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[…] gli Stati generali sono sempre convocati nei momenti critici, quando una crisi politica richiede una scelta, e prima una liberazione della parola in vista di una decisione d’eccezione che dovrà impegnare l’avvenire (Derrida, 2013, p. 56)

 

Stati d’animo della psicanalisi è il titolo della conferenza tenuta alla Sorbona da Jacques 3646Derrida nel luglio 2000, in apertura degli Stati generali della psicoanalisi, occasione straordinaria di confronto tra psicoanalisti di tutto il mondo appartenenti alle diverse correnti del movimento psicoanalitico. La conferenza, uscita in Francia nel 2000 (Derrida 2000), è stata pubblicata in Italia alla fine del 2013 dalla casa editrice ETS, nella pregevole traduzione di Claudia Furlanetto, che ha curato il volume arricchendolo con un’agile e chiara introduzione e con un’ampia intervista a René Major, filosofo molto vicino alla psicanalisi di orientamento lacaniano e amico personale di Derrida. È proprio Major a ricostruire la lunga gestazione degli Stati generali, da lui stesso promossi e organizzati  con tre anni di lavoro preparatorio, ma concepiti sin dalla fine degli anni Settanta, ai tempi delle dittature in Brasile e in Argentina. L’esigenza più urgente di Major era stata allora quella di denunciare le opacità dei rapporti tra la psicoanalisi e il potere, che andavano dalla complicità vera e propria di alcuni analisti nei crimini commessi dagli apparati di stato, alle azioni dissuasive messe in atto da una parte delle istituzioni psicanalitiche per insabbiare lo scandalo. In seguito lo spazio del confronto si sarebbe ampliato, fino a portare in primo piano la questione del senso politico della psicoanalisi. Alla caduta dei regimi sudamericani non fece infatti seguito un’epoca di pace e rispetto dei diritti umani nel mondo; d’altra parte i primi a violarli erano e restavano in molti casi i cosiddetti baluardi della democrazia, data la presenza della pena di morte in diversi stati americani. Anche in questo caso, le dichiarazioni di denuncia da parte delle istituzioni psicanalitiche rimanevano vaghe, come se, al di là dell’opportunismo, si volesse evitare di assumere una precisa posizione di condanna. Come se la psicanalisi, rispetto al potere – in particolare al potere di far soffrire – dovesse mantenersi a distanza.

Contro questa neutralità, il discorso di Derrida si pone con coraggio in una posizione militante, alla quale sprona con forza i suoi interlocutori, pur nella consapevolezza della difficoltà del “salto performativo” oltre i confini del sapere psicoanalitico (Derrida, 2000, p. 62). In quel momento al centro della sua riflessione è proprio la pena di morte, a cui dedica un seminario di due anni, dal 1999 al 2001 (cfr. Derrida 2012; ed. it 2014). Nella conferenza del 2000 ne riconosciamo, se non la complessità delle analisi, le domande di fondo. Cosa intendiamo dire quando parliamo di crudeltà? È possibile opporre alla crudeltà un argine, combatterla senza restarne contagiati? E, infine, si può pensare un “al di là” della crudeltà?

La prima questione cruciale, in Stati d’animo della psicanalisi, è precisamente quella della crudeltà. Più di ogni altra pratica, più di ogni altro discorso teorico, la psicanalisi ha a che fare con essa. La semantica della parola crudeltà non deve essere limitata all’idea dello spargimento di sangue, sebbene questa ne sia l’etimologia latina. A Derrida interessa soprattutto un altro aspetto: il gusto di far soffrire e di soffrire, il godimento provato nell’infliggere la sofferenza, fisica e psichica, che innesta la crudeltà nell’intricato gioco delle pulsioni di morte con la sessualità, oggetto dell’analisi di Freud sin da Al di là del principio di piacere, testo al quale Derrida aveva dedicato l’intenso confronto Speculare su Freud (cfr. Derrida 1980; ed. it. 2000). Dare – e darsi – la sofferenza, dare – e darsi – la morte, non sono d’altra parte mai semplicemente atti rubricabili sotto etichette psicopatologiche. In essi ne va del “politico”, nella misura in cui vi si manifesta il tratto più estremo della sovranità. Ecco la seconda parola-chiave della conferenza. Sovrano, sugli altri e su se stesso, è chi può dare, o darsi, la morte, decidere, in termini schmittiani, dello stato di eccezione. Ancora più “sovranamente” sovrano, per evocare Bataille, sarebbe colui che riesce a togliere di mezzo la stessa istanza sovrana; colui che, in nome della vita sovrana, è in grado di sottrarsi alle logiche del dominio che la tengono asservita. Ecco la sovrana crudeltà a cui allude il sottotitolo, molto opportuno, dell’edizione italiana della conferenza. Se la crudeltà è la segreta verità della sovranità, e se spodestare il sovrano è la massima pretesa sovrana, ne consegue che ogni atto rivoluzionario, ogni “uccisione” del sovrano – il re, il padre, la coscienza morale, il soggetto autonomo – è, in una certa misura, intriso di quella crudeltà alla quale reagisce. Ecco perché Derrida domanda e si domanda quale sia lo scopo degli Stati generali della psicanalisi, e lo fa insistendo più volte sull’analogia tra questi Stati generali e quelli riunitisi nel 1789, alla vigilia della Rivoluzione francese. Oggi come allora, si tratta di mettere in questione la sovranità. Ma si può farlo con un altro atto sovrano, simile, seppur metaforicamente, a quello che portò all’uccisione del re? Domande, queste, che anticipano un altro Seminario di Derrida, l’ultimo, La Bestia e il Sovrano, al quale Claudia Furlanetto, con Eliana Villalta, ha dedicato un’interessante raccolta monografica (cfr. Furletto, Villalta 2011).

Siamo di fronte a uno dei paradossi caratteristici nella strategia critica di Derrida. Gli Stati generali della psicanalisi sono incoraggiati ad assumere un compito politico. La psicoanalisi non può più mantenersi neutrale in presenza delle violazioni crudeli seppure legali dei diritti umani, ovunque e per qualsiasi motivo esse vengano perpetrate, quindi anche nel caso vengano giustificate dagli stati in nome della difesa di quei diritti. E tuttavia, nello stesso tempo, la psicanalisi non deve nascondere la complicità intrinseca di ogni decisione con la sovranità che mira ad abbattere. Certo, rispetto al Seminario sulla pena di morte, prevale qui l’urgenza della denuncia sulla necessità di decostruire, insieme agli argomenti a favore della pena di morte, anche quelli dell’abolizionismo classico. Urgenza che trova un riscontro in uno degli articoli approvati dall’assemblea, pubblicati in appendice a Stati d’animo della psicanalisi. Nel richiamare gli psicoanalisti al ripensamento della sovranità, Derrida prepara uno spostamento di piano: la sovranità di cui la psicanalisi dovrebbe occuparsi non è soltanto quella dei poteri politici, ma è soprattutto quella delle sue stesse istituzioni e dei suoi presupposti teorici. Lo spostamento consente di introdurre nell’esposizione un terzo motivo, da articolare insieme a quelli della crudeltà e della sovranità. Si tratta della resistenza. Di nuovo, abbiamo a che fare con una nozione polisemica, essa pure già sondata dall’autore in un lavoro importante, più volte menzionato nell’intervista da Major e dalla curatrice (cfr. Derrida 1992; ed. it. 2014). Consideriamone almeno qualche lato. C’è una resistenza alla psicanalisi: essa viene dalla società e dal potere, e si manifesta da tempo e sempre più non come demonizzazione, ma come neutralizzazione della specificità della pratica analitica, come volontà di imbrigliarla nelle categorie e nelle normative medico-sanitarie. Era questo, è il caso di ricordarlo, un ricorrente bersaglio polemico di Lacan. I due pensatori, divisi e per molti versi distanti, sarebbero stati qui in piena sintonia. A Derrida però interessa qui in modo particolare un altro aspetto meno confessabile: la resistenza interna della psicanalisi a se stessa, in altre parole, il rischio autoimmunitario, ben evidenziato nell’intervista di Major. Cosa significa? A che cosa resiste la psicanalisi?

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Direi che Derrida ha in mente il rischio che la psicanalisi si arrocchi in una posizione di difesa di una teoria sulla genesi e sulla struttura del soggetto sulla quale forse ci sarebbe da discutere. Si tratta della strutturazione edipica della psiche e della famiglia, con tutto quel che ne segue. Vale la pena soffermarsi, a questo punto, su un passaggio illuminante della conferenza. Derrida ha appena introdotto il tema dell’“impossibile”, presente in molti suoi lavori degli ultimi anni. Il concetto non va inteso – si precisa ancora una volta – come la negazione della possibilità che qualcosa si realizzi, bensì in un senso quasi opposto: l’impossibile vorrebbe alludere proprio all’accadere di qualcosa, all’arrivare di qualcuno, ma in modo che un tale evento resti del tutto al di là della possibilità di prevederlo, di prepararsi al suo arrivo riconducendolo a categorie note. Più che alla possibilità, l’impossibile si oppone insomma al potere e all’“io posso”. I risvolti politici sono intuibili: si pensa giustamente al dramma dei migranti, all’eventualità di un incontro con alterità irriducibili, all’orizzonte di una politica e di una democrazia a-venire per le quali i modelli disponibili non bastano. Traspaiono anche altre implicazioni dell’impossibile, divenute oggi pienamente attuali. È necessario ricordare che in principio questi Stati generali, gli Stati generali della psicanalisi, dovrebbero avere per missione costitutiva, oserei dire per dovere originario, quello di portare più lontano possibile l’autoanalisi della loro messa in scena? Come pure l’analisi delle forze, delle pulsioni, dei desideri che sono in loro segretamente al lavoro? Portarle al di là di ogni messa in scena, e al di là di ogni vedere, di ogni visibilità, di ogni fenomenicità? È noto il vecchio legame tra la psicanalisi e la scena, tra la psicanalisi e il teatro. Ci sarà sempre la stessa struttura teatrale? Domani, nel prossimo millennio, ci sarà ancora lo stesso modello, lo stesso dispositivo, la stessa famiglia teatrale? Il teatro sarà quello della famiglia di sempre, una famiglia più o meno reale (royale), patriarcale ed eterosessuale, radicata nella differenza sessuale come opposizione binaria? [...] Insomma, il punto di riferimento teatrale della psicanalisi, domani, sarà ancora il teatro greco, shakespeariano, elisabettiano, vale a dire, un teatro europeo, supposto che ve ne siano mai stati altri? (Derrida, 2013, p. 37)

La resistenza sembra collegata alla scena primaria culturale, sociale e simbolica stabilita dalla interpretazione freudiana del mito edipico. In particolare, al ruolo reale – cioè monarchico – che vi occupa il padre. Difficile non pensare allo scontro esploso qualche
artaud-butchered tempo fa nella psicanalisi francese in occasione della proposta di legge sul matrimonio tra persone dello stesso sesso, quando autorevoli psicanalisti eressero, per respingerla, proprio la barriera di quel teatro.¹ Vedere in tutto ciò una resistenza non significa, beninteso, negare che i sostenitori del matrimonio gay e delle famiglie omoparentali non siano affezionati in modo ambivalente al medesimo teatro. Ma questo è un diverso problema. L’evocazione del teatro non va lasciata cadere. Sembra qualcosa più di  un’eco delle critiche foucaultiane alla psicoanalisi e dell’anti-Edipo di Deleuze e Guattari: ha l’aria di un riconoscimento, seppur parziale e problematico, delle loro ragioni. Poche pagine dopo, è ancora il teatro a ricondurre Derrida alla crudeltà, in un trasparente rimando ad Artaud. Teatro e crudeltà sono inscindibili: il masochismo e il sadismo sono impensabili al di fuori della messa in scena, anche di quella messinscena interiore descritta da Nietzsche come la scena della coscienza. Teatrale è l’impasto delle pulsioni di vita e di morte: la vita che serve alla morte e la morte che serve alla vita, come nel più facile dei canovacci.

Cosa c’è al di qua di questo teatro, che la psicanalisi è invitata ad abbandonare, per mettersi sulle tracce dell’invisibile, del “fuori-scena”? Eccoci dunque alla mossa più vertiginosa del confronto con Freud. Siamo condotti verso una sorta di mise-en-abyme, in qualche modo già in opera nei testi di Freud. Egli infatti comincia la sua revisione facendo emergere un primo “al di là”, relativo al principio di piacere: le pulsioni di morte, raccolte sotto il nome mitico di Thanatos. E tuttavia il dualismo pulsionale non segna un arresto: al di là, o al di qua, del dualismo, opera silenziosa, inavvertita, la coazione a ripetere. È Derrida a porre per primo in rilievo il carattere originario di questa pulsione di potere (Bemächtigungstrieb) e ad associarla alla volontà di appropriazione (cfr. Major, 2013, p. 79).²

Cominciamo a tirare le fila del discorso. La pulsione del proprio costituisce la radice della resistenza e insieme della crudeltà. Tuttavia, se fosse questa l’ultima parola, non vi sarebbe modo di opporsi alla crudeltà senza usare le sue stesse armi; il diritto non sarebbe altro che violenza legale, la civiltà altro che aggressività e distruzione introiettate. Se questa fosse l’ultima parola della vita, la vita sarebbe sempre e soltanto volontà di potenza. Ma Derrida non si ferma qui. Non potrebbe esistere, imprevedibile e inimmaginabile, un altro “fuori-scena”, un al di là della crudeltà come principio di potere? Un infinito, si vorrebbe aggiungere, una mancanza di fondo e di fondamento nell’economia psichica e in quella sociale e politica? Sarebbe questa la sola via alternativa a quelle che, per “decapitare” il sovrano e la sovranità, vanno verso l’eccesso della dépense sacrificale.

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Si può comprendere il rimprovero, mosso spesso a Derrida, di averci consegnato, con questo rinvio all’impossibile e all’incondizionato, un concetto evanescente, di difficile interpretazione etica e politica. Di non aver saputo o voluto uscire dall’impasse della crudeltà, come accade secondo Judith Butler nel seminario sulla pena di morte (cfr. Butler s.d.). Eppure le indicazioni di Derrida sono qui abbastanza precise. Ci è richiesta, egli sostiene, una sospensione della volontà di pre-vedere e di predisporre lo spazio dell’altro. Si dovrebbe cominciare smettendo di chiedergli ragione e conto del suo desiderio. Smettere, anche, di considerare la sofferenza come un prezzo necessario che si deve pagare per la vita, per le scelte, per la differenza. Non è dunque un appello poco impegnativo quello lanciato agli stati generali della psicanalisi. E non è affatto un appello vago. Nel convocare la psicanalisi ai suoi compiti, spesso Derrida usa l’espressione “senza alibi”, giustamente segnalata nell’introduzione di Furlanetto quale chiave di lettura del testo. Che cosa vuol dire? Perché questa espressione così prossima al lessico giudiziario? Noi diciamo “senza alibi” in due sensi, a loro volta imparentati: senza alibi è colui che, di fronte all’accusa di aver commesso un crimine, non può discolparsi dimostrando che non era là, che era altrove (alibi). Non importa sapere se è colpevole o innocente. Oppure, “senza alibi” è chi deve rispondere a una richiesta, a un obbligo, non potendo invocare una giustificazione per eluderli. Deve rispondere. L’espressione potrebbe sembrare un po’ forte, sotto la penna di un autore che ha costantemente cercato di decostruire la nozione di un soggetto autonomo e capace di rispondere completamente di se stesso. Una volta di più, se ce ne fosse bisogno, è invece la dimostrazione di quanto il pensiero derridiano sfugga a letture superficiali e schematiche. Derrida afferma infatti che il soggetto non può non rispondere, sebbene non possa, in un diverso senso, neppure rispondere. “Senza alibi” significa che non può invocare un Altro – il diritto, la scienza, la legge, la tradizione, il simbolico – a rafforzare la propria parola e i propri atti.

Ma, allora, in nome di che cosa un soggetto, una società, un’istituzione, dovrebbero esporsi così sguarniti all’imprevedibile? Nel rispondere, Derrida fa entrare in gioco la vita, parola quanto mai carica di ambiguità e nondimeno necessaria. La chiama “sopra-vita”: non per alludere a una vita più degna della vita biologica, tantomeno a una sopravvivenza spirituale. Il “sopra” è in rapporto con il “sopravvenire”, con il “capitare” delle nuove vite e delle nuove forme di vita che possono sorprenderci, prenderci in contropiede. Al tempo stesso, non c’è altra vita che sia in questione nella battaglia contro la pena di morte, la tortura e ogni sorta di crudeltà. Nient’altro che la vita dei viventi. Questo è, come in fondo è sempre stato per Derrida,  l’incondizionato.

 

Affermerei che c’è, che occorre che ci sia qualche riferimento all’incondizionato, un incondizionato senza sovranità, e quindi senza crudeltà. [...] Questa affermazione che metto avanti, avanza essa stessa, in anticipo, di già, senza di me, senza alibi, come l’affermazione originaria dopo la quale, e dunque al di là della quale, le pulsioni di morte e di potere, la crudeltà e la sovranità si determinano come «aldilà» dei principi. L’affermazione originaria, che anticipatamente si fa avanti, si dà in prestito più che donarsi. Non è un principio, un principato, una sovranità. Essa viene da un aldilà dell’aldilà, e quindi dall’aldilà dell’economia del possibile. Essa è attaccata a una vita, certo, ma a una vita altra da quella dell’economia del possibile, una vita im-possibile, una sopra-vita (sur-vie), e non simbolizzabile, ma la sola che valga di essere vissuta, senza alibi, una volta per tutte […]. (Derrida, 2013, p. 66)

Note

1. È pur vero tuttavia che la risposta dell’École de la Cause freudienne è stata ferma e limpida nel respingere la strumentalizzazione dell’insegnamento freudiano, chiarendo che la psicoanalisi non poteva essere usata come argine contro il “mariage pour tous” e come puntello per i tradizionali ruoli simbolici. Vedi, per esempio, Du mariage et des psychanalystes, HYPERLINK "http://www.lacanquotidien.fr/blog/2013/01"http://www.lacanquotidien.fr/blog/2013/01

2. Freud usa il termine «Bemächtigungstrieb» sia in Al di là del principio di piacere, a indicare una pulsione di potere, sia nel Carteggio con Einstein a proposito della crudeltà. I due concetti non si sovrappongono, riconosce Derrida (2013), ma certo sono molto prossimi, vanno di pari passo (p. 33)

 

Bibliografia

Butler, J. (s.d.), Sulla crudeltà. A cura di N. Perugini e F. Zappino. HYPERLINK "http://lavoroculturale.org/"http://lavoroculturale.org.

Derrida, J. (1980). Speculer – Sur «Freud»,  La carte postale. De Socrate à Freud et au-delà. Flammarion: Paris. [Ed. it. Id., Speculare su Freud (2000), a cura di G. Berto, trad. it. di L. Gazziero, Raffaello Cortina Editore: Milano.]

Id. (1992). Résistances. Presses Universitaires du Mirail: Toulouse. [Ed. it. Id., Resistenze. Sul concetto di analisi (2014), trad. it. di A. Busetto e M. Di Bartolo, Orthotes Editrice: Napoli-Salerno.]

Id. (2000). État d’âme de la psychanalyse, Galilée: Paris.

Id. (2012). Séminaire. La peine de mort. Volume I (1999-2000). Galilée: Paris. [Ed. it. Id., La pena di morte (2014), trad. it. di S. Facioni, Jaca Book: Milano.]

Id. (2013). Stati d’animo della psicanalisi. L’impossibile aldilà di una sovrana crudeltà. A cura di Claudia Furlanetto, con un’intervista a René Major, ETS: Pisa.

Furletto, C., Villalta, E. (a cura di) (2011). Animali, uomini e oltre. A partire da La Bestia e il Sovrano di Jacques Derrida. Mimesis: Milano-Udine.

Major R. (2013). Intervista a René Major. In: Derrida 2013.

 

 

di Beatrice Bonato

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