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postumani-per-scelta-verso-unecosofia-dei-collettivi-9788857529677-giovanni-leghissa-libroNel suo saggio Postumani per scelta. Verso un’ecosofia dei collettivi, ospite della collana “Spiritualità senza Dio?” diretta da Luigi Berzano, Giovanni Leghissa dà unitarietà a un tema che ormai lo vede occupato da alcuni anni (La fondazione, la fondazione dell’umano, il post-umano, 2013; Il postumano: un nuovo paradigma?, 2013; curatela di aut aut, La condizione postumana, 2014). Nonostante la brevità del saggio, l’autore si propone di soddisfare la duplice esigenza teorica di inquadrare da più vicino lo sfuggente dibattito sulla questione postumana e, insieme, di estrarne una possibile interpretazione critica. Così, alla messa in ordine di linee guida di una discussione spesso frammentaria, si affianca l’argomentazione di una tesi, frutto dell’incontro di assi di ricerca eterogenei ma convergenti. Le fonti e le questioni interpellate sono infatti numerose e provenienti dalle più disparate aree del sapere filosofico. Tra i “maestri” e le tradizioni di pensiero che vediamo avvicendarsi figurano l’illuminismo, l’evoluzionismo, la filosofia francese del dopoguerra, l’epistemologia, la fenomenologia husserliana, l’idea di un sapere enciclopedico alla Enzo Paci, la decostruzione e l’antropologia filosofica di Hans Blumenberg. Come dichiara l’autore, si tratterà allora di seguire questi molteplici stimoli nell’intento di definire la condizione postumana in termini filosofici, individuando e descrivendo schematicamente gli atteggiamenti caratteristici del suo approccio.

Spiritualità

Il testo esordisce con alcune precisazioni concettuali, necessarie a motivare – o quantomeno a circostanziare – il ricorso all’etichetta spiritualità postumana. La risposta alla domanda “che cos’è il postumano?” è di fatto presupposta: il postumano è una forma di spiritualità. Ora, però, questo non è sufficiente dato che la problematica risiede esattamente nella specificità di questa spiritualità. Ci si dovrà domandare che cos’è che ci costringe a studiarla e a distinguerla dai sistemi simbolico-rituali delle religioni storiche a noi note. In assenza di una tale cornice il postumano rischia infatti di sbriciolarsi eccessivamente, vanificando il tentativo filosofico di renderlo oggetto di teoria. A tal scopo possiamo comunque ricorrere e nello stesso tempo estendere – seguendo l’esempio di un predecessore illustre come Hans Blumenberg – l’uso del metodo fenomenologico di riduzione: il fenomeno osservato, in questo caso quello culturale che definiamo “postumano”, va messo tra parentesi e isolato da quei fenomeni più larghi e meglio caratterizzati che lo assorbirebbero cancellandone il senso più proprio. Tale appellativo, questa pare l’acquisizione di partenza, comporta una spiritualità di diverso genere rispetto a quella che solitamente permette di riconoscere l’identità dei gruppi religiosi. Le ripetizioni rituali e simboliche cedono terreno a relazioni teorico-pratiche decisamente più sfumate, verso le quali bisogna tuttavia indirizzarsi se si vuole far emergere la cifra postumana.

E’ qui che entra in gioco Michel Foucault con la sua nozione di spiritualità: la spiritualità è innanzi tutto pratica. Ben al di là del motto delfico del conosci te stesso e del congegno psicagogico testo-maestro-azione, la pratica spirituale configura uno stile di vita grazie al quale il senso della teoria (non necessariamente accolta con piena consapevolezza) viene distillato performativamente. L’esercizio spirituale – l’hanno notato a loro modo anche P. Hadot e P. Sloterdijk – nonostante sembri mimare l’atto religioso se ne distingue nettamente, assecondando la sua vocazione prettamente razionale. La centralità della ragione filosofica disinnesca infatti ogni finalismo teologico-platonico da itinerarium mentis in deum e sposta l’esigenza spirituale sul campo della cura di sé, intesa come propulsore interno di crescita. Tutt’altro che trascendente, la capacità di plasmare la propria soggettività dipende dall’intimo desiderio di vivere secondo una ragione di natura illuministico-enciclopedica; non più eminentemente religioso, l’esercizio manifesta una richiesta spirituale inconsueta, espressione e perfezionamento di saperi appartenenti a un quadro teorico retto dalle regole della sola ragione argomentativa.

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Umanità

D’altra parte è la stessa nozione di postumano a non essere affatto univoca e, pertanto, a spingerci verso la ricerca di una matrice teorica che ci permetta di sostenerne lo sviluppo. Secondo Leghissa, al fine di intendere adeguatamente la nozione di postumano, cogliendone lo specifico «habitus», la scelta più proficua è quella di partire dalla teoria dell’evoluzione di Darwin. Una «simpatetica accettazione del darwinismo» (p. 19) – afferma con cautela l’autore – consentirebbe di chiarire l’accezione dell’espressione “umano” contenuta nella nomenclatura post-umano. L’animale umano di Darwin, a cui si fa qui riferimento, non è dotato di caratteristiche eccezionali tali da giustificare il suo posizionamento «in una sfera dell’ordine mondano nettamente separata da tutte le altre», ma  è soltanto «uno dei possibili risultati della storia evolutiva della nostra specie» (pp. 18-19).

Adesso, associare il campo della biologia a quello dell’analisi filosofica e delle scienze umane non è un’operazione esente da rischi. Alcuni sostenitori del côté umanistico avvertirebbero immediatamente il pericolo di uno sconfinamento disciplinare, fondamentalmente dimentico dei danni causati dai riduzionismi scientifici dei secoli precedenti. Prospettive come quelle del darwinismo sociale hanno generato condotte reazionarie e repressive, legittimate da un’idea di natura e di lotta per l’esistenza che, traslata sul piano sociale degli attori umani, ha inibito l’azione concedendo diritti alle sole forme di esistenza biologicamente superiori. Che la natura “funzioni così”, che non possa essere modificata a livello sostanziale, e che prevalga la sola “ragione del più forte”, non autorizza però – secondo l’autore - una dismissione del paradigma scientifico moderno. Di contro all’ostilità umanistica del bon sauvage, nei confronti del riduzionismo scientifico e dell’idea di natura moderni, occorrerebbe invece configurare un’articolazione delle due sfere, maggiormente compatibile con la vocazione stessa del darwinismo. Si tratterebbe cioè di far comunicare, preservandoli distinti, il livello categoriale dei fenomeni storici (socio-culturali e politici) e quello delle invarianti antropologiche «specie-specifiche» dell’homo sapiens. I complessi intrecci di relazioni tra uomo e mondo troverebbero in questo modo nella teoria di Darwin un «quadro epistemico» adeguato, sia dal punto di vista conoscitivo che ontologico.

In effetti tale prospettiva garantisce una convivenza piuttosto pacifica tra la considerazione dell’inemendabilità della natura e delle sue strutture ontologiche e, dall’altra, la specificità cognitiva dell’homo sapiens. Quest’ultimo non ha infatti costruito il mondo in base alla sua sola conoscenza, ma ha anzi conquistato – nel corso della sua storia naturale – un modo specifico di abitare, e dunque di percepire e poi conoscere, «la nicchia ecologica da lui occupata» (p. 22). Nel discorso di Leghissa il trascendentale – di stampo fenomenologico – viene naturalizzato e, insieme, supportato da un epistemologismo evoluzionista.  La teoria di Darwin, sfruttata per disinnescare il realismo dogmatico insito nelle prospettive umanistiche, intende prendere sul serio il materialismo («lotta per l’esistenza», «mutazioni», «selezione naturale» ne sono la prova), senza cadere però in un biologismo spinto; e, nondimeno, desidera offrire una cornice epistemica all’interno della quale è possibile riproporre in chiave postumana il problema della conoscenza. La teoria darwiniana, scrive Leghissa, si accompagna agevolmente «con la tesi – espressa qui in modo generico – secondo cui le strutture ontologiche del mondo non dipendono dal soggetto che conosce il mondo stesso. Quel che sicuramente una teoria darwiniana aiuta a formulare, però, è l’idea secondo cui tutte le questioni relative alla conoscenza siano questioni che vanno preliminarmente inserite entro un quadro epistemico che ha il suo perno nella teoria evolutiva. E ciò vale per ogni soggetto possibile: chiunque conosca il mondo, deve spiegare come lo conosce a partire dal modo in cui i propri apparati cognitivi si sono evoluti al fine di poter articolare un complesso coerente di nozioni, teorie e modelli» (pp. 22-23).

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Così come la prospettiva postumana, darwinanamente declinata, comporta una serie di opzioni metafisiche necessarie a sostenerla filosoficamente e ad articolarla in maniera flessibile, allo stesso modo possiamo intendere la nozione di spiritualità, o meglio il portato spirituale – e non spiritualista – del contributo darwiniano. “Spirituale” è l’altro lato della medaglia postumana: speculare rispetto alla ragione teoretica (scientifica o metafisica) che permette di «dare assenso a una dottrina», troviamo il suo lato emotivo «capace di indirizzare la ragion pratica in una certa direzione e di elicitare comportamenti di un certo tipo» (p. 29).

Ricorrendo ad argomenti provenienti dalle neuroscienze (A. Damasio) e, in particolare, dalle neuroscienze evolutive (J. M. Mandler), Leghissa ritiene possibile – oltre che doveroso – approfondire questo secondo lato del postumano. Sottolineare il significato empatico dell’incontro tra l’uomo e gli altri esseri viventi, consente di fare un passo in più verso quelli che vorremmo definire "comportamenti postumani". Il nostro rapporto con l’animale è, in questo senso, particolarmente significativo dal momento che, oltre a mettere in luce – negativamente – la preponderanza di un atteggiamento antropomorfizzante (fatto di familiarità e proiezioni) rispetto all’animale in generale, costituisce il punto di partenza imprescindibile per lo sviluppo di una qualsivoglia forma di simpatia verso il vivente, inteso ora positivamente nella sua singolarità (L. Daston). Si può notare che in questo caso sia l’antropomorfismo stesso a essere fatto oggetto della messa tra parentesi fenomenologica, in una maniera prossima a quella sfruttata da Derrida nei suoi ultimi testi dedicati all’animalità.

La forma empatica di contatto ci mostra quindi, in maniera più immediata rispetto all’approccio teoretico, la condizione indispensabile per la costruzione di un mondo comune con l’animale. Questa «spontanea e irriflessa simpatia per l’animale» (p.36) innesca un ragionamento con appigli più sicuri rispetto a quegli argomenti sul non-umano astratti e privi di riferimenti alle emozioni. In quest’ottica, inoltre, non è nemmeno più sufficiente attenersi alle classiche – e altrettanto intangibili – teorie sui diritti degli animali di stampo contrattualista o utilitarista (J. Bentham, P. Singer). L’autentica direzione etica deve essere quella di una teoria che ruota intorno all’unico residuo non negoziabile e non ancora giuridicamente traducibile: la vita. Vita che, per esempio, nel caso della teoria delle capacità di Martha Nussbaum, non riguarda più le specie (umana o animale), quanto la singolarità dell’individuo. Quando sentiamo che un animale merita una vita dignitosa pari alla nostra, afferriamo quel minimum di vita che ci consente un salto immaginativo grazie al quale concepiamo come “buono” (e non ancora “giusto”) il singolo comportamento che rispetta la singola individualità vivente, presa nella sua universale esigenza di «muoversi liberamente nel proprio ambiente interagendo con esso» (p. 40). La spiritualità postumana definisce quindi una sensibilità che, su basi teoriche darwiniane, permetterebbe all’uomo di accedere a una dimensione finalmente libera dai dettami etico-morali scaturiti dal presupposto indiscusso della sua centralità metafisico-spirituale.

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Sorge a questo punto un ulteriore problema: affermare – come fa Leghissa – che esista una parità di spirito tra l’uomo e l’animale, dovuta principalmente al «comune destino di morte» (p. 41), non significa mantenersi nell’alveo delle retoriche umanistiche?

Dal Fedone di Platone ai corsi marburghesi di Heidegger, quest’attenzione per la morte si è infatti quasi sempre tradotta in una complicità tra l’adagio del memento mori e la convinzione che “solo l’animale umano muore veramente”. La nobiltà – intellettuale – dell’essere umano, al contrario dell’istintiva ottusità animale, risiederebbe nella sua capacità di riflettere sulla propria mortalità. Al polo opposto troviamo però le prospettive dette transumanistiche che, nell’intento di superare il paradigma dell’umano, concepiscono invece il fenomeno della morte come un difetto superabile tramite i prodigi della tecnica (es. l’antesignana ibernazione in soluzione crionica di Hugo Gernsback). Tale radicalizzazione dell’ideale umanistico illuminista arriva ad affermare con toni escatologici la completa manipolabilità dei corpi e la conseguente indipendenza della materia da ogni destino evolutivo. Del resto, sin dai suoi prodromi letterari con la science fiction degli anni ’30, che con i primi passi della cibernetica, della teoria dell’informazione e della microbiologia, il transumanismo ha mirato a cancellare la separazione tra componente biologica e protesi tecnologica, in una loro totale ibridazione. Ciò che c’è di più biologico (la morte) viene artificializzato e riparato; quanto vi è di più artificiale (la protesi e l’intervento tecnologico) biologizzato e reso parte integrante della nuova forma di vita cyborg.

Le futuristiche visioni transumanistiche, sottolinea l’autore, si reggono però su un sostanziale paradosso. La compenetrazione bio-tecnologica finale – mi viene in mente la fusione conclusiva del film Tetsuo. The Iron Man, di Shinya Tsukamoto –, per potersi fondare, richiede la persistenza di un dualismo tra livello fisico-materiale e livello spirituale-virtuale. Partizione che invece di dissolversi con l’uomo-macchina compiuto, si esacerba di volta in volta, divenendo annichilente. Forse ben più vicini allo spiritualismo tradizionale di quanto non lo siano i predicatori dell’ars moriendi, i transumanisti auspicano così risurrezioni e svolte evolutive di un sembiante umano, che fugge sì la morte biologica, ma solo reinstaurandola in una nuova forma e a una nuova potenza. All’estremo della vita artificiale transumana si vive infatti di una vita senza morte cellulare, una specie di fredda beanza robotica finisce per consacrare e celebrare ancora una volta la separazione tra mortali e divini. In questa dilacerazione sta tutta la forza paradossale di un platonismo rovesciato: la sfera spirituale transumana è certo popolata da purissimi elementi immateriali e virtuali, ma nel senso di matrici algoritmiche ormai troppo lontane per poter comunicare con un uomo-macchina rimasto definitivamente solo – salvo che in perenne compagnia del suo organismo-supporto devitalizzato.

In una posizione intermedia si colloca invece la concezione postumana proposta da Leghissa. Il superamento dell’umano come si è visto va attuato positivamente evitando sia l’intellettualismo filosofico-tanatologico che nega le osmosi tra scienza e umanismo, sia l’inestricabile sovrapposizione transumana (e iper-umana) di programma scientifico e di narrazione fantascientifica. Entrambe le prospettive, infatti, riconfermano a loro modo la priorità ontologica dell’uomo, collocando al centro dei loro discorsi la negatività della morte: una, con falsa modestia, sostiene che l’uomo sappia morire e possa imparare a farlo sempre meglio; l’altra, titanicamente, dichiara che l’uomo sia destinato a guarire da questa malattia apparentemente incurabile.

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L’ultimo capitolo del libro indugia sulla componente intrinsecamente etica della visione postumana, per approfondirne e chiarirne l’aspetto più propriamente politico: che valenza politica ha la spiritualità postumana?

Leghissa insiste sul potenziale innanzitutto critico della sua prospettiva, rilevando come nello scenario biopolitico contemporaneo, in cui benessere e capacità sono gestite e rendicontate da istituzioni, si faccia sempre più urgente una visione di insieme – una spiritualità appunto – capace di trasmettere all’unisono la nostra natura essenzialmente collettiva.  Tale Idea condivisa non ha però più una base di carattere eminentemente storico, tipico delle Weltanschaungen di fine ‘800 inizio ‘900. Fondandosi come si è detto su ragioni di carattere biologico-scientifico (evoluzionismo), questo sguardo coglie piuttosto l’«oggettiva interdipendenza tra i viventi che condividono con noi la medesima nicchia ecologica» (pp. 56-57). Ed è da questo fatto originario che consegue poi la possibilità concreta di sviluppare una discussione consapevole sulle varie forme di esclusione, di subordinazione e di violenza verso l’alterità (es. verso l’animale, il femminile, lo straniero).

Ritornando brevemente sul discorso transumanista, sulla scorta delle considerazioni del filosofo svedese Nick Bostrom, Leghissa mostra infine come in merito alla questione politica si possano individuare significativi punti di raccordo tra posizioni transumanistiche “moderate” e l’orizzonte etico-politico postumano. Considerate per esempio un programma di manipolazione genetica: non si tratterà di fornire benestare o squalifiche morali; non si tratterà nemmeno di interpellare codici giuridici vigenti; si dovrà piuttosto vigilare sulle politiche che regolano la distinzione tra «vantaggi posizionali» meramente individuali (es. l’altezza) e «vantaggi intrinseci» (es. un sistema immunitario più forte), a partire dal criterio dell’evidente ricaduta positiva per l’intera collettività. (pp. 59-60). Su questo punto mi permetto di segnalare come “fonti alternative” di riflessione le due recentissime serie tv americane, Wayward Pines (2015) e Mr. Robot (2015).

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Pur riconoscendo la portata critico-politica di queste posizioni transumanistiche, è però la ricollocazione simpatetica dell’Umano nella sfera del vivente, promossa dal postumanesimo evoluzionista, a fornire secondo l’autore il quadro epistemico più equilibrato ed efficace per tornare a pensare affermativamente l’uomo…e non solo.

 

di Carlo Molinar Min

 

 

 

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