, Treppiedi si sofferma sulla distinzione tra attenzione alla vita, ovvero «la tendenza a mantenere vivo il rapporto con la comunità in cui ci si ritrova» (p. 35), e attaccamento alla vita, ovvero «il “principio attivo” […] del vivere lì dove difficoltà e pericoli fanno oscillare la linea di confine tra chi sta bene e chi sta male» (p. 35). Grazie alla messa a fuoco dello spostamento che qui si genera, ovvero di quell’«andare e venire incessante dal concetto di attenzione alla vita al principio dell’attaccamento alla vita nei termini di un intimo differenziarsi della medesima ζωή, “una vita” secondo l’ultimo Deleuze» (p. 62), l’autore offre una disamina del rapporto tra comunità e società in chiave prettamente politica e dunque – come già rimarcato – per forza di cose etica. Ne risulta allora una messa a fuoco della difficile relazione tra ϑεωρία ed ἐπιστήμη, la cui gestione rientra a pieno titolo tra il gravoso compito della metafisica: se la ϑεωρία indica quella «capacità di considerare i concetti nella loro problematica unità con i princìpi» (p. 26), ne consegue che «chiedersi cosa ne è del concetto laddove lo si separa dal principio, che senso abbia il canto senza il grido che lo accompagna, […] vuol dire anche chiedersi cosa ne è della ϑεωρία laddove si eccede con l’ἐπιστήμη» (p. 33).
Il dissidio tra princìpi e concetti è anche il punto di partenza della seconda sezione, intitolata La farmacia di Aristotele, la quale si focalizza maggiormente sui due autori al centro del lavoro di Treppiedi, nella convinzione che Aristotele sia «il filosofo di cui Deleuze esplicita più volte il grido, facendone il paradigma dei gridi filosofici» (p. 66). La discrepanza tra princìpi e concetti troverebbe, per lo Stagirita, una formulazione apparentemente conciliatoria intorno alla nozione di ἀρχή: «in risposta all’impatto intollerabile col principio, Aristotele fa di questo un concetto e lo nomina ἀρχή», compiendo dunque «un’operazione che gli darà modo di arginare l’insorgere convulso e insostenibile del principio nella ϑεωρία mediante l’isolamento in essa di un apposito dinamismo, l’ἀρχή, un dispositivo capace di dirottare verso l’ἐπιστήμη la densa sperimentazione implicita nell’intuire il principio» (p. 74). Ben presto, tuttavia, il capitolo torna ad assumere una connotazione decisamente etica: quell’«atteggiamento di sfiducia e di scetticismo» che Treppiedi etichetta come “delusionismo” (p. 77), figlio in ultima analisi dell’aristotelismo – «è effetto collaterale del dispositivo aristotelico di potenza e atto, di un φάρμακον cui il nostro pensare si è nel tempo assuefatto» (p. 79) –, viene correlato dall’autore a una classica aporia aristotelica, ovvero al «problema del movimento e della sua indefinibilità, che costituisce per Deleuze il grido di Aristotele» e che «emerge effettivamente come la bestia nera dello Stagirita, un elemento ribelle e inaffidabile che sfugge ad ogni tentativo di definizione» (pp. 81-82). La concettualizzazione aristotelica della κίνησις ha come effetto la subordinazione della potenza all’atto; ne consegue, secondo l’autore, «è quindi la rappresentazione aristotelica del movimento che incide sul nostro pensare» (p. 83). È questo il φάρμακον aristotelico in opera per quanto concerne il delusionismo, un dispositivo che sorge da una μετάβασις εἰς ἄλλο γένος tra principio e concetto: «il φάρμακον aristotelico determina il riflusso del canto sul grido, un raggelarsi del concetto alla superficie del principio che ci fa rappresentare il primo come identico in tutto e per tutto al secondo» (p. 85). Ancora una volta si tratta di rendere più accettabile, più “digeribile”, l’intollerabile del titolo – un’operazione di fabulazione, direbbe Bergson –, esattamente come fa Aristotele con «quanto vi è di più intollerabile», ovvero con «quell’indefinibilità estrema del movimento» (p. 86) di cui si è detto. La soluzione, suggerisce Treppiedi richiamandosi ad Agamben 2005 e Stiegler 2014, è quella di provare ad «accorgerci che è la potenza ad aggiungere qualcosa all’atto» (pp. 90-91) e non viceversa, ovvero di provare a ripensare il movimento senza snaturarlo: «seppure in grado di sospendere la κίνησις […] quanto basta per immetterla nel circuito dell’ἐπιστήμη, l’ἀρχή non può nulla contro la prepotenza della κίνησις stessa, unico elemento che per Aristotele resta ἀόριστον – “indefinibile” si legge nella Fisica – e che per ciò stesso costituisce in tutto il suo sistema non il canto più incisivo, l’ἀρχή, ma il principio più intollerabile, il grido che lo Stagirita contiene nell’ἀρχή» (p. 91). È il ritratto della fabulazione di “un altro Aristotele” quello che qui emerge, un Aristotele «combattuto tra una ϑεωρία del movimento che lo obbligherebbe al silenzio e l’ipotesi di una ἐπιστήμη che lo costringe a sacrificarne una parte» (p. 92). Ancora una volta, ci accorgiamo di come l’intollerabile costituisca il cardine dell’oscillazione tra questi due poli.
Il terzo capitolo, "Rispondere all’intollerabile", spezza tuttavia una lancia in favore dello Stagirita: in lui «non si dovrà vedere solo l’avvelenatore, il responsabile del nostro delusionismo cronico», trattandosi al contrario di «una figura a metà tra il medico e il taumaturgo», siccome «è sempre tra gli scaffali della sua farmacia che troveremo l’antidoto al delusionismo» (p. 96). Aristotele sembra infatti poter offrire anche la necessaria griglia teorica atta a offrire una risposta all’intollerabile: facendo appello a Simondon 2006 e Stiegler 2005, Treppiedi mette in luce come la fabulazione dia prova di quanto l’uomo «sia capace di resistere, di scorgere l’intollerabile e rispondervi» (p. 104). L’indagine prende una svolta esplicitamente politica, poiché infatti «la metafisica dovrà arrivare […] a farsi lotta politica contro tutto ciò che rallenta la κίνησις» (p. 104), con il nesso tra filosofia e politica che sarebbe opera dello stesso Deleuze – «al cuore della filosofia vibrerebbe per Deleuze qualcosa di politico, talmente radicato in essa da imporsi come impensato» (p. 106). Se Treppiedi si spinge a dire che, a partire già dalla lotta iconoclasta all’“Immagine del pensiero”, «il concetto di resistenza è quello che […] Deleuze ha intesi più di altri lasciarci in eredità», la ragione sta appunto nel côté etico-politico qui racchiuso: «il potere è sempre minacciato non tanto da ciò che vi si contrappone quanto piuttosto da un’alterità irrappresentabile, ad esso profondamente immanente e tuttavia estranea» (p. 112), dal che segue che esso «opera come un’ἀρχή nella misura in cui non fa che negare, impedire e confinare», dando vita cioè a «un operare in cui riecheggia il più potente e ingannevole dei canti aristotelici» (pp. 115-116). La radicalizzazione del potere in controllo, denunciata, tra gli altri, dallo stesso Deleuze, ci impone però una riflessione sulle modalità di resistenza, riflessione che si può leggere «come il monito a dare una possibilità alla metafisica, a un discorso sui princìpi che è forse il più improbabile – inattuale? – degli approcci al presente» (p. 120). Per illustrarlo, Treppiedi fa leva sulle riflessioni deleuziane sul maggio 1968: attingendo a Pourparler (pp. 126-127), egli insiste infatti sulla necessità di «riprendere il concetto bergsoniano di fabulazione e dargli un senso politico» (Deleuze 2000, p. 229) – «la sola possibilità degli uomini è nel divenire rivoluzionario. Solo così possono scongiurare la vergogna o rispondere all’intollerabile» (Deleuze 2000, p. 225). Per questa ragione, dunque, la metafisica, «da astratta quale può sembrare, trapassa fulminea in una politica dell’impensato» (p. 135).
Il giudizio complessivo sul libro di Treppiedi non può che essere positivo. Benché di lettura non agevolissima, dal momento che, pur nella sua brevità, tende – come si è accennato – a tralasciare le ricostruzioni storiche o didascaliche a vantaggio di un impianto esclusivamente teoretico, con il rischio forse di disorientare il lettore che vi si approccia ricercando una ricostruzione del rapporto tra Deleuze e Aristotele che L’intollerabile. Aristotele dopo Deleuze programmaticamente non offre, tale testo può, a nostro avviso, rientrare a pieno titolo in quella rinnovata fioritura dei lavori marcatamente interpretativi dell’opera deleuziana cui sembra di assistere negli ultimi anni. Non ci sembra fuori luogo sostenere che la ricezione del variegato pensiero del filosofo parigino, dopo i fasti interpretativi degli anni novanta, che hanno in qualche modo tracciato le principali diramazioni ermeneutiche a venire – da Mengue 1994 e Zourabichvili 1998 a Badiou 2004, passando per Alliez 1995, Alliez 1998 e Hardt 2000 –, stia conoscendo oggi una nuova linfa teorica, dando vita a nuovi itinerari di pensiero – da Ronchi 2015 a Lapoujade 2020 – in cui anche il più recente lavoro di Treppiedi potrebbe senz’altro essere iscritto.
di Davide Pilotto
Bibliografia
Agamben, G. (2005). La potenza del pensiero. Saggi e conferenze. Vicenza: Neri Pozza.
Alliez, É. (1995). Deleuze. Philosophie virtuelle. Paris: Les empêcheurs de tourner en rond.
Alliez, É. (a cura di) (1998). Gilles Deleuze. Une vie philosophique, Paris: Synthélabo.
Aristotele (1955). Secondi analitici. In Organon (275-403 e 889-913). A cura di G. Colli. Torino: Utet.
Aristotele (1966). Politica. A cura di R. Laurenti. Laterza: Bari.
Aristotele (2000). Metafisica. A cura di G. Reale. Milano: Bompiani.
Badiou, Alain (2004). Deleuze. «Il clamore dell’Essere». Trad. it. di D. Tarizzo. Torino: Einaudi.
Bergson, H. (2006). Le due fonti della morale e della religione. Trad. it. di M. Vinciguerra. Milano: Se.
Deleuze, G. (1997). Differenza e ripetizione. Trad. it. di G. Guglielmi et al. Milano: Raffaello Cortina.
Deleuze, G. (2000). Pourparler. Trad. it. di S. Verdicchio. Macerata: Quodlibet.
Deleuze, G. & Guattari, F. (2017). Mille piani. Capitalismo e schizofrenia. A cura di P. Vignola. Trad. it. di G. Passerone et al. Napoli-Salerno: Orthotes.
Derrida, J. (1985). La farmacia di Platone. Trad. it. di R. Balzarotti. Milano: Jaca Book.
Foucault, M. (1977). Preface. In G. Deleuze & F. Guattari, Anti-Oedipus: Capitalism and Schizophrenia (xi-xiv). Trad. ing. di R. Hurley et al. New York: Viking.
Hardt, M. (2000). Gilles Deleuze. Un apprendistato in filosofia. A cura di E. De Medio. Milano: A-change.
Lapoujade, D. (2020). Deleuze. I movimenti aberranti. A cura di C. D’Aurizio. Milano-Udine: Mimesis.
Mengue, P. (1994). Gilles Deleuze ou le systeme du multiple. Paris: Kimé.
Ronchi, R. (2015). Gilles Deleuze. Credere nel reale. Milano: Feltrinelli.
Simondon, G. (2020). L'individuazione alla luce delle nozioni di forma e d’informazione. A cura di G. Carrozzini. Milano-Udine: Mimesis.
Stiegler, B. (2005). Passare all’atto. Trad. it. di E. Imbergamo. Roma: Fazi.
Stiegler, B. (2014). Prendersi cura. Della gioventù e delle generazioni. A cura di P. Vignola. Napoli-Salerno: Orthotes.
Treppiedi, F. (2015). Differenti ripetizioni. Pensare con Deleuze. Tricase: Youcanprint.
Treppiedi, F. (2016). Le condizioni dell’esperienza reale. Deleuze e l’empirismo trascendentale. Firenze: Clinamen.
Treppiedi, F. (2022). L’intollerabile. Aristotele dopo Deleuze. Milano-Udine: Mimesis.
Zourabichvili, F. (1998). Deleuze: una filosofia dell’evento. Trad. it. di F. Agostini. Verona: Ombre Corte.
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CFP#17 \ Metafora. Tra esperienza e pensiero
Call for Papers / Gennaio 2022PK#17 \ settembre 2022
a cura di Giovanni Leghissa e Federica Buongiorno
Dal momento in cui la pratica discorsiva del filosofo si è imposta come forma di sapere suprema, in grado di dar conto di se stessa e dei propri metodi, il pensiero metaforico è stato assunto come un procedimento ausiliario al quale ricorrere quando la teoria non funziona nel modo in cui è supposta funzionare – cioè senza buchi e senza sbavature, in grado di cogliere senza residui tutto ciò che c’è e di cui il soggetto fa esperienza. Anche se non sono mai mancati coloro che non ritenevano possibile eliminare del tutto la dimensione del metaforico – coloro per i quali lo spazio discorsivo della filosofia non poteva venir saturato solo facendo ricorso a ciò che coincide con quella forma specifica di cattura del reale che è il concetto – è solo nel corso del Novecento che il discorso filosofico ha superato ogni pregiudizio nei confronti della figuratività, dell’iconico, del narrativo intesi quali parti integranti dell’argomentazione filosofica. Ciò non è accaduto in virtù della volontà di prendere congedo dalla concettualità, bensì in virtù del fatto che quest’ultima, nell’atto del suo porsi, pone anche il proprio altro, di cui il metaforico è attestazione privilegiata. Con ciò, si è resa finalmente obsoleta l’idea secondo cui la metafora servisse al ragionamento filosofico solo quando questo incespica e zoppica, scoprendosi bisognoso di ausili e stampelle. Quattro esempi valgano a illustrare questo scenario filosofico, che costituisce il nucleo teorico del presente call for papers.
Hans Blumenberg non solo ha mostrato che non è possibile scrivere una storia dei concetti senza scrivere anche la storia delle metafore che hanno costellato la discorsività filosofica, ma ha anche offerto un quadro teorico-sistematico generale entro il quale comprendere la necessità del loro intreccio. Generata dal bisogno di tenere a bada la realtà e ciò che in essa resiste a un dominio immediato, la ragione – che co-evolve con Homo sapiens al pari degli altri artefatti di cui questi si serve per plasmare la nicchia ecologica che lo accoglie – produce tanto miti quanto modelli di razionalità e teorie scientifiche, tanto metafore quanto concetti, al fine di rendere più agevole un adattamento che risulta sempre alquanto precario (l’esistenza della specie umana, per Blumenberg, è quanto di più improbabile ci sia nel regno dei viventi). Ne viene fuori non che la metafora compensa ciò che manca al concetto, ma che tutte le misure di prevenzione messe in atto dalla ragione per arginare gli effetti della complessità del reale altro non siano che misure compensatorie.
Jacques Derrida ci ha indicato – una volta per tutte, si potrebbe dire – come la posizione del soggetto che guarda la differenza tra metafore e concetti costituisca la macchia cieca del pensiero: è infatti impossibile dar conto delle operazioni che giustificano tale differenza, essendo questa già da sempre presupposta da ogni pratica filosofica. Il soggetto del sapere filosofico, in altre parole, non si vede mentre opera con – e grazie alla – differenza tra metafore e concetti. Non si può far filosofia se non ipotizzando di sapere cosa differenzi un concetto da una metafora, ma l’articolazione di tale differenza non potrà mai essere maneggiata con i soli strumenti della concettualità. Un residuo metaforico, con tutta la sua impurità, intaccherà sempre la purezza di quella sfera in cui opera la concettualità.
Enzo Melandri, ne La linea e il circolo, ha indicato un percorso sistematico che non solo restituisce piena legittimità alla logica analogica – che non è da vedersi come una logica dimidiata, di secondo ordine – ma ha anche indicato in che senso una teoria dell’analogia aiuti a individuare in modo corretto il posto che il metaforico occupa in seno all’argomentazione filosofica. È vero che gli usi dell’analogia sono pressoché infiniti, ma, come mostra Melandri, le sue funzioni sono ben precise e delimitate: euristica, legata all’inventio, sintetica, quando si passa da un genere a un altro per produrre un sapere unitario e superare pragmaticamente la divisione dei saperi, ed evocativa, quando il valore intensionale o connotativo dell’analogia si autonomizza rispetto al suo valore estensionale e o denotativo. Ora, se si riesce a dimostrare a quali condizioni l’analogia diventi razionalmente possibile tanto come inferenza calcolabile quanto come concettualizzazione dotata di senso – ed era questo lo scopo perseguito da Melandri nel suo monumentale lavoro – allora diviene chiaro che la questione dell’analogia possiede una funzione trascendentale. Si tratta di comprendere non solo in che senso macchie empiriche intacchino sempre la purezza del trascendentale, o in che senso la genesi che conduce all’emergenza del soggetto trascendentale sia sempre una genesi empirica, ma soprattutto di porre a tema la questione della fondazione in termini dialettici, facendo posto al paradosso e alla negatività. Ragionare sull’analogia significa interrogare l’incompletezza del sistema del pensiero, significa cioè indicare come quel negativo che è esteriorità, alterità, rimosso, rientri nel sistema stesso per vie traverse e non dominabili interamente attraverso la concettualità pura.
Nel loro Metafora e vita quotidiana, George Lakoff e Mark Johnson sostengono che la metafora “è diffusa ovunque nel linguaggio quotidiano ma anche nel pensiero e nell’azione”: distinguendo tra tre tipologie di metafora (strutturali, di orientamento e ontologiche), Lakoff e Johnson propongono una teoria complessa la cui tesi fondamentale consiste nell’idea che il linguaggio sia strutturato metaforicamente in quanto il pensiero è strutturato metaforicamente e sottolineano il carattere ambiguo del linguaggio metaforico, che tende a enfatizzare un determinato aspetto concettuale oscurando una serie di altri aspetti non coerenti con la metafora utilizzata. Il meccanismo della metafora fa perno sul nostro essere incarnati, ovvero – ed è un aspetto decisivo – esso è funzione della nostra interazione corporea con il mondo: in questo senso, la metafora riflette la struttura percettiva umana e ritaglia una precisa ed essenziale forma di accesso cognitivo al mondo.
Si sono appena evocati alcuni nomi e autori, ma è chiaro che, evocandoli, lo scopo è quello di circoscrivere possibili aree di pensiero, non di attribuire a questi nomi un ruolo speciale. Grazie a loro, però, si è cercato di isolare il nucleo tematico di questo numero, che consiste nell’isolare, grazie alla messa a tema del ruolo della metafora, quell’oscillazione tra la sfera trascendentale e quella empirica che costituisce il pensiero della fondazione.
A partire da questi snodi il numero intende esplorare il tema della metafora nel discorso filosofico privilegiando i seguenti aspetti:
- l’uso della metafora e dell’analogia nella storia della filosofia: usi, evoluzione, obiettivi;
- crucialità dell’analisi della metafora nel pensiero di Hans Blumenberg nel suo complesso, con particolare riferimento al nesso tra la metafora e l’actio per distans, che Blumenberg individua quale forma precipua di adattamento al mondo;
- centralità della differenza tra metafora e concetto nella decostruzione derridiana della metafisica; valenza trascendentale del discorso derridiano sull’impossibilità di gestire concettualmente l’intreccio tra metafore e concetti;
- rapporto tra metafora e analogia nell’opera di Melandri, analisi degli esiti che assume l’argomentazione trascendentale quando questa ospita al proprio interno un’apertura dialettica nei confronti del metaforico e dell’analogico;
- a partire dall’opera di Lakoff e Johnson, analisi del rapporto tra la metaforicità del pensiero e le attività cognitive in quanto operazioni compiute da un soggetto incarnato, che si orienta nel mondo attraverso costruzioni narrative e concettuali che possono aspirare tanto più all’oggettività quanto più sapranno dar conto del proprio radicamento in una prassi incarnata;
- metafora, analogia e modellizzazione nel pensiero scientifico;
- le relazioni tra metafora e simbolizzazione degli spazi abitati: significati e fenomenologie del monumentale, inteso quale condensazione del metaforico nel linguaggio architettonico;
- rapporto tra funzionamento retorico-semiotico della metafora ed ermeneutica della metafora intesa quale asse portante delle strutture testuali.
Lingue accettate: italiano, inglese, francese, tedesco.
Procedura: si prega di inviare, all'indirizzo redazione@philosophykitchen.com, entro il 27 febbraio 2022, un abstract di massimo 6000 caratteri, indicando il titolo della proposta, le modalità in cui si intende sviluppare il tema e l'argomentazione, una bibliografia essenziale e ragionata nonché una breve biografia dell’autore o dell’autrice. Le proposte verranno valutate dai curatori e dalla redazione. Gli esiti della selezione verranno resi noti, via mail, entro il 14 marzo 2022. I contributi selezionati dovranno poi essere inviati entro il 30 giugno 2022 e saranno sottoposti a double-blind peer review. La pubblicazione del volume è prevista per settembre 2022.
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La macchina ineludibile
Longform / Aprile 2015In un testo apparso nel 1992 in un volume collettivo, «Nous autres Grecs», Jacques Derrida, riferendosi all’intero gruppo dei filosofi oggi noti come post-strutturalisti, osserva che essi si raccolgono «sotto il segno della differenza, e di una differenza, così come di un simulacro, non dialettizzabile». Dopo aver sottolineato quella che definisce «tale resistenza, io direi quasi tale allergia, ma non opposizione, tale risposta testarda (differenziale, non dialettica) alla dialettica», conclude:
Questa resistenza è in comune non soltanto a Deleuze e a me […], ma anche a Foucault, Lyotard e altri ancora. È stata conquistata, si potrebbe dire strappata, sempre senza fine, a un dialetticismo ereditato. Ciò che essa ha – piuttosto che rovesciato – spostato, deformato, non è stata soltanto la dialettica hegeliana, neo-hegeliana o marxista, è stata in primo luogo la dialetticità di provenienza platonica. (Derrida, 1992a, p. 257-258).[1]