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Dall’incrinatura alla creazione
Longform / Novembre 2021Nel suo primo libro che non si presenta nella forma di studio monografico su un autore, ma come un’opera di carattere spiccatamente teorico, vale a dire Différence et répétition, Gilles Deleuze introduce un tema significativo: quello dell’incrinatura dell’Io. Egli fa risalire la presa di coscienza di tale fenomeno a Kant, richiamando in particolare una nota, nella Critica della ragione pura, in cui si legge: «L’io penso esprime l’atto del determinare la mia esistenza. Con ciò l’esistenza è quindi già data; tuttavia, con ciò non è ancora dato il modo in cui io debba determinare tale esistenza, cioè porre in me il molteplice che appartiene ad essa. Per questo si richiede l’auto-intuizione, che si fonda su una forma data a priori, cioè il tempo» (Kant 1997: 115) [1]. Da questa breve osservazione derivano, secondo Deleuze, conseguenze radicali. Infatti, se «la mia esistenza indeterminata può essere determinata solo nel tempo», allora «la spontaneità di cui ho coscienza nell’Io penso non può essere intesa come l’attributo di un essere sostanziale e spontaneo, ma soltanto come l’affezione di un io passivo il quale avverte che il proprio pensiero, la propria intelligenza, ciò attraverso cui egli dice io, si esercita in lui e su di lui […]. L’attività del pensiero si applica a un essere ricettivo, a un soggetto passivo, che si rappresenta dunque tale attività piuttosto che attuarla, ne sente l’effetto piuttosto di averne l’iniziativa, e che la vive come un Altro dentro di lui. […] Da parte a parte, l’io è come attraversato da un’incrinatura; è incrinato dalla forma pura e vuota del tempo» (Deleuze 1997: 116-117) [2].
Ma non basta: mentre ancora in Descartes «l’identità supposta dell’Io non ha altro garante che l’unità di Dio stesso», Kant annuncia «la simultanea scomparsa della teologia razionale e della psicologia razionale, il modo in cui la morte speculativa di Dio porta con sé un’incrinatura dell’Io» (Deleuze 1997: 116). Va precisato, però, che quest’audace avanzata teorica kantiana è seguita da un arretramento, per cui «il Dio e l’Io conoscono una resurrezione pratica. E anche nell’ambito speculativo, l’incrinatura è presto colmata da una nuova forma d’identità, l’identità sintetica attiva» (Deleuze 1997: 117). La prospettiva prima dischiusa e poi richiusa da Kant viene, a giudizio di Deleuze, riaperta da un poeta, Hölderlin, «che scopre il vuoto del tempo puro e, in tale vuoto, scopre nel contempo il continuo distogliersi del divino, l’incrinatura prolungata dell’Io e la passione costitutiva del Me. In questa forma del tempo, Hölderlin scorgeva l’essenza del tragico o l’avventura di Edipo, come un istinto di morte» Deleuze 1997: 117).
Il riferimento è ai commenti aggiunti dal poeta alle proprie traduzioni di due tragedie di Sofocle, e in particolare alle Note all’«Edipo» (Hölderlin 2019: 763-773). Qui Hölderlin sostiene che nella tragedia trova espressione il fatto che, «in un’epoca ristagnante, il dio e l’uomo, affinché non vi sia lacuna nel corso del mondo e non si spenga la memoria dei celesti, comunicano nella forma, dimentica di tutto, dell’infedeltà […]. In tale momento l’uomo dimentica sé e il dio, e gli si rivolta – seppur in modo sacro – come un traditore. Al limite estremo della sofferenza, infatti, non esiste più niente, tranne le condizioni del tempo e dello spazio» (Hölderlin 2019: 772-773). Deleuze allude anche a un’altra osservazione hölderliniana, quella secondo cui, essendo «il trasporto tragico […] in sé vuoto», ne consegue che, «nella sequenza ritmica delle figurazioni in cui il trasporto si manifesta, diventa necessaria la parola pura, l’interruzione antiritmica – ciò che nella metrica si chiama cesura» (Hölderlin 2019: 764). Quest’ultima nozione viene rapportata dal filosofo francese non soltanto al tempo, ma anche alla psiche, per cui «sono la cesura, e il prima e il dopo che essa ordina una volta per tutte, a costituire l’incrinatura dell’Io (la cesura è esattamente il punto d’insorgenza dell’incrinatura)» (Deleuze 1997: 119).
Già dai pochi passi citati (relativi a Kant e Hölderlin) emergono due tratti caratteristici: la propensione di Deleuze a proporre interpretazioni piuttosto libere dei testi, in funzione di una teoria che egli intende avanzare per interposta persona, e la tendenza ad utilizzare spesso esempi letterari, accanto a quelli filosofici. Questo secondo aspetto del suo modo di procedere trova conferma nel rinvio, nelle stesse pagine, a testi narrativi: «Sul tema di una “incrinatura” dell’Io, in rapporto essenziale con la forma del tempo intesa come istinto di morte, ci si riporterà a tre grandi opere letterarie, benché assai diverse fra loro: La bête humaine di Zola, Il crollo di F. S. Fitzgerald, Sotto il vulcano di M. Lowry» (Deleuze 1997: 117) [3].
Al primo di questi testi, Deleuze ha dedicato un saggio, incluso nel volume Logique du sens (Deleuze 1975: 281-291). Egli ricorda che è stato lo stesso Zola ad usare nel suo romanzo il termine «incrinatura», in riferimento a una specie di tara ereditaria di cui il protagonista, Jacques Lantier, subisce le conseguenze (Zola 2019: 63-64). In effetti è noto che lo scrittore prestava molto credito alle teorie, in voga a quell’epoca, relative all’ereditarietà. Ma Deleuze sostiene che, nel caso specifico di Lantier, le cose sono più complesse: «L’ereditarietà non è ciò che passa attraverso l’incrinatura, ma è l’incrinatura stessa: la frattura o il buco, impercettibili. […] Non trasmette nulla tranne se stessa» (Deleuze 1975: 282). Anche l’istinto (sessuale o omicida) a cui il protagonista cede, con esiti rovinosi per lui e per altri, «non si confonde mai con l’incrinatura, ma intrattiene con essa stretti rapporti variabili: ora la ricopre e rincolla alla meglio, e per un tempo più o meno lungo […]; ora l’allarga, le dà un diverso orientamento che fa esplodere i frammenti» (Deleuze 1975: 282-283). L’incrinatura non opera dunque alla maniera dell’ereditarietà, «non riproduce un “medesimo”, non riproduce nulla, si limita ad avanzare in silenzio, a seguire le linee di minor resistenza, sempre deviando, pronta a cambiare direzione» (Deleuze 1975: 284). Da ultimo, il filosofo ritiene di poter affermare che «l’essenziale di La bête humaine è l’istinto di morte nel personaggio principale, l’incrinatura cerebrale di Jacques Lantier, macchinista di locomotiva» (Deleuze 1975: 286).
Parlare di istinto di morte equivale senza dubbio a chiamare in causa la psicoanalisi. In Différence et répétition, Deleuze ricorda le tesi esposte (o, per meglio dire, prese in esame) da Freud in Al di là del principio del piacere (Freud 1989: 187-249), e tuttavia lo fa soprattutto al fine di contestarle. Così, se il fondatore della psicoanalisi giungeva a ipotizzare un contrasto di fondo tra pulsioni di vita, identificabili con l’eros, e pulsioni di morte, il filosofo nega l’indipendenza di queste ultime: «Non vediamo dunque alcuna ragione per supporre un istinto di morte che si distingua da Eros, sia per una differenza di natura tra due forze, sia per una differenza di ritmo o di ampiezza tra due movimenti. In entrambi i casi, la differenza sarebbe già data, e Thanatos indipendente. Secondo noi, al contrario, Thanatos si confonde interamente con la desessualizzazione di Eros» (Deleuze 1997: 148). Poiché la concezione di Deleuze è di tipo essenzialmente vitalistico, egli non può far altro che arretrare di fronte all’idea che esista un’autonomia delle pulsioni di morte.
Nel contempo, però, egli si rende conto che sarebbe poco corretto pensare all’incrinatura dell’io come se si trattasse unicamente di un fenomeno negativo, di una mera sottrazione di energia, sicché in altri punti del suo libro egli presenta la crepa che si produce nella psiche in maniera del tutto differente, ossia come generatrice di idee: «Per quanto il Cogito rinvii a un Io incrinato, spaccato da parte a parte dalla forma del tempo che lo attraversa, bisogna dire che le Idee formicolano in tale incrinatura, emergono costantemente sui bordi di essa, uscendo e rientrando senza posa, componendosi in mille modi diversi» (Deleuze 1997: 221). Può sembrare contraddittorio conferire all’incrinatura psichica caratteri nel contempo negativi e positivi, ma questa duplicità appartiene alla natura stessa del fenomeno in questione. Chi subisce gli effetti dell’incrinatura si trova suo malgrado a sperimentare qualcosa di eccessivo, che lo destabilizza fin nel profondo. A ciò può reagire in due maniere opposte, o lasciandosi scivolare sulla china della perdita, dell’istinto di morte, oppure trasformando l’incrinatura in uno stimolo, ad esempio per la creazione di concetti filosofici o di opere artistiche.
Infatti l’insorgenza del pensiero innovativo non dipende, secondo Deleuze, da una predisposizione innata o da uno sforzo volontaristico, bensì da uno choc iniziale che si è subito. Già nel suo libro su Proust egli avvertiva che «il torto della filosofia sta nel presupporre in noi una buona volontà di pensare, un desiderio, un amore naturale del vero. Perciò la filosofia arriva soltanto a verità astratte, che non compromettono nessuno e non sconvolgono nulla. […] Tali idee restano gratuite, perché sono nate dall’intelligenza, che conferisce loro una sola possibilità, e non da un incontro o da una violenza che potrebbero garantirne l’autenticità. […] La verità dipende da un incontro con qualcosa che ci costringe a pensare, e a cercare il vero» (Deleuze 1986: 16-17). Dato che Deleuze sta parlando di Proust, si può scorgere una corrispondenza tra la valorizzazione delle idee filosofiche subite rispetto a quelle elaborate razionalmente e il privilegio (conoscitivo, oltre che emotivo) concesso dall’autore della Recherche alla memoria involontaria in confronto a quella volontaria. Ma anche nel diverso contesto di Différence et répétition Deleuze ribadisce che le idee cui si perviene per semplice ragionamento logico hanno un valore limitato: «Manca ad esse una provocazione, che sarebbe quella della necessità assoluta, cioè di una violenza originaria fatta al pensiero, di un’estraneità, di un’inimicizia che sola lo farebbe uscire dal suo stupore naturale o dalla sua eterna possibilità: […] non c’è pensiero se non involontario, costrizione suscitata nel pensiero» (Deleuze 1997: 182).
Il fatto che la violenza subita dalla psiche non raggiunga necessariamente l’individuo quando si trova nel pieno possesso delle proprie forze fisiche e mentali, ma possa pure esercitarsi su persone in apparenza deboli verrà chiarito in opere successive, a cominciare da Dialogues. In quel libro leggiamo che, «attraverso ogni combinazione fragile, è una potenza di vita ad affermarsi, con una forza, un’ostinazione, una perseveranza nell’essere che sono impareggiabili. È curioso come i grandi pensatori abbiano una vita personale fragile, una salute molto incerta, e al tempo stesso innalzino la vita allo stato di potenza assoluta o di “grande Salute”» (Deleuze & Parnet 1998: 11-12) [4]. Così, parlando dei filosofi a cui si sente più legato, primi fra tutti Spinoza e Nietzsche, Deleuze osserva: «Tutti questi pensatori hanno una costituzione fragile, eppure sono attraversati da una vita insuperabile. Procedono solo per potenza positiva, e di affermazione. Hanno una sorta di culto della vita» (Deleuze & Parnet 1998: 21). È ammirevole la discrezione che induce il pensatore francese a non dire nulla riguardo al proprio stesso caso, che è quello di una persona afflitta, per gran parte dell’esistenza, da seri problemi di salute.
Il discorso non è valido solo per il filosofo, ma anche per l’artista. Quest’ultimo – si legge in un’altra opera – è qualcuno che «ha visto nella vita qualcosa di troppo grande, di troppo intollerabile anche», ed è proprio questa esperienza a renderlo «un veggente, un diveniente» (Deleuze & Guattari 1996: 176). Occorre dunque essersi trovati ad affrontare una dura prova: «Per aver raggiunto il percetto come “la fonte sacra”, per aver visto la Vita nel vivente o il Vivente nel vissuto, il romanziere o il pittore tornano con gli occhi rossi, col fiato corto» (Deleuze & Guattari 1996: 177) [5]. Sotto questo profilo, dunque, non c’è differenza tra il pensatore, che lavora con i concetti, e l’artista, che invece ha a che fare con i percetti. «In tal senso gli artisti sono come i filosofi, hanno spesso una salute troppo fragile; non a causa delle malattie o delle nevrosi, ma perché hanno visto nella vita qualcosa di troppo grande per chiunque, di troppo grande per loro, e che ha impresso su di essi il sigillo discreto della morte. Ma questo è anche la fonte o il respiro che consente loro di vivere, attraverso le malattie del vissuto (è ciò che Nietzsche chiamava salute)» (Deleuze & Guattari 1996: 178).
Anche nell’ultimo libro pubblicato in vita, Critique et clinique, il filosofo tornerà a ribadire la propria convinzione, parlando stavolta in maniera più specifica degli autori di opere letterarie: «Non si scrive con le proprie nevrosi. La nevrosi, la psicosi non sono passaggi di vita, ma stati in cui si cade quando il processo è interrotto, impedito, chiuso. […] Perciò lo scrittore in quanto tale non è malato, ma piuttosto medico, medico di se stesso e del mondo. Il mondo è l’insieme dei sintomi di una malattia che si confonde con l’uomo. La letteratura appare allora come un’impresa di salute: non che lo scrittore abbia necessariamente una salute vigorosa […], ma gode di un’irresistibile salute precaria che deriva dall’aver visto e sentito cose troppo grandi, troppo forti per lui, irrespirabili, il cui passaggio lo sfinisce, e tuttavia gli dischiude dei divenire che una buona salute dominante renderebbe impossibili» (Deleuze 1996: 16).
In queste stesse frasi non mancano gli echi letterari. Così la formula «cose troppo grandi, troppo forti per lui», presuppone forse, da parte di Deleuze, la reminiscenza di una lettura di Proust: infatti, nel romanzo giovanile incompiuto Jean Santeuil, il protagonista manifestava le proprie incertezze e paure pensando: «Il mondo è troppo complicato per me, la vita è troppo forte per me» (Proust 1976: 63). Quanto poi all’idea secondo cui lo scrittore non va considerato come malato bensì come terapeuta, era già stata formulata da un altro scrittore caro al filosofo, ossia Artaud, che parlando a nome degli alienati (categoria a cui sentiva di appartenere) dichiarava: «Noi che il dolore ha fatto viaggiare nella nostra anima alla ricerca di un luogo di calma a cui aggrapparci, alla ricerca della stabilità nel male come gli altri nel bene. Noi non siamo folli, siamo dei medici meravigliosi» (Artaud 2004: 128). Un terzo riferimento, stavolta reso esplicito da Deleuze, è al testo in cui Michaux, riferendosi alla propria raccolta di brani narrativi e poetici dal titolo Mes propriétés, dichiara di averla composta «per la mia salute. Senza dubbio non si scrive per un motivo diverso. Non si pensa in altro modo. […] Questo libro, quest’esperienza che pare dunque provenire tutta dall’egoismo, mi spingerei fino a dire che è sociale, a tal punto si tratta di un’operazione alla portata di tutti e che sembra dover essere così vantaggiosa per i deboli, i malati e malaticci, i bambini, gli oppressi e i disadattati di ogni genere. In tal modo, vorrei essere stato utile almeno a quei sofferenti immaginosi, involontari, perpetui» (Michaux 1998: 511-512) [6].
Si può dire pertanto che aver subito una certa incrinatura a livello psichico, o comunque l’aver fatto esperienza di qualcosa che destabilizza il soggetto percipiente, sottoponendolo a un eccesso di dolore (o magari di gioia), se può in certi casi indebolirne le difese, così da indurlo a cedere a pulsioni mortifere, in altri e più fortunati casi può conferirgli delle capacità di pensiero e di creazione che in precedenza erano per lui inaccessibili. Deleuze elogia ad esempio scrittori americani come Fitzgerald e Lowry perché, a suo dire, hanno colto appieno la potenza della vita e, per poterla sopportare, hanno fatto ricorso all’alcol. Questo ha consentito ad essi di trasmettere, nella scrittura letteraria, la loro particolare visione, ma evidentemente ha comportato anche dei rischi, poiché in effetti occorrerebbe sempre «fare in modo che la linea di fuga non si confonda con un puro e semplice movimento di autodistruzione» (Deleuze & Parnet 1998: 44). Infatti, quando la linea di fuga si volge in linea di morte, l’esistenza, e con essa la scrittura, divengono impraticabili. «Perché si scrive? Il fatto è che non si tratta di scrittura. Può darsi che lo scrittore abbia una salute fragile, una costituzione debole. Ciò non toglie che sia proprio l’opposto del nevrotico: una sorta di grande Vivente (alla maniera di Spinoza, di Nietzsche o di Lawrence), anche se è soltanto troppo debole per la vita che lo attraversa o gli affetti che passano in lui» (Deleuze & Parnet 1998: 55). Occorre dunque saper trasformare l’incrinatura iniziale in una creativa linea di fuga, ma occorre anche, mentre si è impegnati a tracciare tale linea, imparare a conoscere «i pericoli che vi si corrono, la pazienza e le precauzioni che bisogna impiegare, le correzioni che bisogna apportare di continuo» (Deleuze & Parnet 1998: 44). Solo così, secondo Deleuze, l’atto di creazione giungerà a buon fine, e il pensatore o lo scrittore potranno dire di essere riusciti a esprimere la potenza, nel contempo terribile ed esaltante, della vita.
di Giuseppe Zuccarino
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Bibliografia
Artaud, A. (2004). Sûreté générale - La liquidation de l’opium. In Œuvres. Paris: Gallimard, 2004, 126-128.
Deleuze, G. (1986). Marcel Proust e i segni. Torino: Einaudi.
Id. (1975). Zola e l’incrinatura. In G. Deleuze, Logica del senso. Milano: Feltrinelli, 281-291.
Id. (1997). Differenza e ripetizione. Milano: Cortina.
Id. (1996). Che cos’è la filosofia? Torino, Einaudi, 1996.
Deleuze, G. & Parnet, C. (1998). Conversazioni. Verona: Ombre corte.
Deleuze, G. & Guattari, F. (2017). Mille piani. Capitalismo e schizofrenia, Napoli-Salerno : Orthotes.
Id. La littérature et la vie, in Critique et clinique, Paris, Éditions de Minuit, 1993, pp. 11-17 (tr. it. La letteratura e la vita, in Critica e clinica, Milano, Cortina, 1996, pp. 13-19).
Deleuze G. (2004). L’abbecedario di Gilles Deleuze, Roma: DeriveApprodi.
Fitzgerald, F. S. (2010), Il crollo. Adelphi: 2010.
Freud, S. (1989). Al di là del principio del piacere. in Opere, vol. 9. Torino: Bollati Boringhieri, 187-249.
Hölderlin, F. (2019). Note all’«Edipo». In Prose, teatro e lettere, Milano: Mondadori, 763-773.
James, H. (1984). La fonte sacra. Torino: Einaudi.
Kant, I. (1995),.Critica della ragione pura. Milano: Adelphi.
Lowry, M. (1961). Sotto il vulcano. Milano: Feltrinelli.
Michaux, H. (1998), Postface a Mes propriétés. In La nuit remue, in Œuvres complètes, vol. I. Paris: Gallimard, 511-512.
Nietzsche, F. (1991), La gaia scienza. in Opere, vol. V, tomo II. Milano : Adelphi, 13-323.
Proust, M. (1976), Jean Santeuil, Torino : Einaudi.
Zola, É (2019). La bestia umana, Milano: Rizzoli.
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[1] Al passo si rimanda in Deleuze 1997: 115.
[2] Si avverte che i passi delle traduzioni italiane cui si rimanda vengono spesso citati con modifiche.
[3] Cfr. Zola 2019; Scott Fitzgerald 1961. Sul racconto di Fitzgerald, si veda anche Deleuze & Guattari 2017: 287-289.
[4] L’espressione citata da ultimo fra virgolette rimanda a un concetto nietzschiano: cfr. l’aforisma La grande salute, in Nietzsche 1991: 307-309.
[5] La fonte sacra è il titolo di un romanzo di Henry James del 1901 (1984).
[6] Deleuze rimanda a queste pagine in Deleuze & Guattari 1997: 163 e in Deleuze 1996: 16.
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Del modo di esistenza degli oggetti tecnici
Recensioni / Ottobre 2021Del modo di esistenza degli oggetti tecnici di Gilbert Simondon, tradotto in italiano da Antonio Stefano Caridi per i tipi di Orthotes (2020), è ormai un piccolo classico. Eppure si tratta di un’opera che non ha quasi nulla del classico: popolato di tubi elettronici e motori di trazione, articolato in tre parti piuttosto disorganiche e solo di rado disposto ad aperture di senso rivelatrici, è un libro quasi contrario alla vocazione del grande saggio umanistico moderno. Quando venne pubblicato nel 1958, diede voce a un certo clima di insofferenza generale verso le Humanités: «più nessuno può vivere una vera cultura umanistica, anche volendo e avendone i mezzi materiali», scriverà qualche anno più tardi Abraham Moles (2012: 32). Simondon fa sua questa diagnosi sin dall’inizio degli anni ’50 – lui che aveva fondato un atelier di tecnologia nel liceo di provincia dove insegnava, che leggeva appassionatamente Louis de Broglie e Norbert Wiener, che studiava psicofisiologia appena uscito dalle aule di filosofia de la rue d’Ulm.
Ciò che l’umanesimo sembrava aver dimenticato è che la nozione stessa di cultura si basa sull’idea che l’uomo vive in un ambiente tecnico e macchinico. Questo dato di artificialità fondamentale del milieu umano funziona come una sorta di messa a terra di quel regno dei fini che, quando viene separato dal dominio dei mezzi, diviene apparato di conservazione dei valori. È invece proprio il regno dei mezzi a produrre umanità: ancora prima del linguaggio e del concetto, la tecnica è per l’uomo «il modo più concreto del potere di evolvere» (Simondon 2017: 266). Essa è innanzitutto potenza produttiva di senso. La nozione di senso, tuttavia, sfugge al dominio esclusivamente umano nel momento in cui si riconosce come trascendentale rispetto all’umano stesso. In altre parole, se il mezzo e la componente materiale assumono un ruolo essenziale e non semplicemente veicolare nella dinamica evolutiva, allora la dinamica riflessiva secondo cui l’uomo costituisce sé stesso raddoppiando la propria natura si rende opaca e si interrompe: il mondo non è più lo specchio dello spirito.
Del modo di esistenza degli oggetti tecnici entra subito in dialogo con l’altra grande opera di Simondon, L’individuazione alla luce delle nozioni di forma e informazione. La tesi che in chiave diversa è portata avanti in entrambe le opere è che l’informazione, intesa come regime di atti disparanti generativi, è principio primo della realtà e della conoscenza umana. L’informazione è articolazione ontologica individuante che si esprime nei modi d’esistenza stessi delle forme, intese secondo il loro carattere processuale e diveniente. In Del modo di esistenza degli oggetti tecnici tale paradigma si specifica nel senso delle potenze proprie all’inorganico artificiale, l’oggetto tecnico in quanto campo di affetti ed essenza singolare. Come nota Deleuze a proposito del concetto di dispositivo, «è già molto tempo che pensatori come Spinoza o Nietzsche hanno mostrato che i modi d’esistenza dovrebbero essere pensati secondo dei criteri immanenti, secondo il loro tenore di “possibilità”, di “libertà”, di creatività, senza alcun appello a dei valori trascendenti» (Deleuze 2007: 24).
La tesi portata avanti da Simondon è che l’oggetto tecnico è stato sistematicamente trasposto sul piano di valori ad esso trascendenti. La forma tecnica è il terreno in cui si afferma la ragione strumentale tout court, in cui ogni oggetto è inteso sin da subito come strumento e privato di autonomia ontologica. Più un oggetto dipende dall’uso che l’uomo ne fa, più gli si impedisce di esplicare il proprio specifico ambito di potenze. La forma tecnica dev’essere invece compresa come un modo in cui dell’informazione è espressa; così essa si rivela parte di una vicenda che supera sia l’oggetto che il singolo soggetto utilizzatore, una vicenda di transustanziazione di immagini e essenze di utilizzazione. Ogni oggetto tecnico articola un’essenza formativa che implica un numero indeterminato di concatenamenti con il reale; perciò esso porta sempre con sé un «margine d’individuazione» e di formazione ulteriore, analogamente a ogni altra forma reale. Assumere uno sguardo immanente a questi processi, per Simondon, significa smettere di trattare gli oggetti come schiavi e intraprendere una nuova relazione di trasparenza con il mondo.
Ciò che caratterizza questo “platonismo macchinico” di Simondon è il gesto di «convocazione», per dirla con Latour, tramite cui entità ontologicamente neglette vengono infine incluse – seppur nella loro differenza specifica – nel cerchio dei protagonisti della realtà. Lo sfondo di questo gesto è un pluralismo metafisico delle potenze, suggerito dal concetto stesso di “modo di esistenza” ed esplicitato nell’idea di informazione come principio generativo dell’Essere. L’oggetto è un compito formativo, un processo in cui possiamo soltanto innestarci, per intuizione dunque, per conoscenza genetica. «Non basta, in effetti, entrare con l’operaio o lo schiavo nell’officina, o anche prendere in mano lo stampo ed azionare il tutto. Il punto di vista dell’uomo che lavora è ancora molto esteriore rispetto alla presa di forma, che è la sola cosa ad essere tecnica in sé stessa. Occorrerebbe poter entrare nello stampo con l’argilla, farsi insieme stampo ed argilla, vivere e provare la loro operazione comune per poter pensare la propria forma in sé stessa» (p. 261). A questo scopo, l’uomo non può che farsi inventore e, perlomeno in un certo senso, filosofo.
La traduzione di Antonio Stefano Caridi consegna ai lettori italiani un libro che, dopo la sua recente riscoperta, si è rivelato fondamentale per il pensiero contemporaneo. Dal punto di vista strettamente filosofico, tornare a leggere Simondon potrebbe sciogliere tanti falsi problemi intorno alla questione degli oggetti (per esempio quelli sollevati dall’ormai celebre ontologia di Graham Harman 2021). Simondon, inoltre, ci indica un modo per superare non soltanto l’antropocentrismo prometeico più manifesto, ma anche l’antropocentrismo larvato che appartiene alla spiegazione antropologica della tecnica. In tal senso Du mode d’existence rimane inservibile per quella linea – del tutto legittima entro i suoi confini – che va da Ernst Kapp a Bernard Stiegler e che vede nella tecnica un modo tutto umano per elaborare la distanza da un ambiente, ancora inteso come un universo oggettivo da cui distillare senso. Per Simondon, è invece proprio un ambiente informativo ubiquo e compenetrante a fornire il campo della continuità possibile tra umanità e tecnicità. Poche lezioni sulla tecnica risultano ancora così fertili e paradigmatiche dopo più di cinquant’anni dalla loro enunciazione.
di Gregorio Tenti
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Bibliografia
Deleuze G. Che cos’è un dispositivo?, Cronopio, Napoli 2007.
Harman G. Ontologia Orientata agli Oggetti. Una nuova teoria del tutto, Carbonio editore, Milano 2021.
Moles A. Sociodinamica della cultura, a cura di G. Gamaleri, Armando, Roma 2012.
Simondon G. Cultura e tecnica, in Id., Sulla tecnica, a cura di A.S. Caridi, Orthotes, Napoli-Salerno 2017.
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L’Universo come cinema in sé
Recensioni / Settembre 2021Ogni appassionato di cinema lo sa: quello che cerca, guardando un film, non è soltanto una fuga dal proprio quotidiano – magari attraverso l’intermediazione delle vite altrui, immaginarie o meno che siano –, ma una certa, difficilmente definibile estraneazione dal “sé”, un modo per disaderire sic et simpliciter da quel centro gravitazionale per il resto onnipresente che è il proprio stesso “io”. Ciò che insomma seduce, sino al fanatismo, nella settima arte, non è tanto o solamente la capacità di raccontare storie, ma di immettere piuttosto lo spettatore in uno svincolamento possibile dalla sua prospettiva personale, di, in altre parole, autorizzarlo per un certo tempo ad abbandonare le rive tumultuose del proprio monologo interiore in favore di una partecipazione tendenzialmente assoluta al divenire delle cose (‘cose’ di cui faranno parte, a questo punto, persino le persone rappresentate). È per questo motivo che Gilles Deleuze, proseguendo un’intuizione che era già stata prima, perlomeno, di André Bazin («Il cinema come mummia del tempo») e di Pier Paolo Pasolini («Il cinema come lingua scritta della realtà»), ha riconosciuto nel cinema la facoltà di pensare, a tutti gli effetti, e anzi di permetterci di riconoscere come lo stesso universo possa essere a sua volta pensato alla stregua di un «cinema in sé». In quei due capolavori che sono L’immagine-movimento (1983) e L’immagine-tempo (1985), il dispositivo cinematografico assurge infatti a metodo di indagine cosmologico e persino cosmogenetico, rivelando a tutti noi che il mondo è tutto fuorché un semplice tutto, dato e costituito come un «Grande Oggetto» (Roger Chambon), ma si configura piuttosto come un complesso cangiante di processi infinitamente prolungati gli uni negli altri, come uno specchio mutevole, insomma, del pensiero in atto.
È questa allora la tesi che campeggia al centro di Cosmogenesi dell’esperienza. Il campo trascendentale impersonale da Bergson a Deleuze (Mimesis 2021, pp. 314), primo e importante libro di Giulio Piatti. Pur dedicando soltanto una parte della sua indagine al cinema (pp. 217-37), questo studio permette infatti di reperire nel cuore di una certa tradizione filosofica novecentesca una tendenza sempre più precisa e acuminata a vedere nel reale la sua stessa messa in immagine e anzi a cercare in un reale liberato di ogni ipoteca antropocentrica l’origine tanto della nostra prerogativa a rappresentarci il mondo quanto della predisposizione del mondo a divenire rappresentazione, secondo un modello di intelligibilità che eleva la genesi a forma vera dell’ontologia.
Un campo trascendentale impersonale non è quindi soltanto un concetto, ma una serie generativa di (altri) concetti. Si tratta di qualcosa che Henri Bergson interpreta, sia pure non servendosi dell’espressione, come insieme di immagini in sé e per sé (immagini di niente e per nessuno), assimilandolo a una materia in cui la percezione, ricondotta al suo stadio più puro, spogliata di ogni ricordo interpretativo, sarebbe come «già scattata» nelle cose stesse (pp. 31-72). È da qui che l’esperienza propriamente soggettiva sorgerebbe, nel momento in cui un corpo vivente comincia a deflettere un movimento materiale che altrimenti si propaga senza sosta in tutte le direzioni e su tutte le superfici. Ma si tratta anche di ciò che Raymond Ruyer, contestando a sua volta Bergson, è costretto comunque a rintracciare nella stoffa della sensazione, da pensarsi come modello di ogni coscienza e dunque di ogni essere veramente unitario (dall’elettrone all’universo). Da pensarsi come, in altre parole, una superficie che, senza poter prendere le distanze lungo una qualche perpendicolare, è comunque in presa diretta su di sé, quasi che il soggetto della sensazione fosse diffuso senza velocità limite in ogni punto del suo sentire e del suo essere al contempo la sensazione che ha (pp. 160-164). Ancora, è quanto Maurice Merleau-Ponty si troverà a ipotizzare per correggere in corso d’opera la rigidezza bipolare dell’intenzionalità husserliana e riuscire a pensare un percepire che è già sempre incarnato e co-implicato con il mondo, secondo un chiastica convergente-divergenza o divergente-convergenza che spariglia una volta per tutte la correlazione lineare tra soggetto e oggetto (pp. 149-153). E, infine, sarà il piano d’immanenza che Deleuze stesso e Félix Guattari evocheranno nella loro ultima opera, Che cos’è la filosofia? (1991), come operazione archetipale che ogni filosofo deve compiere per resistere a quel caos che dissipa altrimenti ogni pensiero e che pure bisogna poter frequentare per trarne nuova linfa, sia essa filosofica, artistica o scientifica (p. 213 e ss). Lo stesso piano che il solo Deleuze aveva già identificato appunto come la prestazione più tipica del cinema (soprattutto in alcune delle sue espressioni più tipicamente anti-narrative), quale sua capacità di restituirci a una visione che, per quanto strano possa sembrare, ci fonda senza mai essere stata nostra e senza poterlo mai essere del tutto.
Il campo trascendentale impersonale altro non è, insomma, che il cinema come reale o il reale come cinema, in quanto fattore di radicamento immediato della gnoseologia nell’ontologia, del sapere nell’ente, della ricerca nel mondo. La peculiarità di un trascendentale desoggettivizzato consiste infatti nel mettere in comunicazione, rivelandone l’irriducibile simmetria, il fulcro centripeto della conoscenza con quello centrifugo, vale a dire, nel mostrare come il presupposto di ogni apprensione conoscitiva sia anche il terminus ad quem ultimo della stessa.
Persino nei nostri traffici meno teorici, non possiamo fare a meno infatti di basarci su una cieca «credenza» nel reale che nessuno meglio di Deleuze ha saputo tematizzare, una credenza che la dialettica altrimenti interminabile di «comprensione» e «incontro», declinata in termini fenomenologici da Jean Hyppolite nel corso di un convegno Husserl delle 1957 a Royaumont (p. 155 e ss.), impone di ricollocare appunto sullo sfondo di un campo trascendentale a-soggettivo. È questa credenza che il nome di “trascendentale” significa, in ultima istanza, e che un certo gesto filosofico converte in questione esplicita, conferendogli per l’appunto lo statuto di un’implicatura a doppio senso tra pensiero ed essere, tra conoscenza e mondo, tra logica ed esistenza. Cosa altro sta ad indicare, infatti, la questione posta da Kant circa la legittimità dei giudizi sintetici a priori se non lo sforzo di un pensiero che, legiferando in maniera necessaria e universale su una materia interna al suo medesimo operare, costituisce nondimeno un incremento effettivo di conoscenza? Che cosa sta a segnalare, appunto, quest’intreccio se non la possibilità per il pensiero di toccare l’essere almeno quanto si lascia toccare da esso, restando in se stesso? Sia pure in maniera ancora insufficiente, perché troppo ancorata allo stampo dell’empiria (sostanzialmente, della coscienza), il pensatore di Könisberg ha proiettato comunque la conoscenza al di sopra di sé, nell’incrocio in cui il suo guardare si costella insieme al suo fare e in cui non si dà più alcun altro reale oltre un differire da sé intrinsecamente «autopoietico» (così lo definisce efficacemente Piatti).
A parte allora la sibillina previsione foucaultiana circa l’avvenire del suo pensiero (che avrebbe dovuto informare di sé il XXI secolo), c’è forse un motivo poco avvertito all’origine dell’interesse con il quale la filosofia del presente continua, con un grado di ossessività altrimenti incomprensibile, a rivolgersi all’opera di Deleuze. La sua riflessione non si limita infatti a proporre un’ontologia tra le altre, fondata magari sul ruolo auto-costitutivo della differenza e/o su quello sovversivo dei divenire (con Guattari), ma conferisce alla stessa esigenza filosofica di totalizzazione dell’esperienza la sua ultima giustificazione. Deleuze, in altre parole, è il filosofo che più di ogni altro ha fatto della necessità in quanto tale di filosofare l’architrave della propria concezione del reale, rendendo così particolarmente arduo, ai suoi successori, proseguire su questa strada senza rendergli un ripetuto omaggio. C’è insomma una sorta di esplosione proiettiva, nella sua opera, che, per quanto per lo più non vista, ne fa uno dei luoghi in cui la filosofia, pur conservandosi del tutto realista, si ritrova comunque a contemplare la propria immagine, a vedersi insomma nel mondo come la superficie cangiante nella quale prende forma ogni realtà. La sua insistenza sulla scaturigine esternalista del desiderio di filosofia, come riposta a una sollecitazione che costringe letteralmente a pensare, è a tale proposito sintomatica: ne va della stessa situazione in cui si ritrova ciascun filosofo, quando sperimenta l’azione di un appello incessante di cui non coglie mai del tutto il senso, a meno che non ne faccia la cifra decisiva del reale stesso. Si capisce dunque il tenore quasi ossimorico di molte delle nozioni capitali della sua concezione. “Empirismo trascendentale”, “piano di immanenza”, “sintesi disgiuntiva”, solo per prendere tre esempi tra gli altri, realizzano una sorta di fusione a freddo di quanto per natura sarebbe dovuto rimanere separato: l’a posteriori e l’a priori, il liscio e lo striato, l’unario e il molteplice, ritrovando così nella “cosa stessa” la logica che anima da sempre la sua ricerca in-finita.
Per quanto si tratti infatti di una locuzione di Jean-Paul Sartre, escogitata in La trascendenza dell’ego (1936) per distanziarsi dalla piegatura egologica presa dalla fenomenologia husserliana, il “campo trascendentale impersonale” assume subito la portata di una meta-questione, atta a dare forma al gesto filosofico in quanto non si distingue più dal suo correlato paradossale. Nella prefazione, Rocco Ronchi la definisce appunto, con un’espressione di Arthur O. Lovejoy, un’«idea-unità» (p. 9), nozione distinta tanto dal singolo concetto, quanto dal principio generale, proprio dal fatto di avere una «carriera» (p. 10), un cursus specifico attraverso i pensieri di coloro che in modi sempre eterogenei pure vi si richiamano. Questo correlato non ha perciò più nulla dell’oggetto contrapposto a un osservatore, né tantomeno del soggetto che si ripiega su di sé per guardarsi guardare il mondo, come avviene per lo più in ambito fenomenologico, ma si presenta piuttosto sotto la forma di un mondo che si vede e che si costituisce mentre si vede, senza avere però mai alcun centro privilegiato da cui accedere a questa ‘visione’ che non sia il proprio stesso esistere. Leggendolo, assistiamo insomma a una lunga e sempre più decisa emersione di questa istanza teorica attraverso un corteo di filosofi che, nel corso del Novecento, si sono chiesti che cosa rendesse effettivamente possibile l’incontro conoscitivo, non più assimilabile semplicemente, dopo la débâcle kantiana della metafisica, alla forma paradigmatica di una relazione tra poli numericamente distinti e ontologicamente difformi (il soggetto e l’oggetto, la rappresentazione e la cosa, l’archetipo e il simulacro). Ne va insomma della stessa questione, come l’Autore si premura di sottolineare (pp. 288-9), sollevata da Menone, nel dialogo eponimo di Platone e che un Socrate stupefatto riassume con queste parole: «non è possibile per l’uomo ricercare né ciò che sa [perché lo sa già] né ciò che non sa [perché non saprebbe come riconoscerlo]!» (Men., 81a). In questa celebre aporia si profila un dubbio che, se spinto alle sue conseguenze più radicali, fa tremare non soltanto i polsi dei filosofi, in quanto disconnette per sempre ricerca e sapere, ma anche le fondamenta del nostro commercio quotidiano con il mondo.
L’ontologizzazione del Filosofico (con la maiuscola a capolettera) da parte della filosofia medesima è allora il vero oggetto della trattazione di Piatti. Il percorso proposto in queste pagine, nella sua ricchezza di riferimenti, è insomma una meditazione reiterata sull’inclinazione del pensiero a fare corpo con il suo altro – l’essere – e a ritrovarsi quindi nel proprio altro in forza della sua essenziale estraneità. Si badi, infatti, sotto il nome iper-tecnico di «campo trascendentale impersonale» non si intende qualcosa di adeguabile o di avvicinabile attraverso un movimento che lo supponga esistente al di là di sé. L’esperienza si rivela nella sua fattura cosmogenetica, e quindi non più come l’attributo di un qualche genere di soggettività, soltanto nel momento in cui si mostra nella sua natura pressoché artificiale, nel suo essere il prodotto di una genesi pre-individuale che la pone insieme, simultaneamente, a tutti i suoi altri prodotti (in senso stretto individuali e persino personali). L’effettuarsi dell’esperienza rimane lo stesso, che lo si trovi dal lato del soggetto o da quello dell’oggetto.
L’enunciato chiave della prospettiva di Piatti è perciò il seguente: «L’esibizione delle strutture cosmogenetiche del reale coincide insomma con la costruzione stessa del mondo che si abita» (p. 286). Questo enunciato ha infatti un’implicazione cruciale: esso stabilisce una corrispondenza tra il metodo filosofico e quello scientifico che ci permette di aggirare molte delle difficoltà che affliggono ancora il dibattito speculativo contemporaneo, caratterizzato spesso da una certa, residuale diffidenza nei confronti della scienza o da una simmetrica resa totale nei suoi confronti. Tale enunciato, in altre parole, si pone come il titolo di un programma filosofico che trova la propria scientificità, si parva licet, nel suo prestarsi a una in-finita serie di riformulazioni, ogni volta più approfondite. Il «costruzionismo» di questa concezione fa tutt’uno allora con il carattere a sua volta costruttivo del dispositivo discorsivo scientifico, il quale riconosce nel reale soltanto ciò che può ri-produrre grazie agli apparati formali e materiali delle tecnologie matematiche e sperimentali di cui si dota. Esso si identifica insomma con il non plus ultra del «naturalismo» (p. 287), ovvero, con la sostanza mutevole di una natura non-umana accessibile solo trasformandola. Ecco dunque che la ricognizione condotta da Piatti ci porta su una soglia critica con la quale la filosofia stessa ha da confrontarsi oggi, se non vuole rinunciare al suo compito propulsivo non tanto di scientia scientiarum (ruolo intenibile per tanti motivi) ma, si potrebbe dire, di tecnica delle tecniche, nella loro insindacabile e indispensabile pluralità.
Al di là della maggiore o minore confidenza che si può avere con il dibattito che il libro ricostruisce accuratamente – transitando anche attraverso l’ampia diatriba sulle aporie dell’intenzionalità fenomenologica dipanatasi tra gli anni ‘20 e gli anni ‘50 dello scorso secolo e le traversie del bergsonismo riletto da Vladimir Jankélévicth, Georges Canguilhem, Gilbert Simondon, Bento Prado Jr. e Victor Goldschmidt –, la questione in ballo è quindi immediatamente tangibile. Si sta parlando di vita – cos’altro dovrebbe essere infatti una tecnica delle tecniche? –, una vita da intendersi tanto in termini esistenziali che biologici, a questa altezza inscindibili. Si sta concependo una vita, in breve, che si concreta in una operazione sempre fallita eppure mai veramente evacuata come impossibile, una vita risolta in un tentativo di essere qualcosa di definito, e al limite di definitivo, coincidente però a sua volta con la propria costante messa in questione e quindi con la sua costante trasmutazione. Il vitalismo ostinatamente rivendicato da Deleuze (p. 240 e ss.) è in questo senso oltremodo rivelativo.
La messa a fuoco del virtuale, nella vicenda allestita da Piatti, assume perciò un valore emblematico, capace di portare alla luce l’agentività stessa del Filosofico e della vita in generale. Il «ricordo puro» di cui parla Bergson in Materia e memoria (1896) e al quale non attribuisce nessuna efficacia determinata, se non quella di un’ipotesi teorica simmetrica a quella altrettanto «di diritto» della percezione pura, si rivela, nel prosieguo dei riarrangiamenti che subisce arrivando nelle mani di Deleuze, dotato di una sua specifica operosità, riconducibile al tentativo di fondare un’esperienza propriamente filosofica, distinta da tutte le altre esperienze di cui la nostra specie è capace. Un’esperienza che ha come sua cifra paradigmatica una certa auto-progressione, un lento procedere non verso qualcosa d’altro, ma verso se stessa, nel suo restare comunque parzialmente opaca al proprio medesimo sapere (come accade d’altronde a tutte le altre nostre attività, almeno sin quando non se ne fa carico, appunto, la filosofia). Un’esperienza che ci rivela inerenti, insomma, al cosmo in quanto è una genesi e non uno stato di cose, più o meno articolato che sia. Ecco perché Piatti, con sottile quanto significativa decisione, insiste col chiamare l’insieme delle immagini bergsoniano un «sistema» (p. 32) delle immagini. Il “sistema” (dal greco synistemi, “raccolgo”) è l’elemento elettivo dell’esperienza filosofante, in quanto resta al di qua (o al di là) di se stessa, nel mentre che ne ricava sempre ulteriori prospezioni. Il virtuale si mostra insomma quale statuto della filosofia, in quanto non riesce mai del tutto nel compito al quale non può comunque rinunciare: istruire un sistema in cui tutte le altre esperienze possano tenere e fare uno. Un’esperienza delle esperienze, insomma, che le raccordi lasciandole essere per quello che sono (e per quello che stanno diventando, soprattutto). In tal senso, le analisi di Piatti sono rilevanti anche nella misura in cui riconoscono una sorta di andamento a soffietto che contraddistingue tanto la metafisica di Bergson, quanto quella dei suoi variegati prosecutori, e che scandisce la stessa forma dinamica dell’universo come cinema in sé. Questo andirivieni conservativo e cumulativo tra presupposto e risultato, tra premessa e conclusione, dà la misura dell’estendersi delle considerazioni bergsoniane da un nucleo soggettivo-interiore (nel Saggio sui dati immediati della coscienza, del 1889) a uno sempre più apertamente cosmologico-evolutivo [in L’evoluzione creatrice e Durata e simultaneità, innanzitutto, (1907, 1922)], con un procedere che mima di fatto la vitalità dello stesso campo trascendentale impersonale. L’archetipo diventa qui simulacro del suo simulacro almeno quanto l’inverso e l’immagine si sutura infine senza scarti al suo referente. È così che viene in chiaro insomma la forma logica della progressività filosofica, manifesta soltanto allo sguardo di chi, con ritrovata consapevolezza del proprio mestiere, non si limita a guardarsi guardare, ma si si impegna a «vedersi vedersi» (Paul Valéry). Di colui, in breve, che tenta di cogliere non solamente il mondo nello specchio della sua apprensione soggettiva, ma come immagine cangiante della medesima dislocazione di sé che è necessario compiere per reperirsi nel mondo, quale essere già da sempre immerso in esso. Per dire la cosa altrimenti, che si scopre quale effetto di un’auto-differenziazione che coincide immediatamente con il divenire delle cose, quali che siano, e che le mette in comunicazione, senza alcun grado gerarchizzato o stratificato di partecipazione, con un principio sempre anche immanente a ciascuna di esse. Donde le splendide osservazioni riservate al processo di cristallizzazione (p. 250 e ss.), come modello di qualsivoglia genesi.
Allo stesso modo in cui è allora possibile leggere nella fisica relativistica un colpo di sonda nelle condizioni di osservabilità empirica del reale (fissate una volta per tutte dal valore-limite della velocità della luce) e nella meccanica quantistica un’insorgenza di quelle relative alla spiegazione scientifica in generale (come ha notato di recente Sergio Benvenuto su Philosophy Kitchen, identificandole nei paradossi della localizzazione che caratterizzano quella disciplina), così è possibile rintracciare nella direttrice di pensiero ripercorsa da Piatti un chiarimento sempre più dirimente di che cosa significa pensare e di come il pensiero non pensi mai altro che se stesso, pensando anche sempre qualcosa di altro da sé. È qui che il filosofo, guardandosi allo specchio, raggiunge il mondo stesso, esce fuori di sé e si confonde con la polvere di stelle di cui è fatto (il) tutto. Per provare quindi a rispondere a Menone, secondo questo impianto teorico, si dovrebbe dire che si cerca sempre quello che non si sa, ma solo perché si crede, si crede solamente, di saperlo già.
Ora, l’uso della scienza da parte della filosofia avviene quasi sempre sul crinale malfermo delle difficoltà incontrate dalla prima. Non è in forza delle convergenze tematiche oggettive tra funzioni scientifiche e concetti filosofici che il filosofo è chiamato a sua volta a dare una sistematizzazione di risultati per altro tra loro non necessariamente (e anzi, necessariamente non) comunicanti, ma grazie appunto alle scuciture, alle esitazioni e alle impasse che caratterizzano e forse caratterizzeranno per sempre il discorso scientifico. Il filosofo ha insomma l’ambizione di ‘curare’, per dir così, l’esperienza efficace della scienza dalla sua pur inevitabile dispersione, di farne il punto di partenza di una qualche sintesi integrale, in cui ci si possa riconoscere anche il famigerato “senso comune”.
Non è vero però l’inverso. Lo scienziato ha sì bisogno di filosofia, ma, come è stato notato per esempio da Canguilhem, non alla stregua di un ausilio finalizzato alla contestualizzazione metafisica delle proprie asserzioni. È piuttosto nella funzione di un’ideologia da scardinare, di un sistema di credenze da far saltare, che la filosofia interviene all’interno del lavorio continuativo dei saperi positivi; è come errore da emendare, insomma, che il palinsesto teorico volto alla “totalizzazione dell’esperienza” può funzionare fruttuosamente nel procedimento della ricerca scientifica, pronta a istruirsi nello spazio vuoto (nello spazio svuotato) lasciato dal primo. Anzi, quando ci si serve di ritrovati filosofici in ambito scientifico si corre spesso il rischio di dogmatizzare inutilmente quanto invece fa la forza dell’impresa scientifica moderna – la sua fallibilità esibita senza vergogna e il suo tenore auto-critico organizzato tecnologicamente e collettivamente. La scienza pretende insomma di curare a sua volta l’intelletto umano dalla sua peraltro irresistibile tendenza alla totalizzazione. A meno che, con una piroetta meta-filosofica degna di un acrobata del pensiero, il filosofo non si chieda che cosa rende concretamente possibile la sua stessa pratica e faccia persino di questa domanda, portando la propria vocazione riflessiva al suo punto critico, l’oggetto privilegiato e inesauribile della propria interrogazione. A meno che, insomma, il filosofo non arrivi a lambire direttamente il cuore della pratica che lo riguarda, cuore isomorfo, nel suo chiedere conto della possibilità medesima del filosofare, alle virtù della scienza in senso stretto, perché esposto, infine, a un continuo e felice fallimento.
Per quanto allora non si fondi su un confronto circostanziato con i risultati scientifici della contemporaneità, il lavoro di Piatti fornisce una perlustrazione preziosa tanto da un punto di vista metafisico quanto, a ben vedere, da uno epistemologico e, quindi, meta-filosofico. È infatti in questo nodo – in questo sovrapporsi vertiginoso di immagine e reale o di interrogazione e genesi – che scienza e filosofia si incontrano a loro volta, alla luce, reciprocamente, delle loro insufficienze e dunque del loro (de-)completarsi, per così dire, a vicenda. Tanto il filosofo che lo scienziato scoprono qui di aver a che fare con uno sfondo fungente di processi che li travalica, insediandoli però nella loro postura interrogativa, istituendoli anzi come interrogazione continuata che il mondo opera su se medesimo. L’universo come cinema in sé appare insomma in forma di una domanda che le cose pongono a se stesse, incessantamente (donde la deleuziana attribuzione di statuto del reale al «problematico» in quanto tale). La nostra credenza inossidabile nel reale può perciò coincidere infine con la sua incessante ri-costruzione e la cura scientifica dalla totalità diventare la stessa cosa della cura filosofica dalla disseminazione.di Daniele Poccia
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Che cosa non può un corpo
Il corpo umano ha una storia, oltre che una natura, una storia che risponde all’insieme, mutevole e indefinito, delle sue protesi e dunque delle sue potenze. Ecco perché definire le potenze del corpo umano ha sempre rappresentato un’impresa pressoché disperata. Nel momento in cui si comincia a enumerarle, non sono già più le stesse. Per questo il sapere tragico greco preferiva caratterizzare il nostro modo d’esistenza ricorrendo al titolo, a un tempo onorifico e problematico, di «il più inquietante» (to deinoteron: Soph Ant. vv. 333; Sofocle 1982, 83): il corpo umano può sempre di più di quello che sembra, si proietta sempre in un processo di ampliamento «postorganico» (Macrì 2006) delle sue potenze che ne incrementa il novero almeno quanto ne altera sistematicamente il tipo. È sempre insomma un corpo intrinsecamente allargato e allargabile. La tecnica, in effetti, funziona innanzitutto come uno ‘sviluppatore’ (in estensione e in intensione) delle possibilità relative alle interazioni che il corpo può intrattenere con l’ambiente esterno e con gli altri corpi che lo abitano. Le determina nella stessa misura in cui le modifica in (quasi) tutta la loro profondità.
Ora, questa storia, la cui vicenda si sovrappone in larga parte alla storia delle sue riuscite evolutive, è anche la storia di come abbiamo imparato, per così dire, a non preoccuparci e ad amare il nostro destino di animali incompleti. Sappiamo infatti che, nonostante le innumerevoli difficoltà a cui andiamo sistematicamente incontro, esiste la possibilità ventura di risolverle, facendo leva su quella naturale propensione all’alterazione tecnica, e cioè all’artificializzazione al contempo del nostro corpo e dell’ambiente circostante, che contraddistingue da sempre l’operato, individuale o collettivo, della specie a cui apparteniamo. È in questo quadro che si inserisce allora il portato di quanto attualmente si definisce “medicina digitale” e le cui implicazioni sono ancora soltanto sul punto di manifestarsi in tutta la loro sconvolgente ampiezza. Oggi, infatti, al tempo della medicina digitale, il corpo parla sempre di più direttamente dei suoi stati, descrive con precisione inaudita la vicenda una volta segreta dei suoi umori, si squaderna sul fuori di un’automazione sempre più capillare e pervasiva, rivelandosi così allo sguardo indagatore del mondo e rendendosi disponibile per i nuovi attori (e, soprattutto, per i nuovi attanti automatizzati) di questo mondo. Sembrerebbe quasi che non ci sia quasi più nulla di inquietante, più nulla di ignoto o di impregiudicabile, in esso; che l’ignoranza del corpo in cui veniamo da sempre al mondo sia insomma, finalmente, un ricordo ormai lontano.
L’introduzione di metodi, pratiche e dispositivi clinici che fanno appello a una qualche forma di supporto digitale è perciò il segno di una rivoluzione epistemologica e performativa senza precedenti. Una rivoluzione che si delinea innanzitutto sul piano di quanto potremmo battezzare il nuovo regime di immediazione – ovvero, di paradossale convergenza di mediazione e immediatezza – che qualifica l’esperienza ricalcolata dalla sua massiva conversione digitale. Se c’è infatti un tratto definitorio dell’infosfera digitale esso risiede nell’implementazione sistematica e capillare di tecnologie di «terzo ordine» (Floridi 2017, 28 sgg.), ovvero di tecnologie che non mediano più semplicemente tra l’umano e la natura, o tra l’umano e altre tecnologie, ma tra tecnologie e tecnologie, in una catena di passaggi indefinitamente estensibile. Questa situazione incide infatti in maniera straordinaria sulla percezione che abbiamo del nostro rapporto con il reale e soprattutto con la nostra corporeità. Il corpo coinvolto nella digitalizzazione appare sempre di più come un corpo tanto cognitivamente trasparente quanto pragmaticamente indisponibile, perché sequestrato dalla sua stessa capacità di estendersi oltre il proprio perimetro organico. Il corpo che si guarda attraverso le interfacce di un apparato tecnologico in cui non c’è limite, in via di principio, al numero di immediazioni possibili mediante le quali supplementarlo, appare insomma come un prodotto che si sottrae al controllo individuale, presentandosi piuttosto come il dato di fatto insindacabile di un operare che nessuno ha deciso in piena scienza e coscienza.
Partiamo quindi da un esempio, senz’altro tra i più impressionanti. Esistono già farmaci «con integrato un sensore assimilabile dal corpo umano che, dopo l’ingestione, viene attivato nello stomaco al contatto con i succhi gastrici» (Collecchia, De Gobbi 2020, 148). «L’attivazione determina il rilascio di un segnale elettrico che, trasmesso a un apposito cerotto applicato sul corpo del paziente, viene trasmesso via bluetooth alla app del suo smartphone, che segnala al medico o al caregiver l’effettiva assunzione del farmaco» (Collecchia, De Gobbi 2020, 148). Il medico, o chi per lui, non è più costretto allora a chiedere conto al paziente della sua condotta, per verificare se sia compliante o se invece resista alla somministrazione della cura: ci pensa l’azione combinata della chimica farmaceutica e delle intelligenze artificiali associate. Il corpo comunica automaticamente con dispositivi che ‘parlano’ a loro volta con l’operatore sanitario di turno. L’interno del corpo ‘discetta’ insomma dei suoi stati, acquisendo così una trasparenza senza precedenti, a detrimento della stessa capacità del diretto interessato di riferire, o meno, sul loro corso, come del destinatario di interrogare in maniera direzionata e non casuale quel corpo. Mai come oggi la domanda sulle potenze del corpo sembra dunque sul punto di poter ricevere una risposta risolutiva. Il monito deleuziano-spinoziano «noi non sappiamo che cosa può un corpo» (Deleuze 1999, 169) non sembra avere appunto più la cogenza di un tempo. È la stessa postura metafisica dell’essere umano a conoscere in tal modo un fondamentale punto di non ritorno: una volta preso atto del nuovo sapere in merito alle potenze del nostro involucro terreno, non c’è più speranza di tornare all’innocenza edenica di chi ignora il proprio stesso ignorare, al non-sapere di non-sapere che qualifica inizialmente la condizione vitale. Si badi, infatti, quel che davvero costituisce una novità, in questo scenario, è non soltanto l’immediatezza, almeno apparente, della comunicazione con cui i dati organici diventano disponibili, cosa non certo inedita (l’uso di uno stetoscopio su di sé lo rendeva già possibile, banalmente), ma l’impossibilità di intervenire in modo volontario e puntuale, insomma: individuale, sulla loro acquisizione e sulla loro modulazione. La suddetta immediazione non implica altro che questo: siamo in presa diretta su noi stessi, abbiamo piena aderenza sulle variabili fisiologiche dalle quali dipende il buon funzionamento del nostro corpo e persino, in taluni casi, la sua stessa sopravvivenza, ma siamo completamente estromessi dal controllo su come questo avvenga.
Una prima considerazione di senso comune conduce però a sostenere che un corpo non è mai un sistema in cui il sapere e il potere possano andare completamente di pari passo. C’è come uno scarto costitutivo tra il sapere qualcosa e il poterlo essere, uno scarto per il quale vale il motto lacaniano «penso dove non sono, dunque sono dove non penso» (Lacan 2002, 512), ammettendo che ogni sapere risposi necessariamente su un pensiero di qualche tipo. In fin dei conti, la nota definizione della salute quale «vita nel silenzio degli organi»[1] esprime esattamente questo fatto primordiale. Il corpo sano è un corpo che non si sente (che non si sa o che non si pensa), al cui uso non corrisponde necessariamente e anzi necessariamente non corrisponde un sapere riguardo quest’uso: la cui presenza a sé, in altri termini, coincide con una paradossale assenza da sé. In materia di corporeità, l’opacità cognitiva fa tutt’uno insomma con la disponibilità pragmatica: il non-sapere che cosa può un corpo è parte integrante dell’essere un corpo sano, performante ed efficiente. Un corpo non potrebbe sapere allora di essere sano, continuando indisturbatamente a esserlo. Tra l’essere in salute e il sapersi in salute vi sarebbe come una discrasia archetipale, la cui forma potrebbe benissimo essere identificata con una sorta di basilare e impregiudicata incoscienza. Un certo grado di incoscienza risulterebbe indispensabile alla salute e direttamente proporzionale, in ultima istanza, al suo pieno dispiegamento. Questa, d’altronde, è una buona definizione di quella condizione di ‘ingenuità biologica’ in cui consiste la salute pre-patologica, ancora non incrinata dall’avvento della malattia. Il vivente come tale sarebbe incosciente di sé (del proprio corpo in azione) e per questo risulterebbe sano.
In tal senso, l’arte medica – e assumiamo qui che la medicina sia soprattutto «una tecnica o un’arte situata su un crocevia tra diverse scienze, piuttosto che una scienza in senso proprio» (Canguilhem 1998, 9-10) – si è configurata storicamente come una pratica di restaurazione dell’ignoranza perduta circa la propria corporeità. In altre parole, la medicina si è presentata per lo più come un insieme di procedimenti atti a far sì che dalla condizione dell’avere un corpo (dell’averlo come oggetto di un sapere), ingenerata dalla malattia, si potesse tornare semplicemente ad esserlo, come avviene tipicamente quando si è in salute (in cui si è il proprio corpo, e basta). La differenza tra stato fisiologico e stato patologico, sul piano del vissuto più immediato (sul piano in senso lato fenomenologico), risiede infatti in questa minima ma fondamentale discrepanza tra due relazioni verbali eterogenee con la propria corporeità: il corpo oggettivato, e quindi posseduto, è sempre l’esito di una qualche forma di distanza patologica, mentre il corpo vissuto, come una realtà immediatamente presente a se stessa, è il segno inequivocabile della salute. In altre parole, la medicina ha funzionato prevalentemente come l’arte che induce una restituzione alla propria genuina ignoranza, separandoci così da quel sapere (ciò che si è) in cui ci insedia invariabilmente la malattia. La medicina è un vettore di non-sapere, innanzitutto.
Tuttavia, la salute non si identifica sic et simpliciter con la normalità. Come è stato fatto notare magistralmente dal medico e filosofo Georges Canguilhem, la salute eccede la normalità, in forza di una differenza di natura che implica necessariamente un qualche rapporto con il non-sapere sul proprio corpo (con il suo possedere potenze ancora ignote). L’organismo sano non si limita infatti a essere normale. Piuttosto, è in grado di istituire nuove norme in relazioni alle «infedeltà dell’ambiente» (Canguilhem 1998, 162), ovvero, in termini meno antropomorfici, in relazione alle sue fluttuazioni (cfr. Canguilhem 1998, 162). In tal senso, essere sani non equivale a incarnare un qualche modello nomologico precostituito, ma a innovare il proprio comportamento psicofisiologico in funzione dei cambiamenti, anche drammatici, imposti dal mondo circostante. Un organismo sano è capace insomma di darsi la regola da solo, di essere, in una parola, auto-nomo. L’autonomia, d’altro canto, è la prova provata che per un essere vivente non basta adattarsi all’ambiente, interno o esterno, ma occorre anche saper adattare quell’adattamento specifico alle proprie esigenze individuali, per fare sì che tra norma data e norma preferibile (cfr. Cesaroni 2020, 136) vi sia una qualche coincidenza possibile. E questo è un compito sempre da ricominciare, se si considera che nulla nell’organismo è dato una volta per tutte, che “essere in salute”, in altre parole, vuol dire realizzare una sorta di convergenza tra stabilità e modificazione (cfr. Canguilhem 2007, 58). La medicina digitale, da questo punto di vista, non fa quindi che scoperchiare una situazione preesistente, la cui consapevolizzazione diventa ogni giorno più improrogabile e che reimmette brutalmente l’umanità nella continuità con il resto del mondo vivente. Non c’è mai stata un’innocenza biologica virginale per l’animale che supplementa il proprio agire protesicamente, come non c’è per un qualsiasi animale incapace di accedere alla possibilità di prolungare tecnicamente la propria corporeità (e di sapere quindi che non era normale). L’animale umano è sempre in cammino verso la propria digitalizzazione, non foss’altro perché la malattia, separandolo dal suo essere un corpo, e conferendogli quindi un sapere in merito da implementare in quella pratica che si chiama “medicina”, lo separa altresì dalla propria normalità, incitandolo a cercare una salute «più che normale» (Canguilhgem 1976, 235): normativa. Il digitale rivela[2] perciò una proto-digitalizzazione inclusa nella stessa natura normativa della salute, ovvero nel suo instaurarsi sempre sul limite di una frattura incoativa (cfr. Canguilhem 1998, 249), nel suo funzionare come un modo autonomo di avere il proprio corpo. Cosa altro può voler dire, d’altronde, che il senso proprio dell’essere sani contempla «l’abuso della salute» (Canguilhem 1998, 162), come sostiene sempre Canguilhem? Il digitale deve aver già fatto irruzione nel nostro sentire e nel nostro essere, rispetto al quale spetta sempre a noi di provare di nuovo a de-coincidere, come si potrebbe pure qualificare l’essere normativi, ossia la capacità di cambiare a proprio modo la normalità specie-specifica illustrata dal sapere bio-medico. È per questo motivo che il sapere di non-sapere svolge un ruolo capitale nella salute: senza di esso non c’è lo spazio, letteralmente, per fare qualcosa di quel che solamente si è. Al di là infatti dell’azione della vis medicatrix naturae, il cui portato risponde alla logica del puro non-sapere-come che informa in generale il vivere, la guarigione è sempre un processo dialettico, in cui non si ha mai una totale restitutio ad integrumdella situazione pregressa, quanto piuttosto l’acquisizione di una nuova norma di vita, talvolta persino superiore alla precedente, fondata necessariamente sulla consapevolezza della rottura biologica intercorsa nel frattempo.
Non è un caso allora che la relazione medico-paziente si sia strutturata in forma duale e che da questa dualità dipenda anche in larga parte la sua portata terapeutica: il sapere concernente la propria corporeità deve essere esternalizzato a sua volta presso un altro corpo (vivente e parlante), in cui, in breve, si possa essere a distanza da sé senza saperlo, riguadagnando quell’ignoranza senza cui la salute diventa letteralmente impossibile. Si può sperare di superare la distanza prodotta della malattia soltanto mediante la produzione di una distanza ulteriore, allineata e sovrapposta alla prima, che permetta così all’organismo di riconquistare la sua incoscienza rispetto a se stesso (fatto particolarmente evidente, d’altro canto, nella relazione psicoterapeutica). Soltanto una distanza al quadrato ricongiunge con il senza distanza della salute. Persino il monito evangelico “medice, cura te ipsum” ha un senso dunque assai relativo. Anche un medico può (ri)conoscere la propria corporeità, di cui peraltro è stato edotto dai suoi studi, soltanto nello sguardo dell’altro medico e può intervenire adeguatamente, al fine di ristabilire la propria salute, solo diventando altro da sé, reintroducendo così nel rapporto col proprio corpo la dualità che caratterizza per il resto, e in via di principio, la relazione medico-paziente. Che cosa succede, nondimeno, quando questa dualità supplementare e salvifica tende a decadere, in favore di una relazione immediata tra la tecnica e il corpo, e quindi tra tecnologie e tecnologie, come avviene esemplarmente nella medicina cosiddetta “digitale”? Che cosa non può (non può più o non può ancora) questo corpo, una volta che è stato dapprima separato dalla propria ignoranza e rimesso poi nella condizione di aderire sempre più compiutamente a se stesso, nello specchio dei suoi dati? L’analisi dell’intervallo tra questi due tempi – quello del distacco e quello della ricongiunzione digitale con la propria corporeità – è dunque essenziale per capire cosa stiamo diventando e, soprattutto, per capire come esserne all’altezza.
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Una normalità senza salute
L’ambito della medicina digitale si ritaglia all’incrocio di un vasto insieme di tecnologie – legate, essenzialmente, alla fase più recente di sviluppo delle intelligenze artificiali (dunque, dell’infosfera) – e prende la forma di sistemi di supporto decisionale (basati sul machine learning), di un monitoraggio continuo, remoto o meno, di variabili fisiologiche (per esempio attraverso l’utilizzo di wereable devices e/o di app specifiche) o, infine, mediante pratiche di telemedicina (che permettono di fare a meno, almeno in teoria, delle limitazioni e delle incertezze in cui incorre la relazione fisica medico-paziente). Quello che succede davvero, allora, è che la medicina comincia a poter fare a meno dei medici, dopo aver imparato a fare a meno, nel corso del secondo Novecento, del vissuto del paziente. Alla medicina ‘senza malati’ della tarda modernità (quella fondata sulle tecnologie diagnostiche di imaging e sull’uso sempre più diffuso di protocolli) si sta sostituendo infatti una medicina senza medici, il cui effetto può essere tanto un nuovo centramento sul malato e sul suo vissuto, improntato a una «democratizzazione della medicina e [a una] personalizzazione delle cure» (Moretti 2020, 84), quanto una sua definitiva esautorazione. Su questo crinale si apre insomma un campo di battaglia, definibile in termini di medicina postorganica. L’ambito del vissuto soggettivo, che si esprime anche fattivamente in una negoziazione possibile tra le richieste del medico e le esigenze di vita del paziente, è infatti l’occasione in cui prende piede e si articola la stessa normatività del corpo vivente e sofferente, nella forma di un adattamento individuale della cura che può comprendere anche, al limite, il suo rifiuto informato (o perlomeno un suo accomodamento imprevisto). Un ambito che oggi è in questione, proprio perché attaccato, per così dire, su entrambi i suoi due fronti.
Il superamento della dualità medico-paziente in favore di una immediazione della medicina che rende virtualmente possibile una medicina senza operatori consapevoli è dunque sì un punto di non ritorno, come abbiamo detto, ma, allo stesso tempo, lo è soprattutto perché illumina, ancora retrospettivamente, una situazione per nulla nuova. Quando il corpo vivente, ossia un corpo capace di ammalarsi, diventa il prodotto di risulta di una panoplia di pratiche e dispositivi sempre più pervasivi, succede insomma qualcosa di veramente rivelatore: la medicina, da tecnica di restaurazione dell’essere, diventa principalmente una tecnica di produzione dell’avere, scardinando così l’illusione che ci faceva credere di essere dei corpi esclusivamente organici, costretti ancora una volta a cercare fallimentarmente la salute in un’ignoranza vitale originaria (in un non-sapere di non-sapere come tale inattingibile). La digitalizzazione della medicina ci rivela insomma che il nostro corpo è un problema e non una soluzione data da sempre, in attesa soltanto di essere riattivata, un problema che si identifica con il modo umano di essere un vivente. La stessa possibilità di trasferire su supporti digitali le informazioni relative ai nostri processi corporei deriva d’altronde anch’essa dalla sottostante normatività che contraddistingue l’operare tecnico della specie umana: anche la medicina, con tutte le sue tecniche più o meno sofisticate, è insomma un metodo intersoggettivo per cercare la salute o un’espressione collettiva della nostra capacità di adattarci a nostra volta l’adattamento impostoci dall’ambiente (interno ed esterno). E tuttavia, nell’atto di rendere visibile questa situazione, la medicina digitale la rende altresì individualmente inagibile.
Negli ultimi tempi, insomma, la nascita e la diffusione della Digital Health ha inaugurato appunto un nuovo frangente di complicazione nella percezione e nell’attuazione della nostra corporeità, che rende indiscernibili componenti sociali e componenti organiche, componenti tecniche e componenti biologiche, in una maniera che si fatica a non bollare come definitiva (per quanto sia tutt’altro che irenica). Il paziente è messo infatti in contatto direttamente con un sapere medico sempre più anonimizzato, ridotto a un insieme di procedure codificate socialmente come procedure valide, ma che non si fondano in ultimo sul confronto sistematico né con il suo vissuto, né con il procedere incerto e indiziario del singolo medico. La medicina digitale, con il suo incessante self-tracking, grazie all’idea di una quantificazione completa e sistematica del vivente umano, sembra autorizzare insomma una sempre più pervasiva disseminazione di quell’unità super partes (emergente) che è un organismo, in favore di un’epistemologia centrata sull’assenza di qualsivoglia referente altrimenti che (già sempre) datificato. In breve, sull’assenza di un qualsiasi supporto non digitale del digitale stesso, secondo una logica che annulla le premesse del suo stesso funzionamento. Il digitale è infatti possibile sempre in forza di una discontinuità strutturale con il suo altro: l’analogico, il complesso, l’emergente: l’organico, appunto. La tecnologia di terzo ordine è un effetto immanente, e quindi non-indipendente, dalle tecnologie di secondo e soprattutto di primo ordine. È perché abbiamo il bisogno di mediare tra noi e la natura, anche interna, che ci siamo attrezzati di strumenti che ‘parlano’ direttamente tra di loro, non il contrario. Il processo che porta il corpo a essere relegato in se stesso dalla propria tecnologia nega in altre parole la stessa incompletezza problematica che lo rende possibile.
È insomma lontano ormai il tempo in cui si poteva dire, con Canguilhem, che la regola di esistenza (l’ideale) di un organismo è data dalla sua stessa esistenza, a differenza dell’organizzazione sociale, che non possiede alcuna finalità intrinseca, interna o immanente. Oggigiorno, ormai, il fine della medicina non è più «la restaurazione dell’organismo nel suo stato di organismo sano» (Canguilhem 2007, 56) e quindi come organismo ignorante della propria condizione di salute. La medicina contemporanea mira a instaurare un corpo che si sa in permanenza normale, senza al limite poter essere sano, e che si ausculta incessantemente attraverso la mediazione del novero crescente di dispositivi che lo circondano, senza con ciò potere più non-sapere che cosa è e quindi senza potere più di quel che è. Non potere (più) il proprio non-sapere circa la propria corporeità è insomma una condizione che si situa al di qua della stessa distinzione tra salute e malattia e instaura piuttosto una condizione di insana normalità, nella quale tra uno stato attualmente patologico e uno solo potenzialmente tale non c’è più una alcuna differenza di natura: il corpo che si è si allontana ormai in una inappellabile coincidenza con se stesso. La figura del «malato asintomatico»[3], divenuta arcinota dopo l’esplosione della Pandemia di Coronavirus del 2020, è in questo senso doppiamente significativa: rivela l’essenza della medicina attuale e del suo andare in direzione di un’esautorazione dei professionisti della medicina (in favore, in sostanza, di quelli dell’intelligenza artificiale): porta alla luce una situazione nella quale il trattamento medico precipita verso la creazione di una crisi permanente analoga a quella che caratterizza l’organizzazione sociale (nella sua differenza da quella organica). Insomma, la medicina digitale produce una situazione nella quale la norma dell’organismo non è più immanente, ma nemmeno in senso stretto trascendente: essa diventa piuttosto in via di principio intrascendibile, risultato dell’iniziativa di attori sociali che non hanno più come interesse primitivo la sua salute, ma, in tutta evidenza, altro: la conformità comportamentale di quelli che sono ormai da capo a piedi dei semplici consumatori[4]. Questo significa che non si ha più un corpo (come nella malattia), né tantomeno lo si è più a pieno titolo (come nella salute pre-patologica): è il corpo stesso, con il suo mutare imprevedibile, che sparisce come tale, o diventa una corporeità interamente indisponibile, se è vero che la cifra dell’organismo malato è di non coincidere più senza scarti con il proprio ideale e di avere dunque da reinventare la propria coincidenza di secondo livello con la sua corporeità. Una corporeità che si estende al contesto tecnico che la supplementa in permanenza e in cui si coglie non tanto il riflesso del proprio non-sapere, ma la necessità di non-essere altro da quel che si è attualmente, è insomma una corporeità che si limita a essere normale, e basta. Ma, facile rendersene conto, una normalità sempre normale non è normale, e anzi coincide con una dimensione patologica ormai interamente situata sotto la soglia del riconoscimento fenomenologico, al di qua della sua cogenza vissuta; coincide con il massimo possibile della deinotes, nella misura in cui l’umano è estraniato anche da ciò che gli è più vicino e che gli è restituito surrettiziamente come tale: il proprio corpo, presentato come un essere rispetto al quale non è più possibile alcuna de-coincidenza.
La salute è infatti sempre il predicato di un soggetto individuale – anche nel caso in cui l’individualità si predichi a più livelli (a livello cellulare, a livello tissutale, a livello dell’organo, ecc.). Non c’è una salute (una saggezza) dell’organizzazione sociale, se non per effetto di un’analogia tanto diffusa quanto discutibile. La stessa dualità in forza della quale la relazione medico-paziente è possibile e proficua – nella misura in cui in essa prende piede la differenza specifica tra salute e normalità, o tra normatività e normalità – non è più applicabile al corpo integralmente socializzato – al corpo postorganico – del paziente digitale, poiché esso non è più un corpo, ma una fascio di variabili misurabili in rapporto solamente con se stesse, di cui non si può più ignorare la presenza e in forza delle quali la trasparenza cognitiva della propria corporeità fa tutt’uno, appunto, con la sua indisponibilità pragmatica.
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Due modi di non essere malati
Nessuno si sogna di negare (non ancora, perlomeno) l’imprescindibilità del professionista della salute nella gestione delle malattie (nella formulazione della diagnosi, nella escogitazione e nella somministrazione della terapia, ecc.). Siamo ancora tutti pressoché convinti che l’incontro clinico sia un momento che, con la sua antica ritualità, riveste un ruolo fondamentale nell’esercizio della medicina. A discapito infatti delle critiche che la tarda modernità ha elaborato a indirizzo della corporazione medica e del suo operato espropriante (cfr. Illich 2004), la situazione in cui un medico incontra un paziente ha ancora una funzione indiscutibile nella pratica della cura e lo ha per un motivo ben preciso: che entrambi i poli di questa relazione si rapportano consapevolmente, al suo interno, con il proprio non-sapere. In essa accade infatti qualcosa di unico: il paziente scopre la ‘verità’ sulla propria malattia nella stessa misura in cui il medico scopre la ‘verità’ sul malato, nella sua irriducibile singolarità.
Si prenda nondimeno il caso del cosiddetto “pancreas artificiale ibrido”, diffusosi negli ultimi anni tra i malati di diabete di tipo 1. Si tratta di un dispositivo composito che collega un sensore di glucosio e un microinfusore di insulina, facendo sì che il loro funzionamento reciproco possa essere sorvegliato e modulato dall’utente solo in occasione di alcune situazioni specifiche (i pasti e l’attività fisica), mentre per il resto se ne occupa l’algoritmo, senza preoccuparsi di informare il paziente sul modo in cui lo fa. Il malato che se ne serve può infatti affidare una larga parte di quei processi di cui un tempo aveva bisogno di concertare passo passo con lo specialista, e di cui doveva farsi carico in proprio, al sistema automatico in questione. È insomma nella condizione di sapere come funziona il suo corpo (nello specifico, di conoscere i valori della sua glicemia) e, allo stesso tempo, non può più decidere a pieno titolo come modificarne il funzionamento (modulando la somministrazione di insulina in relazione alle fluttuazioni quotidiane della glicemia), poiché non sa nécome questa modificazione avviene effettivamente, né che non ha più modo di rendersi conto che non lo sa (ha infatti l’impressione precisa di avere tutto sotto controllo). Non solo quindi il suo ambiente esterno racchiude ora una serie di indicazioni circa il suo ambiente interno, che si ritrova in tal modo estroflesso e raffigurato, per così dire, fuori di sé, ma assume anche lo statuto di qualcosa di assolutamente immodificabile e imperscrutabile, al contempo. Egli saprà allora che sa qualcosa, in quanto non si limita più a ricevere le informazioni sulla propria malattia da un medico, rispetto al quale continuerebbe a essere in una posizione di domanda, ma non può più non agire il suo sapere, ormai completamente incorporato nel dispositivo di cui si serve e nel suo funzionamento automatizzato. Al contrario infatti di quel che si crede generalmente, l’effetto principale del digitale, in ogni campo al quale si estende, è di distruggere lo spazio elettivo dell’ignoranza consaputa (del sapere di non-sapere), ovvero le condizioni di scarsità epistemica indispensabili all’insorgenza e alla crescita del sapere, che dalla consapevolezza del non-sapere dipendono entrambi invariabilmente. Digitalizzare equivale insomma in molti casi, se non in tutti, a instillare negli utenti del digitale stesso una convinzione, inevitabilmente illusoria, di sapere (ovvero, un sapere di sapere) senza precedenti.
A differenza infatti di un sapere semplice, di un sapere questo o quello di determinato, un sapere di secondo livello – un sapere di non-sapere o un sapere di sapere – è sempre legato, e per certi versi perfettamente adeso, a una qualche forma d’agentività concreta. Se è vero infatti che, di contro al detto baconiano secondo il quale «la sapienza e la potenza umana coincidono» (Bacon 1992, 49), c’è sempre, nelle nostre condotte, un’eccedenza strutturale del potere rispetto al sapere – tale per cui possiamo sempre più di quel che sappiamo, e viceversa: sappiamo meno di quel che possiamo – è anche vero che, una volta riflesso in se stesso, il sapere finisce per coincidere con una forma esplicita di potere. La medicina digitale allestisce allora una specola di auto-riflessività corporea in cui l’innocenza perduta dell’animale duetta con le delizie, e le torture, di una nuova performatività, di cui diventa impellente chiarire la natura, non foss’altro perché da essa dipende la nostra stessa salute (e, latamente, anche il nostro sentirci dei corpi). Ecco allora che ci si rende conto subito di un fatto: che esistono in verità due modi, essenzialmente diversi, di non essere malati, entrambi implicati dalla necessità per il corpo di essere a distanza da se stesso – di potersi estrinsecare nello spazio vuoto, per così dire, di un iato aggiuntivo rispetto al proprio stesso essere – e che, inoltre, l’innocenza biologica, per l’animale umano, non è mai esistita da nessuna parte. Nello specifico, “sapere di non sapere” significherà, in un contesto digitalizzato, poter agire ciò che non si è e che pure non si conosce ancora, ovvero poter trascendere il dato che la medicina ci restituisce come la nostra sola verità, mentre “sapere di sapere” implicherà l’attuazione immediata di quel che si è, unicamente di quello, e di cui abbiamo continua attestazione nei dispositivi di cui ci siamo dotati. Nel secondo caso, in altre parole, quello in cui si sa di sapere che non si è malati, l’organismo si identifica senza resti con le proprie norme organiche e, in ultima istanza, con la normalità riconosciuta dal sapere bio-medico (codificato nelle procedure che informano i nuovi dispositivi digitali). Nel primo, al contrario, l’organismo si mostra come più che solamente normale e si instrada sistematicamente verso un superamento delle sue condizioni date, scoprendosi già da sempre supplementato dalle proprie protesi tecniche e per questo in grado di gestirle consapevolmente e autonomamente. Il che equivale a dire, in parole povere, che un corpo potrà così, eventualmente, innanzitutto la propria fondamentale ignoranza sul proprio funzionamento, mai esclusivamente biologico, mentre non potrà non il sapere quel che lo concerne qui e ora, al quale è messo al cospetto dalla panoplia di dati che ormai lo riguardano e quasi lo cercano a ogni momento. In breve, potrà scegliere se restare normale o provare a essere sano, se essere il proprio avere, senza scarti, o avere il proprio essere, scegliendo come farlo. La performatività in questione è allora relativa a una condizione di normalità indotta, e per certi versi coatta, che la possibilità di un’altrasalute – di una salute allargata – deve provare a rimettere in questione e, possibilmente, a rilanciare di nuovo in direzione impreviste.
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Una salute allargata
Quel che scopriamo ora con un’evidenza irresistibile è dunque che la risposta alla domanda che cosa può un corpo non è mai di carattere puramente biologico: concerne perlomeno anche componenti sociali e politiche, oltre che, evidentemente, tecnologiche. Un corpo vivente, insomma, non può mai limitarsi solamente a essere, deve poter eccedere l’essere che è, ovvero, deve potersi trovare nella condizione di mutare autonomamente le condizioni alle quali il suo essere è concretamente possibile. Il novero delle potenze che ci attraversano, come organismi umani, è quindi da sempre la risultante di un gioco complesso e non lineare di fattori naturali e artificiali, fattori che fanno di noi degli ibridi almeno altrettanto difficili da collocare quanto lo sono alcuni prodotti delle nostre pratiche tecno-scientifiche più all’avanguardia [si pensi all’esistenza «fatticcia» (Latour 2005) del neutrino e al suo situarsi in una zona mediana tra costrutto e dato: non si può dire a priori quanto pesi la componente artificiale e quanto quella naturale].
La depositaria di tutto questo sapere riguardo la natura allargata del corpo umano è allora da sempre la medicina, in tutte le sue forme. Determinare che cosa può un corpo, al di là della sua esistenza data, è infatti sempre il risultato cangiante e derivato della definizione delle sue impossibilità correnti, il sottoinsieme mutevole dei suoi impedimenti dati. È l’effetto immanente alla circoscrizione di una sua qualche défaillance, e cioè di eventi (malattie, infermità, disturbi, errori) che ne intralciano il dispiegamento, chiamando così a una qualche forma di intervento e rivelandone il funzionamento pregresso. È la risultante di una dialettica mai risolta una volta per tutte tra istinto e intelligenza, tra esecuzione e deviazione, tra programma e improvvisazione. Per questo «non sappiamo [mai esattamente] che cosa può un corpo»: perché, per saperlo, si deve intervenire su di esso, sottoporlo a operazioni che ne cambiano la configurazione, trasformandolo in direzione di nuove possibilità e perciò di nuove inconseguenze. L’ignoranza circa le potenze corporee è tutt’uno con l’incompletezza della loro determinazione e dunque con la normatività in cui consiste davvero la salute. La vera salute si definisce insomma in forza di una condizione verbalmente ibrida: dal nostro avere liberamente il corpo che siamo, di contro all’essere senza rimedio il corpo che abbiamo. È questa la vera differenza tra la salute, da un lato, e una normalità che si sovrappone senza resti con la patologia, dall’altro, perché incapace, infine, di trascendersi.
Quando infatti la funzione rivelatrice della medicina incrocia la tendenza attuale verso la digitalizzazione integrale dell’esperienza questa situazione si svela nello stesso momento in cui tende a diventare impraticabile. L’infosfera contemporanea impatta insomma sull’incompletezza propulsiva dei corpi spogliandoli della loro capacità di eccedersi individualmente, proprio grazie ai frutti della loro eccedenza tecnologica pregressa, ma collettiva, oltre il perimetro del mero corpo organico. Questa condizione, ascrivibile come dicevamo al registro di quanto si potrebbe chiamare immediazione, forclude infatti la possibilità di essere veramente sani, e cioè non solo normali ma normativi. L’implementazione di tecnologie di terzo ordine si ripercuote sul corpo suturandolo alla sua natura biologica, senza scampo. Siamo costretti ormai a essere senza mediazioni il nostro avere un corpo, senza riferimento altro dal suo essere quel che è qui e ora, piuttosto che ad avere autonomamente il nostro essere un corpo, in maniera ogni volta creativa, imprevedibile e singolare.
In altre parole, scopriamo che un corpo è un complesso problematico di tecniche, situazioni e contesti in cui queste tecniche possono realizzarsi, un misto in corso d’opera di ritenzioni e di protensioni che ne delineano la conformazione transeunte e mai del tutto stabile; ma in quel momento, la gestione autonoma di questa consapevolezza ci è sottratta una volta per tutte. È allora su questa esigenza di dare una nuova forma alla nostra nuova normalità imposta che va data battaglia, in un modo che non può tassativamente essere prescritto a priori, ma deve essere inventato in itinere, prodotto nel vivo delle nuove relazioni paziente-dispositivi e dispositivi-medico, affinché il paziente stesso, con la sua ricerca di salute, e cioè di normatività (con il suo vissuto problematico), non scompaia del tutto. È qui che si colloca la scommessa di una salute allargata, fondata su un sentire esteso al di là del corpo individuale a com-prendere la sensibilità protesica del nostro ibrido essere al mondo[5], che permetta insomma di riscoprire la presenza di un sapere di non-sapere costitutivo, concernente l’insieme sempre incompleto delle potenze del corpo umano. È qui, inoltre, che si collocano le sfide lanciate per esempio da esperimenti come We are not waiting. Per i sostenitori di questo progetto, l’uso del pancreas artificiale ibrido nel diabete di tipo 1 deve essere infatti informato dai principi dell’etica open source, secondo una strategia da dispiegare in anticipo sulle stesse soluzioni fornite dalle multinazionali che producono dispositivi medici (cfr. Kesavadev et al. 2020). È necessario insomma portare un’offensiva frontale contro l’idea di una normalità senza scampo instaurata dalla medicina digitale, in funzione ancora delle possibilità di individualizzazione concreta della cura.
D’altronde, anche in questo quadro così profondamente mutato «non vi è nulla nella scienza che non sia apparso dapprima nella coscienza: il punto di vista vero è in definitiva [sempre] quello del malato» (Canguilhem 1998, 65). Per quanto infatti i procedimenti implementati dagli algoritmi possano risultarci opachi, e le tecnologie di terzo ordine diventare onnipresenti, è sempre grazie al lavoro precedente dei medici, istruiti a loro volta dal sentire dei pazienti, che la progettazione, la realizzazione e l’addestramento dei sistemi automatici in uso nella medicina digitale sono stati possibili. Anche nel caso della medicina digitale deve essere insomma l’esperienza centrata soggettivamente a dirimere in ultima istanza la salute dalla normalità pura e semplice, per quanto risultante ormai da una corporeità riconosciuta come postorganica. Una medicina all’altezza della digitalizzazione dovrebbe mirare perciò a incrementare la consapevolezza dei suoi pazienti al di là del perimetro del loro corpo organico, al fine di metterli nella condizione di scegliere sempre più autonomamente come gestire questa situazione. Non siamo più infatti solamente il nostro corpo organico, come non lo siamo mai stati di fatto (anche se non ne abbiamo mai sinora certificato appieno il diritto), ma non possiamo limitarci a non averne più uno, senza intravedere più nemmeno la possibilità di discutere in che modo. Da questa espropriazione, sebbene ancora embrionale, occorre poter guarire. L’ipotesi di una salute allargata al complesso di fattori esosomatici che ci travalicano incessantemente, nel mentre che rilanciano le nostre potenze autoctone, può essere allora il nome di questa sfida, la cui importanza, non solo clinica, spetta con ogni probabilità ai malati, prima di tutto, provare a rivendicare, cominciando col sottolineare il loro ruolo nella costituzione del sapere sul corpo di cui il digitale applicato alla medicina è ormai il veicolo e persino il volano, ma non mai il creatore esclusivo.
di Daniele Poccia
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[1] La definizione, come è risaputo, è di René Leriche, anche se è stata resa celebre da Georges Canguilhem, che la cita nel suo Il normale e il patologico (1998, 74).
[2] Sulla funzione rivelatrice della tecnica, e della tecnica moderna in particolare, cfr. Ferraris 2021, 98 sgg.
[3] «Tutti gli uomini sono, in questo senso, virtualmente dei malati asintomatici» (Agamben 2021).
[4] Come è stato notato, l’unico ruolo non surrogabile dalle intelligenze artificiali è quello del consumatore (cfr. Ferraris 2021, X).
[5] In merito alla problematizzazione della concezione organica della corporeità, e a una eventuale valorizzazione, è indispensabile richiamare il lavoro pioneristico di Donna Haraway (cfr. 2018).
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BIBLIOGRAFIA
Agamben, G. (2021). La nuda vita e il vaccino. 16 aprile 2021. Una voce. Una rubrica di Giorgio Agamben, https://www.quodlibet.it/giorgio-agamben-la-nuda-vita-e-il-vaccino.
Bacon, F. (1992). Novum organum. A cura di E. De Mas. Roma-Bari: Laterza [1620].
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Dark Deleuze: lo scacco della libertà
Recensioni / Dicembre 2020L’interesse di Dark Deleuze (Mimesis 2020) risiede forse nell’interrogare se la filosofia deleuzeana, o la filosofia tout court, sia un gioco linguistico in sé concluso e confinato nell’autoreferenza accademica o possa e debba essere abbastanza radicale da incidere nella prassi individuale e collettiva, cioè etica e politica. Ciò nonostante è discutibile che Dark Deleuze sia un libro filosofico o, almeno, un esperimento filosofico ben riuscito.
Il testo di Andrew Culp, autore di cui «non si sa molto», come precisa da subito il curatore e traduttore dell’edizione italiana Francesco Di Maio, esce per Mimesis, preceduto da una (Non)prefazione di Paolo Vignola e da una breve ma densa postfazione di Rocco Ronchi. Dark Deleuze si apre con una annotazione metodica: riprendendo una boutade deleuzeana della Lettera a un critico severo (Deleuze 2000, pp. 14-15), Culp afferma che «scrivere di altri autori è “una specie di […] immacolata concezione”» (p. 33), in cui l’interprete, a partire dalle aporie, dagli slittamenti, dalle ambiguità o dai punti di rottura del testo interpretato, ne rimonta, per dir così, la struttura, dando corpo a una costellazione concettuale nuova e autonoma, e teoreticamente più coerente e radicale. Aggiungo che siffatta indicazione metodica corrisponde in effetti alla nozione deleuzeana di problema[1] e può rivelarsi feconda nella misura in cui mette in guardia da due rischi ricorrenti del lavoro filosofico: ridurre l’analisi del testo interpretato a un’acribia filologica fine a se stessa e da ultimo sterile; pervertire l’aderenza a un autore in scimmiottamento o in codificazione di un gergo settario. In questo, Culp ha buon gioco contro l’«abbondante prole di mostriciattoli» (p. 33) che ricalcano in modo acritico stilemi o formule deleuzeane, facendo dell’autore di Differenza e ripetizione un pensatore à la page e, per ciò stesso, una sorta di ideologo del mondo contemporaneo.
Su questo sfondo metodico, Culp dà volto a tali mostriciattoli ed espone la tesi di fondo del proprio pamphlet: si tratta di liberare l’opera di Deleuze dal «canone della gioia» e dai suoi maliziosi vessilliferi, per lasciare emergere, senza possibili mediazioni, un Deleuze oscuro, riabilitandone la «forza distruttiva della negatività» e l’«odio per questo mondo» (p. 33). In altri termini, un’eccessiva accentuazione degli aspetti affermativi e appunto “gioiosi” della filosofia deleuzeana si sarebbe trasformata in una sorta di apologetica dell’esistente, in un rinnovato giustificazionismo che finisce per assolvere il mondo dalle sue derive capitalistiche e anzi per giustificare i cliché del connettivismo e del produttivismo: il primo «guida la strategia geopolitica di influenza globale di Google», il secondo onora «la creazione e la novità fini a se stesse», considerando la possibilità di un nuovo mondo come una semplice riarticolazione e, in fin dei conti, come una ripetizione del vecchio (pp. 88-89). Contro l’esaltazione del mondo e «correggendo» l’«errore di Deleuze» (p. 42), l’intento di Culp è quello di «trovare un modo per dire “no” a coloro che ci dicono di prendere il mondo così come è»; occorre allora far risaltare gli elementi negativi e critici che in Deleuze convivono aporeticamente, secondo Culp, con l’affermazione gioiosa dell’esistenza, e prolungare la Morte di Dio e dell’Uomo nella Morte del Mondo (pp. 87-88). Il fine di questa rinnovata forza negativa sarebbe «la sconfitta finale dello Stato e il comunismo pieno» (p. 48): «tenere vivo il sogno della rivoluzione in tempi controrivoluzionari» (p. 46).
Ora, già a proposito dell’istanza metodica che orienterebbe il progetto di un Deleuze oscuro o di un «figlio» ribelle di Deleuze, ci si potrebbe interrogare sull’effettiva riuscita dell’opera di rinvenimento dei punti problematici deleuzeani e del lavoro di riconfigurazione dei concetti del filosofo francese in una più coerente e radicale struttura. Il libro di Culp mi pare affastellare citazioni e “filosofemi” deleuzeani, quasi senza contestualizzazione, e con tracce assai esili – a esser generosi – di rigore argomentativo e di chiarimento o determinazione semantica dell’armamentario lessicale utilizzato. Sicché il testo non supera il rischio di parlare in gergo e pare voler preparare il comunismo a venire rivolgendosi ai soli accoliti di Deleuze. Senza la fatica del concetto, l’«immacolata concezione» di cui si diceva può assomigliare troppo facilmente a un mistero irrazionale i cui fumi coprono le idiosincrasie e gli arbitrî della soggettività.
Entrando poi nel merito del confronto di Dark Deleuze con l’opera deleuzeana, è singolare che Culp non si avveda di quanto la filosofia affermativa e spinozista di Deleuze sia costruita interamente su una critica del senso comune e del buon senso, una critica cioè del conservatorismo, anche politico, implicato dalla doxa in quanto doxa: il buon senso – come scrive Deleuze – è «l’ideologia delle classi medie che si riconoscono nell’uguaglianza come prodotto astratto» (Deleuze 1997: 291). Stupisce, per esempio, che manchi in Dark Deleuze un confronto puntuale con la critica dell’Immagine del pensiero operata nelle pagine centrali di Differenza e ripetizione, testo che pure lo stesso Culp considera «l’opus magnum di Deleuze» (p. 47). Quella critica mi pare, semplificando, la premessa “epistemica” e dialettica all’ontologia deleuzeana dell’affermazione e della gioia, così come quella ontologia è il fondamento senza il quale la critica resterebbe velleitaria e doxastica. L’affermazione della vita, che in Deleuze è tanto innocente quanto crudele, è giustificata da un’ontologia dell’immanenza che Culp mi sembra interamente sorvolare. In altri termini, affermazione ontologica della gioia e critica dell’esistente sono in Deleuze due istanze complementari e per nulla contrapposte.
Se riguardata sul fondamento di quella ontologia, l’affermazione della vita non consiste in una indiscriminata esaltazione di una vuota creatività o delle differenze in quanto meramente equivalenti: «la filosofia della differenza – scrive Deleuze – deve stare attenta a non diventare il discorso dell’anima bella: discorso di differenze e soltanto di differenze, in una coesistenza pacifica […] tra posti e funzioni sociali. Ma il nome di Marx basta a tutelarla da tale pericolo» (Deleuze 1997: 268). L’affermazione della vita è anche, e sotto il medesimo rispetto, un rivolgimento del già dato, nella consapevolezza che la forma-mondo (ossia la relazione di un soggetto dotato di identità a un insieme di oggetti distinti dal soggetto e tra loro) va destituita di ogni primato. Questa destituzione, però, non è una pura distruzione, ovvero una precipitazione della forma nel caos o nell’indifferenziato, ma un pensiero e un’esperienza del limite e dell’autentico senso della differenza: come a dire che la pretesa di una pura distruzione, l’ambizione di saltar fuori dalla forma-mondo e anche dalla sua configurazione storica come mondo capitalista, rischia di mutare semplicemente di segno il conservatorismo, lasciandone intatta la struttura. Detto semplificando al massimo: sostituire alla norma e all’imposizione del “lavora e produci” la norma del “ribellati e distruggi” lascia inalterata la norma nella sua forma, cioè nella sua tirannide. Il rischio del ribellismo, come rileva Ronchi, è quello di restare un modo, in fondo innocuo, del risentimento (p. 99).
D’altronde, anche lasciando sullo sfondo Deleuze e concedendo che Dark Deleuze sia soltanto Culp sub excusatione Deleuzi, mal si comprende in cosa consista il comunismo preconizzato dall’autore, quali siano i mezzi e i presupposti materiali della sua realizzazione: l’esortazione all’odio e alla distruzione sembra solo un appello alle coscienze, senza alcuna indicazione storico-effettuale o di struttura sulle condizioni concrete della sua attuazione. In merito sarebbe forse utile, se non si vuole abdicare del tutto al comunismo, rileggere le critiche di Marx alla Sinistra hegeliana.
Nonostante quanto detto, Dark Deleuze mantiene un certo interesse, su un duplice versante: quello di esortare a una lettura non disimpegnata della filosofia di Deleuze e quello, più generale, di porre in questione se e come la filosofia, e in particolare una filosofia dell’immanenza, possa e debba mantenere una valenza di critica dell’esistente. Sarebbe utile dibattere se l’alternativa al ribellismo sia il conservatorismo o il riformismo, ovvero una custodia o un rimaneggiamento del già dato.
Qui, lasciando Culp sullo sfondo, mi limito a un semplice spunto per una possibile discussione. In Differenza e ripetizione, Deleuze scrive che «l’oggetto trascendente della socialità» «non può essere vissuto nelle società attuali in cui s’incarna la molteplicità, ma deve esserlo e può esserlo soltanto nell’elemento del rivolgimento delle società (e cioè semplicemente nella libertà che si manifesta tra i resti di un antico ordine e i primi segni di uno nuovo)» (Deleuze 1997: 250). E poco più avanti aggiunge: «Il problema [di una società] si riflette sempre in falsi problemi nel momento stesso in cui si risolve, cosicché la soluzione viene generalmente a trovarsi rovesciata da un’inscindibile falsità […]. I problemi sfuggono per natura alla coscienza, ed è proprio di una coscienza essere una falsa coscienza. […] L’oggetto trascendente della facoltà di socialità è la rivoluzione. In questo senso la rivoluzione è la potenza sociale della differenza, il paradosso di una società, la collera propria dell’Idea sociale. […] La lotta pratica non passa per il negativo, ma per la differenza e la sua potenza di affermare» (Deleuze 1997: 268-269). Credo si possa dire, a una prima approssimazione, che ogni ordine sociale in quanto ordine è l’attuazione e insieme l’irrigidimento di una libertà intesa come la stessa potenza di trasgredire l’ordine e di preparare un ordine a venire. Questa libertà o potenza trasgressiva è differente da ogni ordine e, d’altra parte, non esiste se non nel corpo di un ordine sociale e nella transizione da un ordine all’altro. Se l’ordine è una ripartizione dell’ente (e del corpo sociale) secondo una norma, la libertà è la trasgressione della norma come norma, o del sistema del giudizio: l’innocenza ovvero l’anteriorità alla linea di demarcazione tra bene e male. In quanto trascendimento di ogni possibile ordine dato o presente, la libertà o innocenza è ideale, nel senso di non presentificabile. L’idealità è condizione dell’istituzione di ogni ordine presente ma per ciò stesso non può essere adeguata, normata, resa presente; l’idealità è presente soltanto, ma come “falsata”, negli ordini sociali in cui di volta in volta, incarnandosi, si sottrae. Detto altrimenti: la libertà o la rivoluzione non può porsi come norma di un qualsivoglia ordine da instaurare, quindi neanche come norma di semplice negazione dell’ordine esistente. Limite della norma e dell’ordine, la libertà non è un ordine altro o una norma posta altrove e non è in ogni caso negazione del limite o arbitrio.
La libertà resta nondimeno problematica: la sua potenza di affermare sembra porsi come fondamento di ogni ordine dato e insieme come possibilità ideale, di diritto perennemente a venire; come condizione trascendentale dell’istituzione dell’ordine e insieme come telos sempre e solo possibile, cioè non pienamente essente: in altri termini come figura della cattiva infinità e come contraddizione. Pensare la libertà come incontraddittoria, per contro, significa accertare l’impossibilità di un telos sempre differito, di un’infinità meramente potenziale. Nel toglimento originario della contraddizione del possibile, la libertà è la pura positività di un infinito attuale e l’eccedenza di un atto infinito rispetto alle proprie determinazioni finite che pure gli sono coessenziali. È questo il tentativo filosofico di un immanentismo che si voglia rigoroso, ed è questo il rigoroso fatalismo di cui parla Ronchi nella sua postfazione (p. 97). Ma se la libertà è un atto infinitamente compiuto, che si esprime e non può non esprimersi, in ogni dato e in ogni ordine, e anche nel più “falsato” degli ordini, l’esito forse più coerente, sul piano del concetto, del problema posto da Deleuze è, eticamente, non il ribelle, ma l’esausto; e, politicamente, non la rivoluzione né il riformismo ma l’indifferenza. A questo livello il Deleuze critico e gioioso pone in scacco la relazione tra il concetto e la vita o la prassi. Scacco, rispetto alle miserie e alle fatuità del mondo attuale, che l’ottimismo da anima bella di Dark Deleuze mi pare eludere con troppa facilità e da cui chi scrive, semplicemente, non sa come uscire.
di Sandro Palazzo
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[1] Sulla nozione di problema cfr. almeno G. Deleuze, Différence et répétition, PUF, Paris 1968; tr. it. di G. Guglielmi, Differenza e ripetizione, Cortina, Milano 1997, pp. 204-213, 252-259. Id., Spinoza et la méthode générale de M. Gueroult; tr. it. Spinoza e il metodo generale di Martial Gueroult, in Id., L’isola deserta e altri scritti, Einaudi, Torino 2007.
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Bibliografia
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Id., Différence et répétition, PUF, Paris 1968; tr. it. di G. Guglielmi, Differenza e ripetizione, Cortina, Milano 1997.
Id., Spinoza et la méthode générale de M. Gueroult; tr. it. Spinoza e il metodo generale di Martial Gueroult, in Id., L’isola deserta e altri scritti, Einaudi, Torino 2007.
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Con Pensiero istituente. Tre paradigmi di ontologia politica (2020) Roberto Esposito porta avanti la riflessione per una filosofia politica affermativa che da tempo muove le sue pubblicazioni. La presa di distanza dalle filosofie che pensano le proprie categorie a partire dal loro rovescio negativo (l’amico a partire dal nemico, la vita a partire dalla morte) è esplicito in Politica e negazione (2018) ma rintracciabile fin da Communitas (1998). D’altra parte in Pensiero istituente si chiarisce anche il distacco dell’autore dalla parte della biopolitica e da quella filosofia affermativa che dimentichi di articolare in maniera produttiva la negatività e il conflitto come caratteristiche imprescindibili del politico. La novità del saggio è proprio la definizione di una terza posizione all’interno della quale Esposito stesso si colloca: egli la delinea tornando a Machiavelli ma soprattutto attraverso l’opera di un autore di cui fin qui poco si era occupato e che, almeno per quel che riguarda la recezione italiana, rientra ancora tra i minori, Claude Lefort. È alla sua posizione, definita appunto istituente, che si riferisce il titolo del nostro testo e che costituisce la proposta positiva di Esposito.
L’articolazione del libro in tre capitoli restituisce la partizione proposta dall’autore tra un paradigma destituente che fa capo alla tradizione heideggeriana, un paradigma costituente fatto risalire all’opera di Deleuze, e infine un pensiero istituente, neo-machiavelliano o conflittualista, lefortiano. Se l’ultimo paradigma è la pars costruens del discorso di Esposito, Heidegger e Deleuze rappresentano invece due tendenze, tra loro opposte ma ugualmente degenerative, che caratterizzano la crisi del pensiero politico contemporaneo. Ripercorrerne le elaborazioni è così un modo per prendere posizione rispetto al dibattito, italiano e non, che ad essi è debitore, si pensi per esempio ad Agamben o a Nancy per il primo ed a Negri e Hardt per il secondo.
Le tre posizioni si collocano all’interno di un orizzonte che Esposito definisce «ontologico politico post-fondazionale» e corrispondono ad altrettante declinazioni possibili del rapporto tra essere, politica e differenza. A caratterizzare questa impostazione sarebbe secondo l’autore la particolare consapevolezza della dipendenza reciproca di ontologia e politica: da una parte la presupposizione di concezioni sull’essere (sullo spazio, sul tempo, sull’uomo) implicita in ogni azione politica, dall’altra il fatto che l’elaborazione di posizioni ontologiche, a partire dalla decisione su ciò che deve o meno essere considerato politico, dipende a sua volta da opzioni politiche. È su questo piano comune che riposa la possibilità di un confronto tra autori che si sono occupati in maniera quanto mai difforme di politica, sia per quel che riguarda la teorizzazione che la sua pratica concreta. L’impressione però è che ad emergere in Pensiero istituente, anche rispetto ad altri interventi dello stesso Esposito più situati rispetto a questioni di politica contemporanea, sia piuttosto l’ontologia della politica che non la concreta esigenza politica di un’ontologia.
Il primo capitolo del saggio è dedicato al paradigma destituente cui fanno capo le filosofie che, pensando la politica a partire dal suo fondamento negativo, hanno come esito una delegittimazione dell’azione politica. In questa prospettiva che vede la politica rinchiusa all’interno dei propri confini mondani, e compromessa con la violenza e il potere che ne fanno parte, ogni tentativo di realizzazione storica di qualsivoglia idea di bene o di giustizia è destinato a fallire. La critica di Esposito al pensiero heideggeriano ed al paradigma che rappresenta è che, a fronte di affermazioni teoricamente rivoluzionarie, essi finiscano per essere praticamente inerti e spoliticizzanti (p. XIII).
Benché Esposito ne ripercorra quasi interamente l’opera, non è tanto l’Heidegger degli anni Trenta a rappresentare nella maniera più chiara questo paradigma. Qui, ancora, l’adesione al regime nazista si accompagna a un discorso positivo sulla messa in opera e quindi a una possibilità positiva di politica, benché Heidegger la immagini guidata dalla filosofia in un primo tempo (cfr. il Discorso del rettorato, 1933), e in seguito la concepisca in analogia alla creazione dell’opera d’arte, condotta da parte degli individui “più unici” in grado di dare unità simbolica e politica a un popolo (cfr. i corsi del 1934-35 su Hölderlin e L’origine dell’opera d’arte, 1935). È piuttosto dagli anni Quaranta che Heidegger comincia a maturare la sfiducia nei confronti dell’azione che andrà consolidando negli scritti del secondo dopoguerra. Già nel corso del ’42 su l’Ister di Hölderlin, Heidegger non pensa più la politica come un’opera da realizzare ma come un evento che emerge dalla polis (p. 46). Se però ancora nella polis una politica sembra possibile, in un mondo sempre più dominato dalla tecnica l’azione politica non è in grado di sottrarsi alla sua razionalità: il passaggio dall’idea greca di una realtà operante alla concezione romana del reale come creato e dell’agire come causa efficiente fa sì che l’azione politica venga a far parte della stessa logica della tecnica e della macchinazione che vorrebbe contrastare (cfr. Scienza e meditazione, 1953). In questo contesto l’unica azione possibile è un lasciar essere, una revoca dell’azione e della volontà che in Heidegger si tinge di tinte poetico meditative (cfr. Gelassenheit, 1983).
Come già accennato, Heidegger non è l’unico autore ascritto al paradigma destituente. In Categorie dell’impolitico (1988), che si può dire si muova all’interno di questa prospettiva, Esposito si era rivolto tra gli altri a Weil, Broch, Bataille che anche in Pensiero istituente non manca di citare. Se la lezione di altri autori «destituenti» non porta a esiti così smaccatamente spoliticizzanti come quelli di Heidegger egli è però portatore dell’opinione condivisa sulla limitatezza, sulla non fondatezza dell’agire umano e sulla sua implicazione nella necessità del mondo. Come commenta Esposito seguendo Schürmann: «A venir meno, con la distruzione metafisica praticata da Heidegger, non è l’agire, ma la possibilità che questo continui a essere legittimato da un principio esterno. Ormai la praxis non è più fondabile da parte della theoria» (p. 65).
Un discorso specularmente inverso vale per il paradigma costituente rappresentato da Deleuze. La filosofia di Deleuze è definita costituente nel senso che essa pensa l’essere come una realtà creativa e produttiva di molteplicità. La critica di Esposito a questa posizione è che, per quanto non pacifica nel percorso di Deleuze, la coincidenza sempre più stretta di essere e differenza tenda a obliterarne la dimensione conflittuale, e il politico, che in questa dimensione si colloca, finisce per confondersi con il flusso del divenire perdendo rilievo specifico e forza critica. «Ciò che manca, in un’ontologia dell’immanenza assoluta, non è la trascendenza del potere, ma una teoria del conflitto politicamente articolata» (p. 115).
Anche in questo secondo capitolo Esposito ripercorre puntualmente l’evoluzione del pensiero di Deleuze. Secondo l’autore, in buona parte in consonanza con Žižek, il pensiero di Deleuze oscilla tra due ontologie divise dalla posizione di fronte al negativo. Ancora in Nietzsche e la filosofia il negativo viene inteso come il risultato dell’aggressività dell’affermarsi della differenza, dotato di una forza propria, e in Marcel Proust e i segni emerge come il segno di ciò che non è più, di ciò che è passato. A partire dagli anni ’60, con l’avvicinamento alle posizioni di Bergson, Deleuze tende invece a mettere da parte il negativo come falso problema. Nonostante qualche eccezione (cfr. per esempio Logica del senso, 1969), la sua ontologia si sposta interamente sul piano di immanenza cosicché l’essere stesso viene a coincidere con la differenza, ovvero con una realtà plurale e articolata in una molteplicità di organizzazioni (p. 107). Proprio quando, nella collaborazione con Guattari, l’interesse e il linguaggio di Deleuze si fa espressamente politico, la politica stessa finisce per perdere i confini del proprio ambito e viene a coincidere con il dispiegarsi del desiderio inteso come azione rivoluzionaria produttiva di realtà (p. 120). In questo contesto la critica al capitalismo che innerva i due volumi di Capitalismo e schizofrenia vede come unica azione politica possibile l’accelerazione degli stessi flussi di desiderio di cui il capitalismo è composto. La schizofrenia, la decodificazione di tali flussi e la dissoluzione degli ultimi vincoli che ancora li trattengono costituiscono l’unica strada per immaginare il superamento del capitale.
Nello stesso ordine di riflessioni si inseriscono, come già notato da Benjamin Noys (cfr. The Persistence of the Negative, 2010), autori come Lyotard e Baudrillard, ma Esposito vi fa convergere anche Negri e Hardt e per altro verso Vattimo. Il tratto che, pur nelle differenze specifiche, li accomuna è il tentativo di contrapporsi al capitale dall’interno, assecondandone la razionalità invece di contrastarla (p. 79). L’esito del paradigma costituente risulta simmetricamente opposto a quello heideggeriano, ovvero un pensiero dalla veste al contempo iperpolitica e spoliticizzante. Una nota a parte meritano invece due testi, Istinti e istituzioni (1955) e Empirismo e soggettività (1973), perché ci portano nella direzione che sarà propria del paradigma istituente. In questi testi, a partire dalla lettura di Hume, Deleuze interpreta l’istituzione come la zona d’incontro tra natura e cultura, ovvero tra il desiderio e la necessità di darvi una forma. Diversamente dalla lettura che ne è stata data dai francofortesi fino a Foucault, in questa prospettiva l’istituzione è l’affermazione di un modello possibile di soddisfazione degli istinti piuttosto che un dispositivo volto a frenarli, com’è invece la legge. Vedremo come ciò sia consonante con alcune posizioni lefortiane.
A queste ultime si rivolge il terzo e ultimo capitolo di Pensiero istituente. Lefort (1924-2010) è noto per essere stato fondatore insieme a Cornelius Castoriadis di Socialismo o Barbarie. Allievo di Merleua-Ponty, ne è stato anche esecutore testamentario curando e introducendo le edizioni di molti dei suoi testi, come Il visibile e l’invisibile (1964); L’institution. La passivité (2003); e Œuvres (2010). Questa matrice fenomenologica caratterizza fortemente il terzo paradigma delineato da Esposito. Qui l’istituire viene inteso come un processo di stabilizzazione dell’esperienza che si compie su un piano intersoggettivo: se da una parte l’istituzione consiste nelle azioni dei soggetti istituenti, essa ha allo stesso tempo una validità indipendente da ognuno di essi. In questo modo i singoli la tengono in vita modificandola, ma senza per questo crearla ex nihilo né tantomeno trovandola prederminata, ricevendola da altri e restituendola ad altri.
Ad istituire per Lefort è in primo luogo la politica, dove essa consiste nella messa in forma simbolica dei conflitti che dividono il sociale. Questa prospettiva, che segna anche il distacco da Marx, deve molto all’incontro con la letteratura etnografica e con Machiavelli (cfr. Le Travail de l'œuvre Machiavel, 1972). In particolare dal confronto con quest’ultimo, in parte anticipato nel Merleau-Ponty delle Note su Machiavelli (1949) e de Le avventure della dialettica (1955), si delineano due punti centrali dell’ontologia politica di Lefort: il simbolico come luogo del politico e l’ineluttabilità del conflitto. Come ribadisce Esposito «il potere ha a che fare più col discorso – cioè con la sua costruzione rappresentativa – che con i rapporti economici all’interno dei quali s’istituisce» (p. 178), in quanto sua immagine simbolica il politico eccede dal sociale e retroagisce su di esso. Se da una parte non si dà politica al di fuori della società su cui si esercita, infatti, d’altro canto anche la società non esiste propriamente come insieme riconoscibile prima di essere resa visibile tramite la sua rappresentazione politica (p. 169). D’altra parte, la comprensione del conflitto come dato ineluttabile delle società intende affermare che l’ordine politico è sì possibile ma sempre provvisorio, ovverosia che l’operazione di simbolizzazione e di messa in forma della società non è garantita dal suo fallimento proprio perché, se il politico non coincide col sociale, neppure il sociale coincide con se stesso. Ciò che distingue le diverse società è il modo in cui in esse il potere politico rappresenta il conflitto (p. 191). Da una parte, nelle cosiddette “società senza storia” o “stagnanti” la tendenza è quella a escludere e neutralizzare per quanto possibile il conflitto, con lo scopo di mantenere intatto un certo ordine. Diversamente, secondo Lefort, la democrazia moderna è l’unico sistema politico in grado di riconoscere e rappresentare l’essenza conflittuale della società (cfr. Sur la démocratie: le politique et l’institution du social, 1971). Attraverso le sue istituzioni volte non tanto a mantenere un certo potere quanto a salvaguardare la possibilità del suo passaggio di mano tra le parti in gioco, la democrazia dà forma a un potere vuoto, cioè infinitamente contendibile. Contraddicendo una valutazione comune ai più grandi pensatori politici novecenteschi, che intendono la modernità come un’epoca di spoliticizzazione, per Lefort la democrazia moderna è al contrario politica per eccellenza. Nell’istituzione democratica, infine, viene riconosciuto il risultato del ribaltamento dell’articolazione di diritto e potere messa in atto dalle rivoluzioni moderne, dove adesso è il diritto a fondare e a limitare il potere.
Anche in questo caso Lefort non è né il primo né l’unico ad aver tematizzato l’istituzione, egli ne condivide anzi il discorso con autori come Castoriadis, Ricoeur, ma anche Hariou e Santi Romano. In particolare attraverso quest’ultimo, cui Esposito dedica l’ultimo paragrafo del saggio, il discorso istituente viene aperto a una prospettiva che superi la dimensione statale. Romano riconosce l’istituzione anche nelle collettività organizzate alternative o addirittura competitive nei confronti dello Stato, facendo dell’istituire un processo in grado di accogliere le istanze mutevoli della società. Così anche per Esposito «tutt’altro che a un ordine consolidato di regole e leggi, l’istituire rimanda piuttosto a un compito – coincidente con quello della politica – destinato a mutare continuamente il quadro normativo entro cui agisce» (p. XIX).
di Anna Draghi
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Jean Wahl in levitazione
Recensioni / Giugno 2020Jean Wahl, Verso il concreto. Studi di filosofia contemporanea. William James, Whitehead, Gabriel Marcel (Mimesis, Canone Minore, 2020)
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Di Jean Wahl un poeta notava lo spirito mobile e trasparente, la «disinvoltura che era levitazione» (269). Come il levitatore non è colui che si stacca da terra, ma la parte più prona alle mescolanze di un mondo che si accresce, così Wahl è filosofo leggero per la durezza materica del suo sguardo. L’edizione italiana di Verso il concreto. Studi di filosofia contemporanea. William James, Whitehead, Gabriel Marcel, uscito per Mimesis a cura di Giulio Piatti e con una postfazione di Barbara Wahl, è opera di un pensatore ironico e poetico, impegnato nell’ascesi dell’incontro totale con ciò che si propone di pensare. Contro una storia della filosofia come galleria di statue e apologia della grande figura, Verso il concreto è innanzitutto un accostamento tra incontri felici, animato dall’entusiasmo paratattico che prolunga il vivum di altri pensieri. È un libro che contiene altri spiriti, intuiti nel loro splendore fenomenico, e che rivela appieno lo stile filosofico di Jean Wahl, la sua maniera di pensare. Wahl scrive da filosofo di altri filosofi, con una virtù che sarebbe riduttivo definire eclettica. La ricca introduzione del curatore illustra perfettamente in che misura questo libro è un capitolo fondamentale e appassionante della filosofia francese del ‘900, su cui Wahl aveva già iniziato ad esercitare un’influenza profonda con la fortunata opera sui pluralisti americani e inglesi del 1920.
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Étienne Souriau scriveva che quando i filosofi si esprimono sull’uno o sul molteplice, desiderano o l’uno o l’altro. In questa osservazione c’è di più del semplice rilevamento di un moto d’interesse dietro a istanze eterne del pensiero: l’alternativa tra pluralismo e monismo è innervata un investimento magico, un ideal-realismo che scaturisce dalla visione dell’accordo del continuo con il discontinuo. È l’«esperienza» in senso più proprio, l’alliance paradoxale di cui Wahl parlerà, trent’anni più tardi, ne L’expérience métaphysique. James, Whitehead e Marcel sono filosofi speculativi e sperimentatori, quando pensano un mondo fatto di blocchi di durata, di volumi, di eventi, di relazioni primitive, di processi di discretizzazione per confluenza e concrescenza: pluralisti in nome dell’eterogeneità del reale, monisti in nome della sua unità in divenire. A quest’altezza ha luogo, in maniera diversa in ognuno di questi autori, il «suicidio della dialettica» (51), la dialettica hegeliana che nasce proprio squalificando il concreto dell’esperienza, piegandolo a una certa idea di speculazione. Speculativo, sembra dirci Wahl, può esserlo soltanto un realismo; e se non si vuole abbandonare la dialettica sarà più per amore dell’oggetto reale che per sentimento della sua insufficienza.
In William James, primo protagonista di Verso il concreto, una filosofia dell’Abenteuer risponde al temperamento «motore» del filosofo (143), che ricerca la grana della realtà solida, l’universale fattivo. È il ritratto di un James mercuriale, che propugna un pluralismo in costante tensione con un monismo mistico, per cui il mondo si accresce per estasi delle parti. Nel sapiente studio del suo epistolario, Wahl rintraccia quella reciproca evocazione tra vita e filosofia che ha determinato la grandezza di uno dei padri del pragmatismo. Il secondo protagonista del libro, Alfred North Whitehead, è invece rappresentato come un pensatore dell’universo vivente, autore di una grande metafisica della natura. Come un nuovo romantico, Whitehead vede nel reale un humus di percettività cieca, di intenzionalità pure che germinano e concrescono: la realtà crea incessantemente sentendo sé stessa, e il soggetto non vi si riconosce che come una sopravvenienza. Da qui l’attenzione a ciò che nel soggetto è legame con la natura creante, percezione e sentimento. Come il pensiero di James è incontrato nella rappresentazione della sua vita e la filosofia di Whitehead nell’interpretazione complessiva dei suoi scritti, Gabriel Marcel, infine, è studiato con intima confidenza, attraverso il suo diario filosofico (il Journal métaphysique), quasi come in sua compagnia. Wahl, che è stato amico di Marcel, ritrova come principio ermeneutico quella partecipazione emotiva che lo stesso Marcel mette al centro del proprio pensiero – l’amicizia come forma di conoscenza completa.
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Poco meno di cento anni dopo la sua uscita possiamo cominciarne a cogliere la rilevanza di Verso il concreto. Qui Wahl contribuisce ad aprire una traccia che attraversa – più o meno allo scoperto – il Novecento francese e raggiunge il realismo speculativo contemporaneo. Il topos che Wahl utilizza per forzare lo hegelismo è lo stesso dell’Agamben de Il linguaggio e la morte e del Lyotard di Discorso, figura (ma anche, in senso più ampio, del Deleuze di Differenza e ripetizione): il tentativo di dire il “questo”, che all’inizio della Fenomenologia dello Spirito vanifica il sapere sensibile, viene recuperato come vero compito della filosofia, verso un’altra concezione dell’assoluto. La rivalutazione dell’esperienza in sé conduce proprio là dove Hegel non era voluto andare, ad una mistica e a una poetica, senza mai lasciare la filosofia. D’altronde, «era forse il destino del pensiero hegeliano quello di negarsi» (227). Tutto ciò che una certa tradizione speculativa ha cercato di fare nel corso del secolo passato è questa critica alla significazione, alla causalità meccanica, alla priorità della conoscenza soggettiva in nome di un pensiero più concreto, che sia monista e pluralista insieme, in quanto «negazione di un mondo già fatto» (136).
Dietro al dire c’è dunque sempre un conatus d’instaurazione, che nell’uomo è esperienza pura, e che sfonda il cerchio della dialettica, per renderla incessante e senza concetto. Bergson, Renouvier, Samuel Alexander e tutte le figure che si avvicendano accanto ai tre filosofi raffigurati da Wahl confluiscono in un mosaico ancora in formazione che andrà a costituire il nerbo della grande avventura continentale del ‘900. Dietro a questo passaggio fondamentale, la penna ariosa di Wahl, quasi a divinarne il corso – in levità.
di Gregorio Tenti
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Lacan: una scienza di fantasmi
Recensioni / Maggio 2020In questo breve ma densissimo volume, Jacques Lacan, una scienza di fantasmi, (Orthotes 2019) Federico Leoni continua il suo lavoro di originale rilettura delle riflessioni di Jacques Lacan, facendo funzionare il complesso, monumentale e oscuro svolgersi del pensiero dello psicoanalista parigino come pungolo per costruire nuove possibilità di traiettorie teoriche. Infatti, questo libro non vuole essere tanto un testo d’introduzione a Lacan quanto la continua interrogazione e scavatura di alcune delle sue più importanti riflessioni. Un’indicazione sulla lettura del testo ci viene direttamente dall’autore alla fine del libro: “Questo è un libro insistente. Ogni capitolo mostra una stessa cosa, che si presenta ora come Uno, ora come tratto, ora come voce, ora come mana, ora come fantasma, ora come oggetto, ora come gesto, ora come miniatura, ora come ideogramma.” (Leoni 2019, p. 173). Questa “stessa cosa” che Leoni ci mostra in Una Scienza di Fantasmi è l’evento – sempre attivo – dell’insorgenza e dell’inscrizione che produce il continuo processo di soggettivazione. Il libro è, allora, una sorta di indagine sul “supporto” di questo processo, non ritrovato in un fondamento certo e stabile quanto definito e perciò perduto, ma in una materia fluida e inafferrabile che anima la soggettivazione sempre in atto. Cercheremo di riattraversare l’insistenza di questa “stessa cosa” attraverso due vettori in particolare: l’Uno e la perversione.
La struttura di questo libro è permeata da una modalità particolare, che viene in qualche modo rivelato verso la fine del libro: l’obliquità. L’obliquità, o inclinazione, è proprio quella del diwan, del lettino freudiano, residuo della regressione ipnotica (anticamera della psicoanalisi). Questa strana angolatura, caposaldo del metodo clinico psicoanalitico, viene applicata costantemente nel testo sul continuo torcersi del pensiero dei filosofi interpellati. Questo non significa che i filosofi (fra i più presenti troviamo Leibniz, Kant, Cartesio, Bergson e Deleuze) vengano interrogati sui loro fatti privati, ma che le loro teorie, in qualche modo, vengano rese “spurie”, inclinate e condotte verso nuove possibilità.
E non è un caso che nell’obliquità e nell’inclinazione ci stia anche la deviazione: infatti ciò che per eccellenza de-via in psicoanalisi è la per-versione, la negativa freudiana della nevrosi, ciò che modifica la rotta e batte strade nuove.L’Uno, rintracciato e moltiplicato in varie figure (come il mana, il gesto, la voce, l’oggetto), è il protagonista indiscusso di questo libro e ne è anche il ritmo, la scia continua che permette ai molti percorsi anche eterogenei dipanati dall’autore di scandirsi in maniera sempre più coordinata. E, in qualche modo, da un punto di vista letterario, si potrebbe ascrivere questo libro di filosofia al genere del picaresco: assistiamo infatti a un continuo peregrinare avventuroso di questo Uno, dalla psicoanalisi lacaniana ai vari pensieri filosofici indagati, fino all’arte e alla letteratura. Un’altra maniera di mettere a fuoco la centralità di questo Uno ce la suggerisce Leoni stesso attraverso l’altro protagonista di questo libro, il fantasma, paradossalmente più nascosto rispetto alla onnipresenza dell’Uno. L’Uno è il fantasma di questo saggio filosofico, nel senso che è la cornice che anima la sua struttura e attraverso la quale si determina un continuo assemblaggio fra psicoanalisi e filosofia.
L’Uno non è, però, una nozione priva di ambiguità e addirittura strane sorte di pregiudizi sia nell’ambito filosofico che in quello della psicoanalisi lacaniana, come nota Leoni stesso. Sul lato filosofico, nel testo si insiste su come l’Uno sia uno dei marchi dell’elaborazione filosofica sin da Platone e dal platonismo (in Plotino l’Uno trova il suo apice) e non a caso Leoni riprende il Parmenide di Platone che si interroga sull’Uno e il Moltepice (Leoni 2019, p. 103). D’altronde lo stesso Lacan a suo modo notava nel seminario XVI (La logique du fantasme, ancora inedito in italiano) che Platone e Plotino sono fra i pochi filosofi che non cadono nell’errore di sovrapporre Essere e Uno e che riescono a fornire una riflessione specifica su questa dimensione dell’Uno (Leoni 2019, p. 21). Nonostante ciò, secondo Leoni, “dell’Uno non ne è più nulla, nella filosofia, da un certo punto in poi, e salvo diramazioni preziose quanto isolate” (p. 6).
Sul lato psicoanalitico si può dire che il tema dell’Uno emerge in punti diversi dello svolgimento dei seminari lacaniani. All’inizio più che essere un Uno filosofico, l’uno lacaniano è l’eredità dell’einziger Zug (tratto unico o unario) del Progetto di una psicologia freudiano del 1895. Da qui Lacan inizia a elaborare la nozione di tratto unario, che definisce una visione dell’incidenza del significante a partire da un tratto traumatico originario e di “partenza” per l’identificazione e perciò soggettivazione (Seminario IX). Più tardi questo tratto unario assumerà forme differenti nel Seminario XVII subendo una torsione e divenendo S1, il significante padrone cui ci si identifica e da cui origina la catena significante. Solo a partire dal Seminario XIX Lacan (2011) inizia a porre la questione di un Uno filosofico-psicoanalitico, e lo fa confrontandosi soprattutto con Platone e la teoria degli insiemi di Cantor e Frege. Insomma, sembra che si passi da un uno dalla lettera minuscola all’Uno con la maiuscola. Quando Miller (2013) ripercorre le riflessioni di Lacan sull’Essere e l’Uno mette in luce come Lacan passi da una “ontologia” (o ancor meglio una para-ontologia) a una “henologia”, un discorso sull’Uno. Nella lettura milleriana l’Uno di questo Lacan è esemplificabile nella messa a fuoco della dimensione del “corpo che si gode”, narcisisticamente e autisticamente, che diviene sempre più centrale nella costruzione teorica lacaniana. L’immagine dell’Uno che si è andata a definire sempre di più nella psicoanalisi lacaniana è quella concentrata dalla formula milleriana dell’Uno-tutto-solo o Uno-senza-Altro, che rifugge dalla dialettica che si istituisce fra un soggetto e l’Altro, per richiudersi su sé stesso in un godimento sterile e “perverso”. Ma è proprio a partire da un’altra lettura della perversione che Leoni vuole riconsiderare filosoficamente la nozione di Uno psicoanalitico, con l’obiettivo di mostrarne una dimensione nascosta e ricavata proprio dalla elaborazione lacaniana.
La perversione, nell’ambito clinico lacaniano, viene spesso indicata come quella struttura per la quale il soggetto si colloca nella posizione di oggetto inscalfibile, scaricando sull’Altro l’angoscia generata in lui dalla divisione inferta nel soggetto dal linguaggio. Il perverso vuole dividere l’Altro, proiettare su di lui l’angoscia della castrazione che non intende sostenere su sé stesso addirittura arrivare ad angosciare Dio, l’Altro per eccellenza (Recalcati, 2016; Lacan, 2004).
Un altro modo di dire la questione della perversione (ed è a partire da questa altra angolazione che parte la riflessione di Leoni), non contraddicendo necessariamente le altre letture ma facendo emergere un lato “positivo-creativo”, è che il soggetto della perversione “comprende” la struttura e il funzionamento del linguaggio e che in qualche modo usi questa “competenza” riversandola sull’Altro. È in questo senso che, nella prospettiva della teologia psicopatologica paolino-lacaniana suggerita da Leoni nel primo capitolo, se il nevrotico vive nel dramma innescato dalla Legge e lo psicotico non riconosce, forclude questa dimensione della Legge, non accedendo completamente al Simbolico, il perverso conosce questa Legge per negarla e superarla, per andare aldilà di essa e collocarsi al posto di Dio (pp. 8-11). Il soggetto perverso si sistemerebbe nella posizione di colui che scrive, letteralmente crea la Legge, addirittura identificandosi con essa. In questa direzione, si può suggerire, a ulteriore chiarimento, l’immagine prototipica data dall’inserto filosofico-politico di Sade (autore caro a Lacan) all’interno della sua Filosofia nel boudoir. Qui viene messo in luce come il perverso conosca lo strumento della Legge e del suo istituirsi e come utilizzi questo sapere per creare e immaginare un nuovo tipo di società iperbolica, sebbene basata su principi razionali, macabramente illuministici e “formalizzati” su un piano giuridico-filosofico.
A partire da questo lato creativo della posizione soggettiva della perversione, Leoni ci interroga sulla possibilità di concettualizzare la filosofia non come un processo paranoico (la diagnosi che Freud aveva, a suo tempo, affibbiato, e con una certa logica, alla filosofia) di iperuniversalizzazione e astrazione, purificazione dei pensieri e dei concetti. Piuttosto l’autore ci spinge a immaginare la filosofia come un processo perverso, la messa in atto di una possibilità di continua scrittura e riscrittura creativa del pensiero e del mondo a partire dall’invenzione filosofica.
C’è qualcosa come un’altra perversione, qualcosa come un altro scatenamento del possibile, che quella costellazione di pensatori cerca di mettere a fuoco. Misurarsi con la morte di Dio significa misurarsi con quest’altra perversione, con quest’altro scatenamento del possibile. Nuovi possibili si rendono possibili, nuovi impossibili si disegnano a margine di quei possibili. […] [Il perverso] Si mette al posto di Dio, e crea i possibili, o dice che al posto di Dio non c’è nient’altro che questa incessante creazione dei possibili. (Leoni 2019 p. 79)
Infatti, si può dire che la scrittura leoniana di questo testo sia in un certo qual modo perversa, producendo deviazioni, scatenamenti e misurandosi con un’esplorazioni dei possibili. Nel quinto capitolo, Leoni si riallaccia, e non a caso, proprio alla figura di Bafometto (p. 85), principe infernale delle metamorfosi e idolo templare protagonista del romanzo del filosofo “perverso” Klossowski. Nel testo klossowskiano, infatti, si esplicherebbe una condizione di continua trasformazione e implicazione di “tratti dentro altri tratti”:
Ogni tratto di divenire sposta ogni altro tratto implicandolo nel proprio percorso, facendo di ogni altro tratto un proprio segno e facendo di sé stesso un segno di ogni altro tratto. Qui leggere è fare, interpretare è fabbricare. Per questo il lettore dei segni di quel cosmo non va immaginato come davanti a un libro, immune ai segni che sta decifrando, ma come un segno esso stesso, e come un fabbricatore esso stesso. (Leoni, 2019 p. 89-90)
Dunque, in questa direzione obliqua e deviata, l’Uno inizia ad apparire non tanto come un Uno che accade, uno spazio definito nello spazio-tempo o nel soggetto, quanto il supporto continuo, la piega nel soggetto che permette che una soggettivazione, continuamente in genesi e in divenire, accada (Leoni 2019 p. 51). Dunque, se questo Uno non è l’Uno-tutto-solo della perversione, che Uno perverso della creazione sarebbe? L’Uno, che qui viene ripreso a partire dal Seminario XIX di Lacan (2011), non è semplicemente un momento atavico, uno stadio larvale della soggettività che precede cronologicamente l’incontro del soggetto con l’Altro. Viene, invece, indicato come quell’evento, o ancora meglio come quel rimasuglio dell’evento (eco de l’Y a d’l’Un lacaniano) che permette strutturalmente l’emergere di una dialettica fra il soggetto dell’Altro. L’Uno non sarebbe, dunque, un soggetto che può mettersi in dialettica con un Altro (e che eventualmente sceglie di non farlo) ma sarebbe l’evento stesso della possibilità di un’emergenza del rapporto fra un soggetto e l’Altro, in altre parole il suo supporto. È come dire che nell’Uno sta già il Due e il molteplice, nel senso che l’Uno permette, ponendosi come fondamento, l’articolarsi fra più elementi, fra più Uni:
Ovvero, che c’è dell’Uno, c’è l’operazione di un Uno molto più profondo o molto più superficiale di così, un Uno che non sta né dalla parte dell’uno né dalla parte dell’altro, ma che distribuisce le parti e opera la divisione, non cessando un istante di non-dividersi al fondo della divisione stessa. Questo Uno è nella stessa posizione dell’Altro, anzi è l’Altro stesso, ma come il suo accadere. L’Uno è l’Altro che accade, o l’Altro è l’Uno ormai accaduto. L’Altro è il regime dei rapporti istituiti, l’Uno è l’istituirsi di quei rapporti. (Leoni 2019 p. 35)
Uno, dunque, che nel suo continuo mettere in atto la divisione senza esserne compromesso (una sorta di fondo psicotico a ogni nevrosi), mostra la natura continuamente metamorfica della soggettivazione, del suo incessante divenire all’interno di una logica sostenuta dallo scandire di questo Uno fondamentale. Dunque, nella lettura di Leoni, se l’Altro è il “regime” dove si sono dati dei legami e delle leggi secondo un ordine simbolico (istituito), l’Uno sarebbe il supporto che permette che questi rapporti si istituiscano senza esso si istituisca mai.
Ancora, per rimanere nel solco del complesso svilupparsi della riflessione lacaniana attraverso i suoi seminari, il tratto unario, l’elemento di identificazione a un tratto dal soggetto che fa partire la sua soggettivazione, è sostenuto dalla dimensione dell’uniano, appunto da quel yadlun (“c’è dell’uno”) inassimilabile e allo stesso tempo motore e supporto della possibilità di far partire la soggettivazione dall’identificazione del tratto unario. Certo, seguendo Lacan non troviamo un Uno tutto-pieno, monolitico e compatto, le sue fondamenta sono instabili. L’Uno lacaniano del Seminario XIX è rappresentabile, infatti, da una sacca vuota con un buco: «Si vous en voulez une figure, je représenterais le fondement du Yad’lun comme un sac. Il ne peut avoir l’Un que dans la figure d’un sac, qui est un sac troué» (Lacan, 2011 p. 147) [1]. Insomma, di questo Uno non si sa mai quanto ce n’è davvero dentro al sacco.
[1] Se volete una figura, io rappresenterei il fondamento di Yadl’un come un sacco. Non si può avere l’Uno se non dentro la figura di un sacco, che è un sacco bucato. (traduzione mia)
Non è un caso che l’Uno di Lacan sia inavvicinabile dal linguaggio ordinato dell’istituirsi del simbolico e che lo psicoanalista francese idei proprio per questo Uno il neologismo yadlun. Questo ci porta nella dimensione della lalangue (che Leoni incrocia nell’indagine su grido e voce nel capitolo otto) di una lingua primitiva rispetto all’intervento regolativo e differenziante del simbolico, capace dunque di mostrare, più che significantizzare, l’ambigua e inafferrabile consistenza di questo Uno.
E se Leoni ci indica un modo per immaginare come un soggetto venga fuori da questo Uno è attraverso l’immagine di un piano che si piega su se stesso, producendo una singolarità in continua trasformazione, la soggettivazione sempre in divenire. È così che il soggetto appare come una monade, piega e unità singolare in cui tutto il mondo si inclina attraverso quel particolarissimo vertice che è il fantasma, meccanismo di cornice-interfaccia della realtà e allo stesso tempo suo assemblaggio. Il fantasma è, infatti, già nella riflessione lacaniana, la dimensione che permette al soggetto di aprire una vasta gamma di possibili incontri con l’oggetto piccolo a.
S◊a, il matema del fantasma che Lacan (2013) indica nel Seminario VI, va a significare proprio questo: il punzone ◊ che contiene in sé più simboli (maggiore, minore, et, vel) rappresenta la plurimità delle possibilità di rapporto fra il soggetto diviso (S) del desiderio e l’oggetto causativo del desiderio, l’oggetto piccolo (a), resto di una delle forme dell’Uno lacaniano, Das Ding, la Cosa perduta per sempre dal soggetto nella rimozione originaria.Certo, ogni singolarità, ogni soggetto non può solo creare a partire dal suo fantasma ed è inevitabilmente posto sotto il giogo della legge della coazione a ripetere. Eppure, partendo da una sorta di teoria della registrazione, Leoni nell’ottavo capitolo mette in luce come anche la più fedele registrazione sia in qualche modo una deformazione, un cambiare strada, un de-viare dall’originale (Leoni 2019 p.129). In questo senso ci viene da suggerire l’associazione a un pensatore a suo modo decisamente perverso, William S. Burroughs, che insisteva sul ruolo dello scrittore come registratore, come supporto apparentemente passivo degli avvenimenti della realtà: “Uno scrittore può scrivere soltanto di una cosa: di quello che c’è davanti ai suoi sensi al momento di scrivere… Sono uno strumento di registrazione… Non presumo di imporre una “storia”, una “trama”, una “continuità”…” (Burroughs 1959 p. 199). Nonostante ciò, la vera operazione di Burroughs non si risolveva qui: lo scrittore per lui non si può limitare a ripetere a pappagallo ciò che della realtà si imprime su di lui ma ricostruisce e trasforma il testo della realtà attraverso tagli, sovrapposizioni e giustapposizioni attraverso cui inserisce nella ripetizione un brulicante continuo differenziarsi dentro al testo stesso attraverso la tecnica del cut-up, in cui il testo viene tagliato e poi ricomposto, e la tecnica del fold-in, dove, ancor più significativamente, il testo viene piegato su se stesso.
Pieghe e monadi, dunque, sono le forme filosofiche attraverso le quali Leoni ci vuole restituire una visione della soggettivazione vista dalla prospettiva di una scienza dei fantasmi, delle singolarità. Quello che si configura in questa scienza dei fantasmi è una posizione etica (Leoni p. 105) per indagare il soggetto nella sua prospettiva singolare a partire da una presa in carico del fantasma da cui lo si guarda, indicazione questa preziosa anche per la clinica. Scienza assolutamente soggettiva da una parte e dall’altra, invece, “unica scienza rigorosa”, con le parole di Husserl, perché consapevole di indagare il fantasma a partire da una cornice che è già a sua volta un fantasma:
Che cosa sa, infatti, la scienza del fantasma? Che il fantasma è tanto il fantasma “verso cui” essa guarda per scrivere e descrivere, come suo oggetto di studio; tanto il fantasma “da cui” essa scrive e grazie a cui essa descrive ciò che descrive; quanto il fantasma “in cui” essa scrive, cioè lo spazio e l’esigenza e lo strumentario e la ragnatela di strade resesi possibili, entro cui la sua scrittura, la sua descrizione si muove.” (Leoni 2019 p. 105)
Dunque, la scienza del fantasma auspicata da Leoni sarebbe una scienza capace di mettere in luce la cornice verso cui si tende nella scrittura, la cornice “oggetto di studio”, ma anche la cornice da cui si scrive (in qualche modo, un riconoscimento del fantasma dell’autore) ma soprattutto “ragnatela di strade resesi possibili”, l’esplicazione effettiva “in cui” questa scienza scrive e si dipana. È in questo senso che il testo propone non solo una questione “epistemologica” ma soprattutto una dimensione etica, di riconoscimento e di accoglimento del fantasma singolare all’interno dell’elaborazione del pensiero, che ne è la cornice stessa ma che costituisce anche il metodo di assemblaggio degli oggetti di studio, modificandoli.
A partire dalla definizione di questa scienza, Leoni negli ultimi capitoli del libro ci permette di vedere almeno due vertici a partire dai quali si può fare una scienza di fantasmi. Da una parte troviamo il filosofo “perverso”, che dopo Nietzsche è costretto a confrontarsi con la morte di Dio e alle nuove possibilità che gli sono date da scriversi. In qualche modo il filosofo perverso è un filosofo della contingenza lacaniana, colui che fa passare “ciò che non cessa di non scriversi” al “ciò che cessa di non scriversi”. Dall’altra, invece, in una posizione differente da quella del filosofo troviamo lo psicoanalista, che può manifestarsi attraverso più forme di singolarità: cadavere, santo (saint homme) e addirittura idiota. A differenza del filosofo, che fa emergere nuovi possibili attraverso assemblaggi fantasmatici, nella posizione di colui che “crea”, lo psicoanalista si pone in una posizione di annullamento, di “cadaverizzazione”, per permettere all’analizzante di incontrare e attraversare il suo proprio fantasma singolare.Una scienza di fantasmi, per concludere, è un libro che, fedele alla scena carrolliana descritta da Deleuze in Logica del senso, ci mostra uno scorrere obliquo e continuo di Uni, oggetti, figure, disegnando una ragnatela di associazioni attraverso le quali si inizia a vedere un fantasma emergente, una cornice ritmica. Questo testo vuole già essere, dunque, una messa alla prova di una possibile scienza dei fantasmi che animano il soggetto, lasciando libero di emergere, unico e singolare, un fantasma che anima la complessa struttura del testo:
Ciò che essa sa, e insieme ciò che essa fa, è conoscere e perciò spostare l’oggetto. Non si può conoscere il fantasma senza spostarlo. In parte perché lui stesso è mobile, metamorfico, consegnato a una perenne fibrillazione dei disparati che lo compongono. In parte perché noi stessi siamo mobili, noi che lo studiamo, noi con la nostra scienza del fantasma, la scienza stessa del fantasma che non è mai di fronte al fantasma ma è sempre spinta dal fantasma e immersa nel fantasma, dunque che è fantasma a tutti gli effetti. Se così è, la scienza del fantasma è un’arte che accompagna. (Leoni 2019 p. 105)
di Lorenzo Curti
Bibliografia:
Burroughs, W. S. (1959), Pasto nudo, tr. it. F. Cavagnoli, Adelphi, Milano 2012
Lacan, J. (2004) Seminario X. L’angoscia, tr. it. A Di Ciaccia e Adele Succetti, Einaudi, Torino 2007
Lacan, J. Séminaire XIX …ou Pire, Seuil, Paris, 2011
Lacan, J. (2013) Seminario VI. Il desiderio e la sua interpretazione, tr. it. A. Di Ciaccia e Lieselotte Longato, Einaudi, Torino 2016
Miller, J. A. L’Essere e l’Uno. La Psicoanalisi, 53/54, Astrolabio, 2013, pp. 177-227
Leoni, F., Jacques Lacan, una scienza di fantasmi, Orthotes, Napoli-Salerno, 2013
Recalcati, M., Jacques Lacan. La clinica psicoanalitica: struttura e soggetto. Raffaello Cortina, Milano, 2016
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Il libro di Manlio Iofrida, Per un paradigma del corpo: una rifondazione filosofica dell’ecologia, uscito per Quodlibet alla fine del 2019, si presenta come uno snodo ricco e importante per un approccio teoretico, etico e critico all’attuale questione ecologica. In questo senso, il libro s’inserisce nel cuore stesso del dibattito – non solo italiano – incrociando tematiche come il corpo, il concetto di Natura, lo statuto filosofico del vivente e della sua relazione con la tecnica (a questi temi si aggiungano la critica della cultura, la storia dell’arte, il dialogo tra filosofia e altri campi del sapere, i rapporti tra la cultura Europea e i suoi grandi altri ecc.).
Il libro assume quella che potremmo definire un’ottica cosmopolitica e si presenta come il crocevia d’intuizioni, idee e riflessioni che animano il gruppo di ricerca Officine Filosofiche (il gruppo gestisce anche un’omonima collana editoriale), fondato e diretto dallo stesso Iofrida assieme a Ubaldo Fadini. Molti argomenti sviluppati nel libro intrecciano le principali linee di lavoro del gruppo, contribuendo così a fare dell’ecologia filosofica uno dei campi di ricerca più innovativi e stimolanti dell’attuale panorama filosofico italiano.
Si può dunque comprendere, sin da queste prime considerazioni, che riportare in maniera analitica o anche solo accidentale tutti gli impliciti teorici – nonché la profonda erudizione dell’autore che conferisce all’ecologia un ampio spessore culturale – è compito improbo per una recensione e, probabilmente, anche inutile. Quel che ci proponiamo di fare in questa sede è di attraversare il testo in maniera “libera” tentando di esplicitare alcuni aspetti che sembrano restituire, nella parzialità della nostra lettura, alcune delle intenzioni di base dell’autore.
Non si può non partire dalla centralità teorica del tema del corpo che, non nuova nel lavoro di Iofrida, si richiama esplicitamente all’opera complessiva di Merleau-Ponty e all’attualità del suo concetto di Natura (pp. 19-31) «come limite che la cultura non può sorpassare» (p. 30). Sotto tale aspetto, questo studio si riallaccia (pp. 9-16), pur con oltre dieci anni di distanza, al precedente lavoro dell’autore Per una storia della filosofia francese contemporanea: da Jacques Derrida a Maurice Merleau-Ponty. Dire che questo sia un libro “merleau-pontyano” è senza dubbio corretto e tuttavia rischierebbe di schiacciarne la profondità su un “arroccamento” teorico, una semplice riproposizione ermeneutica. Devono essere menzionati, infatti, almeno altri due autori classici presenti come linee di basso nell’architettura del testo: Schelling ritorna diffusamente nel testo, utilizzato in chiave anti fichtiana-attualista (pp. 38, 141) o hegeliano-sintetico (anche se Hegel resta comunque un autore importante nell’impostazione ecologica iofridiana, pp. 138-140); ma è soprattutto il Kant della Critica della facoltà di giudizio a fornire un’impalcatura teorica di primo piano (vanno, poi, almeno ricordati i nomi di Goethe, Schiller e Adorno, per completare la batteria tedesca di riferimento, cfr. pp. 47-52). Ci sia concesso dunque di entrare nel vivo del libro approcciandolo alla lontana, così da poter restituire, se non altro, il profumo della complessa architettonica di Iofrida.
In siffatta architettonica, l’ecologia non si presenta tanto, né solo, come una disciplina scientifica (pp. 45-47) ma, potremmo dire, si tratta di una questione di gusto, di istituire un paradigma del gusto ecologico. Come si può intuire, molto lessico di Iofrida è intriso di una semantica post-kantiana. Il gusto, permettendoci l’ardire di parafrasare Kant, è quella strana facoltà di giudicare secondo sentimento (leggendo in questa chiave il giudizio riflettente).
Sappiamo anche che il sentimento è un vero e proprio mondo intermedio che si situa tra la facoltà di conoscere e quella di desiderare, ossia tra l’intelletto e la ragione, tra la “necessità naturale” e la “libertà umana” (che Iofrida definisce prometeica, cfr. pp. 59-61). Dire, dunque, che l’ecologia è questione di gusto significa affermare che essa si situa nel mezzo di un’ardita relazione tra la Natura e la Cultura – dualismo principale di molte riflessioni ecologiche. Ma, altresì, ci dà delle informazioni sugli aspetti “filosofici” dell’ecologia: il gusto, sappiamo dal §40 sul senso comune della Terza Critica, va educato. L’ecologia, secondo Iofrida, non consiste né nella descrizione di uno stato di cose oggettive (ci sia concessa la banalizzazione: filosoficamente, l’ecologia non può essere ridotta a una disciplina naturalistica) né, occorre fare attenzione, nella prescrizione di massime della ragione (che si limiterebbe a un greenwashing della Ragion Pura Pratica): l’ecologia è filosoficamente fondata nella misura in cui è capace di una vera e propria educazione sentimentale. Così, l’ecologia filosofica non è né scientifica (occorre «declinare l’ecologia come critica anti-intellettualista», p. 54) né morale («non si pone come sussunzione dominante», p. 119), ma è intimamente etica (l’ecologia, ci ricorda l’autore, è un pensiero della finitezza, pp. 52-56). È a partire da una esigenza etica (e, con Merleau-Ponty, connesso a un certo spinozismo schellinghiano, da un’esigenza anche ontologica) che va letta la proposta di un paradigma del corpo. Non si tratta, così, di fondare un principio di rappresentazione, o massime pratiche, ma di sviluppare delle ipotesi etiche, per dir così, da un punto di vista pragmatico.
Fatta questa premessa, possiamo addentrarci in alcuni aspetti concettuali. Uno dei concetti chiave per leggere la proposta iofridiana è quello di inerenza (pp. 29-31). Di matrice fenomenologica, l’inerenza è un fenomeno corporeo e rimanda a una «ontologia relazionale» (p. 41) che si pone in antitesi tanto con le ontologie costruttiviste del pensiero debole (p. 43) quanto con le ontologie realiste di certi modi di intendere il materialismo (pp. 60-61). L’inerenza è il concetto cardine di un’ecologia che si propone di lavorare in chiave ontologica sulla «nostra relazione coi milieux» (p. 41) – i riferimenti sono alla «geografia […] fenomenologica» (p. 39) di A. Berque: la relazione degli “individui” con gli ambienti (o paesaggi) «non è quella della sostanza pensante con la sostanza estesa; […] piuttosto c’è uno sconfinamento, un’interpenetrazione» (p. 41). L’inerenza ci offre una cifra filosofica importante: essa è la relazione chiasmatica – è evidente nel lessico iofridiano l’influenza di Merleau-Ponty – del vivente con i suoi dintorni, le sue Umwelten, il co-appartenersi di individuo e ambiente. Intreccio, potremmo dire, della parte con il tutto.
In quanto etica ontologicamente orientata, l’ecologia si interessa non alle partizioni sostanziali – che comportano, sul piano etico, la costruzione di un’impalcatura morale – bensì agli assunti relazionali (ci sia concessa un’assonanza col lavoro di Giuseppe Semerari 2009) che solo centrando l’analisi filosofica sulle potenze corporee possono essere messi in risalto. Questa inerenza, che è una mediazione senza soggetto – e che anzi produce soggettività – non è pensabile come Aufhebung, bensì come un’unità senza concetto (p. 115) attuata per il tramite del corpo «e la sua apprensione orizzontale del mondo» (p. 25). L’esigenza di un paradigma del corpo è dunque insito nella tematica stessa della relazione ecologica, così che, per Iofrida, ogni ecologia, sul piano etico, non può non passare – anche implicitamente, come traspare mediante la critica alla smaterializzazione postmoderna (pp. 67-68) – per il tramite di un paradigma del corpo.
Il problema del corpo è però l’altra faccia di un ulteriore assunto di Iofrida, ovvero l’idea complementare che la Natura non sia un oggetto (p. 45) e che il vivente non sia meccanizzabile (p. 30). Il rischio di interpretare in chiave puramente valoriale, facendo di tali assunti delle massime della Ragione, è grosso. Occorre dunque tentare di essere chiari, ancora una volta, sul lessico dell’autore. Siamo pur sempre, lo si è detto, sul piano del giudizio riflettente. I riferimenti sono ancora all’opera di Merleau-Ponty e, tramite lui, Schelling e Kant. In ultima istanza, l’orizzonte concettuale ci appare ancora di matrice kantiana. L’idea che il vivente non sia meccanizzabile vuol dire che lo specifico fenomeno di inerenza dell’umano agli altri viventi (che compongono i suoi dintorni) non è un rapporto conoscitivo, o intellettuale, né tuttavia un rapporto pratico. Non è conoscitivo perché, in quanto soggetti empirici, non tutti gli umani sono “scienziati”, e questo non pone particolari problemi. Ma non è neppure un rapporto pratico, perché non è possibile estrapolare una massima categorica da questa idea: non tutti i viventi possono agire conformemente a scopi (tralasciamo i motivi di tale impossibilità). L’idea che il vivente non sia meccanizzabile non è un enunciato che riguardi il regno della libertà. Concessa la formula, quella tra viventi non è una relazione tra esseri (radicalmente) liberi, situandosi, invece, nel regno intermedio tra la necessità dell’oggetto naturale e la libertà radicale del soggetto trascendentale (Merleau-Ponty 1996, 312-313).
Il problema del vivente – che possiamo anche chiamare, se ci è concesso, il problema della finalità senza scopo – è un problema sentimentale e affettivo. È ancora un paradigma del corpo che permette di comprenderlo: un corpo è il medium non solo, e non tanto, della natura e della libertà, bensì della inerenza al mondo e agli altri viventi. È mediante il corpo – un’utilità non strumentale – che si è costitutivamente aperti ad altre modalità dell’esistere e del vivere. Una mediazione senza soggetto che si fa nel mezzo delle relazioni inter-individuali: l’inerenza come vero e proprio fenomeno trans-individuale, contatti molteplici e variegati tra corporeità (cfr. Merleau-Ponty 1996, 254-261). Appare, in queste considerazioni, un altro dei concetti cardine della proposta di Iofrida, concetto che crea un ponte col suo lavoro precedente: si tratta della nozione di libertà strutturale. Una concezione strutturale – o ecologica – della libertà comporta che essa non sia la radicale assenza di limiti, bensì che trovi la propria potenza esistenziale ed espressiva nella composizione delle relazioni, nella ricchezza e varietà degli affetti e degli incontri corporei.
È una libertà che non è competenza di una filosofia della prassi, ma di un’etica, come accennato, dal punto di vista pragmatico. Un’ecologia della libertà richiede pratica e attenzione [Aufmerksamkeit] (p. 146), un’educazione sentimentale finalizzata a un uso ragionevole degli affetti. Insomma, la libertà, in una prospettiva ecologicamente orientata, presuppone una capacità tecnica. È in quest’ottica che leggiamo, infatti, la proposta di Iofrida di una tecnica ecologica (pp. 84-90). Si tratta di una formula ambigua, ma le ambiguità spariscono se non usciamo dalla semantica nella quale ci stiamo muovendo. Un tale epiteto, infatti, è lontano da un greenwashing delle attuali configurazioni tecnico-tecnologiche del tardo capitalismo: insomma, non si prospetta la necessità di una Green Economy. Si tratta, invece, di una concezione ecologica della tecnica che tenga conto del portato affettivo – cioè esistenziale e vitale – della tecnica.
In questo senso, una tecnica ecologica è di segno contrario rispetto alle attuali configurazioni produttive (si tratta di uscire dal dualismo manicheo «produzione o libertà», p. 60; andare al di là dell’alleanza demoniaca di capitalismo e schizofrenia, cfr. Pignarre & Stengers 2016) configurandosi invece come rivolta alla convivialità – tra umani e tra umani e non umani – incastonata nella complessità variegata degli ambienti di vita (fondamentale in quest’ottica il capitolo dedicato alla teoria dei sistemi, pp. 121-140). È ancora una semantica del giudizio: la tecnica rimanda all’arte, cioè una tecnica ecologica diventa una vera e propria arte dello stare in vita da parte dei viventi – ecologicamente, vi è tecnica ovunque vi sia fragilità e ostinazione della vita: occorre «concepire l’arte come un nuovo modo di rapportarsi al mondo […] poiché, già in se stessa, tale prassi priva di finalità è un’altra e superiore modalità di azione del nostro corpo vivente rispetto a quella meramente utilitaria, essa può essere punto di partenza di una prassi concreta […] e punto di arrivo di una costruzione dal basso, partecipata, intersoggettiva» (p. 152).
Senza dubbio si tratta di una concezione ottimistica della tecnica: nessuna caduta da un eden ormai perduto, né solo nichilistica distruzione della vita da accettare passivamente come un destino. Si tratta, invece, di un’arte pericolosa, quella dello stare in vita, proprio perché la vita – un vivente – è insieme ostinazione e fragilità: l’educazione sentimentale serve a saper «reggere delle crisi, saper gestire il rischio […], anche se rischio significa appunto che la crisi non è mai del tutto esclusa e che il disordine può avere sempre il sopravvento» (p. 123). È una concezione ecologica e ottimistica della tecnica, sì, ma non è il frutto di una anima bella (ecco comparire una certa ispirazione hegeliana). Rifacendosi al lavoro di Kurt Goldstein (2016), neurologo tedesco del secolo scorso, tra le fonti di Merleau-Ponty, Iofrida ci ricorda che «un organismo vivente, e l’uomo in particolare, è teso ad accrescere continuamente la propria complessità […]; esso cerca dunque la relazione e anche il conflitto, in un mondo in cui l’ordine è sempre un momento precario all’interno di una lotta di forze eterogenee che genera un perenne dinamismo» (p. 127).
Educazione sentimentale, teoria degli affetti e concezione tecnica del vivente: i tre capisaldi che istituiscono la fondazione filosofica dell’ecologia proposta attraverso un paradigma del corpo. Tale paradigma fa sì che un’ecologia filosofica si trovi a proprio agio non nel contemplare un’astratta e fondativa Natura Naturante, un’origine ormai perduta o distrutta dalla cattiveria dell’Uomo, bensì nel concepire modi possibili del vivere in comune, forme collettive di esistenza con i più ampi margini di gioco transindividuali, vincoli che non obbligano capaci di aumentare le potenze esistenziali e le capacità creative dei viventi umani e non (è questo il principale rimando al concetto di natura di Merleau-Ponty). Si tratta di una concezione minoritaria della storia, del divenire minoritario dell’umano, dei suoi affetti, delle sue ibridazioni, delle sue contaminazioni (cfr. Deleuze & Guattari 2015, 349-357). Una storia minore che non ha la Natura come Grande Altro, bensì che è caratterizzata dalla sua inerenza all’elemento naturale, alla sua imprevedibilità, alle sue complessità ontologiche (ma anche epistemologiche, dato che, ecologicamente, l’ontologia è inscindibile da un’epistemologia): si tratta di una storia universale della contingenza (Deleuze & Guattari 2002, 86).
L’ecologia filosofica proposta da un paradigma del corpo è così una filosofia artistica, un’arte, pericolosa e sublime a un tempo, del vivere insieme, del condividere la Terra con altri viventi (l’Autore parla di «un materialismo della Terra», p. 44). Un’arte, per chiudere restituendo il ruolo di Michel Foucault nel nuovo paradigma ecologico (pp. 205-211), che sia una «estetizzazione della vita come progetto condiviso di una comunità di eguali che dialogano e, esercitando la socievolezza, istituiscono con il mondo e gli altri una relazione che non è quella della ragione strumentale, brutalmente utilitaria, ma che può a tutti gli effetti definirsi ecologica: non è il bello quella dimensione sempre mobile di limite in cui ci apriamo al mondo e agli altri non in funzione di un dominio, ma per essere passivi quanto attivi, copresenti in una relazione con l’alterità che può definirsi col termine, anch’esso fenomenologico, di attenzione?» (p. 211).
Bibliografia minima
Deleuze, G. & Guattari, F. (2002; ed or. 1991). Che cos’è la filosofia?. Torino: Einaudi.
Deleuze, G. & Guattari, F. (2015; ed. or. 1980). Mille piani. Capitalismo e schizofrenia 2. Tr. it. G. Passerone. Roma: Castelvecchi.
Goldstein, K. (2016; ed. or. 1934). L’organismo. Un approccio olistico alla biologia derivato dai dati patologici nell’uomo. Tr. it. L. Corsi. Roma: Fioriti.
Merleau-Ponty, M. (1996; ed. or. 1995). La natura. A cura di M. Carbone. Milano: Cortina.
Pignarre, P. & Stengers, I. (2016; ed. or. 2005). Stregoneria capitalista. Pratiche di uscita dal sortilegio. Tr. it. di S. Consigliere e A. Solerio. Milano: IPOC.
Semerari, G. (2009; ed. or. 1961). La filosofia come relazione. Milano: Guerini.
di Gianluca De Fazio
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Cosa resta del padr(on)e
Recensioni / Aprile 2020Recensione a F. Lolli, Inattualità della psicoanalisi. L'analista e i nuovi domandanti (Poiesis Editrice, Bari 2019)
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Correva l’anno duemilatredici e la politica italiana attraversava una delicata fase di translatio imperii. Da una parte si assisteva al lento ma inesorabile sfacelo di quel mostro tentacolare, di quel partito-piovra-azienda che fu il Popolo della Libertà e, dall’altra, alla marea montante di nuovi (ancorché vecchi e pur sempre ideologicamente ritriti…) partiti populisti che sia da destra che da sinistra, sbracciando e sbraitando, miravano a conquistarsi frange sempre più consistenti di un elettorato quanto mai fiacco, stordito e disilluso. In un tale contesto - segnato tanto dal disorientamento ideologico quanto dall’altissimo tasso di dissonanza cognitiva che cominciava a serpeggiare nelle quotidianità anche più caserecce delle nuove società iperconnesse, smart e quasi completamente digitalizzate… - Massimo Recalcati, gettando uno sguardo retrospettivo sulla figura già in pieno declino di Silvio Berlusconi si esprimeva così:
«È questo eccesso pulsionale ciò che ha affascinato materialisticamente i suoi elettori. È il cardine di una nuova psicologia delle masse. Significa – e questo è ciò che ha dato al berlusconismo la sua forza specifica – affermare un desiderio privo di legge, dunque un desiderio che sconfina in un godimento illimitato che per la psicanalisi è il godimento incestuoso. Per questo l’appellativo ‘papi’ è rivelatore di una tendenza perversa intrinseca al berlusconismo come fenomeno culturale. Il padre non è più simbolo della Legge ma della sua continua trasgressione interna» (2013, p. 57).
L’agile libretto da cui è tratto questo passo, un’intervista in cui al più celebre tra gli psicanalisti lacaniani d’Italia l’editore-giornalista-scrittore Raimo chiedeva - non senza una certa qual dose di sacrale soggezione… - illuminanti e innovative analisi psicopolitiche del contemporaneo, si prospettava già dal titolo come un’operazione editoriale ben pesata, una vera e propria pubblicazione strategica: Patria senza Padri. Psicopatologia della politica italiana.
L’equazione Evaporazione del nome del padre = disagio della civiltà postmoderna alla quale il titolo alludeva, e alla quale ci siamo ormai abituati, ha funzionato infatti per anni come un mantra ed è stata riproposta dal suo gonfaloniere a più riprese e, senza grandi variazioni, nei contesti più disparati. Come i concetti di liquidità o di Nuovo Realismo proposti da Baumann e Ferraris, anche quello di Evaporazione-del-nome-del-Padre è stato al centro di un intenso dibattito (benché meno filosofico che giornalistico, più popolare che intellettualmente raffinato) che ha animato fiere del libro, salotti televisivi, festival della filosofia ed eventi culturali di ogni sorta. Al prezzo di ridurre la complessità intrinseca a materie quali la sociologia, la filosofia e la psicanalisi e correndo il rischio di lasciar scomparire l’identità stessa di queste discipline, il loro vero valore, dietro la bidimensionalità e la superficialità imposte dal “discorso pubblico” e dal senso comune, questi tre esempi ci illustrano chiaramente quali sono le difficoltà che incontrano la divulgazione e l’esportazione di modelli cognitivi “alti”, sofisticati o più semplicemente “tecnici”, in contesti in cui occorre (oltre che vendere più libri possibile…) accattivarsi l’interesse di un pubblico alla ricerca di facili e accomodanti risposte che sollevino da quell’oneroso e sfibrante compito che è il pensare, magari in modo critico, magari in modo autonomo.
Nell’equivalenza concettuale Evaporazione del nome del padre = disagio della civiltà postmoderna proposta da Recalcati, infatti, ciò che più colpisce è l’innegabile semplificazione alla quale è sottoposta la realtà (sia questa sociale, psichica, politica o storica), nonché la paradossale e quasi contradditoria via d’uscita politica che lo stesso Recalcati ha suggerito, per anni, quale soluzione allo stallo ingenerato dalla scomparsa della funzione simbolica incarnata dai padri, ovvero… il recupero della funzione simbolica incarnata dai padri. Come si legge nello stesso testo, infatti:
«Nell’epoca in cui il nome del padre evapora, affinché resti qualcosa del padre, affinché qualcosa del padre sopravviva, è necessario che ci sia una sua reincarnazione singolare. È solo questa incarnazione che può far esistere di nuovo il valore del nome. Questo per me è il passaggio centrale. E ha una forte risonanza politica. Per riabilitare la dimensione simbolica della politica, oggi completamente screditata, c’è bisogno di testimonianza. Il valore della politica non è più garantito ideologicamente dalla forza delle tradizioni, dalla autorevolezza simbolica dei partiti. Per riabilitare la politica non serve il nome ma l’atto. Come accade per il padre della Strada. Testimonianza di come un padre sperduto in un mondo senza Dio sia riuscito a sopravvivere e a non impazzire o suicidarsi. Questa testimonianza può essere la condizione attraverso cui rendere possibile l’evocazione del Nome del Padre. Non dall’alto, ma dal basso» (p. 113).
I brani sopracitati, lungi dal costituire un’estemporanea presa di posizione del loro autore, hanno assunto nel tempo un valore esemplare e a dir poco paradigmatico nella misura in cui riassumono, stilizzandola, quella che è stata la tendenza più in voga adottata, almeno in Italia, dalla letteratura critica di stampo psicanalitico nell’ultimo decennio.
Ora: è anche e soprattutto alla luce di ciò che è incorso all’interno di questo contesto, quello della letteratura psicoanalitica e filosofica mainstream, che una pubblicazione come Inattualità della psicanalisi. L’analista e i nuovi domandanti (Poiesis, Bari 2019, pp. 2014), l’ultima fatica editoriale di Franco Lolli, assume la sua peculiare pertinenza e acquista la sua giusta rilevanza. Ma dall’opera, che almeno nella sua prima sezione si prospetta come un vero e proprio tentativo di sottrarre al parallelismo Evaporazione del nome del padre = disagio della civiltà postmoderna il primato eziologico che vi attribuiscono molti psicanalisti contemporanei, traspaiono anche tanto l’esigenza quanto un intenso sforzo di revisione, di aggiornamento della pratica psicanalitica e di alcuni suoi presupposti dottrinali. Il libro consiste infatti nell’elaborazione di una questione assai complessa, che l’autore, forse, ricapitolerebbe così: «l’estensione dell’applicazione della psicanalisi e le mutazioni socioculturali intervenute negli ultimi decenni impongono una riconsiderazione profonda della tecnica che sia in grado di trattare domande diverse da quelle in risposta alle quali la psicoanalisi è nata» (p. 58). Seguendo la scansione tripartita del testo cecheremo di evidenziare sinteticamente sia le critiche al paradigma recalcatiano sia le istanze di stringente attualità (anche se paradossalmente inattuali…) sollevate da Lolli nel suo accattivante e assolutamente necessario nuovo libro.
Nella prima sezione l’autore, seguendo la ricerca di Zafiropoulos (2019), rileva l’influenza esercitata dalle letture di Bachofen, Durkheim e Horkheimer sul giovane Lacan. Questi, poco più che trentenne, azzardava con la formula “declino sociale dell’imago paterna” un’interessante diagnosi psicopolitica o psicosociale riguardante una mutazione antropologica che all’epoca, agli inizi del Novecento, giungeva a compimento ma che storicamente si innerva nei meandri della modernità. Con “declino sociale dell’imago paterna” Lacan indicava infatti quel precipitato di eventi di lunga durata come la rivoluzione industriale, la rivoluzione scientifica e il conseguente discredito subito dai monoteismi. La formula, quanto mai icastica, individuava una mutazione di non poco conto, quella tra famiglia patriarcale famiglia coniugale:
«Ad entrare in crisi è stata la declinazione storico-immaginaria della funzione paterna (l’organizzazione che le religioni monoteistiche hanno consolidato), non la funzione cosiddetta paterna in quanto tale, da considerarsi, al contrario, la condizione indispensabile al processo costitutivo del soggetto» (Lolli 2019, p. 16).
La presunta eclissi, il tramonto della funzione paterna (che produrrebbe da una parte un’ipertrofia di godimento, una circolazione incontrollata e diffusa di frivoli piaceri a buon mercato e, dall’altra, la scomparsa del desiderio e della progettualità quali possibilità di dare senso a un’esistenza altrimenti impantanata nelle paludi dell’edonismo) non è quindi una diagnosi completamente fuorviante. Vi è del vero, e al netto delle semplificazioni che una tale tesi è stata costretta a subire per poter circolare tra il grande pubblico. Occorre semmai, secondo Lolli, ridimensionare la portata e stemperare il lirismo che ammanta questa efficace formulazione del giovane Lacan.
Occorre, precisamente, distinguere tra quelle che sono le condizioni trascendentali del desiderio, di cui la funzione simbolica incarnata dall’ordinamento patriarcale non è che un esempio storicamente determinato, e le incarnazioni empiriche, appunto, di queste stesse condizioni. Sul primo versante il Lacan più maturo, che ha filtrato la lezione di Levi Strauss e di Saussure, individua la forza propria del significante, il potere generatore e antropopoietico del linguaggio mentre sull’altro polo, al contrario, localizza il ruolo simbolico occupato del genitore, dalla figura parentale materiale e contingente che si trova (molto spesso senza esserne addirittura consapevole…) a occupare lo spazio che è quello del garante formale dell’ordine simbolico. La paternità, dunque, non ha mai coinciso e non è mai stata sovrapposta, per Lacan, all’ordine simbolico (come sembrerebbe dire Recalcati) e i padri, lungi dal costituirsi come gli agenti diretti dello stesso, i suoi facenti funzione, non sono mai stati concepiti come nient’altro che dei presta nome.
Attraverso questo movimento di riconfigurazione e di chiarificazione della terminologia tecnica Lolli ci invita allora a valutare a pieno quella che è la portata della scoperta freudiana ovvero ci invita a rintracciare, al netto delle dinamiche storiche che determinano di volta in volta l’emergenza di nuove morfologie soggettive e identitarie, la dimensione strutturale che si muove carsicamente al di sotto della superficie dei fenomeni. Freud, infatti, ha scoperto che l’uomo, per far sussistere quel progetto millenario che va sotto il nome di “civiltà” (quella Kultur di cui la psicanalisi definisce il costo di produzione nei termini dell’Unbehagen, del disagio), ovvero al fine di porre in essere un ordine, un qualsivoglia assetto civile, ha bisogno di rinunciare al soddisfacimento pulsionale:
«La rinuncia pulsionale non è un’esperienza che l’umano possa evitare: essa è imposta dall’operatività del significante come dato ineluttabile dell’antropogenesi. Il soggetto si genera da tale originaria azione, inevitabile e indifferente ai contenuti socioculturali che il discorso vigente promuove. Il cambiamento delle ‘figure’ dell’Altro (cambiamento che in alcune epoche storiche si rende particolarmente evidente) non deve, in altre parole, indurre ingannevolmente a pensare che la sua funzione di regolazione del godimento possa essere cancellata» (p. 23).
La “rinuncia pulsionale” e la perdita di godimento (o più semplicemente tutto quello che passa sotto il nome di “castrazione”) sono allora la conditio sine qua non sia della civiltà che del suo disagio e indicano l’orizzonte concettuale di ogni analisi critica delle realtà sociali, politiche e soggettive che vogliano fondare i propri presupposti sulla psicanalisi freudiana. Le teorie dei “declinisti” (l’appellativo usato da Lolli per definire chi attribuisce al declino dell’immagine paterna la causazione del nuovo disagio psichico), per contro, sembrano focalizzare l’attenzione su di un aspetto marginale e più che altro formale della questione. Queste teorie, in altre parole, sembrano da una parte rimuovere la persistenza eterna, ubiquitaria, strutturale e per certi versi anch’essa inattuale del disagio, della sofferenza umana. Da un’altra parte, inoltre, le teorie decliniste paiono strumentalizzare questo stesso disagio in modo da far leva su di una tendenza che, nell’epoca del tramonto del simbolico e dell’estensione assoluta del dominio tecnologico sulla comunicazione, mira alla resurrezione di un discorso conservatore, revanscista e tradizionalista. E questo, ovviamente, al netto di quelle dinamiche storicamente determinate e variabili che regolano la patogenesi e le mutazioni morfologiche dei sintomi psichici, in ottemperanza alla distinzione sopracitata tra condizioni trascendentali del desiderio e incarnazioni empiriche di queste stesse condizioni. Su questo tema Lolli tornerà nella terza parte del libro.
Per ora ci basti notare che, una volta gettata luce sulle vicissitudini storico-filologiche del concetto di “declino sociale dell’imago paterna”, risulta più chiaro come la riproposizione post-moderna di questa categoria critico-diagnostica forgiata negli anni trenta del secolo scorso figuri più come una grossolana semplificazione che come una rivoluzionaria e geniale trovata sociopsicologica. Il mantra Evaporazione-del-nome-del-Padre=disagio della civiltà postmoderna, che è stato ripetuto fino allo sfinimento e che in un certo senso ha funzionato più come un martello che come una chiave di lettura filosofico-politica, avrà sicuramente facilitato l’individuazione di alcune tendenze insite alla realtà Italiana di inizio millennio e avrà favorito la comprensione (almeno quella cronachistica) di processi che sarebbero stati altrimenti difficilmente rendicontabili (non da ultimo i capricci di un anziano signore che si trovava a occupare, in quel momento, il ruolo di leader politico, di padre dell’orda…), ma non soddisfa di certo quei criteri che ne farebbero lo strumento-chiave per produrre una cosiddetta “diagnosi epocale”.
Nella seconda sezione (pp. 59-42) Lolli compie un’operazione di ricerca storico-filologica che non ha precedenti nella letteratura che riguarda Lacan. Grazie a un lento e faticoso lavoro archivistico di dissodamento e di certosina ricerca filologica qui Lolli ci consegna finalmente, per la prima volta, un elenco ragionato ed esaustivo di tutte le occorrenze incontrate dal termine “analista” lungo l’intero arco del Seminario. La ricerca merita un’attenzione particolare anche perché attinge, oltre che alle trascrizioni di Miller, ai seminari non pubblicati neanche in francese e reperibili solo on-line, seminari di cui esistono solo annotazioni dattiloscritte, appunti e registrazioni audio. Ogni occorrenza è opportunamente contestualizzata e analizzata e tutta questa seconda sezione va letta come un’esplorazione approfondita dell’intero spettro di significato che si dipana, per Lacan, attorno al significante “analista”.
Riproduco qui l’intero elenco degli epiteti reperiti da Lolli e che Lacan ha evocato per rendere conto della professione che ha praticato per tutta la vita, riservandomi di rimandare il lettore al ricco commento proposto in Inattualità della psicanalisi: analista feccia, Pantagruele, saint homme, fuoco fatuo, analista diviso, traumatico, posto vuoto, soggetto-supposto-sapere, dupe, ignorante, ingannatore, sarto, analista-taglio, sofista, specchio opaco, tecnico, facente funzione, analista-nel-gioco-significante, impostore, retore, ostetrico, ipnotizzato, analista-Verleugnung, analista dell’amore, Tiresia, analista-oggetto-a, sembiante, capro espiatorio, destituito, segretario, analista-nodo, analista ultimo-arrivato.
Ebbene, senza voler riassumere la varietà e l’eterogeneità di una figura proteiforme come quella dell’analista ci basti ricordare, qui, del grande insegnamento metafisico ed epistemologico che traspare dalla lezione di Lacan relativo allo statuto ontologico della sua “figura professionale”. Egli, infatti, con il suo fare da flâneur incallito, attraverso le sue pindariche digressioni e i suoi calembour, forte di un nozionismo sconfinato che elargisce al suo uditorio e ai suoi lettori come si trattasse di caramelle o di canditi e assolutamente preoccupato di farsi intendere (anche se, ça va sans dire, non da tutti…) fin nella più improbabile delle sue intuizioni, ha incarnato un modello certamente problematico e difficilmente replicabile di analista. Questo è fuor di dubbio. Sarebbe pura follia pretendere che tutti gli psicoanalisti si conformassero al suo stile anche perché, a dirla tutta, è uno stile un po' troppo ricercato, barocco, e alla lunga può risultare stucchevole. Altra cosa, però, è cercare di mimare con flemma professorale, moraleggiante e con toni decisamente paternalistici la postura cangiante e le movenze ardite di Lacan. Da parte sua, inoltre, questi non ha mai dato consigli su come vivere, non ha mai istruito le masse in merito a cosa sia più o meno giusto votare alle urne (non ha mai osato accusare gli avversari politici, per esempio, di esser nevrotici per il solo fatto di voler votare “No” a un referendum…) e le poche volte che si è presentato in televisione lo ha fatto per il gusto di non farsi capire…o meglio: per suscitare il gusto dell’incomprensibile. Imperniare l’esperienza analitica su quanto vi sia di indecifrabile, di muto, di inerte e di privo di senso: è questa semmai la più grande lezione che la filosofia e la cultura tout court possono trarre da quella pseudo-scienza, o da quella fanta-scienza, che è in realtà la psicanalisi. Il ruolo dello psicanalista di conseguenza non può che essere definito, diretto e limitato da questo paradossale interdetto. Come afferma Lolli, allora:
«Ogni sapere esibito dall’analista che intende spiegare la ‘sostanza’ delle cose umane diventa […] una farsa che magari, come capita di osservare frequentemente, riscontra favori e riscontri positivi (nell’immediatezza e nelle reazioni emotive che una sua presentazione charmant è in grado di generare) ma che, a lungo termine, non può che avere degli effetti di svalutazione della psicanalisi. Non solo: la riduzione della psicanalisi a ‘sapere dell’uomo’ ne decreta irreversibilmente la fine. Una disciplina che pensa di poter spiegare l’uomo infatti ha cessato di interrogarsi e dimostra, in questo modo, di essere giunta al capolinea della sua evoluzione (teorica e storica)» (p. 140).
Come a dire: dimenticarsi della lezione epistemologica di Lacan equivale automaticamente a esporsi all’accusa di voler occupare il posto del guru, del mâitre à penser (ovvero del maestro dietro la cui figura, spesso, si nasconde quella dell’ammaestratore) e, di conseguenza, di svilire la professione di psicanalista nella misura in cui si disattende ai suoi principi dottrinali.Un rischio, questo, che dovrebbe risuonare alle orecchie di quanti, all’interno della più che nutrita tribù dei filosofi e degli psicanalisti attualmente in auge, fanno leva sul proprio ascendente carismatico e sul fascinum intellettuale con il malcelato intento imbonirsi e infatuare intere platee, amalgami indistinti di telespettatori ed elettorato, in un gioco perverso di specchi, riflessi di fantasmi identitari e identificazioni paterne. Lacan (così come Heidegger, Freud e Sartre, per dirne alcuni…) ha esplicitato meglio di chiunque altro che non c’è nulla da dire, di sostanziale, in merito tutto ciò che l’uomo reputi essenziale per sé stesso, quindi: perché ergersi a maestri di verità e di vita se non per godere del godimento del mâitre?
Tali elucubrazioni trovano nella terza parte (pp. 143-190) del volume di Lolli un’ampia e originale elaborazione. L’ultima sezione, infatti, è dedicata all’annosa questione di come aggiornare la tecnica e la teoria psicanalitiche o, per dirla in altro modo, di cosa significhi essere uno psicanalista oggi. Una considerazione che può valere da banale premessa a questo problema potrebbe essere quella relativa ai mutamenti culturali e antropologici intercorsi tra l’epoca in cui si consuma l’invenzione freudiana dell’inconscio e lo stato attuale delle cose. Mutazioni di ordine economico, politico e storico non indifferenti come l’affermazione del consumismo come sistema etico e la riforma della morale influenzata dall’ormai ubiquitario modello neoliberale hanno infatti mutato, giocoforza, le condizioni materiali in cui l’inconscio si manifesta. Ma anche l’esistenza e il successo stessi della psicanalisi (ovvero la libera circolazione di un discorso critico-analitico che esplora la dimensione pulsionale e che mira a disambiguare l’opacità che si condensa attorno al nucleo scabroso, abietto e perturbante dell’umano) hanno contribuito, e non di poco, alla metamorfosi ontologica del sociale tuttora in atto.
D’altronde già J. A. Miller, durante il quarto Congresso dell’AMP svoltosi a Comandatuba, nel 2004, registrava non senza stupore le trasformazioni che un secolo di psicanalisi hanno impresso nella società e nella cultura contemporanee. Quasi come a voler suggerire l’idea di un effetto quantistico tale per cui la posizione dell’osservatore finisce con il mutare la natura, la struttura dell’oggetto osservato, l’erede di Lacan affermava:
«La psicoanalisi è stata inventata per rispondere a un disagio nella civiltà, a un disagio del soggetto immerso in una civiltà, che potremmo enunciare così: per far esistere il rapporto sessuale, si deve trattenere, inibire, rimuovere il godimento. La pratica freudiana ha aperto la via a quella che si manifestava – metteteci tutte le virgolette che volete – come una liberazione del godimento. […]. La pratica lacaniana, dal canto suo, ha a che fare con le conseguenze di questo successo sensazionale; conseguenze che sono sentite come dell’ordine della catastrofe. La dittatura del più-di-godere devasta la natura, fa scoppiare il matrimonio, disperde la famiglia e rimaneggia il corpo» (2006, p. 27).
È su questo stesso solco che sembra muoversi Lolli. Più che di evaporazione-del-Padre, infatti, sembra che l’autore suggerisca che dai nuovi casi psicopatologici traspaia una vera e propria evaporazione-dell’Io, una sorta di sua regressione generalizzata a quella fase detta “dello specchio” che qualifica tanto il funzionamento della mente psicotica quanto quello, per certi versi, della mente infantile. La psiche in via di sviluppo, infatti, condivide con quella psicotica l’assenza di solidi punti di riferimento simbolici, l’assenza di stabili identificazioni dell’io. In un contesto del genere non è di certo il padre a essere causa, in quanto assente o evaporato, dello sfaldarsi dell’universo simbolico e dello sfibrarsi della tenuta sociale garantita da saldi punti di riferimento. Più che di “declino sociale dell’imago paterna”, forse, converrebbe allora porre l’accento, per quanto riguarda l’eziopatogenesi delle psicopatologie contemporanee, sulle trasformazioni tecnologiche o sullo strapotere esercitato dagli oggetti – dalla fascinazione per lathousa, se volessimo parlare in lacanese. Ciò che qualifica la condizione sociale contemporanea è infatti probabilmente più simile a una sorta psicosi collettiva, una specie di schizofrenia che va a braccetto con le dinamiche di sfruttamento, iper-consumo e iper-produzione come preconizzato da Deleuze e Guattari in quegli stessi, ruggenti anni in cui Lacan teneva il suo seminario. Ma si tratta di una deriva che, se concepita al netto della retorica rivoluzionaria e neanche troppo velatamente celebrativa della quale i due filosofi sopracitati hanno sempre ammantato la psicosi, può essere intesa come un grande processo di infantilizzazione su larga scala, di regressione generalizzata, che elicita quella dimensione ancestrale e neotenica dell’uomo da intendersi quale vera e propria condizione trascendentale dello psichismo. D’altronde Freud e Lacan hanno ripetuto instancabilmente che “Il bambino è il padre dell’uomo” (anche se la citazione è tratta da The rainbow, una poesia di W. Wordsworth). Sembra proprio che sia a partire da qui, allora, che Lolli ci invita a riconsiderare il rapporto che intercorre tra attualità e inattualità della psicanalisi, tra sintomo e struttura del disturbo psichico:
«Quelli che vengono considerati nuovi sintomi sono, in realtà, forme “aggiornate” alle dinamiche storiche contemporanee del medesimo meccanismo. Basta grattare l’involucro del sintomo per vedere apparire, al di sotto della superficie fenomenica, la questione che inquieta l’essere umano da sempre: come conciliare l’esigenza di soddisfazione personale del proprio desiderio (sostenuta – ed è questa la peculiarità che possiamo rinvenire nell’attualità – dall’enunciato del discorso sociale) con le richieste alla rinuncia della piena soddisfazione (sulla quali l’economia capitalistica si regge, per rinnovare infinitamente il circuito di produzione della merce da cui dipende)» (p. 152).
E di qui sorge infine una duplice necessità. Anzitutto occorre aggiornare la pratica psicoanalitica ai nuovi bisogni insorti negli ultimi decenni, bisogni che Freud non poteva assolutamente prevedere. Lolli definisce “Psicanalisi applicata” questo nuovo modo, più attivo e in un certo senso più “interventista”, di condurre la cura. L’analista, per esempio, ora non riceve solamente ma induce la domanda d’analisi in soggetti che, seppur bisognosi, si rifiutano di formulare una richiesta di aiuto. Ma il nuovo analista è anche chiamato ad assume una postura più elastica e non è più costretto nella sua posizione di ricettore imperturbabile dei patemi dell’analizzante: egli partecipa attivamente alla discussione (laddove la psicoanalisi, a differenza di altre strategie terapeutiche, prevede appunto un suo ritiro, una sorta di sua scomparsa) ed è anche a chiamato a farsi carico della costruzione del transfert e del rinforzo dell’Io, indebolito dalla difficoltà che i nuovi analizzanti (i nuovi “domandanti”, come li chiama Lolli) riscontrano, come abbiamo visto, al livello delle possibili identificazioni offerte dai contesti culturali privi di saldi basamenti simbolici. Anche la mutazione del setting, degli orari e della cadenza delle sedute necessitata dalla nuova scansione del tempo imposta dai ritmi produttivi delle società post-industriali è un’altra trasformazione necessaria, così come lo è la necessità di istituire la seduta come luogo di un sapere possibile, valorizzabile, e non come un semplice “muro del pianto”. La professione praticata da Lolli e da ogni psicanalista permette, in breve, di registrare una sorta di atrofizzazione o di occlusione su larga scala delle potenzialità comunemente attribuite al linguaggio, alla comunicazione e al capire. E va da sé che, se è conclamato che l’efficacia e la tenuta dottrinale della talking cure risentono di tali mutazioni antropologiche, gli psicanalisti siano costretti ad aggiornare il loro strumentario e le loro tecniche di intervento.
La seconda necessità che emerge dalla mutazione antropologica in corso, invece, è relativa al versante opposto a questo, più avanguardista e progressista, e concerne la fedeltà ai testi fondativi, al “testamento spirituale” di Freud e alle fondamenta teoretico – epistemiche della dottrina psicanalitica. In una sorta di movimento enantiodromico, infatti, Lolli accosta alla necessità di una riforma della psicanalisi quella di istituire e di rinforzare la continuità con la tradizione. L’accento qui è posto sulla difesa della centralità della sessualità nella patogenesi del sintomo, sull’esistenza di ciò che Freud ha definito Unbewusstein (un sapere, lacanianamente strutturato come un linguaggio, che è posseduto dal soggetto ma del quale l’Io non è al corrente), sul potere terapeutico del Transfert e sull’importanza capitale da attribuire a Thanatos, ovvero alla pulsione di morte. Tutti questi elementi, infatti, definiscono il nucleo concettuale del lascito freudiano e animano la prorompente forza euristica che caratterizza l’analisi dell’inconscio classicamente intesa.
Solo grazie all’appiglio sicuro garantito da questi punti saldi è possibile, infatti, rilanciare la partita terapeutica ed euristica della psicanalisi – e solo grazie alla reiterazione di un gesto inattuale qual è quello del “ritorno a Freud” promosso da Lacan, sembra dire Lolli, è allora possibile rendere attuale quel discorso che mira al fondo oscuro, indecifrabile e opaco del soggetto parlante e che si cura solo della singolarità, dell’eccezione e della verità di ognuno, della verità dell’uno-per-uno:
«L’analista inattuale non vede nella condizione psicopatologica di chi riceve le conseguenze del declino del padre, dell’assenza del limite, dell’educazione permissiva o della scomparsa dell’autorità. Egli vede, piuttosto, un soggetto alle prese con il compito che impegna qualunque essere umano. Con la differenza che, nella specificità dell’epoca storica nella quale l’incontro si svolge, il compito di trovare un accordo possibile tra le esigenze pulsionali e le esigenze della civiltà è reso più complicato dall’inganno fondamentale che sostiene il regime consumistico-capitalistico. Il quale, nella logica perversa che lo contraddistingue, autorizza il cittadino a pretendere il massimo della soddisfazione (affermandone l’assoluto diritto) e, contemporaneamente, progetta e applica programmi di frustrazione del desiderio stesso, necessari alla macchina produttiva affinché la domanda di consumo non cessi mai» (p. 188).
di Filippo Zambonini
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Bibliografia
Lolli, F. (2019). Inattualità della psicanalisi. L’analista e i ‘nuovi’ domandanti. Bari: Poiesis Editrice.
Miller, J. A. (2006). "Una Fantasia", La Psicanalisi, 38.
Recalcati, M., (2013). Patria senza Padri. Psicopatologia della politica italiana. A cura di C. Raimo. Roma: MinimumFax.
Zafiropoulos, M., (2019). Lacan e le scienze sociali. Roma: Alpes Italia Editore.
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Alenka Zupančič – Che cosa è il sesso?
Recensioni / Maggio 2019Che cosa è il Sesso? (trad. di P. Bianchi, Ponte alle Grazie, Genova 2018), ultima opera della filosofa slovena Alenka Zupančič, già autrice di lavori su Kant, Nietzche e Lacan, è un testo che raccoglie anni di riflessione sulla psicoanalisi freudo-lacaniana e che si pone la sfida di affrontare la sessualità come una questione intimamente ontologica. Lo scopo di Zupančič non è però quello di “recuperare” la psicoanalisi di Freud e Lacan e dare a essa uno statuto ontologico che nobiliti la disciplina psicoanalitica (che sicuramente ha sempre subito accuse di pseudoscientificità e determinismo sessuale). Quello di Zupančič non è neanche (o non solo) un tentativo di rispondere alle domande della filosofia con la psicoanalisi né una sua difesa acritica; anzi, la posizione della filosofa slovena è conflittuale anche internamente al discorso psicoanalitico, portando al centro una delle questioni che sono state problematiche sin dagli esordi freudiani – appunto, la sessualità. Il sesso di cui ci parla Zupančič non è semplicemente l’insieme di pratiche sessuali, a cui fornire uno statuto ontologico maneggevole che ci risollevi immaginariamente dagli imbarazzi e angosce che questa dimensione ha scatenato nel tempo; piuttosto la filosofa vuole andare a svelare quanto il sesso sia proprio quella faglia o mancanza strutturale che permette al soggetto di diventare tale. Il sesso protagonista di questo libro non è una presunta naturalità che dovremmo accettare, ma è esattamente quella dimensione “disontologica” e “disorientante” che fa che sì che emerga un soggetto e, quindi, un inconscio.
Non è un caso, infatti – e Zupančič lo sottolinea continuamente nel testo – che Freud abbia sempre così insistito sulla centralità del Sesso nella psicoanalisi e che i suoi primi allievi, come Jung e Adler, abbiano sempre e sistematicamente reagito su questo punto. Ancora oggi la questione della sessualità rimane problematica e fa spesso da confine fra le varie correnti psicoanalitiche. André Green, nel 1995, pone una domanda apparentemente banale per la disciplina: “la sessualità ha ancora a che fare con la psicoanalisi?”. La questione, difatti, non è scontata: se in Europa (soprattutto in Francia) le nozioni di sessualità e pulsione avevano continuato a godere di un certo successo, oltreoceano invece la psicoanalisi aveva fatto vertere la propria pratica e la teoria verso concetti come quello di Sé e di Relazione. A dare ulteriore conferma del rapporto problematico della psicoanalisi con la sessualità, è una ricerca di Shalev e Yerushalmi (2009), ripresa anche da Zupančič, dove gli autori intervistano 10 psicoanalisti riguardo la tematica della sessualità in psicoterapia: ne emerge una generale e diffusa rimozione, e addirittura imbarazzo da buona parte dei clinici. La primigenia scoperta di Freud, la sessualità, piuttosto che essere l’elemento unificante delle varie divisioni e diaspore psicoanalitiche, è proprio il seme della discordia.
La domanda “Che cosa è il sesso?” – che, come abbiamo visto, è problematica anche per la stessa psicoanalisi – diventa il fil rouge per affrontare in maniera inedita e “rumorosa” domande classiche dell’ontologia. Non è senza peso che Freud, che aveva sempre cercato di tenersi distante dai riferimenti filosofici, in Endliche und Unendliche Analyse (1937) abbia riconosciuto proprio alla sessualità (come alla questione della pulsione di morte) un’origine filosofica nel dualismo empedocleo fra Eros e Neikos, che, sempre secondo Freud, avrebbe lavorato come criptomnesia inconscia. Ma in che misura il sesso (o meglio, l’interrogazione continua su quel punto di frattura e di inciampo che è il sesso) può funzionare come vettore nella lettura dei problemi dell’ontologia, del soggetto e della politica contemporanei? Non si tratta di ribadire, per Zupančič, semplicemente che il sesso c’è e che nasconderebbe in Sé quel senso e quella verità che tanto gli esseri umani si affannerebbero a cercare. Su questo la filosofa è chiara: il sesso non è “l’ultimo orizzonte del senso e della realtà”, qualcosa che semplicemente si può ritrovare dopo aver grattato la patina delle apparenze, eppure il Sesso è qualcosa di Reale. Ma questo Reale, ricavato dalle elaborazioni di Lacan, su cui tanto insiste Zupančič, non è la realtà dei filosofi, un orizzonte ontologico-epistemologico neutro e quasi rassicurante, piuttosto il Reale è, della realtà, quel nocciolo che resiste a ogni forma di simbolizzazione e ontologizzazione. Il Reale è esattamente ciò che viene tagliato fuori dall’Essere-in-quanto-essere perché sia possibile descriverlo e parlarne, e allo stesso tempo è quella dimensione che curva lo spazio ontologico dell’Essere. Non è un caso che sia Lacan sia Zupančič insistano tanto sulla sessualità di questo Reale, ed è l’inconscio il concetto che permette loro di giustificare questa insistenza. L’inconscio sessuale non è luogo di rimozione di un’istintività animale che “farebbe ritorno” in maniera disturbante, ma piuttosto un gap, un buco strutturale nel soggetto, che lo frattura dall’interno. Questo buco o negatività non è semplicemente un’assenza o uno zero, ma una quantità negativa (di eredità kantiana), inassimilabile e disgregante che funziona come luogo di emergenza del soggetto. Una crepa non è un niente, anzi conta spesso più dei muri, e il sesso è esattamente la crepa che divide i soggetti internamente. È in questo senso che la ripresa delle tavole della sessuazione lacaniana non serve a reiterare la formula della differenza sessuale, bensì a mostrare come essa lavori come operatore simbolico, tagliando il soggetto da dentro, piuttosto che dividendo i soggetti in due sessi o generi determinati fra di loro da un fantasmagorico rapporto sessuale (che non c’è). La sessualità, l’inconscio, il godimento e il Reale sono tutti nomi di ciò in cui il soggetto cartesiano inciampa svelando la frattura che lo domina dall’interno. Zupančič , riprendendo la questione lasciata aperta da Lacan (1973) nel Seminario XI su una sua possibile (para)-ontologia, in cui vi sarebbe una schisi fra l’Essere e il suo Reale, contribuisce a radicalizzare, anche in risposta ai progetti delle Object-Oriented Ontologies, nelle quali il soggetto tende a confondersi neutralmente con gli oggetti in una sorta di democrazia ontologica, l’immagine di un’ontologia dis-orientata agli oggetti, dove, invece, il soggetto continua a essere la frattura e l’alienazione scritta nel tessuto della realtà. Ed è proprio uno dei concetti fondamentali della psicoanalisi, la pulsione, a permettere la costruzione di una topologia del soggetto estimo, in cui i confini fra interiorità e esteriorità si deformano e l’oggetto (il famoso oggetto piccolo a lacaniano) si incista dentro il soggetto. Certo, parlare di pulsioni significa anche riportare all’attenzione antagonismi e conflitti rimossi o appiattiti in seno ai discorsi contemporanei.
Si può dire che ciò che pone le basi del progetto (dis)ontologico di Zupančič sia proprio questa nozione di pulsione. Infatti, Zupančič riprende e rianalizza il Trieb freudiano, le cui vicissitudini di significante lo hanno portato ad essere tradotto e rinaturalizzato come istinto. Invece, ciò su cui insiste, a ragione, la filosofa slovena, è proprio l’innaturalità della pulsione, che poco ha a che fare con eventuali istinti biologico-riproduttivi: essa si produce piuttosto come scarto di godimento nel lavoro del corpo, eccedenza che ritorna sul soggetto, lavorando sui suoi bordi. E non è un caso che Zupančič riprenda quella sezione del Seminario XI dove Lacan parla della pulsione come “farsi vedere”, “farsi cacare”, “farsi masturbare”: pulsione è ritorno del godimento del soggetto, nelle parole di Freud “una bocca che si bacia da sola”. Nel bambino attaccarsi al seno non è semplicemente la soddisfazione di un istinto dell’ordine del nutrimento, ma si produce un resto di godimento, un’eccedenza “libera” nel neo-soggetto. Certo, come dice la filosofa, “con la soddisfazione in eccesso non si può ancora parlare di pulsione” (p. 156) ma è necessario che la soddisfazione inizi “a funzionare, allo stesso tempo, come incarnazione oggettiva […] del negativo e come gap implicito nell’edificio significante dell’essere” (p. 157). Allora la pulsione è proprio il rappresentante di questo negativo interno al soggetto, ne diviene la figura (dis)ontologica centrale. La pulsione è per definizione parziale e frammentaria: non ha un Eden perduto verso il quale tornare né una “teleologia” pulsionale. Non esiste, dunque, un carattere genitale maturo a cui il soggetto dovrebbe tendere. L’impasto pulsionale è sempre un azzardo, un incastro sregolato e polimorfo: “se c’è qualcosa cui la pulsione assomiglia, è a un montaggio” (Lacan, 1973 p. 172). Non c’è sessualità né desiderio normale (ma al massimo normalizzabile) proprio perché queste dimensioni non hanno una forma precisa alle quali le pulsioni si dovrebbero adattare. L’incastro è sempre necessariamente contingente, idiosincratico. E proprio a partire da questa ripresa della pulsione, Zupančič apre una possibilità (psicoanalitica) di ricucire la ferita aperta fra i queer studies e la psicoanalisi, mostrando il volto “anarchico” e “polimorfo” delle pulsioni e cercando di sollevare la psicoanalisi da quella posizione “normalizzatrice” di cui spesso è stata accusata (e di cui di fatto è stata responsabile in molti casi).
Altro merito della filosofa è quello che, seguendo il percorso della pulsione sessuale, fra Freud, Lacan e Deleuze, viene ritrovata la tanto temuta pulsione di morte. Come sostiene Lacan stesso: “Come stupirsi che il suo termine ultimo sia la morte? Poiché la presenza del sesso nel vivente è legata alla morte” (Lacan, 1973 p. 180). L’essere umano non è la lamella lacaniana, il mitico essere scissiparo e immortale: per noi la condizione della divisione sessuata implica la morte del soggetto individuale. L’equazione è questa: dove il soggetto è sessuato, significa che il soggetto deve morire. Allora, di nuovo con un gioco topologico, una condensazione si verifica: cercando il sesso sul nastro di Möbius, questo viene incontrato nel luogo della morte. Non solo, la pulsione di morte, primaria rispetto al brulichio delle pulsioni sessuali ci appare proprio come quell’incrinatura, quella contraddizione, “singolarità unificante” dalla quale le pulsioni emergono e alla quale ritornano: “Presa a questo livello, la sessualità è davvero sinonimo di pulsione di morte e non è un suo opposto come Eros con Thanatos.” (p. 176)
Se il lavoro di Zupančič è proprio quello di svelare filosoficamente le contraddizioni inerenti il soggetto (il sesso, la morte, l’inconscio, il Reale), allora proprio questo soggetto è “l’incarnazione oggettiva di questa contraddizione nella realtà” (p. 185). Per la filosofa incontrare la paradossalità della contraddizione non significa, però, doversi abbandonare a un atteggiamento scettico o cinico; si tratta, piuttosto, di accettare la contraddizione proprio come quel Reale accessibile al pensiero, di pensare la contraddizione, come gli stessi matemi lacaniani hanno fatto, portando la logica ai suoi punti di frattura e rendendo disponibile al pensiero, paradossalmente formalizzata, la contraddizione.
What is Sex? è un libro originale, radicale e coraggioso per la forza con cui l’autrice invita a affrontare, pensare e concepire la contraddizione e il conflitto (e l’invito non è rivolto solo a filosofi e psicoanalisti, poiché la filosofa ha la capacità di sciogliere nodi intricati con battute immediatamente comprensibili). Chi volesse cercare qui una risposta alla domanda “cosa è il sesso” nel senso più rassicurante e definitivo di certo si troverebbe deluso, perché questo interrogativo diventa piuttosto l’intelaiatura di una riflessione filosofica che vuole prendere di petto tutte quelle contraddizioni, quei conflitti e quelle fratture che la psicoanalisi ha saputo riconoscere (e che, in molti casi, ha saputo anche dimenticare e rimuovere) nel soggetto, nella sessualità, nella morte, nell’inconscio e nell’ambiguità del legame sociale. In questo senso Che cosa è il Sesso? è anche un testo esplicitamente politico, che ci porta nuovamente di fronte quell’antagonismo strutturale che anima e agita la società dal suo interno, facendoci guardare con sospetto dove e quando il Rapporto (sessuale) e la Relazione sono state scritte con la R maiuscola, ponendo proporzioni “sacre” e determinate fra classi, sessi, popoli. Alenka Zupančič ci insegna a guardare con diffidenza chi istituisce questo rapporto in maniera ferrea (come i sistemi dittatoriali), ma anche chi tende a nascondere il conflitto insito nella relazione, neutralizzandolo nell’Etica. La filosofa, infatti, leggendo in chiave politica il famoso ed enigmatico detto di Lacan “non c’è rapporto sessuale”, ci restituisce l’immagine di un rapporto senza prototipo o modello ideale, ma che può sorgere, ogni volta nuovo e da ricostruire, sotto la “necessità” della contingenza, dell’idiosincrasia degli incontri fra i soggetti e nei conflitti che si generano dentro e fra i soggetti. Insomma, una prospettiva che ci fa assumere la responsabilità della contraddizione, piuttosto che negarla o rimuoverla, della frattura che ci domina da dentro e che noi incarniamo nel mondo anche in una dimensione autenticamente politica e trasformativa.
di Lorenzo Curti
Bibliografia:
Freud, S. (1937) Analisi terminabile e interminabile.Trad. it. R. Colorni. OSF Vol. XI. Torino: Bollati Boringhieri
Green, A. (1995) Has sexuality anything to do with psychoanalysis? International Journal of Psychoanalysis78: 871-883
Lacan, J (1973). Seminario: Libro XI. I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi. Trad. it. S. Loaldi e I. Molina. Torino: Einaudi, 1979
Shalev, O. & Yerushalmi, H. (2009) Status of sexuality in contemporary psychoanalytic psychotherapy as reported by therapists. Psychoanalytic Psychology, Vol. 26, No. 4, 343–361
Zupančič, A. (2018) Che cosa è il sesso?. Tr. it. P. Bianchi. Milano: Ponte alle Grazie.
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PK#9 \ Soggettivazioni. Segni, scarti, sintomi
Rivista / Settembre 2018L’intento di questa raccolta, che prende il titolo di “Soggettivazioni”, è stato quello di aprire una riflessione attorno alla teoria della soggettivazione lacaniana, così per come ce l’ha lasciata in eredità Lacan, a singhiozzi, nei testi stabiliti a partire dai suoi trent’anni di insegnamento orale. Cosa può dirci una psicoanalisi asistematica, distante dalle istituzioni universitarie rispetto a problemi di una concretezza innervata di realtà? Chi frequenta i dipartimenti di Psicologia e assieme l’insegnamento lacaniano sa che è incommensurabile la distanza che intercorre tra la specificità e la settorializzazione degli strumenti istituzionali a confronto con l’universalità dei concetti larghi e volontariamente mai definiti dello psicoanalista parigino. Tra l’estremamente particolare (l’ad hoc della psicologia contemporanea) e l’estremamente universale (il concetto, unità sintetica della filosofia) si rischia di incorrere in un deragliamento del punto focale, causato da uno scontro di metodi epistemologici che si sono stabilizzati ai bordi opposti l’uno rispetto all’altro. Nella scelta di prendere in considerazione un tema vasto e generale come la teoria della soggettivazione c’era l’interesse, da parte nostra, di porlo in dialogo con il campo altrettanto vasto e generale del presente. Speriamo che questa prima ricerca possa costituirsi come un’indagine (sebbene parziale) sullo statuto del soggetto in quanto campo epistemologico aperto: attingendo dalla teoria psicoanalitica e dal dibattito che ne è scaturito, il presente volume segue molteplici sentieri analitici e sottolinea di contributo in contributo la difficoltà di giungere a un’idea organica di soggetto, per la varietà di ipotesi spesso contrastanti in merito alla sua rappresentazione, formalizzazione e interpretazione. In questa raccolta crediamo che i punti maggiormente messi in rilievo da chi ha collaborato riguardino il problema della genesi, lo statuto della trasformazione, e infine un’attenzione specifica è stata rivolta al registro del Reale e ai suoi effetti.
A cura di Lorenzo Curti e Irene Ferialdi
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DOI: https://doi.org/10.13135/2385-1945/9.2018
Pubblicato: settembre 2018
Indice
Editoriale
L. Curti, I. Ferialdi, Soggettivazioni: tra vuoti e contiguità [PDF It]
I. Genesi
P. G. Curti, Estrarre il soggetto [PDF It]
C. Mola, Intrecci concettuali. Il soggetto tra Hegel, Kojève e Lacan [PDF It]
A. Lattuada, L’atto reale e la genesi del soggetto nella psicoanalisi di Jacques Lacan [PDF It]
D. Tolfo, Per un'analisi non significante della soggettività: la funzione del punto-segno ne l'Anti-Edipo [PDF It]
II. Trasformazioni
L. Melandri, La parola contaminata dei movimenti non autoritari degli anni Settanta [PDF It]
R. Chiafari, Drammaturgia e metamorfosi del genio maligno: soggetti e spettri tra follie e ragione [PDF It]
M. Di Bartolo, La psicoanalisi come estetica dell'esistenza [PDF It]
A. Soares De Moura Costa Matos, Streaming Subjectivation: Two Questions and One Thesis about Netflix [PDF En]
III. Reale
F. Cimatti, La lingua c'è. Saussure, Chomsky e Lacan [PDF It]
A. Pagliardini, Verso il reale: schizofrenia/psicoanalisi [PDF It]
F. Vergine, Le origini trascendentali del mondo. Per un'ontologia topologica del reale [PDF It]
Traduzioni
A. Zupančič, Differenza sessuale e ontologia [PDF It]
F. Rambeau, La fosforescenza delle cose [PDF It]
Interviste e recensioni
Intervista a Franco Lolli [PDF It]
F. Zambonini, Una quasi-recensione a "Lacan, oggi. Sette conversazioni per capire Lacan" di Sergio Benvenuto e Antonio Lucci. Considerazioni marginali sul rapporto filosofia-psicanalisi [PDF It]
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Nel 1996 Lev Manovich, in polemica con le derive commerciali della computer art, pubblica un articolo su Rhizome in cui contrappone la terra di Duchamp e la terra di Turing: se per il teorico dei nuovi media l’arte dopo Duchamp è sostanzialmente autoreferenziale, autoironica, complicata e orientata al contenuto, quella che utilizza le nuove tecnologie dell’informazione è invece semplice, incentrata sulla forma e rispettosa del proprio medium (qui inteso come dispositivo). Questa divaricazione fra le due terre, però, che in Duchamp Meets Turing Gabriela Galati si pone l’obbiettivo di ricongiungere, si basa su un presupposto dualismo fra contenuto e forma che, opponendo realtà e rappresentazione, rimane incapace di cogliere le modalità performative dell’arte inaugurate da Duchamp ma proprie anche degli ambienti mediali digitali, e considerare così la linea di confine fra le due “terre” come un medium connettivo (e anzi generativo) invece che come un taglio insanabile.
Facendo implodere la costellazione di dicotomie che ha sostanziato la nozione di rappresentazione tradizionale, fondativa del canone moderno e solo apparentemente superata in quello postmoderno, diventa invece possibile cogliere la dimensione incarnata dell’informazione e, per converso, quella informata della materia, ovvero i feedback loop che modulano i collegamenti fra attori umani e non umani in ambienti immersivi e dinamici insieme fisici e virtuali, dove corporeità e cognizione si performano continuamente in relazioni mediate e processi contingenti e distribuiti (pp. 15-16), come ben esemplifica uno dei casi di studio più interessanti scelti da Galati, la performance Excellences and Perfections realizzata su Instagram da Amalia Ulman fra l’Aprile e il Settembre del 2014 (pp. 72-77).Sospesi nella cesura tra originale e copia, segno e cosa, mente e corpo, il Soggetto (un soggetto che sappiamo adesso riconoscere come marcato e posizionato, appartenente alla tradizione umanista e liberale dell’Occidente) l’oggetto e il medium sono rimasti, invece, sostanzialmente divisi. In Duchamp Meets Turing, Galati propone una radicale revisione di una serie di nozioni chiave (ripetizione, simulacro, archivio, incoporazione e medium) che hanno contribuito a produrre questa interminabile catena di duplicazioni adoperate per giustificare “rappresentazionalmente” la rappresentazione – e confluite nella divaricazione fra analogico e digitale, servendosi di alcuni fondamentali antidoti teorici quali la ripetizione o la piega di Deleuze, la différance di Derrida, il postumano di Hayles, o il modello semiotico triadico di Pierce. L’obiettivo dell’autrice non è tanto quello di rintracciare una continuità delle espressioni artistiche negli ambienti digitali, né quello di garantire nuova legittimità al discorso estetico sul digitale, quanto piuttosto quello di scovare il “punto cieco” (p. 18) a partire dal quale l’umano e il macchinico avrebbero potuto ritrovarsi nel mezzo, e invece si sono ritrovati uno di fronte all’altro, pur se – ma solo in apparenza – sembrerebbe sia stato il contrario. Ma immaginare l’umano come una macchina, controllando il passaggio delle informazioni nel corpo per la gestione del suo equilibrio e del suo potenziamento (si veda la prima formulazione della teoria del cyborg di Clynes e Kline (1960), oppure la macchina come un umano, testando fino a che punto può spingersi l’intelligenza di un computer, secondo le interpretazioni prevalenti del test di Turing (la cui iniziale componente performativa e di genere è stata quasi subito assorbita in quella cognitivista-rappresentazionale), sono operazioni che presuppongono entrambe una scissione sostanziale fra l’umano e la macchina, e che possono soltanto contemplare una loro analogia o una loro reciproca sostituzione (con tutte le derive tecnoutopistiche o tecnodistopiche che ciò ha comportato), ma mai la loro coimplicazione (vedi p. 86).
Per Galati, questo punto cieco – che è anche il paradossale punto di vista di nessun soggetto in particolare, ma a partire dal quale ogni soggettività può essere costituita – è proprio il ready-made di Duchamp, che riprendendo la nozione di Lévi-Strauss, l’autrice definisce “significante fluttuante dei media” (p. 148), ovvero un medium vuoto potenzialmente riempibile in modi sempre diversi, piuttosto che qualcosa di fatto e finito stando a una traduzione letterale del termine. Un medium che si presta a spiegare il funzionamento anche dei processi digitali partendo dall’idea di un soggetto e un oggetto emergenti nel mezzo, relazionali e assemblati come quelli che popolano le riflessioni sul postumano e sul cyborg di autori come Haraway, Hayles o Caronia. Nel ready-made, l’opera d’arte si libera finalmente dalla tirannia del referente esterno di cui sarebbe segno e copia, e acquisisice una medialità immanente e radicale, senza punti di partenza né approdi (si veda la recente riflessione di Grusin in proposito).
L’intera operazione duchampiana, che ha nel ready-made il suo fulcro, è una rivolta contro lo statuto retinico dell’arte, che travolge a un tempo l’idea di estetica come contemplazione, di pittura come produzione di oggetti (unici) per un mercato e di spettatore come soggetto esclusivamente guardante, nonché il privilegio della visione (disincarnata) sugli altri sensi. Con Duchamp, l’opera cessa di essere rappresentazione e diventa medium perché il medium scavalca il privilegio del significante e anche del significato come dati nel testo e, passando al contesto, “esplode” (Krauss cit. in Galati, p. 188) facendosi processo – in quanto evento, e non stato, sempre diversamente ripetibile (pp. 62-66). Nell’“indifferenza visiva” del ready-made come opera che non viene fatta il medium non coincide con gli strumenti tecnici della pittura (supporto e pigmenti), come al contrario ribadirà Greenberg sostenendo il primato del significante nell’“esperienza puramente ottica” della pittura, né d’altra parte il ready-made come opera senza autore può essere il contenitore di un messaggio. In tal senso, la difesa duchampiana dell’arte concettuale contro l’arte “animale” come arte che piace più facilmente non va letta come un suo rifiuto della materialità, ma pittosto della piena comunicabilità dei valori che l’arte sarebbe in grado di veicolare una volta per tutte, e del gusto che questi fonderebbero a partire dalla “callistica” dominante.
Duchamp, anzi, definisce coefficiente d’arte il rinvio, lo scarto tra ciò che nell’arte si progetta e ciò che accade, tra intenzione e risultato, ovvero tra controllo e casualità, una nozione che ben si presta a essere letta all’interno di un approccio performativo come quello proposto da Galati, in cui ogni opera è attualizzazione sempre diversa di un “nodo di tendenze” (Lévy cit. in Galati, p. 120) che ne costituisce la virtualità senza fondo. Potremmo dire, allora, che il ready-made esplora il medium come interfaccia, incontro, appuntamento casuale, resi possibili da una trasparenza che, come quella de Le Grand Verre (La Mariée mise à nu par ses célibataires, même, 1915-1923) – tecnicamente non un ready-made ma operante secondo la medesima logica –, non allude a una leggibilità, quanto piuttosto alla necessità dell’attraversamento e del rimando, una trasparenza che partendo dal contesto e attraversando il testo riporta ancora, ma sempre diversamente, al contesto. Trasparenza impura, soggetta al caso che può incrinarla, come effettivamente accadde a Le Grand Verre – opera aperta per eccellenza, mai più riparata né finita – durante un trasporto, o persino opacizzarla, come testimonia Elévage de Poussière di Man Ray, fotografia del 1920 (a sua volta ready-made elevato a potenza) che ci mostra un Vetro appena riconoscibile, in posizione orizzontale e ricoperto da uno spesso strato di polvere. Qui, come anche in un’altra opera “indicale” duchampiana, Tu m’ (1918), la trasparenza si trasforma addirittura in traccia, differimento della presenza, impossibilità dell’origine, direbbe Derrida.
“L’arte è una condizione, una condizione eraclitea di continuo mutamento, no?”, dice Duchamp a Dore Ashton in un’intervista del 1966. Una condizione ready-made, dunque, fluttuante e in divenire, che istituisce lo sguardo (e il suo soggetto) altrove ogni volta, perché sempre già in ritardo o ancora in anticipo rispetto a ciò che è.
di Federica Timeto
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Tra le scuole di pensiero marcatamente connotate dalla presenza di un capostipite fondatore – si pensi alla fenomenologia di Husserl, all’ermeneutica di Heidegger, e alla biopolitica di Foucault – oggi è forse la decostruzione a godere della più vasta pervasività; e non tanto per intensità e clamore mediatico, quanto piuttosto in termini di tacita assunzione e di capillarità. A nostro modo di vedere, ciò è potuto accadere poiché, situandosi a cavallo di istanze epistemologico-metodologiche e di ipotesi ontologiche forti, il pensiero di Derrida ha raggiunto lo statuto di referente teorico ineludibile, sia dal punto di vista dei detrattori sia da quello dei più strenui fautori. Equipaggiando la filosofia di un metodo critico di lettura e riscrittura, così come, al contempo, drenando dai bacini delle filosofie decostruite operatori concettuali dormienti, la decostruzione ha fornito strumenti e spazi di disputa. È divenuta cioè il teatro ideale di animate discussioni, tanto interne, volte ad affinare la lettura degli stessi testi derridiani, quanto esterne, ossia vertenti sulla possibilità o meno di applicare le procedure e le nozioni decostruttive in relazione a prospettive di diverso lignaggio. Ora, è esattamente in direzione di questo doppio binario che si inserisce il recente lavoro di Francesco Vitale, Biodeconstruction. Jacques Derrida and Life Sciences (Suny Press, 2018). Frutto di un’attenta ricerca filologica, capace di coordinare l’approccio storico-ricostruttivo con quello più spiccatamente propositivo, il testo di Vitale si situa a pieno titolo tra i lavori della “scuola” decostruttiva progressista, intendendo con questa espressione quel filone di studi derridiani – di cui Rodolphe Gasché è probabilmente il nume tutelare – impegnati a manifestare fedeltà metodologica alla decostruzione, tramite un’espansione della sua area di operatività. Dopotutto il volume di Vitale, come si vedrà, cerca di assecondare quello che fu l’auspicio stesso di Derrida: preservare la singolarità del gesto decostruttivo tradendone però, di volta in volta, i limiti epistemici.
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Extra#2 \ TURNS. Dialoghi tra architettura e filosofia
Extra / Febbraio 2018TURNS. Dialoghi tra architettura e filosofia è la traccia di un dialogo spesso acceso, ricco di incomprensioni e riconciliazioni, che coinvolge architetti e filosofi, docenti e professionisti, e ancora biologi, dottori di ricerca, studenti. È il racconto di due discipline, architettura e filosofia, che si voltano per guardarsi reciprocamente, provando a innescare una svolta concettuale che deve divenire un nuovo punto di partenza. Precisamente questo è il doppio significato del termine “Turns”.
Da un lato infatti, il filosofo ha sempre avuto difficoltà a interloquire con l’architetto, sia per ragioni storiche sia per ragioni strettamente legate al suo metodo e ai suoi obiettivi. L’architetto sembra infatti presentarsi allo sguardo del filosofo come un personaggio al contempo perturbante e conturbante, in un misto di attrazione e biasimo, di invidia e ammirazione: una figura tanto sfuggente da investire la riflessione filosofica con effetto retroattivo, facendo scricchiolare le sue fondamenta concettuali e mettendo in dubbio nozioni fondamentali quali verità, libertà, realtà, conoscenza, invenzione, possibilità, necessità, che hanno rappresentato per secoli il lessico base del pensiero occidentale. L’interesse verso una simile figura sembrerebbe ovvio. Eppure, quasi sempre è il filosofo che viene interpellato, utilizzato o coinvolto nel lavoro dell’architetto, in molti casi con l’intento di distillare spazialmente il senso dei suoi discorsi nel progetto. Non che ciò sia impossibile, ma, forse, dovremmo domandarci se è proprio questo quello che vogliamo: o se invece non sia compito del filosofo esercitare una sistematica e implacabile strategia di provocazione interessata, al fine di produrre un effetto, una particolare condizione dello sguardo. Creare la crisi, mettendo in discussione ciò che è dato, sapendo che, come spesso accade, l’apertura verso un nuovo oggetto di conoscenza lascia insoluti quei quesiti che lo vedono direttamente implicato per produrre un effetto retroattivo di chiarificazione nel soggetto indagatore, impegnato a leggersi ora attraverso una nuova forma di mediazione.
Dall’altro lato, per l’architettura il rapporto con la filosofia è storicamente naturale, quasi che questa fosse una visione complementare sul mondo rispetto al suo operato: questo era possibile perché la società si evolveva in modo relativamente lento, attraverso sedimentazioni di usi che diventavano convenzioni sociali, di pensiero, di stile. Così andava nell’architettura egizia, in quella classica, nel medioevo, nel rinascimento, finanche nel Modernismo: i significati erano decifrabili perché si condivideva un sostrato convenzionale. Ma qualcosa è cambiato. Le correnti durano pochi anni: poi passano, come le mode, spesso senza lasciar traccia – tranne edifici già superati, ovviamente. Così, spariscono le teorie dell’architettura, cioè sistemi che dicano cosa sia giusto costruire. E senza una teoria che legittimi le scelte, fioriscono le retoriche e le poetiche personali, spesso così ridicole da essere persino (e giustamente) oggetto di satira. La condizione di fragilità dell’architettura contemporanea è ormai fisiologica. Ed è qui che la filosofia diventa non solo utile, ma necessaria. A patto, certo, di non usarla in senso analogico, con derivazioni dirette che trasformano concetti in forme e pensieri in stili. Dialogare con i filosofi serve perché essi ragionano su temi che, in qualche modo, toccano gli architetti – ad esempio, lo spazio, l’invenzione, la città, la generazione della forma, il potere. Capire qualcosa di quei temi aiuterà a progettare con una maggior consapevolezza, o una più approfondita convinzione sulle ragioni del progetto, e a capirne meglio effetti ed esiti.
A cura di Carlo Deregibus e Alberto Giustiniano
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DOI: https://doi.org/10.13135/2385-1945/1.2018
Pubblicato: gennaio 2018
Indice
Alberto Giustiniano - ARCHITECTURAL TURN. Il filosofo e le sfide del progetto [PDF It]
Carlo Deregibus - PHILOSOPHICAL TURN. Fragilità dell’architettura contemporanea [PDF It]
(S)Block-Seminar
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DA LASCAUX AI JUNKSPACE
Giovanni Leghissa - Da Lascaux ai junkspaces (passando per Ippodamo da Mileto) [PDF It]
Giovanni Durbiano – Descrivere il progetto dello spazio [PDF It]
Riccardo Palma – Molteplicità e non naturalità degli spazi nella produzione del progetto di architettura [PDF It]
RIFERIMENTI di Andrea Dutto [PDF It]
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DECOSTRUZIONE, IMMANENZA, ILOMORFISMO
Giulio Piatti – Simondon e Deleuze di fronte all’ilomorfismo. Appunti sul rapporto forma-materia [PDF It]
Carlo Deregibus – Appunti su Chōra, spazio e architettura. Da Platone a Derrida [PDF It]
Paola Gregory – Le nuove scienze e la conquista dell’informale [PDF It]
Riccardo Palma – L’assenza necessaria dell’architettura [PDF It]
RIFERIMENTI di Andrea Canclini [PDF It]
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FENOMENOLOGIA E PROGETTO
Claudio Tarditi – Fenomenologia e architettura. Introduzione al problema della percezione spaziale in Edmund Husserl [PDF It]
Alberto Giustiniano – Tempo, forma, azione. Il senso del progetto nel dialogo tra Enzo Paci e Ernesto Nathan Rogers [PDF It]
Silvia Malcovati – Per un razionalismo relazionale [PDF It]
Carlo Deregibus – L’orizzonte del progetto e la responsabilità dell’architetto [PDF It]
RIFERIMENTI di Federico Tosca [PDF It]
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MORFOGENESI E AUTOORGANIZZAZIONE
Veronica Cavedagna & Danilo Zagaria - Quale spazio per la morfogenesi e l'auto-organizzazione? [PDF It]
Paola Gregory – Morfogenesi architettonica e “vita artificiale” [PDF It]
Carlo Deregibus – Progetto e complessità. Fascino dell’analogia e libero arbitrio [PDF It]
RIFERIMENTI di Edoardo Fregonese [PDF It]
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ANTROPOGENESI E COSTRUZIONE DELLO SPAZIO
Roberto Mastroianni – Regimi dello sguardo. Sloterdijk e la metafora spaziale [PDF It]
Alessandro Armando – La scrittura del futuro e la promessa del progetto [PDF It]
Daniele Campobenedetto – Leggibilità e materialità dello spazio [PDF It]
RIFERIMENTI di Federico Cesareo [PDF It]
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POTERE E SPAZIO
Luigi Giroldo – Genealogie dello spazio contemporaneo. Utopie moderne e nascita dell’urbanistica [PDF It]
RIFERIMENTI di Andrea Canclini [PDF It]
BIBLIOGRAFIA
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Questo lavoro di Ronchi non può essere ignorato da chi continua o comincia a considerare la filosofia uno sforzo rigoroso e sistematico. Esso, non esito a dire, risponde a una delle domande comunemente dette “da un milione di dollari”: ma la filosofia ci serve oggi? Se sì, in che modo? E risponde non dicendo che è così e perché è così, ma mostrandolo. Apocalissi valoriali, catastrofi culturali, instabilità politiche, identità frantumate, mutamenti sociali, stravolgimenti psicologici, crisi economiche, flussi perpetui, turbolenze costanti, intrecci inestricabili, dinamiche inarrestabili, movimentismi, aperture incessanti, ossessione per la novità, e così via: sembrerebbe questa la cifra della contemporaneità, di un’epoca in cui trasformazioni e processi sembrano moltiplicarsi in modo quasi asfissiante. Vediamo istituzioni nascenti o fatiscenti, crisi economico-sistemiche, esistenze in costante transizione, affermazione del lifelong learning, moltiplicazione di scoperte scientifiche e di progetti di ricerca in campi nuovi, sommovimenti sociali e politici e chi più ne ha più ne metta. Si tratta di una fase storico-culturale che comincia a essere esplicitamente connotata come «interregno» (C. Bordoni), quasi alla stregua di un limbo perpetuo, di una fase di transizione in atto ma senza un “verso dove”, di un cambiamento in corso ma senza un “verso cosa”, di un post- (modernità, verità, democrazia, guerra, comunità, Stato, …) che rigira su di sé, sospeso tra l’euforia e la fobia per ciò che sarà, come tra il disprezzo e la malinconia per ciò che è stato. Sembrerebbe di vivere in un periodo socio-politico nel quale la depressione si diffonde, intesa come affaticamento esistenziale e proprio in rapporto alla configurazione di un ambiente dove riveste un ruolo centrale la persistenza dello sforzo di configurare il proprio posizionamento, piuttosto che la permanenza di una posizione data (A. Ehrenberg). Simili fenomeni dinamico-relazionali o «d’intorno», per dirla con E. Morin, sembrano aprire almeno tre tipi di interrogativi.
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Alfredo Ferrarin – Galilei e la matematica della natura
Recensioni / Dicembre 2016“La scienza nasce polemica”: è questo ciò che si potrebbe dire alla luce della lettura del Galilei e la matematica della natura. Lo si potrebbe dire, senza timore di sbagliar troppo, perché il Galilei di Ferrarin è un uomo filosoficamente polemico, che prende continuamente posizione contro qualcuno o contro qualcosa. In primo luogo, ben lo si sa, Galilei si pone contro la tradizione. Non vi è alcuno spazio, nelle pagine di questo libro denso e breve, per un’impostazione anche solo latamente continuista; men che meno ve ne è per quelle tesi che desiderino tratteggiare un’immagine di Galilei come uomo essenzialmente premoderno, col fine malcelato di ridimensionare la portata della “rottura” all’origine della storia della scienza moderna. In una cornice di fondo che mi pare debba molto alla storiografia koyreana, Ferrarin dipinge il lavoro di Galilei proprio come punto di frattura – di coupure – tra due epoche. Una discontinuità che ridefinisce i rapporti tra il campo dell’esperienza e quello della teoria, che chiude definitivamente con certi schemi epistemologici e produce una nuova configurazione possibile dell’impresa della conoscenza. Per quanto infatti – anche sulla scorta di lavori di studiosi autorevoli come Stillman Drake – in molti abbiano manifestato la necessità di rivedere e complicare la tesi circa il platonismo di Galilei (avanzata tra gli altri proprio da Koyré), non è in ogni caso corretto, secondo Ferrarin, proporre l’immagine di un Galilei critico degli aristotelici e dell’aristotelismo di maniera ma, in fondo, genuino seguace di Aristotele, ben più fedele al Filosofo di quanto non lo fossero i peripatetici “ufficiali” delle Università. Galilei è certamente in polemica innanzitutto con tutti i Simplicio del proprio tempo ma, nota Ferrarin, lo stesso «Aristotele non viene risparmiato in niente; ed è ai suoi testi che si rivolge polemicamente per iniziare un nuovo sapere» (p. 22). La polemica di Galilei, dunque, è quella contro un modello di sapere antico quanto la filosofia; polemica contro un ideale di conoscenza piuttosto che contro un sistema; polemica contro un certo concetto dell’episteme, contro il suo statuto, contro la sua struttura. Se l’ipotesi di un Galilei platonico – ma anche pitagorico o archimedeo – deve essere rettificata e corretta, quantomeno specificando come il platonismo debba essere inteso, è nel nuovo ruolo del modello matematico nell’economia della conoscenza che deve essere ricercata la specificità della scienza galileiana e, per estensione, dell’intera impresa scientifica moderna. «Ogni filosofia», ci rammenta Ferrarin, «esprime un tratto essenziale del proprio tempo, e ogni filosofia si afferma come critica delle forme di pensiero precedenti» (p. 14). Viene allora in mente quell’immagine del pensiero come lotta e combattimento, avanzata da Deleuze e Guattari in Che cos’è la filosofia?, oppure, in maniera forse più pertinente a questo contesto, l’idea di Bachelard in La formazione dello spirito scientifico della storia della scienza come superamento di ostacoli epistemologici e come sforzo dello scienziato di superare l’immediatezza del senso comune. La scienza e la filosofia, insomma, condividono questo atteggiamento per cui ogni posizione realmente innovativa rappresenta una nuova costruzione che implica come proprio necessario antefatto un gesto distruttivo o decostruttivo. Questo è ciò che ci deve interessare del rapporto di Galilei con la tradizione e, in particolare con Aristotele: se è vero che il fondatore della fisica moderna si rivolge al testo aristotelico in maniera polemica, con il fine, criticandolo, di costruire una nuova configurazione epistemica per la conoscenza della natura, allora l’indagine sui punti di discontinuità e sugli obiettivi della critica ci potrà illuminare sulla natura e sui contorni di quella configurazione che ancora oggi chiamiamo «scienza moderna».
Ora, la consapevole novità introdotta da Galilei è l’inedito ruolo epistemologico assegnato alla modellizzazione matematica. Questo è il punto decisivo del gesto fondativo galileiano, il carattere fondamentale della frattura segnata dalla scienza moderna. La modellizzazione avviene, nella rivoluzione scientifica, non solo e non tanto attraverso il potenziamento della matematica pura in sé, ma mediante un inedito ruolo assunto dalle cosiddette «matematiche applicate» e, in particolare, dalla meccanica. Certo, ricorda Ferrarin, è «necessario ribadire, con Koyré, che la rivoluzione non è fatta né da tecnici né per tecnici. La figura dell’ingegnere – per esprimermi anacronisticamente: intendo l’artigiano, il fabbro, l’artista, l’architetto – non è né sufficiente né davvero adatta ad identificare il protagonista della rivoluzione scientifica» (p. 28). Nondimeno la scienza, per quanto non perda il carattere universale tipico della concezione classica del sapere, diviene un fare, una prassi (si pensi a Cartesio) e il mondo stesso ora appare come un artefatto, un’opera (Copernico, Keplero). In questa “prima” scienza moderna, lo sappiamo, tutto è macchina e dio è l’ingegnere o l’orologiaio supremo: «Come un architetto, Dio pensa un archetipo che poi pone in opera» (p. 30). Un tecnico, dunque, ma anche un architetto e, in un certo senso, un artista, almeno nella misura in cui l’opera che produce coinvolge certo la facoltà dell’immaginazione. Ma questa immaginazione produttiva non attinge alle risorse dell’irrazionale e dell’inconscio, ma è vincolata, al contrario, dalle regole pure della matematica. E infatti questa immaginazione è la stessa che entra in gioco nell’impresa della conoscenza scientifica della natura nella misura in cui, con Galilei, l’escogitare un esperimento materiale e l’invenzione di nuove macchine rappresentano momenti fondamentali della costruzione teorica. Ecco perché si assottiglia la differenza tra la conoscenza umana e quella divina: esse si distinguono ora per grado, ma vedono all’opera le medesime facoltà e gli stessi modelli epistemici.
Oltre al nuovo ruolo assegnato alla modellizzazione matematica, l’altro grande elemento di scarto con la concezione aristotelica, riguarda il ruolo della percezione. La teoria della verità aristotelica, infatti, implica una certa passività originaria e un certo positivismo di fondo: in Aristotele vi è un senso di «verità come ‘lasciar che le cose ci parlino e si manifestino secondo la loro propria natura’. Il mondo si presenta a noi; e ci si offre unitario e ordinato» (p. 23). È questa concezione del mondo e della verità che comporta che la fisica sia, innanzitutto, lo studio di ciò che si dà nella nostra percezione e dei principi del sensibile (p. 35). Fisica allora, lo sappiamo, come studio delle cose e del loro movimento. Ma il movimento di cui si interessa la physis di Aristotele non è lo stesso di cui parla la fisica galileiana: è un movimento determinato dalla natura delle sostanze, che si differenzia in base ai luoghi cui le sostanze stesse appartengono. Il movimento della fisica, invece, è considerato in purezza, così come lo spazio in cui si manifesta: «Per Galilei, come per la fisica moderna dopo di lui, si prescinde dalle sostanze (dalla natura del mobile) per concentrarsi esclusivamente sulla descrizione del movimento nelle sue coordinate spazio-temporali, velocità e direzione» (p. 40). La scienza moderna si costruisce attraverso la sostituzione di tutto un apparato concettuale: «in una materia omogenea mossa da cause esterne, come al principio interno del movimento si sostituisce la causa esterna, così all’anima (principio di nature soltanto particolari) si sostituisce la forza» (pp. 40-41). Questo, secondo Ferrarin, comporta una nuova visione dell’oggetto, non più inteso come sostanza, ma come prodotto/effetto di cause esterne date come sue precondizioni. Il sorgere del fenomeno (e della sua genesi) rappresenta il tramonto dell’essenza. E lo sguardo “interno”, essenzialistico, è sostituito dallo sguardo esterno – formale – della geometria.
Proprio di sguardo, allora, è necessario parlare se vogliamo rendere conto, al di là delle interpretazioni ormai “classiche”, della novità della matematizzazione galileiana nella conoscenza del mondo sensibile. «Non è possibile comprendere l’importanza di Galilei», infatti, «senza considerare come nelle sue scoperte la razionalità matematica si intrecci con un nuovo modo di vedere» (p. 46). Con il cannocchiale, e con l’uso galileiano del cannocchiale, la tecnica entra nel mondo della percezione o, in altre parole, la percezione diviene consapevolmente oggetto dell’intervento tecnico matematicamente istituito. Quello del cannocchiale, ci dice Ferrarin, è un atto di produzione di fenomeni: per questa ragione l’uso del cannocchiale suscita sospetto, inquietudine, persino rabbia nei contemporanei di Galilei. In un senso ingenuo, il cannocchiale riduce (o elimina) una distanza ma, in un altro senso, introduce invece «una distanza ora essenziale, la relazione esterna ed astratta tra fenomeni e osservazione: se l’indagine dei fenomeni è omogenea e indifferente, i fenomeni tutti vanno ugualmente oggettivati, cioè tenuti fermi, a distanza» (p. 57). Gli oggetti, in altre parole, vanno analizzati, smembrati, in proprietà matematizzabili. Questo comporta l’apertura della questione del platonismo galileiano: sebbene, come nota Ferrarin, sia «indubbio che risulterebbe difficile seguire la traiettoria della rivoluzione in astronomia senza una sorta di intima certezza platonica nella razionalità matematica del cosmo» (pp. 60-61), allo stesso tempo occorre capire con precisione quale Platone sia effettivamente in gioco nell’idea di una lingua pura e matematica della cui scrittura il mondo sarebbe intessuto. Rispondere alla domanda «a quale Platone si riferisce Galilei?» implica allora una risposta anche alla domanda «quale ruolo ha la matematica in Platone?». Nei dialoghi platonici, infatti, il reale rimanda alla dimensione ideale, è vero, ma come nota Ferrarin si tratta di due mondi separati e «occorre ricordare che contro la separazione platonica degli enti matematici dal sensibile Aristotele aveva sollevato obiezioni decisive» (p. 63). Il Platone galileiano, dunque, non è il Platone storico; per Galilei esiste una fondamentale omogeneità della geometria, sulla cui base è riposta l’omogeneità del mondo fisico: non si tratta allora di fare scienza nonostante i fenomeni, ma di fare la scienza dei fenomeni, che ritrovano così nuova dignità come effettivo oggetto dell’impresa conoscitiva. Non si tratta di postulare una partecipazione o metessi del reale nei confronti dell’ideale, ma di riconoscere l’effettiva costituzione ideale della realtà.
Ciò che è importante comprendere, per evitare frettolosi fraintendimenti dell’opera galileiana, è però il significato più profondo dell’idea che il mondo sia scritto in lingua matematica. Quest’affermazione non implica infatti che chiunque possieda pienamente la chiave di lettura del testo eidetico del mondo, anzi; ogni lingua, infatti, presuppone un apprendimento, un esercizio nella lettura e nella comprensione. Lo sguardo della geometria richiede un addestramento al “vedere” matematico: l’esperienza ingenua e l’immediatamente percepito sono esclusi dall’orizzonte della conoscenza, per essere sostituiti da un contenuto sensibile che è già, in sé, un’astrazione. L’ideale è già nel sensibile, ma è necessario imparare a coglierlo: «la scrittura geometrica rende possibile un’esattezza nella misurazione del sensibile che nessuna osservazione dei corpi attorno a noi potrà mai offrire» (p. 69). I sensi sono, platonicamente, inaffidabili ma non nel senso che dobbiamo abbandonare il contenuto sensibile in favore di logoi astratti e puri nella loro idealità: «è dell’esperienza che vogliamo dar conto. È che da soli i sensi non possono decidere casi in un tribunale» (p. 71). La sensibilità non è più recuperata, come in Aristotele, attraverso un atteggiamento passivo, che vorrebbe il mondo come “naturalmente” auto-offerentesi ai nostri sensi, ma attraverso un atteggiamento attivo, «di chi alla natura si accosta con domande precise e mezzi sufficienti per piegarla a risponderci» (p. 74). L’esperienza non è un punto di partenza assoluto, ma un costrutto, un dato risultato, che si innesta nella nostra dimostrazione per corroborarne le conclusioni. «Non si parte dal particolare – o meglio, non si può non considerarlo all’inizio, ma come uno scalino da buttare dopo che ci ha aperto una visione, perché il particolare nel frattempo è divenuto il caso di un concetto» (pp. 75-76). L’esperienza è momento fondamentale della scienza nella misura in cui, nell’idealità che essa contiene, ci permette un accesso all’universalità del concettuale: «come si vede, l’esperienza in senso galileiano – le “sensate esperienze” – è antiempirista» (p. 76).
Come sappiamo questo gesto epistemologico fondamentale di Galilei ha prodotto una serie di complesse conseguenze, che con Husserl potremmo esprimere come la sostituzione del mondo matematico-matematizzato al mondo della vita. Ferrarin riconosce che la storia di questo processo di progressiva sostituzione può essere narrata in modi diversi (tra questi Ferrarin tocca velocemente quelli di Cassirer, Mondolfo, Weyl, Jonas, Hegel, Husserl) e secondo le opposte prospettive dell’entusiasmo o dell’inquietudine per un mondo ormai poco qualitativo e poco umano. Al di là di queste prospettive di fondo resta però una domanda centrale: sostenere che il sensibile sia comprensibile nella sua dimensione quantitativa a prescindere da qualsiasi riferimento al suo senso (qualitativo, teleologico o soggettivo) non significa in fondo sottovalutare o addirittura sopprimere il problema del rapporto tra ciò che è oggettivo e ciò che è soggettivo nella conoscenza? Galilei non si limita a sdoppiare il sensibile per far emergere l’oggettività per differenza rispetto all’apparire, ma giunge a cancellare la traccia di questa differenza. Questo è il problema, secondo l’Autore, che si riproduce, con forza inedita, in Cartesio.
La novità dell’impresa cartesiana è data dalla riducibilità delle figure a simboli algebrici: l’essenza di un ente matematico non è più una figura, come in Euclide o in Galilei, ma una formula. In questo senso il concetto, per Cartesio, non deriva dall'intellezione o dall’astrazione del sensibile nell’ideale, ma dalla definizione. In questo senso la matematica non si occupa di imporre ordine e misura a un oggetto già dato in anticipo: «il nuovo metodo è ciò che si dà un oggetto nella forma di ordine e misura» (p. 90). Come si vede, tanto per Galilei quanto per Cartesio, sebbene in un senso diverso, l’apparenza del sensibile diviene un prodotto dell’attività del soggetto conoscente. E in questa attività, in entrambi i casi, assume un nuovo ruolo fondamentale l’immaginazione, in quanto facoltà in grado di presentarci un’esperienza vicaria dell’esperienza sensibile, che costituisce il punto di accesso all’idealità matematica.
È dunque l’immaginazione, tema che Ferrarin ha già esplorato in alcuni precedenti lavori, a divenire il punto di indagine di una ricerca che, da Galilei, si è ora allargata all’intera fondazione della scienza moderna. In Galilei, infatti, l’immaginazione permette un passo metodologico di importanza difficilmente sopravvalutabile, in quanto permette l’accesso a «un’esperienza possibile, che non soffre delle stesse limitazioni e approssimazioni dell’esperienza reale» (p. 93). Quasi come la variazione eidetica di Husserl, l’immaginazione galileiana «varia le circostanze date dall’osservazione fino a stabilire un nucleo invariate non più modificabile, che si imporrà come la vera e unicamente stringente necessità del fenomeno» (p. 93). L’immaginazione ha così un effetto propositivo (nella misura in cui amplia la nostra conoscenza possibile) e critica (perché può fornire elementi utili alla confutazione di un’esperienza limitata). Per contro, in Cartesio l’emergere dell’immaginazione scientifica si salda con la fine della coincidenza dell’ordine dell’intelletto con l’ordine della realtà. Il matematico moderno opera con una libertà inedita su simboli e segni ignorandone metodologicamente il significato: l’immagine non duplica la cosa stessa, ma vi rimanda come cifra o segno. E proprio per questo l’immaginazione assume un nuovo significato: «l’idea ora viene foggiata, sicché diventa importante concentrarsi sulla sua formazione e sulla sua relazione con un potere di sintesi e combinazione, l’immaginazione» (p. 103). Ma proprio in queste due concezioni dell’immaginazione emerge la differenza di fondo tra Galilei e Cartesio nella concezione dell’importanza della matematica rispetto all’esperienza: «In Cartesio la matematica fornisce un modello deduttivo rigoroso; in Galilei, la matematica è usata sì per definire lo statuto del sapere, ma nell’applicazione allo studio dei fenomeni» (p. 111). E proprio in questa differenza emerge il diverso modo dei due di recuperare l’eredità platonica e socratica. Per Galilei dubbio e ignoranza sono parte della scienza e questo ben si comprende nella distinzione tra conoscenza intensiva e conoscenza estensiva. In Cartesio, invece, non si dà possibilità di paragone tra la conoscenza umana e quella divina, che rimane totalmente altra rispetto a quella dello scienziato. Eppure, proprio questo assunto permette di eliminare qualsiasi dubbio sulla conoscibilità del reale, le cui leggi costitutive sono opera di un atto libero del Divino. Per Galilei ciò che importa della creazione è che il creatore abbia fatto ciò che è secondo una lingua a noi intelligibile, per Cartesio invece «la materia non è abbastanza ospitale per forme esatte» (p. 116), destinate a risiedere, invece, nella totale trascendenza della mente. Questo, ci dice Ferrarin, è «il diverso platonismo di Cartesio» (p. 116).
Lo sforzo di questo libro denso e breve è tanto teorico quanto storiografico. Ferrarin tenta la difficile impresa di voler, da un lato, evitare lo stereotipo storiografico, che accomuna lo Husserl de La crisi delle scienze europee con studi decisamente più recenti, di un “Galilei” utilizzato come etichetta o nome collettivo, utile a riassumere e semplificare una fase storica complessa e differenziata. D’altro canto, sempre sul piano storiografico, ciò che da queste pagine emerge è il tentativo di tratteggiare un Galilei figura eminente nel panorama della rivoluzione scientifica che, con Cartesio, opera una trasformazione radicale e netta, il cominciamento di un nuovo modello di sapere. Si tratta di provare a esprimere il significato trascendentale del gesto galileiano senza perdere di vista la concretezza della sua storicità effettiva, della sua testualità materiale. Questo è un problema che già Koyré e, più in generale, l’epistemologia storica hanno dovuto affrontare nel secolo scorso: quello del rapporto tra il livello di un’analisi trascendentale e quello della ricerca storiograficamente fondata. Hélène Metzger, importante storica della chimica e delle scienze della natura del secolo scorso, parlando del lavoro dello storico delle scienze, ebbe a dire che se questi «in premessa delle proprie ricerche, si lasciasse andare a discutere, com’è suo forte desiderio, le diverse opinioni che hanno corso sulla natura del sapere e dell’intelligenza umana, egli rischierebbe davvero di non poter mai cominciare il proprio lavoro»; ma subito si apprestava ad aggiungere: «oso credere che questo sarebbe un danno, e che il filosofo stesso se ne rammaricherebbe» (H. Metzger, La méthode philosophique en histoire des sciences. Textes 1914-1939, Fayard, Paris 1987, p. 42). D’altronde il lavoro dello storico delle scienze, se ben condotto, porta necessariamente alla posizione di questioni filosofiche ed epistemologiche di primo livello. È questo ciò che in effetti accade nel Galilei di Ferrarin, che da studio sulla figura dello scienziato pisano si muta sin dalle prime pagine in indagine genuinamente filosofica sul senso dell’esperienza, della teoria e dell’immaginazione nella conoscenza scientifica. Il rigoroso confronto con i testi e la profonda consapevolezza storiografica dell’autore non costituiscono qui un limite alla riflessione teorica e filosofica. Il volume, nella sua brevità, offre così un’ampia serie di spunti di ricerca tanto per lo studioso dell’età moderna quanto per il filosofo della scienza e l’epistemologo contemporanei. Si tratta infatti, a partire da Galilei e, in seconda battuta, da Cartesio, di porre le questioni del rapporto tra l’esperienza e la teoria, del rapporto tra il tratto eidetico e quello empirico nella conoscenza. Un compito arduo, che certo non può risolversi nell’indagine storica, ma che da questa può sicuramente prendere le mosse.
di Gabriele Vissio
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Alla voce “posthumanism” Wikipedia elenca sette possibili sfumature semantiche del termine, tutte riconducibili a diverso titolo a questa controversa nozione: si menzionano l’anti-umanismo, il postumanismo culturale, il postumanismo filosofico, la condizione postumana, fino ad arrivare ai massimalismi di transumanismo, Al Takeover ed estinzione volontaria dell’uomo. Ora, senza entrare nel merito di questa catalogazione – che come tale implica una certa arbitrarietà – cercheremo di presentare il saggio di Antonio Lucci Umano Post Umano (Inschibboleth, 2016), azzardandone una collocazione all’interno del cosiddetto postumanismo filosofico. Premessa: “postumano” indica un ambito delle scienze umane distante da una stabilizzazione disciplinare; i margini tematici a cui richiama sono sfrangiati ed estremamente porosi, continuamente soggetti a sconfinamenti e ampliamenti epistemici – di carattere sia inclusivo sia esclusivo. Dagli anni ’70 fino a oggi, infatti, l’idea di poter parlare di “postumano” nei termini di una questione culturalmente rilevante ha fatto sì che il sintagma “post” – su cui pesa tutta la portata della sua novità concettuale – divenisse l’oggetto di innumerevoli branche delle humanities. Con buona probabilità il motivo di questa fortuna è dipeso dal fatto che parlare di post-umano significhi, più o meno consapevolmente, testare la tenuta di un’idea di scienza – “umana” appunto – che mai come oggi pare minacciata da un preoccupante autosuperamento. L’espressione post-umano effettivamente, come ricorda anche Wikipedia, richiama tanto all’idea di crisi quanto alla categoria generale del “salto al di là”, sia storico (after Humanism) che locale (beyond Humanism). Posthumanism va dunque maneggiato come si maneggia un sintomo, concertando prudenza e perizia. Sarebbe eccessivamente sbrigativo liquidare l’emersione prepotente di questa nozione riducendola a un che di passeggero o magari, per additarne l’inconsistenza, a un evanescente fenomeno mediatico. E’ vero, la confusione non manca: l’oggetto su cui si dibatte rimane il più delle volte nascosto dietro un’impenetrabile cortina di nebbia concettuale; le metodologie di analisi talvolta si combinano seguendo giustapposizioni naïf, talaltra si arroccano su anguste posizioni protocollari figlie di specialismi nati l’altro ieri. Eppure, come vedremo, navigando a vista tra interdisciplinarità e tecnicismo, è ancora possibile mantenere un certo equilibrio, tale da consentirci di formulare una risposta plausibile alla domanda “cosa significa postumano?”.
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Fare l’immagine. Deleuze su Beckett
Sconfinamenti, Serial / Febbraio 2016Uno degli scrittori più presenti nel lavoro di Gilles Deleuze è senz’altro Samuel Beckett. È vero che il filosofo non gli ha dedicato un volume monografico – cosa che ha fatto invece per altri due grandi della letteratura, Proust e Kafka –, ma all’interno dei suoi libri troviamo un elevato numero di riferimenti all’autore irlandese, che mostrano quale importanza particolare egli gli attribuisca. Esistono inoltre due testi (uno breve, l’altro più ampio) esplicitamente destinati a commentare opere beckettiane, e proprio a essi rivolgeremo l’attenzione... Scarica il PDF
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Giuseppe Zuccarino è critico e traduttore. Ha pubblicato vari saggi: La scrittura impossibile, Genova, Graphos, 1995; L’immagine e l’enigma, ivi, 1998; Critica e commento. Benjamin, Foucault, Derrida, ivi, 2000; Percorsi anomali, Udine, Campanotto, 2002; Il desiderio, la follia, la morte, ivi, 2005; Il dialogo e il silenzio, ivi, 2008; Da un’arte all’altra, Novi Ligure, Joker, 2009; Note al palinsesto, ivi, 2012; Il farsi della scrittura, Milano-Udine, Mimesis, 2012. Tra i libri da lui tradotti figurano opere di Mallarmé, Bataille, Klossowski, Blanchot, Caillois e Barthes.
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Con Differenze italiane. Politica e filosofia: mappe e sconfinamenti si fa un salto nell’ossimoro. Il volume, curato da Dario Gentili ed Elettra Stimilli per DeriveApprodi (Roma 2015), è composto per buona parte dagli interventi del convegno internazionale Italian Theory existe-t-elle? tenutosi a Parigi nel gennaio 2014. Esiste una “teoria italiana”, una specificità del pensiero filosofico-politico italiano contemporaneo rispetto ad altre tradizioni e scuole di pensiero? L’Italian Theory può essere considerata una scuola o una tradizione di pensiero? “Italian Theory” e “differenze italiane”: due espressioni che sono anche i titoli degli ultimi due lavori di Gentili. Se il sottotitolo del primo, Dall’operaismo alla biopolitica, rivela il tentativo di tracciare una linea, un continuum, capace di rendere conto di una traiettoria che fa leva sulla peculiarità di una presunta Italian Theory, quello di Differenze italiane rimanda alla dispersione, al tentativo di cartografare un territorio che tende a sfuggire, difficilmente confinabile, capace di inseguire linee di ricerca inedite. Siamo nell’ossimoro appunto: confermato dal fatto che, nel volume, la locuzione “Italian Theory” è chiamata in causa per definire la specificità di un pensiero aspecifico, l’unità presunta di una fucina d’idee che è piuttosto disseminata, disomogenea e disorganica. In altre parole l’espressione “Italian Theory” cerca di definire e contenere un’attività teorica che corrode l’unità dall’interno.
Il volume si divide in tre parti – la prima delle quali racchiude i saggi che cercano di definire la peculiarità dell’Italian Theory, la seconda è dedicata alle categorie preminenti nel dibattito filosofico-politico italiano contemporaneo (immanenza, dispositivo, crisi, improprietà, ecc.) e la terza esplora possibili usi di queste categorie in differenti ambiti (dalla letteratura all’architettura) – e si apre con il saggio di Roberto Esposito, un saggio programmatico che cerca di focalizzare sia la specificità del pensiero italiano rispetto ad altre tradizioni di pensiero, sia le possibili aperture. L’Italian Thought (tale espressione produce già uno scarto significativo rispetto a “Italian Theory”, ponendo l’accento sul farsi del pensiero, sulla sua attività, piuttosto che sulle griglie e gli schemi di una teoria) si costituisce non a partire da una dislocazione geografica, come è stato per la German Philosophy e per la French Theory – sorte, l’una successivamente all’emigrazione verso l’America di molti intellettuali tedeschi ebrei in fuga dalle persecuzioni razziali, l’altra dopo che alcuni filosofi francesi, già celebri in patria, furono invitati negli Stati Uniti dalle università americane – ma dalla specificità del suo fuori: la dimensione del politico. Inoltre il pensiero italiano contemporaneo «non si genera, come per la scuola di Francoforte, dal programma di un Istituto e neanche dalle teorie complesse che, a ridosso della stagione strutturalista, hanno caratterizzato i primi testi degli autori francesi» (p. 12). Il fuori che mobilita il pensiero italiano è piuttosto lo spazio conflittuale della prassi politica. Questa, però, è per Esposito una caratteristica di lunga durata (a differenze di quanto ritiene Gentili, che la fa risalire alla stagione operaista), presente nel pensiero italiano dagli albori del mondo moderno, così come è di lunga durata la centralità di un’altra categoria, che costituisce «l’orizzonte semantico del pensiero italiano» (p. 13): la categoria di vita – la quale è costantemente messa in tensione con quelle di politica e di storia. Ci sembra allora opportuno approfondire Differenze Italiane seguendo tre vettori: il fuori, la vita, il conflitto; tre categorie che troviamo intrecciate, sovrapposte, miscelate e declinate in maniera diversa negli interventi che compongono il volume.
Per Esposito, dunque, la cifra autentica del pensiero italiano sarebbe, da una parte, una forma di estroflessione intesa come tensione fattuale, evenemenziale, uno sporgersi sull’esterno storico-sociale e, dall’altra parte, una relazione più o meno conflittuale tra norme e forme di vita, tra bios e potere. Il fuori del pensiero, in questo senso, è una dimensione conflittuale, dove si trovano in tensione politica e vita. Ma è anche possibile interrogarsi sul fuori del pensiero italiano mostrando, in maniera genealogica, da quale milieu culturale provengano le categorie maggiormente in uso tra i sostenitori dell’Italian Theory. È ciò che fa Sandro Chignola prendendo in esame il decentramento attraverso il quale l’operaismo italiano ha assorbito il patrimonio teorico e concettuale della filosofia francese del dopoguerra e analizzando in che modo questo abbia permesso di «rimettere in movimento un’analisi, a un tempo stesso teorica e politica, discussa e recepita sul piano globale perché programmaticamente situata nel piano di immanenza del farsi-mondo del capitale» (p. 32). Come sottolinea Riccardo Baldissone, più che di innesto, occorrerebbe parlare di chiasmo: «il divenire francese dell’Italian Theory si incrocia, per cosi dire, col divenire italiano della French Theory» (p. 108); emergerebbe, allora, la tendenza alla contaminazione e all’ibridazione con altri paradigmi che per Esposito caratterizza il pensiero italiano fin dal Rinascimento. Questa tendenza è stata ripresa anche dal saggio di Sandro Mezzadra e discussa su un piano geopolitico. Per Mezzadra il pensiero del fuori è la forzatura delle categorie utilizzate attraverso la messa in tensione di queste con esperienze capaci di porle in discussione, magari contestandone lo statuto universale e svelandone la particolarità storica e geografica al fine di reinventarle. La tensione che così si crea è quella tra l’universalismo, che Mezzadra considera imprescindibile per creare piattaforme di comunicazione e contro-saperi, con situazioni particolari e singolari che destabilizzano questa pretesa, costringendo le categorie a ridefinirsi e articolarsi diversamente. Il pensiero italiano deve allora misurarsi con un sistema capitalistico che ha perso il suo centro occidentale cercando di ridefinire una geopolitica della conoscenza in grado di provincializzare l’Europa (p. 60). Si tratterebbe, dunque, di mettere in tensione le categorie italiane calandole in contesti distanti, per valutarne la plasticità e la capacità germinativa, aprendole all’improprio, sottoponendole a una continua contaminazione ed esponendole a una costante alterazione.
L’alterazione è chiamata in causa anche nella costruzione di un’ontologia del vivente che voglia scongiurare il pericolo di reificare, positivizzare e idealizzare la vita: è ciò che, secondo Vittoria Borsò, ha tentato di fare Esposito nella sua trilogia (composta da Communitas, Immunitas e Bios). Borsò mette in luce che per Esposito «la norma degli organismi viventi è la tendenza continua a una decostruzione del proprio» (p. 124). A differenza del diritto politico, infatti, la norma biologica non produce prescrizioni (qui Georges Canguilhem è il riferimento principale): «la sua dinamica è la plasticità del sistema, ossia la capacità di alterarsi per drift, per deviazione» (ibidem). La norma è sempre immanente alla vita ed è a partire da questa immanenza che può essere pensata una politica della vita contrapposta a una politica sulla vita. Borsò sottolinea la ricaduta che questo discorso ha sul piano antropologico: l’uomo può venire pensato a partire dal vettore deterritorializzante dell’animalizzazione, intesa anch’essa come alterazione dell’essere umano, capace di ridefinire la specie in termini non più umanistici, o antropologici, ma antropotecnici e biotecnologici. In questo senso la riflessione sulla vita s’intreccia con quella sulla tecnica.
Tale intreccio è preso in esame da Marco Assennato da una prospettiva affatto particolare, attraverso cioè la questione sulla tecnica che vede coinvolti Raniero Panzieri e Massimo Cacciari. Per Assennato il rapporto tra bios e potere, tra norme e forme di vita, è sempre tecnologicamente mediato. Se in Sull’uso capitalistico delle macchine e Plusvalore e pianificazione Panzieri invita a pensare la tecnica a partire da una critica della dialettica che mira a contestare le letture metafisico-idealistiche che fanno dell’Aufhebung l’orizzonte trascendentale di ogni determinazione reale, Cacciari, con la sua filosofia della krisis, reintroduce una lettura destinale della stessa, nella quale nessun intervento soggettivo sarebbe capace di rompere il dominio tecnologico e dove il capitale, inteso come successione di crisi, sussumerebbe qualsiasi tentativo di rottura, riconducendo al suo linguaggio ogni antagonismo. Ciò non lascia altra soluzione se non quella di propugnare l’autonomia del politico come luogo capace di contenere e pilotare il processo dall’alto. Secondo Panzieri, per il quale la scienza e la tecnica sono il luogo di una contesa di potere nel sapere, non si tratta di rivelare l’occulta razionalità insita nel moderno processo produttivo, quanto di costruire una razionalità radicalmente nuova e contrapposta a quella prodotta nel capitalismo. La tecnologia è allora un campo di tensione, il luogo di una contesa e non un destino tragico, ineluttabile e implicito nelle premesse del processo. La posta in gioco ruota intorno a un rapporto diverso tra uomo e macchina, che rimanda a un’etica emergente e a composizioni inedite.
Per Panzieri, dunque, la tecnologia, che nel biopotere contemporaneo funziona da collante tra la vita e il potere, è il luogo di un conflitto. È su quest’ultima categoria che fanno leva gli interventi di Antonio Negri e di Judith Revel. Per Negri la novità della pratica e del pensiero che si affaccia in Italia negli anni ’60 si dispone proprio all’interno di un conflitto politico: l’operaismo nasce dalla preminenza della pratica sulla teoria, dove la cassetta degli attrezzi precede tutto il resto. Si trattava, per l’operaismo, di criticare la visione storicista di stampo gramsciano-togliattiana e l’ortodossia del PCI, nelle quali si confondevano continuità dello stato e innovazione socialista. L’operaismo, invece, come afferma Revel, pone l’accento sulla storicizzazione dell’analisi e sulla soggettivazione (p. 51): non esistono soggetti politici, ma processi di soggettivazione legati al conflitto. La classe non è un’entità, non è un soggetto, ma è il prodotto della lotta, è composta dal conflitto stesso. Sia per Negri sia per Revel l’Italian Theory – e qui gli obiettivi polemici sono principalmente Giorgio Agamben ed Esposito – occulta questa dimensione del conflitto pur riconoscendola: se per Negri l’Italian Theory è «l’ennesimo schema storiografico debole che conduce a pacificazione le determinazioni temporali e locali del processo storico» (p. 27) distogliendo l'attenzione dalla fenomenologia contradditoria del biopotere, eliminando ogni punto di vista storicamente determinato, eticamente situato e politicamente orientato e portando a una pacificazione che esclude ogni emergenza autonoma di nuove potenze che conducono a rottura; per Revel la categoria di vita nasconderebbe un «doppio vuoto» (p. 54) nella riflessione politico-filosofica italiana contemporanea, quello della storicizzazione e della soggettivazione, che non sono solo i capisaldi dell’operaismo ma anche del pensiero di Michel Foucault, per il quale la vita è un indicatore epistemologico, sempre posto in essere da un sapere-potere, dunque inquadrabile in termini biopolitici attraverso un preciso riferimento storico, quello che vede l’emergere dei dispositivi securitari e di precise strategie di governo.
Abbiamo così un quadro che ci permette di cogliere un minimo comun denominatore tra le differenze italiane: come sostiene Baldissone, il tratto condiviso risiederebbe nell’operazione, ereditata dal pensiero francese del dopoguerra, di pensare in termini di processi e non di entità, di produzione e non di rappresentazione (p. 107). Questa operazione, però, si esprimerebbe in due modi diversi nel pensiero politico-filosofico italiano contemporaneo: da una parte il tentativo di costruire un’ontologia del vivente capace di dinamizzare la categoria di vita dall’interno con il fine di aprire alla possibilità di una politica della vita contrapposta a una politica sulla vita (mutazione, contaminazione, ibridazione ne sarebbero i vettori principali); dall’altra pensare il processo in termini storici, facendo leva sulla concretezza del lavoro vivo, della potenza costituente, del capitale variabile, della cooperazione produttiva contro la cattura del biopotere. Due modi di intendere la biopolitica che convergono nella critica della teologia politica, sia nella versione katechonica dell’autonomia del politico di Mario Tronti e del pensiero della krisis di Cacciari, sia in quella mistica ed escatologica di Agamben.
Per dirla con Federico Luisetti, da una parte troviamo un pensiero selvaggio che ha “somiglianze di famiglia” con i lavori di Gilles Deleuze e Félix Guattari, di Claude Lévi-Strauss e di Pierre Clastres e che si prepone la «ridefinizione dello stato di natura occidentale e del quarto nomos della terra» (p. 79); dall’altra un pensiero barbarico, che fa capo al testo di Foucault Bisogna difendere la società, «in grado di assorbire il naturalismo nella storia e nella critica» e che mira a una «barbarie storica costituente» (p. 73).
Le differenze italiane, allora, possono essere considerate come il prodotto di un’oscillazione tra queste due polarità, disparate ma accumunabili per analogia, che si sovrappongono senza identificarsi nella critica delle categorie politiche della modernità, della sovranità statale, e della governamentalità economicista. Non si tratta di due traiettorie inconciliabili, tant’è vero che convergono verso lo stesso oggetto critico; ci sono, piuttosto, delle ragioni strategiche per mantenerle in tensione, rintracciabili nell’esigenza di non racchiudere questa fucina di proposte nei confini di una teoria, ma facendole giocare tra di loro. Far giocare le differenze italiane contro l’Italian Theory, la quale rischia, se non lo è già, di trasformarsi in un semplice marchio, in un logo che immobilizza un pensiero vivente.
di Luca Fabbris
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#philosophers #3 – Rocco Ronchi
#philosophers, Serial / Novembre 2015Nella terza puntata di #philosophers, abbiamo intervistato Rocco Ronchi, professore di filosofia teoretica presso l'Università degli Studi dell'Aquila. Abbiamo parlato di Deleuze, cinema, godimento e infinito attuale.
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Rocco Ronchi – Deleuze. Credere nel reale
Recensioni / Settembre 2015Perché un’altra monografia su Deleuze? E perché dedicare un lavoro a Deleuze in una collana che si chiama «Eredi» (diretta da Massimo Recalcati), quando si è cominciato il proprio cammino filosofico studiando Bergson? Ma, soprattutto, perché scegliere un sottotitolo, Credere nel Reale, per un saggio consacrato al re dei simulacri, a colui che ha rovesciato ogni credenza e ogni realtà, similmente a ogni credenza nella realtà?Il Deleuze di Rocco Ronchi (Feltrinelli, Milano 2015) non è l’ennesimo saggio dedicato al filosofo francese a cui Michel Foucault, con una lungimiranza prossima alla veggenza, legò le sorti della filosofia a venire. Non è l’ennesimo saggio però proprio perché lo è: è ennesimo e lo vuole essere.Questo è solo il primo dei tre paradossi con cui è possibile afferrare l’operazione che Ronchi fa col suo ultimo lavoro. Gli altri due sono veicolati rispettivamente dal rapporto che quest’ultimo intrattiene col titolo della collana («Eredi») e col suo stesso sottotitolo (Credere nel reale). A partire da questi tre interrogativi, solo apparentemente aporetici, è cioè possibile trattenere per qualche istante l’attenzione sulla nuova immagine che, di Deleuze, emerge dall’ultimo libro di Ronchi., non stupendosi però che sia proprio una via paradossale e lastricata da cattive intenzioni a permetterci di toccare il senso di questo breve ma calibratissimo saggio.
Deleuze è stato infatti il filosofo che più di tutti, almeno nel 900, ha fatto del paradosso l’agente provocatore della filosofia, il lampo scatenante il tuono del pensiero. A esso, ci insegna, siamo costretti da un trauma, da un incontro imprevisto e letale al quale non possiamo sottrarci. Un unico e intempestivo incontro che poi risuona e si distribuisce frattalmente in piccoli traumi che si ripetono come “piccoli limiti” (L’Anti Edipo, 1972), traumi e limiti che coincidono con i singolari arresti della doxa, con i suoi controsensi e i suoi inciampi.
È qui che si comincia a pensare, perché è in un controtempo che Deleuze rintraccia la possibilità di “generare l’atto di pensare nel pensiero” (Differenza e ripetizione, 1968). E prima di lui fu Platone a intercettare la stessa possibilità nel contraccolpo provocato dai ta parakalunta, oggetti capaci di scuotere il pensiero provocando “sensazioni nello stesso tempo contrarie” (Filebo 46 c e Repubblica VII, 523 b). Pensare non è nulla di ovvio, afferma Ronchi (p. 77) e i ta parakalunta sono proprio le pieghe in cui si sospende il dativo dell’“a me pare”, sono gli scogli su cui si frantuma bruscamente l’opinione, i luoghi in cui si contorce e storce il duplice filo del senso comune e del buon senso.
Al bucolico e troppo irenico thaumazein di aristotelica memoria, Deleuze ha del resto sempre preferito il traumatizestai, l’essere ferito, la violenza dell’urto, l’impatto col Reale e col Fuori che, solo, forza il pensiero costringendolo al movimento. Il traumatizestai è dunque questa spinta paradossale e quella situazione ottica pura in cui, soltanto, gli eventi fanno segno (p. 63).
Che sia una via paradossale a permetterci di cogliere il senso di questo libro è dunque forse il primo e più significativo segno che non si tratta di lettera morta. Per dire, per esplicitare il sottinteso di una filosofia, lo storico, così come il saggista e lo scrittore, deve d’altronde condividere con quel pensiero una “causa comune”, la medesima urgenza nascosta magari tra le pieghe del discorso. In altre parole, l’atto ermeneutico è sempre creativo, ma creativo perché critico e critico perché violento.
«Con questo saggio non pretendo di aggiungere una mia introduzione all’opera di Gilles Deleuze alle tante, validissime, che circolano. La mia intenzione è un’altra. Ciò che mi sono proposto è scrivere un capitolo di storia della filosofia contemporanea» (p. 9). Tutto sta, quindi, nell’intendersi su cosa sia la storia della filosofia contemporanea e su cosa significhi scriverne un capitolo. Deleuze al riguardo è piuttosto chiaro: «Il mio modo di cavarmela –scrive ‒ consisteva soprattutto nel fatto di concepire la storia della filosofia come una specie di inculata o, che è lo stesso, di immacolata concezione. Mi immaginavo di arrivare alle spalle di un autore e fargli fare un figlio, che fosse suo e tuttavia fosse mostruoso» (Pourparler, 1990).
L’immacolata concezione evocata da Deleuze è critica radicale all’immagine dogmatica e stereotipata della filosofia e della storia che se ne scrive. «Critica» nel senso in cui, provocando un “crollo centrale” del pensiero, obbligandolo a pensare questo crollo e questa impotenza che è sua propria, essa apre una crisi che mette in causa il modello trascendentale implicato dall’immagine dogmatica, ossia il modello della ricognizione mediata dall’esercizio concorde di tutte le facoltà e garantita dall’identità dell’Io per un soggetto supposto identico. Nella sua differenza la filosofia deve, per Deleuze, opporre all’immagine l’avventura dell’incontro senza affinità né predestinazione. Detto altrimenti, in gioco è una certa tensione, da sopportare e da cui lasciarsi attraversare. Per Deleuze infatti non è questione di giudicare ma di “far esistere” (Critica e clinica, 1993), di creare, spingendo il pensiero critico fino in fondo, ossia al di là del principio della quadruplice e organica ragione.
“Sua e mostruosa”, in una parola, perturbante, la nuova immagine del pensiero (a cui Deleuze dà il nome di empirismo trascendentale) non è perciò una semplice rappresentazione ma un’intuizione e questa non tanto come sguardo panottico e distaccato che tenta il sorvolo quanto, piuttosto, come esperienza diretta, intensiva e affettiva di forze che si dispiegano e che disfano ogni elemento di trascendenza, il soggetto come l’oggetto. Questa è l’avanguardia deleuziana: stazionare, fuggire fermi sul posto, perché divenienti infinite variazioni. E quale filosofo non si augurerebbe di produrre una immagine del pensiero che non dipenda più dalla buona volontà del pensatore e dalla sua decisione premeditata? Chi cioè non vorrebbe affrancarsi dal dogmatico atteggiamento trascendentale che questiona le condizioni dell’esperienza possibile per guadagnare quella genitalità che è genesi statica e intrinseca dell’esperienza reale?
La differenza dunque risiede nella concezione di storia della filosofia che si presuppone e che, nel caso di Ronchi lettore di Deleuze, è indubbiamente mutuata dal suo oggetto di studio. Nessun racconto lineare in cui la vicenda si è già tutta consumata e che, da qualche parte nella “mente” dell’autore che si accinge a esporla, attende solo di essere “rivelata”. Nessun monumentale e mortifero allestimento di fatti avvenuti, e perciò morti, in cui il tempo del racconto non fa nulla (p. 9). Da Deleuze viene tutta un’altra idea di storia della filosofia che, accettando il suggerimento di Ronchi, si può definire “problematica”, campo e insieme teatro di una battaglia di cui non si conosce anticipatamente né l’esito né lo scioglimento. Del resto, solo l’assenza di presupposti punta dritta alla creazione. E lo fa procedendo senza concetto: come l’intuizione di Kant e al modo della differenza di Deleuze.
Affermare che il testo di Ronchi non è l’ennesimo saggio su Deleuze proprio perché lo è significa, allora, affermare quest’assenza di presupposti, ribadire quel “senza concetto”. Così vicino al “senza tempo” dell’inconscio di Freud, al “senza senso” del Reale che ossessiona Lacan, ma anche e soprattutto, al “senza immagini” che Deleuze attribuisce al pensiero.
E tuttavia, se il saggio di Ronchi non è l’ennesimo lavoro consacrato a Deleuze è perché, anzitutto, esso consiste in quell’atto, del vivente prima che della matematica (o della matematica perché del vivente) che è l’elevazione alla n, la “messa in potenza”. La n come lettera, viva, della ripetizione cara a Deleuze, della buona ripetizione in cui a tornare è la differenza. N è la lettera del ritornello a cui la musica fa subire il “trattamento molto speciale della diagonale o della trasversale” (Millepiani, 1980) strappandolo così alla sua territorialità. Ennesima è cioè la ripetizione che sfugge al concetto perché preferisce crearlo, è la differenza come forza selettiva. N è il tema assunto come radiale e non come terminale per dirla con Glenn Gould; è il marchio di quella “superfetazione di un atomo intuitivo e indicibile” che è il filosofo secondo Henri Bergson. N è, infine, il segno di una nuova immagine del pensiero.
A partire da un singolare anacronismo si sostanzia la scelta di dedicare a Deleuze e non a Bergson un saggio in una collana che si chiama «Eredi». Se infatti il filosofo, come Deleuze ama ricordare, è l’artista del concetto, egli è tale, ossia lo diviene, solo dopo essere stato un umile ritrattista. Perché è nel servizio, nell’apprendistato e nell’esercizio con la E maiuscola che si prepara il terreno propizio alla creazione. Ronchi ha cominciato ritraendo Bergson e lo ha fatto mostrando che ogni volta che si rileggono davvero, ossia integralmente e senza pregiudizi, i testi di autori famosi, di filosofi e maestri da tempo assegnati e «sistemati» entro la tradizione storico-critica, si scopre, con immenso stupore, quanto quest’ultima sia spesso in difetto rispetto alla verità. E siccome ogni apprentissage è, nel tempo, un’avventura dell’involontario (Proust e i segni, 1964), accade che, après-coup, dopo i colpi della tecnica e dell’esercizio, improvvisamente s’incontri qualcuno per la prima volta pur avendo certezza che sia l’ennesima. Primultima direbbe Jankélevitch.
In una collana dedicata ai maestri di cui ci sente eredi, Ronchi sceglie Deleuze proprio perché ha cominciato con Bergson. Ritraendo il filosofo dell’élan vital (cose antiche), egli si è infatti imbattuto nell’empirismo trascendentale (cose meno antiche). Meglio: è riuscito a ritrarre Bergson come un filosofo dell’interpretazione solo perché, senza saperlo, era già interpretante dei segni deleuziani (cose antiche che vengono dopo cose meno antiche). Come ricorda Deleuze: «apprendere è qualcosa che concerne essenzialmente i segni. Questi sono appunto oggetto di un apprendimento temporale e non di un sapere astratto […] Occorre essere predisposto ai segni, aprirsi al loro incontro, aprirsi alla loro violenza» (Proust e i segni, 1964).
Dalle cinque sezioni-sfondo in cui si articola il volume, si staglia l’immagine di un Deleuze radicalmente monista, inaspettatamente platonico e sorprendentemente reale. Contro ogni lettura della filosofia deleuziana in termini di metamorfismo energetico, caleidoscopico e, però, eminentemente entropico, Ronchi insiste su quell’unico ritornello, su quell’unico evento colto da diverse date e rifrangentesi in quella “multiversità dello spettro filosofico” (P.A. Rovatti) che è la filosofia di Deleuze, il quale, come l’autore sottolinea più volte, dice, in fondo, sempre la stessa cosa. In secondo luogo, ribaltando la vulgata tradizionale – quella che allestisce l’immagine, forse la più stereotipata, di un Deleuze eroe del rovesciamento del platonismo, colui che cioè ha realizzato, nel senso di portare a compimento, il programma nietzscheano ‒ Ronchi piazza al centro del pensiero contemporaneo l’immagine di un Deleuze profondamente platonico, di un Deleuze classico e perciò davvero eversivo. Infine, alla lettura militante ma sclerotizzata che ha fornito le chiavi per aprire e utilizzare quello scrigno di parole-azione che è L’Anti Edipo, immagine sacrificata all’aut-aut tra simbolico e immaginario, Ronchi sostituisce quella di un Deleuze speculativo, filosofo rigoroso e singolarmente realista, nel duplice senso di colui che, con un unico atto di fede nel Reale, dichiara simultaneamente scacco matto al re e alla regina. Né simbolico né immaginario, al di là del padre e della madre, il Deleuze di Ronchi è infatti assolutamente reale, vera e propria intrusione del primum et tertium, puro e anedipico, che spezza il doppio vincolo tra legge repressiva e godimento illimitato. Facendo dell’intuizione un metodo e della diairesis agonistica il suo banco di prova, la lettura che Ronchi propone di Deleuze è militante perché atletica, in lotta per l’affermazione dell’infinita uguaglianza dell’essere in ogni ente contro ogni oscena e fascista visione di questa univocità.
Si tratta, per riprendere una battuta delle pagine iniziali del testo, di essere “veggenti più che attanti”, di provare a vedere nella luce più che con gli occhi e di indicare, poi, ciò che si è visto, piuttosto che sforzarsi a organizzarne fin da subito la traduzione simbolica. Il mistico infatti “fissa, intensifica e completa in azione” ma, soprattutto, crede. Crede intransitivamente perché veggente. L’atto di fede è questa forza neghentropica che approda a un’immagine diretta del tempo e/o dell’evento e che spinge in direzione contraria all’entropia del senso comune (p. 18). E l’evento in questione è il ’68. A quella data Deleuze associa l’intrusione del Reale puro, del Reale univoco che è processo morfogenetico, produzione incessante della forma risalente all’indietro la china dell’indifferenziato. Se il Deleuze di Ronchi non né simbolico né immaginario è perché è un’esperienza pura, un’intuizione come simultaneità delle due direzioni contrarie e una penetrazione insieme impossibile (per la rappresentazione) e necessaria (alla filosofia).
Solo nell’opportuna espressione, che è inevitabile esplicatio, di questa esperienza e complicatio riecheggia quell’unico ritornello che intona ciò che tutti vogliamo e siamo: unitas multiplex. Ed è questo rumore di fondo, che è quello del processo ‒ per dirla con Whitehead ‒, dell’atto in atto – per usare un lessico caro a Gentile ‒ e/o della molteplicità illimitata e mouvante di forme finite, che sono le immagini mobili di Bergson e le figure atletiche di Deleuze, che bisogna allenarsi a ascoltare trasformando l’occhio in orecchio. Si tratta di esercitarsi a stazionare presso questo brusio fino a fare tutt’uno con esso, fino a sentirsi divenire quel rumore e quel fondo. Solo così si è degni dell’istante pulsionale in cui Alfa cortocircuita Omega.
Se questo, come rimarca Ronchi, è il programma di ogni ontologia è perché è anzitutto il compito primo della filosofia, della philosophia perennis et bona: «arrivare alla formula magica che cerchiamo tutti. Pluralismo=monismo, passando per tutti i dualismi che sono il nemico, ma il nemico assolutamente necessario, il mobile che non cessiamo di spostare» (p.79). Millepiani = un piano: questo è il sesamo per una filosofia dell’immanenza assoluta.
di Alessandra Campo
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CRUDELTÀ, SOVRANITÀ, RESISTENZA NELLA PSICANALISI
Longform / Luglio 2015[…] gli Stati generali sono sempre convocati nei momenti critici, quando una crisi politica richiede una scelta, e prima una liberazione della parola in vista di una decisione d’eccezione che dovrà impegnare l’avvenire (Derrida, 2013, p. 56)
Stati d’animo della psicanalisi è il titolo della conferenza tenuta alla Sorbona da Jacques Derrida nel luglio 2000, in apertura degli Stati generali della psicoanalisi, occasione straordinaria di confronto tra psicoanalisti di tutto il mondo appartenenti alle diverse correnti del movimento psicoanalitico. La conferenza, uscita in Francia nel 2000 (Derrida 2000), è stata pubblicata in Italia alla fine del 2013 dalla casa editrice ETS, nella pregevole traduzione di Claudia Furlanetto, che ha curato il volume arricchendolo con un’agile e chiara introduzione e con un’ampia intervista a René Major, filosofo molto vicino alla psicanalisi di orientamento lacaniano e amico personale di Derrida. È proprio Major a ricostruire la lunga gestazione degli Stati generali, da lui stesso promossi e organizzati con tre anni di lavoro preparatorio, ma concepiti sin dalla fine degli anni Settanta, ai tempi delle dittature in Brasile e in Argentina. L’esigenza più urgente di Major era stata allora quella di denunciare le opacità dei rapporti tra la psicoanalisi e il potere, che andavano dalla complicità vera e propria di alcuni analisti nei crimini commessi dagli apparati di stato, alle azioni dissuasive messe in atto da una parte delle istituzioni psicanalitiche per insabbiare lo scandalo. In seguito lo spazio del confronto si sarebbe ampliato, fino a portare in primo piano la questione del senso politico della psicoanalisi. Alla caduta dei regimi sudamericani non fece infatti seguito un’epoca di pace e rispetto dei diritti umani nel mondo; d’altra parte i primi a violarli erano e restavano in molti casi i cosiddetti baluardi della democrazia, data la presenza della pena di morte in diversi stati americani. Anche in questo caso, le dichiarazioni di denuncia da parte delle istituzioni psicanalitiche rimanevano vaghe, come se, al di là dell’opportunismo, si volesse evitare di assumere una precisa posizione di condanna. Come se la psicanalisi, rispetto al potere – in particolare al potere di far soffrire – dovesse mantenersi a distanza.