«Ce n’est plus d’une libération universalisante que l’homme a besoin, mais d’une médiation», scriverà Gilbert Simondon nel 1958 a proposito dell’ideale enciclopedico della cibernetica, cogliendone appieno lo spirito. Questo ideale enciclopedico si accompagnava a una dichiarata volontà di rinnovamento delle categorie filosofiche e di superamento di molte dicotomie metafisiche. È il carattere spettrale e disseminato della cibernetica, il suo insistere negli interstizi dell’enciclopedia, che ci ha spinto a dedicarle questo numero con l’obiettivo di cartografare i luoghi del sapere in cui possono ravvisarsi le tracce lasciate dalla cibernetica, seguirne le piste, ricostruirne le trame, farne emergere i modi d’essere, interrogarne l’eredità e l’attualità.
«Ce n’est plus d’une libération universalisante que l’homme a besoin, mais d’une médiation», Gilbert Simondon (1958) would write, concerning the encyclopedic ideal embraced by cybernetics. This encyclopedic inspiration went hand in hand with an explicit desire for renewal of philosophical categories and with the will of overtaking metaphysics’ dichotomies. It is the spectral and disseminated character of cybernetics, its insistence in the interstices of the encyclopaedia, that has led us to devote this issue to it, with the aim of mapping the places of knowledge in which the traces left by cybernetics can be discerned, following its trails, reconstructing its plots, bringing out its modes of being, questioning its legacy and relevance.
Non è certo facile restituire la complessità e la densità del volume di Maurice Merleau-Ponty, Il mondo sensibile e il mondo dell’espressione(Mimesis 2021), recentemente tradotto e curato per il pubblico italiano da Anna Caterina Dalmasso, senza dubbio una delle studiose più autorevoli del pensiero del filosofo francese (suo l’importante saggio di Introduzione, pp. 17-52). Non è facile innanzitutto per la stessa natura di questo (non) libro, che raccoglie il materiale del filosofo prodotto in vista del suo primo corso al Collège de France dell’a.a. 1952-53. Il volume contiene tanto l’effettivo materiale utilizzato dal filosofo nelle sue esposizioni orali, quanto appunti che ne ampliano e approfondiscono l’orizzonte teoretico.
L’opportunità per il pubblico italiano di studiare e apprezzare il pensiero di Merleau-Ponty svolto al Collège si amplia così, dopo la traduzione di altri corsi avvenuta a cavallo tra la fine del secolo scorso e l’inizio del millennio: La nature (Seuil, 1995, tr. it. Cortina, 1996) e Notes de Cours 1959-1961 (Gallimard, 1996; tr. it. Cortina, 2003). Quello che qui discuteremo è stato pubblicato nel 2011 dall’editore svizzero MētisPresses[1] sotto la direzione scientifica di E. de Saint Aubert e di S. Kristensen e la traduzione italiana permette di accedere a un materiale teorico molto fecondo, sia per chi si occupa direttamente di Merleau-Ponty sia per chi sia interessato al pensiero francese del Novecento. In queste quattordici lezioni, infatti, si anticipano o si sviluppano in modi originali piste che attraversano, carsicamente a volte, altre in superficie, una tradizione di pensiero gravida ancora oggi di ampi sviluppi teorici.Lungi dall’essere una pubblicazione per soli addetti ai lavori, questo volume può essere di grande aiuto a chi volesse comprendere meglio alcuni intrecci - sia detto solo a titolo di esempio non esaustivo — tra Gestaltpsychologie e filosofia dell’esistenza, tra bergsonismo e fenomenologia, nonché — come segnala la Prefazione di Mauro Carbone (pp. 9-16) foriera di stimolanti riflessioni sull’arte e l’estetica. Insomma, pur non essendo di facile accesso — e tuttavia l’ottimo lavoro di Dalmasso aiuta chi non fosse specialista — il volume non potrà che trovare interesse in molti ambiti degli studi filosofici contemporanei.
Qui ci proponiamo di tracciare una possibile via d’accesso in questo universo filosofico ancora da esplorare anche da parte di chi, da molti anni, vi si dedica con studio attento. Come ogni pista d’accesso, non ne impedisce di altre e non può essere pienamente esaustiva della ricchezza contenuta nelle quasi trecento pagine del volume. Tuttavia, può essere utile a meglio orientarvisi. Come segnala la curatrice, il volume ha il merito di offrire «un punto di vista privilegiato» (p. 17) sul back-office della produzione di Merleau-Ponty, un vero e proprio laboratorio artigianale di concetti situato al fondo del lavoro pubblicato in vita dall’autore.
A differenza degli altri corsi già tradotti per il lettore italiano, la peculiarità de Il mondo sensibile e il mondo dell’espressione consiste nel fatto che esso ci mostra un Merleau-Ponty sul punto di farsi, che non è più quello della Fenomenologia della percezione e non è ancora quello de Le avventure della dialettica, un Merleau-Ponty per così dire “intermedio”, in divenire (Lanfredini 2011): «Le note del corso del ’53 — continua Dalmasso — offrono un insieme di argomentazioni e di fonti in grado di gettare luce su alcuni punti più oscuri o anelli mancanti della riflessione merleau-pontiana successiva» (p. 18). Insomma, il corpus magmatico di questo volume permette, a chi voglia avventurarvisi, di «cogliere “un filosofo al lavoro” e di “accompagnare Merleau-Ponty” nel farsi del suo lavoro» (p. 20). Una vera e propria avventura filosofica che permette al lettore di oggi di risemantizzare molte antinomie che nel nostro presente appaiono ovvi se non addirittura vetusti. Del resto, non siamo noi oggi figli di quella temperie culturale che genericamente potremmo definire post-moderna e che ha fatto della lotta al manicheismo dualistico la sua pars destruens ? È un pensiero non dualistico, senza per questo, vedremo, rinunciare alla duplicità, quello che l’autore — che ovviamente di post-moderno non sapeva nulla — prova a mettere in forma, e che noi abbiamo occasione di studiare proprio nell’atto del suo generarsi.
Mondo sensibile e mondo dell’espressione definiscono un’antinomia che trova le proprie radici, a voler estremizzare, quanto meno nella distinzione platonica tra mondo ideale e mondo sensibile. Se si volessero fissare delle tappe a noi più vicine — come sempre troppo semplicistiche, ma utili a orientarsi — sensibile ed espressione rimandando alle distinzioni moderne di Descartes (quella tra materiaestesa e pensiero inesteso) e di Kant (mondo sensibile della natura e mondo intelligibile dei valori) generalizzabile nella distinzione del pensiero antropologico tra natura e cultura (Lévi-Strauss 1969 pp. 39-52; Descola 2005). Già dunque nel tema stesso delle lezioni contenute in questo volume si comprende lo sforzo teorico che le sottende, un lavoro filosofico e fenomenologico che chiama in causa le principali architravi del nostro sensus communis moderno.
Potrebbe essere utile contestualizzare brevemente queste note di corso (si rimanda all’introduzionedella curatrice per i dettagli). L’anno accademico, come detto, è il 1952-53 ed è l’esordio di Merleau-Ponty al Collège de France, dopo che ha già tenuto il suo Elogio della filosofia nella lezione inaugurale (Merleau-Ponty, 2008) e mentre sta aprendo il cammino che lo consacra ai livelli più alti della cultura e della filosofia francese e forse mondiale. Non sono anni facili, gli anni Cinquanta, sia a livello storico (sono gli anni della guerra fredda, delle prime notizie in occidente del regime staliniano, della guerra di Corea, ecc.) sia a livello personale (Merleau-Ponty ha in cantiere La prosa del mondo che resterà incompiuto, sta rivedendo le sue posizioni rispetto all’URSS espresse in Umanismo e terrore del 1948, ma, soprattutto, sta per rompere il grande sodalizio filosofico e affettivo con J.-P. Sartre). Sul piano scientifico ha qualche sassolino nelle scarpe dopo la conferenza del 1946 presso la Société de philosophie dal titolo Il primato della percezione e le sue conseguenze filosofiche (Merleau-Ponty2004) nella quale presentava davanti a un pubblico composto dalle migliori menti filosofiche del tempo i risultati conseguiti con Fenomenologia della percezione. Amici e colleghi (Hyppolite, Bréhier, Lachièze-Rey per citarne alcuni) accolgono in maniera polemica e critica la tesi di fondo di quel libro accusandolo in alcuni casi di sensismo e positivismo. La sensazione di non essere stato compreso si radica nel filosofo e sette anni dopo è proprio da quella discussione che, con certosina attenzione, riparte (p. 61). Il primato della percezione diventa un punto di partenza ottimale per penetrare nel fitto bosco del sensibile e dell’espressione.
Alberto Giacometti - L'uomo che cammina (Fondation Maeght Saint-Paul de Vence)
Sin dalla prima lezione, quasi un brevissimo compendio di Fenomenologia della percezione, emerge il tema cruciale con un gusto programmatico. Si tratta, cioè, di pensare l’unità del mondo percepito tale che questa unione non sia la “sintesi determinante”, la sintesi intellettuale, cioè, di una molteplicità sensoriale di stimoli empirici. L’unità cercata nella sua opera principale (ma anche in La struttura del comportamento del 1942) non era una sintesi del giudizio, ma di ordine “percettivo”. Si può dunque capire come qui emergano molte ambiguità che il filosofo dovrà in qualche modo dipanare.
Primato della percezione non significa postulare l’esistenza delle cose fuori di me o la corrispondenza oggettiva di mondo e conoscenza né di opporre a una filosofia intellettualista un empirismo sensista à la Hume, bensì di «fare una teoria concreta dello spirito» (p. 59). Il primato della percezione non postula «un primato del sensoriale, del dato naturale» (p. 60), ma è ricerca di un piano originario che non sia né empirico né trascendentale in cui il sensibile e l’espressione possano divenire indiscernibili: è lo statuto stesso della fenomenologia a modificarsi con questo primato. Fenomenologia della percezione non sta ad indicare solo che è possibile trattare la percezione come “noema”, ma che nel farlo si segue il divenire della percezione nel suo stesso attuarsi, ossia che la percezione indica un piano ontologico intermedio tra l’essere oggettivo e l’essere soggettivo. Si può trattare fenomenologicamente la percezione solo se essa non è né l’oggetto di un sapere né il soggetto della sensazione. È questo né né a non essere stato compreso alla Société nel ’46 (pp. 61-62). Il punto è che la percezione non rimanda solo al mondo del sensibile, ma implica anche un carattere espressivo: «Intenderemo qui per espressione o espressività la proprietà che ha un fenomeno, per la sua organizzazione interna, di farne conoscere un altro che non è dato o che non è mai stato dato. […] È in questo […] senso che la percezione è espressione, espressione del mondo» (pp. 62-63).
Fare una fenomenologia della percezione è studiare il farsi del mondo, una fenomenologia che acquista sempre più caratteristiche “hegeliane” (Vuillerod, 2018) risemantizzando il concetto di coscienza. Se c’è percezione, infatti, non è detto che vi sia necessariamente soggetto (nel senso del Cogito trascendentale che accompagna ogni io empirico), ma vi è senz’altro coscienza, che non è il pieno possesso di sé che la tradizione cartesiana e kantiana ci ha consegnato. La coscienza percettiva non è esterna alle cose, si situa tra di esse, ma non è cosa estesa tra cose estese: essa si fa negli scarti, nelle differenze (cromatiche, uditive, sensibili…) tra le cose, è trans-individuale (Ruyer 2018; Simondon 2011), passività creativa (Ménasé 2003). A differenza di quella trascendentale, essa «non ha a che fare con valori […], ma con esseri esistenti» (p. 64). Potremmo dire, cioè, che attraverso il primato della percezione Merleau-Ponty intraveda la possibilità di emancipare la coscienza percettiva dalla sovranità dell’intelletto dell’estetica trascendentale e di riscoprire nella materialità il suo proprio valore/valere.
L’espressività della percezione — il suo “primato” — è dunque ontogenetico, essa non è la facoltà inferiore della coscienza — come all’origine dell’estetica riteneva, ad esempio, A.G. Baumgarten (1993: 41) — ma la sua espressione “sensibile”, è «configurazione, struttura» (p. 65). Ecco un secondo termine fondamentale nel lessico merleau-pontiano che richiama il suo primo grande libro, La struttura del comportamento. Il primato della percezione implica una materialità della coscienza percettiva da intendersi come processo di strutturazione. Se la percezione non è (solo) la passività di un soggetto empirico, ma l’attività — quantunque “passiva” — di una coscienza “materiale”, allora essa è a tutti gli effetti concepibile nei termini di un comportamento (nel senso, ad esempio, in cui quantisticamente una particella ha un comportamento), un’attività vincolata ad un mondo-ambiente. L’espressione percettiva non è un atto puro, ma una prassi “situata” in uno “sfondo” di passività. Il richiamo è qui alla Gestaltpsychologie, che Merleau-Ponty aveva studiato attentamente nel libro del 1942 (e che nel corso affronta tra la settima e la nona lezione). Ogni coscienza percettiva è una figura (Gestalt) che emerge da uno sfondo e «vi è sempre qualcosa di inarticolato e di sottinteso in ciò di cui vi è coscienza» (p. 67). Lungi dall’essere un’astratta sensazione senza soggetto, l’espressione sensibile è un processo di figurazione (Gestaltung) e la coscienza percettiva è una figura o forma materiale. La coscienza percettiva non è un cogito ma un corpo, non un’anima che emerge e s’innalza dalla materia, ma l’individuazione, l’attività immanente, la configurazione sensibile e materiale di un corpo. Il primato della percezione è il primato del corpo sull’anima, non nel senso “empiristico-naturalistico” di un primato dell’esteso sull’inesteso, ma di una indiscernibilità tra il mondo sensibile della corporeità e la sua espressione animale.
Allora fenomenologia diviene sinonimo di strutturazione ontologica — «non vi è differenza tra ontologia e fenomenologia» (p. 61) — e il primato della percezione conduce a una ontologia dinamica e processuale (Vanzago, 2001). Il mondo dell’espressione non è riducibile a un mondo formale, ha una sua materialità; il sensibile non è inerte o passivo. C’è espressività sensibile tanto quanto vi è sensibilità “spirituale”. Né inerte né formale: l’espressività del sensibile è movimento e la fenomenologia della percezione è manifestazione non richiudibile negli steccati formali dell’estetica trascendentale, poiché non vi è più un primato del formale estetico (dello spazio e del tempo formali). Si avvia qui quello che con Husserl (1991) potremmo chiamare rovesciamento della rivoluzione copernicana: è il movimento a determinare le forme del tempo e dello spazio, non il contrario. Anzi: spazio e tempo non sono più forme, ma figure (Gestalten). Il movimento (si veda in particolare la sesta lezione) è il fenomeno espressivo per eccellenza, tutt’altro dunque che l’esito di una rappresentazione soggettiva. Come la percezione, esso non è l’oggetto di un sapere né l’attributo di un cogito (p. 99), ma è qualcosa che può essere solo sentito, in cui si manifesta il movente. Non è neppure un mero accidente che capita a un oggetto empirico, non è, cioè, la variazione di luogo nel tempo di una “cosa” (Sache), ma il fenomeno per il quale “qualcosa” (Ding) si esprime, emerge spazialmente e temporalmente (geograficamente e storicamente) in quanto figura su sfondo.
Il movimento espressivo è l’installazione sensibile di una coscienza percettiva nel cuore dello spazio e del tempo, il suo modo di abitare lo spazio e il tempo (p. 103), i quali non sono relazioni formali né empiriche, bensì modali. C’è movimento, ovvero qualche cosa appare, c’è della percezione, c’è del comportamento, c’è della coscienza, c’è figurazione: espressione di un’immagine materiale. Il movimento espressivo (siamo alla quarta lezione del corso) è «spirito che si fa corpo e corpo che si fa spirito […] una logica del funzionamento percettivo» (p. 105). Rovesciamento della fenomenologia hegeliana: fenomenologia e logica della percezione; il corpo è lo spirito, il mondo sensibile esprime il mondo spirituale; l’unione non è sintesi assoluta, ma l’affinità trascendentale (p. 107) dello spirito col sensibile in sopravanzamento (overlapping) l’uno sull’altro, «sintesi di enjambement» (p. 109).
Il movimento espressivo è la sintesi senza concetto di spazio e tempo. La mente va a Bergson che più di chiunque altro nel Novecento si è sforzato di pensare il soggetto implicato nel movimento (pp. 119-125). Dopo aver esposto, all’inizio della sesta lezione, gli «argomenti di Zenone» (p. 118) sull’impossibilità ontologica del movimento, Merleau-Ponty vi si richiama: «Per lui quello che rende impossibile il movimento nel pensiero di Zenone è la divisione infinita e attuale del tempo e dello spazio, […] per rendere possibile il movimento occorre che il tempo e lo spazio siano divisibili, ma non divisi, che, posti a partire dal tutto, ammettano uno spazio “tra” le posizioni e gli istanti, cosa che non è possibile nell’in sé. È quindi necessario che il movimento , che è fatto del mondo, sconfini su di me come durata, sia anche fatto di coscienza» (p. 119). Tuttavia, Bergson nel cercare un tout indivisé del movimento è ancora troppo intellettualista, «resta coscienziale» (p. 121). Occorre essere, si legge tra le righe delle note di lavoro, più bergsoniani di Bergson, il quale «trionfa su Zenone mostrando che il tempo non è fatto di istanti né lo spazio di limiti di spazio, ed è vero. Ma resta da esplicitare la conseguenza […] crede che il problema sia concluso» (p. 239). Diventa necessaria «una teoria del corpo percipiente» (p. 240), un paradigma del corpo (Iofrida 2019) che troviamo tra l’undicesima e la tredicesima lezione (nel cuore, dunque, del corso): il movimento è sì un dato immediato della coscienza, ma di una coscienza percettiva, una coscienza-immagine che sia la sintesi esistenziale (materiale) della durata, la quale viene così reinterpretata come espressione sensibile, immagine-spaziotempo, figurazione espressiva.
La durata bergsoniana è “astratta” e manca, agli occhi di Merleau-Ponty, la “e”tra sensibilità ed espressività, una unità (dodicesima lezione) non teoretica, ma pratica, «unità dello schema corporeo […] unità di un’azione sul mondo, di una prassi» (p. 187), non nel senso di un pragmatismo utilitaristico (che per Merleau-Ponty manterrebbe la sussunzione dell’azione sensibile a uno scopo sovrasensibile), ma come attività passiva di creazione di immagini, una prassi che «comporta una teoria [Theoria] o gnosis che ne è lo sfondo, che essa modifica e che a sua volta la modifica» (ibidem). La durataespressiva è unità di teoria e di prassi, una praktognosia che non è un pragmatismo — esiste una materialità dei valori — né un empirismo — c’è, come rileva Dalmasso, una intenzionalità del sensibile (pp. 46-52). La durata come congiunzione del mondo sensibile e del mondo dell’espressione, una unità che si può a buon diritto definire estetica (se con Kant intendiamo “estetica” l’unità senza concetto, pre-logica).
Non è un caso che i corsi del ’53 si chiudano (quattordicesima lezione) con delle considerazioni sull’Arte in generale, e sul cinema in particolare. Le considerazioni estetiche di Merleau-Ponty sul cinema meriterebbero ben altre analisi (si rimanda ai lavori di Carbone e di Dalmasso), qui ci limitiamo solo a trarre una brevissima conclusione. Il cinema è la “prova ontologica” del primato della percezione e del movimento espressivo. Esso è una ritmologia della durata dell’immagine, un contrappunto di punti di vista, di immagini che sopravanzano l’una sull’altra. Nell’arte cinematografica si realizza l’unità di sensibile ed espressione, il vinculum substantiale di una molteplicità di immagini sensibili senza sussunzione entro i decreti formali dell’intelletto trascendentale. Nel movimento cinematografico appare una vera e propria monadologia sensibile (p. 64) che si insinua nel mezzo dei due mondi, che sono “separabili” ma non separati e nelle cui pieghe emergono molteplici mondi intermedi. Come scrive Carbone, nel cinema «si celebra il venire ad espressione […] del mondo sensibile» (p. 16).
Questi mondi intermedi sono il legame tra mondo sensibile e mondo dell’espressione e costituiscono l’ambiente originario nel quale la nostra capacità creativa di corpi animali o anime materiali riesce a trovare spazio per esprimersi e manifestarsi attraverso un’inaspettata fenomenologia dello spirito-carne che solo un primato della percezione può rendere visibile. Già solo questa breve conclusione a cui perviene Merleau-Ponty nei corsi dedicati alla duplicità sensibile/espressione, forse, vale da sola lo studio attento di questo volume.
di Gianluca De Fazio
[1] L’editore continua ancora oggi il suo lavoro di pubblicazione dei corsi al Collège de France di Merleau-Ponty. Si segnala il numero monografico dedicato al Mondo sensibile e mondo dell’espressione della rivista Chiasmi International (n. s. 12-2010).
Bibliografia
Baumgartem, A.G. (1993), Progetto dell’estetica, in A.G. Baumgarten, I. Kant, Il battesimo dell’estetica, a cura di L. Amoroso, ETS, Pisa.
Descola, P. (2005), Par-delà nature et culture, Gallimard, Paris.
Husserl, E. (1991), Rovesciamento della dottrina copernicana della corrente visione del mondo, «Aut-Aut», 245, pp. 3-18.
Iofrida, M. (2019), Per un paradigma del corpo: una rifondazione filosofica dell’ecologia, Quodlibet, Macerata.
Lanfredini, R. (2011, a cura di), Divenire di Merleau-Ponty. Filosofia di un soggetto incarnato, Guerini, Milano.
Lévi-Strauss, C. (1969), La struttura elementare della parentela, a cura di A.M. Cirese, Feltrinelli, Milano.
Ménasé, S. (2003), Passivité et création. Merleau-Ponty et l’art moderne, PUF, Paris.
Merleau-Ponty, M. (2004), Il primato della percezione e le sue conseguenze filosofiche, a cura di R. Prezzo, F. Negri Medusa, Milano.
Merleau-Ponty, M. (2008), Elogio della filosofia, a cura di C. Sini, SE, Milano.
Ruyer, R. (2018), Neofinalismo, a cura di U. Ugazio, V. Cavedagna, G. Vissio, Mimesis, Milano-Udine.
Simondon, G. (2011), L’individuazione alla luce delle nozioni di forma e d’informazione, a cura di G. Carrozzini, Mimesis, Milano-Udine.
Vanzago, L. (2001), Modi del tempo: simultaneità, processualità e relazionalità tra Whitehead e Merleau-Ponty, Mimesis, Milano-Udine.
La pubblicazione di Philosophie du végétal. Botanique, épistémologie, ontologie. Textes réunis par Q. Hiernaux conferma le attese suscitate dalla dicitura della collana che la casa editrice Vrin (Parigi) propone per la collocazione del volume: trattasi davvero di un testo chiave di filosofia del vegetale. E lo è almeno per due semplici motivi. Primo, l’antologia – questa è la natura del volume – mette a disposizione in traduzione per un pubblico francofono brani di undici opere di filosofia vegetale e di botanica filosofica: opere che possono ritenersi rilevanti o perché storicamente influenti per lo sviluppo degli studi botanici, o perché significative per le posizioni e le prospettive sugli studi in oggetto, o perché corroboranti alle linee di ricerca in corso. Secondo, l’operazione di cernita e raccolta dei brani operata da Quentin Hiernaux rappresenta un tentativo organico e ragionato di messa a punto dello stato dell’arte di un ordine di saperi, se non si vuole osare con ‘disciplina’, attualmente molto operosi che, oltre a offrire un numero crescente di pubblicazioni, sembrano cercare una propria definizione (filosofia vegetale, filosofia della biologia vegetale, botanica filosofica ecc.) e una loro costituzione disciplinare (si pensi all’ormai nemmeno troppo recente manifesto, scritto nei primissimi anni Duemila, per inaugurare la cosiddetta Neurobiologia vegetale), fornendo così il doppio servizio d’evidenziare le radici storico-teoriche dei dibatti attuali (p.e. l’intelligenza vegetale o la domanda sui diritti per le piante) e di dare consistenza storica, teorica ed epistemologica ai dibattiti stessi.
Per il fatto che il curatore sembra avere sotto gli occhi sia la totalità del quadro filosofico e scientifico entro cui le ricerche sul vegetale si sono, nel corso dei secoli, talvolta manifestate o talaltra inabissate, sia la posizione da cui, oggi, i sostenitori e i detrattori prendono parola, destinare il volume ai soli specialisti o aspiranti tali è un’operazione editoriale comprensibile, per non dire scientificamente necessitata dalla “proliferazione” di nuovi settori all’interno della classificazione deweyana, ma decisamente riduttiva. Decidere su quale scaffale della biblioteca collocare un libro, con la titubanza o la risolutezza che si dà di caso in caso, è l’ultimo (oppure il primo?) momento delle fasi di realizzazione del libro stesso, e non è mai un’operazione neutra: incide sui percorsi di ricerca e decide il destino di una disciplina, comprese le relazioni che essa intrattiene con le altre. Ora, il fatto che una lettura attenta del volume faccia pensare che la dicitura “filosofia vegetale”, pur necessitata come ho detto, non renda del tutto merito alle varie ratio che si possono rintracciare percorrendo i diversi piani di lettura (cui a breve accennerò) dice forse qualcosa sui contorni e sull’autonomia dell’insieme di questi saperi, e interroga, al di là delle contingenti divisioni in settori disciplinari, sulla bontà del farne una disciplina a parte, a discapito della conoscenza nel suo complesso. Philosophie du végétal è sì un’antologia di filosofia vegetale, ma è anche e variamente, soprattutto in base alle competenze e alla provenienza di chi la legge, un’antologia di storia del pensiero scientifico (in filigrana: l’istituirsi della botanica vs la medicina, la farmacologia e lo studio delle piante medicinali, l’intermediazione araba nella conservazione e nello sviluppo delle scienze, lo sviluppo del metodo scientifico moderno e la storia dei metodi di classificazione delle specie), un’antologia di filosofia della scienza (p.e. ci sono cenni al dibattito sull’anima e sul calore come principio vitale, alla nascita della biologia moderna, allo sviluppo del pensiero trasformista ed evoluzionista) e, percorso ancora più interessante, un’antologia di storia della filosofia (un esempio su tutti: la ricezione pervasiva dell’aristotelismo) – soltanto per limitare la restituzione all’esperienza del lettore che io incarno. Perché, allora, verrebbe da chiedere, dedicare a un (s)oggetto escluso una disciplina a parte se l’intento di partenza è quello di toglierlo dallo sfondo e dargli spessore, invece di procedere a una riscrittura dall’interno delle discipline? Perché il bordo, e non la piega?
Il lettore si trova tra le mani un volume compatto di oltre quattrocento pagine che rappresenta uno degli esiti della ricerca di Hiernaux, sapientemente istruttivo nei confronti del lettore anche meno avvezzo e teoreticamente generoso verso l’intero dibattito. Infatti, l’“Introduzione generale” e le “Introduzioni” specifiche alle singole sezioni, così come la ricca “Bibliografia”, pur corredando il volume come vere e proprie mappe a uso e consumo di tutti, affinché ciascuno possa attraversare il testo con il proprio passo – l’antologia si presenta così come uno strumento fruibile più volte e secondo le diverse intenzioni –, sono anche dei saggi a sé stanti, delle opere dentro l’opera, in grado di far intravedere, per quanto discretamente, la postura filosofica del curatore. Postura la cui cifra potrebbe essere restituita sotto la forma del tentativo teorico attento e delicato, al limite dell’equilibrismo, di non agire alcuna cattura del fenomeno, ma di lasciarlo proliferare: per paradosso, stare fermi per lasciare che sia il vegetale a venirci incontro, lasciare che sia lui, “senza volto e senza sguardo” (p. 7), a guardarci. Un simile equilibrismo è tutt’altro che una fascinazione che lascia il tempo che trova: è piuttosto e innanzitutto la manifestazione di un’etica ecologica rispetto ai rapporti che intratteniamo con altre specie e altri regni, cioè con altri modi di fare mondo. Ancora di più, è l’indice di un’ecologia epistemologica che riguarda il rapporto tra soggetto di conoscenza e oggetto conosciuto, e il riconoscimento dei limiti, intesi anche come vie di uscita, dati dal fatto di trovarsi irrimediabilmente in una posizione di partenza che insieme ci condanna e ci salva, se si è disposti a lasciarsi catturare. Accostandoci, infatti, alle sempre più numerose pubblicazioni che si annoverano nell’elenco della filosofia del vegetale, per usare la dicitura di Vrin, viene spesso da chiedersi che cosa rappresenti, nell’economia del discorso, il vegetale: se il reale tentativo, per quanto possibile, di mettere scientemente a tema una forma di vita altra o il rinnovarsi del discorso sull’umano che, normalizzando le altre forme di vita, non fa che trovare nelle differenze di grado le ragioni della propria ratio, eludendo così la differenza di naturapalesata dall’altro e il problema da essa posto. Se è vero che la filosofia ha sovente indagato il rapporto costitutivo di attività e passività, tema che è anche della filosofia del vegetale, quanto è a suo agio quando tale rapporto riguarda prima di tutto sé stessa e la propria costituzione? A intendere che, forse, un contributo filosofico sugli studi clorofilliani potrebbe arrivare solo dopo un momento di esposizione alla passività, solo dopo che i suoi capisaldi mereologici e assiologici si sono fatti attraversare.
Fotografia di Igor Orizzonte
Hiernaux sceglie di ripercorrere l’intera storia delle nostre conoscenze filosofico-scientifiche: dal III sec. a.C. agli ultimi decenni degli anni Duemila, e si serve di rappresentanti proveniente da botanica, biologia e filosofia, di diverse regioni dell’“Occidente”, confermando così l’operazione critica di stabilizzazione della disciplina vegetale proprio all’interno di quel paradigma scientifico ed epistemologico che lo ha escluso, il nostro, e che – aggiungo – si è costituito anche in virtù di questa esclusione. Si tratta, va detto, di un’operazione ben consapevole, come dimostra il fatto che, qui (p.e. p. 258) e in altri luoghi (penso a Du comportement végétal à l’intelligence des plantes ?, Quæ 2000), la più ampia ricerca di Hiernaux restituisce notizia di altri paradigmi di cui, per esempio, l’antropologia ci dà conto e che la nostra filosofia non dovrebbe più trascurare, in cui il vegetale non ha mai avuto il ruolo di sfondo, come Bruta Natura, e nei quali la separazione con l’umano, per non parlare della sua subalternità, non è stata nemmeno lontanamente contemplata.
I brani presentati sono suddivisi in tre sezioni: 1. Storia filosofica della botanica e statuto della pianta; 2. Epistemologia delle scienze vegetali; 3. Ontologia ed etica del vegetale. L’obiettivo della sezione 1 è di «riscrivere la problematica della trattazione delle piante nella sua dimensione storica» «raggruppando i testi dedicati alla storia filosofica della botanica e allo statuto della pianta», con il corollario non secondario di «mostrare il potenziale filosofico della botanica» (p. 9, trad. mia). Interpellate le voci del coro composto da Teofrasto (371-288 a. C.), Andrea Cesalpino (1519-1603), Julien Offray de la Mettrie (1709-1751) e Agnes Arber (1979-1960), veniamo a conoscenza delle ricezioni e dei commenti alle opere di Aristotele, Cartesio, Goethe – per citare i più noti. Ciò che lega i primi quattro capitoli della HistoriaPlantarum diTeofrasto, ritenuto il fondatore della Botanica nella sua prefigurazione di scienza sperimentale, giacché le sue ricerche «s’ispirano all’esigenza di tener conto dei fatti e di limitare la trascendenza» (cfr. nota introduttiva di J. Tricot all’edizione de La Métaphysique, Vrin 1948, p. 534, trad. mia), il divin parlatore come lo ebbe a soprannominare il maestro Aristotele, di cui Teofrasto coniuga l’approccio naturalista alle influenze filosofiche del pitagorico Menestore di Sibari e dei fisiologi greci, Anassagora, Empedocle e Democrito; i primi cinque capitoli del De PlantisLIBRI XVI di Cesalpino, botanico, medico, anatomista e filosofo, allievo di Luigi Ghini e suo successore alla cattedra di botanica e al ruolo di prefetto dell’orto botanico dell’Università di Pisa (cfr. C. Colombero, Il pensiero filosofico di Andrea Cisalpino, «Rivista Critica di Storia della Filosofia», 32 (3), p. 270), perfetto rappresentante della tensione tra la tradizione dei saperi compilativi medievali sulle piante e la botanica teorica moderna su base fisiologica, cui si deve il contributo per la fondazione teorica della scienza botanica emancipata da medicina e farmacologia, pur nel solco della ricezione di Aristotele e Teofrasto; il breve testo del botanico, medico e filosofo de la Mettrie, Homme-Plante, esempio di riaffermazione della gerarchia del vivente di stampo aristotelico entro la cornice del meccanicismo cartesiano, espresso fedelmente dall’accostamento della pianta alla macchina; il capitolo quinto di The Natural Philosophy of the Plant Form della botanica Arber, allieva della botanica Ethel Sargant, traduttrice di Versuch die Metamorphose der Pflanzen di Goethe, prima donna botanica a essere accolta dalla Royal Society e prima donna insignita con la medaglia d’oro dalla Linnean Society of London per i suoi studi in anatomia e morfologia vegetale, che prendono posto accanto ai suoi studi di storia della botanica e di filosofia botanica, influenzati da Aristotele e Cisalpino, come pure da Spinoza, Bacone e de Condolle (cfr. per approfondire la figura di Arber, il saggio premessa di L. Tongiorgi Tomasi in A. Arber, Erbari. Origine ed evoluzione 1470-1670, Aboca 2019): è il tema dell’“ordinamento generale del mondo” o della continuità tra i regni, o per meglio dire delle forme di vita, a partire dalle determinazioni comuni che, da una parte, hanno accostato le forme di vita mostrandone la similitudine (fino ad arrivare all’idea trasformista delle variazioni individuali in seno a una norma o a un tipo specifico) ma che, dall’altra, hanno generato gerarchie pregiudizievoli circa la positività di cui ciascuna forma si fa portatrice. Se l’impronta zoomorfica che ha connotato, fin dal battesimo aristotelico, gli studi naturalistici (non solo quelli sulle piante!) sembrerebbe inevitabile, oltre che metodologicamente giustificata dal bisogno di spiegare ciò che è meno noto per mezzo di ciò che è più noto, è quantomeno opportuno considerare il rischio di distorsione che comporta prendere il modello animale come riferimento per gli studi dedicati ad altre forme di vita e per la conoscenza del vivente in generale (p.e. p. 25). «Fino alla fine del XIX secolo, la botanica si è presentata come scienza dei viventi non-animali, raggruppando indifferentemente lo studio delle piante e delle alghe, quello dei funghi, dei licheni, e anche dei coralli o dei batteri. Questi esseri, al di là o più tradizionalmente “al di qua” dell’animale che non sono, possono anche essere avvicinati in maniera non gerarchica e positiva, cioè secondo le loro specificità e i modi di vita propri» (p. 11, trad. mia). Dei tentativi erano stati fatti: già da Teofrasto si rintraccerebbe l’esercizio di studiare le piante “per sé stesse”: non secondo la caratterizzazione difettiva, secondo mancanza, rispetto al modello delle forme animali, ma per la positività che caratterizza specificamente la forma di vita vegetale, ovvero la capacità di variazione e l’elevata plasticità. «Quindi, che cosa significa, per la pianta, avere un corpo?» (p. 11, trad. mia; la formulazione fa venire in mente l’articolo: P. Calvo, What is it like to be a plant?, «Journal of Consciousness Studies», 24, 2017, 205–227). Quello che unisce «il pensiero naturalista della tradizione, almeno dopo Teofrasto, passando per la botanica moderna, per arrivare alla morfologia goethiana di Agnes Arber [è che] il corpo della pianta mette sottosopra l’organizzazione animale del tutto e della parte» (p. 12l, trad. mia). Sembra essere già percezione aristotelica che la differenza tra forme di vita animali e forme di vita vegetali stia nel fatto che le prime sono di tipo gerarchico e finalista, le seconde sono, per dirla à la Mancuso, organizzazioni orizzontali, poiché la loro crescita iterattiva e indefinita rende difficoltosa, se non impossibile, la delimitazione delle loro parti. Da una simile differenza di organizzazione, che altro non è che un differente rapporto organo/organi-organismo, segue un diverso senso della totalità: indivisibile per le forme animali, divisibile per le forme vegetali; un diverso senso dell’autonomia o dell’individualità, cioè dell’uno.
Fotografia di Igor Orizzonte
La sezione 2, su epistemologia e filosofia della biologia vegetale, è attraversata da due domande: «quale posto il vegetale occupa nello sviluppo della biologia del XX secolo?», «su quali principi e metodi si basa l’approccio scientifico del vegetale?» (p. 12, trad. mia). Per districarsi, Hiernaux seleziona due temi conduttori: il comportamento e l’individualità. «Dal XVIII secolo, i progressi sperimentali delle scienze naturali danno l’impressione che il concetto di anima possa essere abbandonato a profitto di un meccanismo per comprendere la vita delle piante. Dalla fine del XIX secolo, la concezione del vivente basata sull’anima fa progressivamente spazio alla biologia contemporanea. Poco a poco, s’impone il paradigma evoluzionista. La fisiologia inaugura importanti scoperte sperimentali sul funzionamento delle piante che rivoluzionano la botanica. Questa nuova disciplina di laboratorio, con protocolli e strumenti propri, si diffonde per tutta l’Europa. […] Gli sviluppi della fisiologia vegetale cambiano il rapporto verso la sensibilità delle piante. […] L’esclusività del registro delle spiegazioni causali e meccanicistiche non può essere ormai considerato legittimo» (pp. 127-128, trad. mia). Si affina così un’attenzione sempre maggiore verso la possibilità di rintracciare un ordine psichico o cognitivo anche nelle forme vegetali. Autrici e autori principali di questa sezione sono Léo Errera (1858-1905), Anthony Trewavas (1939), Fatima Cvrčková – Helena Lipavská – Viktor Zársky, Ellen Clarke; con loro si offre l’occasione di richiamare anche la scuola tedesca di J. von Sachs e W. Pfeffer, il lavoro di R. Francé, gli studi di Linneo e di Darwin, ma anche Porfirio, Duns Scoto, Leibniz, financo Simondon. Attraverso la proposta del dattiloscritto della conferenza del 1900 Les Plantes ont-elles une âme? di Errera, professore di botanica con formazione filosofica, fervente evoluzionista, istitutore del primo laboratorio belga di anatomia e fisiologia vegetale presso l’Université Libre de Bruxelles, già attento alle ricerche sui fenomeni di variazione elettrica rintracciabili nei vegetali tanto quanto nei fenomeni nervosi, che andrebbero a sostenere, in un quadro darwiniano, la continuità tra forme di vita oltre le fratture ontologiche tra regni, ricerche al centro dei dibattiti contemporanei; del capitolo nono di Plant Behaviour and Intelligence di Trewavas, fisiologo vegetale impegnato nel campo della segnalazione chimica delle piante, esponente della Neurobiologia vegetale, sostenitore dell’irriducibilità della spiegazione dei comportamenti a un ordine esclusivamente genetico o chimico aprendo così alla possibilità di una comparazione etologica con gli animali più semplici, osservatore e teorizzatore della comunicazione elettrica nelle forme vegetali spiegata in termini di “cognizione minima”; dell’articolo Plant Intelligence Why, why not or where? dei biologi praghesi Cvrčkovà, Lipavská e Zársky, che introducono il lettore alla domanda sull’intelligenza vegetale, contribuendo a fare ordine in vista della costruzione di una discussione scientifica sul tema: si delinea come il dibattito sul comportamento vegetale sia vincolato ad altri due aspetti che, nel corso dei secoli, sia in filosofia sia nelle scienze sperimentali, hanno pregiudicato la stessa ricerca fisiologica vegetale: 1) la mancanza negli organismi clorofilliani di un sistema nervoso, 2) la difficoltà di circoscrivere in essi l’individuo. Quello che preme sottolineare, per mostrare il dialogo tra le due sezioni del volume, è che la disquisizione tra sostenitori e detrattori del comportamento vegetale intelligente – ci sia perdonata la ridondanza – si gioca all’interno e nel confronto con un paradigma, il nostro, figlio, da una parte, della vulgata della tradizione aristotelica dell’anima (si noti il passaggio e l’evoluzione storica del concetto di “anima”, attraverso quello di “calore”, fino a quello di “comportamento”) e, dall’altra, della tradizione cartesiana del dualismo mente-corpo. Com’è possibile attribuire un’intenzionalità a un essere privo di mente? E anche, come circoscrivere e attribuire comportamenti a una soggettività che non è un individuo? Gli studi sul comportamento vegetale, allora, rappresenterebbero il viatico per proporre un altro paradigma metafisico (e un’altra assiologia) alternativo a quello di matrice zoocentrica. Sulle difficoltà, e i paradossi che ne conseguono, di far combaciare l’organismo verde e il concetto d’individuo delle scienze biologiche, ricade la scelta dell’articolo Plant individuality: a solution to the demographer’s dilemma di Clarke, filosofa ed epistemologa della biologia che «trae le conclusioni biologiche del problema della grande plasticità e della variabilità delle piante, [lasciato irrisolto] da Teofrasto e da Aristotele» (p. 137, trad. mia). Dalla lettura del contributo di Clarke si evince il circolo vizioso in cui ci si trova se non si possiede un concetto chiaro di individuo vegetale in seno alla teoria evoluzionistica.
La sezione 3 è dedicata interamente all’ontologia e all’etica, che si palesano, nel quadro del volume, indiscernibili. «La riflessione ontologica sul vegetale consiste da una parte nell’interessarsi ai suoi modi di esistenza […], dall’altra ci conduce a ripensare il modo di avvicinare il mondo, l’anima, il divenire ecc. nella loro relazione con le piante»; «l’etica, invece, s’interessa al modo in cui diamo valore a certe entità o azioni nel quadro dei nostri diritti, responsabilità e doveri verso le piante» (p. 247, trad. mia). L’articolo Plant-Soul: The Elusive Meanings of Vegetative Life di Michael Marder, filosofo dell’Università dei Paesi Baschi Vitoria-Gasteiz, che, all’incrocio tra fenomenologia, ecologia e pensiero politico, attribuisce al vegetale un’intenzionalità originaria non cosciente, tentando di sottrarlo sia alla definizione di essere mancante (tipica della svalutazione metafisica) sia a quella di essere indicibile (della feticizzazione pagana); e il prologo al libro La vie de plantes. Une métaphysique du mélange di Emanuele Coccia, filosofo italiano, formatosi anche sulle pagine della filosofia medievale, da cui egli deriva l’attenzione per la riflessione sulle diverse concezioni di “mondo”, lavorano entrambi per la formulazione di un paradigma maggiormente ecologico rintracciabile nel cosiddetto biocentrismo, rispetto al quale il contributo specifico del pensiero sul vegetale risiede nell’invito a ristrutturare ancora più marcatamente l’ontologia nei termini di “processo”, a detrazione di quelli di “sostanza”. Verrebbe da pensare che i concetti di “condivisione” di Marder e di “mescolanza”di Coccia vadano nella stessa direzione: mettono l’accento sulla continuità piuttosto che sulla frattura tra ordini del reale e sottolineano come il reale sia composto da intricate relazioni, se non vere e proprie relazioni di dipendenza, che riguardano anche l’umano rispetto al vegetale. “Le piante sono il mondo”, scrive Coccia, che in altri scritti arriva a radicalizzare fino al paradosso l’immagine delle piante giardinieri del giardino che siamo noi. In virtù del ripensamento delle relazioni tra mondo umano e mondo vegetale, chiude l’articolo Beyond “Second Animals”: Making Sense of Plant Ethics di Sylvie Pouteau, biologa vegetale, attiva nel dibattito sull’etica delle piante, diritti compresi. Con Pouteau, l’invito è di rivalutare il modo in cui letteralmente ci serviamo delle piante, giustificati da una visione gerarchica del mondo, alimentata a sua volta dall’ordine delle scienze naturali, per immaginarealtri rapporti possibili in cui l’utilità non sia l’unico e il solo. E, tuttavia, giunti alla fine del volume, come sollevati da una rivoluzione finalmente pensata, una frase scritta nell’“Introduzione” alla terza sezione rimette in gioco quelle che sembrano le nuove conclusioni cui siamo arrivati, e invita a ripercorrere il volume da capo, come un’ultima mano di carte sul tavolo riapre la partita: «Porsi la questione dell’autonomia della pianta verso il suo ambiente ha senso solo nella misura in cui siamo prigionieri dei nostri dualismi. Le piante, che sia per la loro cognizione senza cervello o per il loro metabolismo aperto sull’ambiente, rimescolano le carte dell’ontologia [ancora fin troppo, NdR] classica» (pp. 253-254, trad. mia).
Fotografia di Igor Orizzonte
Indizio per frequentare le pagine, sembrerebbe che l’obiettivo minimo dell’autore sia che, una volta chiuso il libro, il lettore trattenga che il vegetale sia più di una cosa inerte e meno di una cosa a disposizione (p. 19). Il che significa riconoscere al vegetale una propria agentività, financo una propria soggettività, secondo la logica per cui liberare dall’eteronomia implica riconoscere l’autonomia. Tuttavia, si tratta di un obiettivo troppo modesto alla luce dell’accuratezza con cui Hiernaux, che dà prova di essere un abile dissezionatore, taglia e ricompone i nessi alla base delle nostre conoscenze (e della nostra identità). Allora, altrove, a mio avviso, si rintraccia la vera domanda che dà l’avvio all’immaginazione di quest’antologia, declinata per la filosofia ma valida anche per gli altri saperi: «Si tratta di domandarsi non più come la filosofia ci permetta di comprendere le piante, ma come la comprensione delle piante possa trasformare la filosofia» (pp. 16-17, trad. mia). Che cosa succederebbe se un esile cirro iniziasse ad arrampicarsi su secoli e secoli di storia, pratiche e biblioteche, e con i suoi rami e germogli iniziasse a crescere e a scriverci sopra: saremmo in grado di reggere all’immagine di quella proliferazione clorofilliana o finiremmo per assomigliare di più a un edificio abbandonato?
Oltre natura e cultura (2005) di Philippe Descola – riproposto ora da Raffaello Cortina, a cura di Nadia Breda, dopo una prima traduzione SEID del 2014 divenuta presto irreperibile – è un libro che certo non si adopera per nascondere la portata dell’operazione cui si dedica. Ed ecco il primo merito da riconoscere a questo instant classic del pensiero antropologico contemporaneo: il candore nel confessare l’ambizione, e la consequenzialità dello sforzo messo in opera per esserne all’altezza. Le oltre quattrocento pagine (seicento, nell’edizione poche di Gallimard) lungo le quali si articola il volume fanno un uso sapiente dell’esperienza etnografica dell’autore – tra gli Achuar dell’Amazzonia ecuadoregna – così come di una vasta letteratura etnologica e di selezionati riferimenti teorici per rimetter mano a uno dei temi più classici della disciplina: il rapporto tra natura e cultura.
Si tratta di una questione d’importanza capitale per l’antropologia, il campo di una partita «narcisistica» (Viveiros de Castro 2017) in cui ne va delle fondamenta stesse – epistemologiche e politiche a un tempo – della disciplina. Nel primo capitolo de Le strutture elementari della parentela, Claude Lévi-Strauss, di cui Descola è stato discepolo ed erede al Collège de France, aveva indicato nell’incesto il luogo in cui, all’interno dell’avventura umana, la natura prende le forme sempre locali, sempre specifiche, della cultura – delle culture. La natura umana è vuota, mancante, segnata; la cultura, dunque, altro non sarebbe che la maniera in cui gli umani s’ingegnano per riempire questa natura, e così compierla, nelle forme sempre specifiche e mai concluse prodotte e riprodotte dai vari collettivi. All’epoca, si trattava di affermare l’autonomia della disciplina, e l’arbitrarietà del segno linguistico – la violenza muta della castrazione – sembrò sufficiente a garantire l’invalicabilità di una soglia al riparo della quale l’antropologia poteva dirsi scienza. Tale gesto inaugurava quello che ancor oggi va probabilmente annoverato come il momento di maggior lustro della disciplina, stagione di un fortunato contrabbando che avrebbe portato alla diffusione degli strumenti forgiati nel laboratoire d’anthropologie sociale presso psicanalisti, filosofi, storici e linguisti. Lungo le rotte di questo commercio, lo strutturalismo assumeva l’ambizione – se non la solidità – di un paradigma.
In Oltre natura e cultura, Descola si pone esplicitamente nel solco di Lévi-Strauss; e in particolare si ripromette di proseguire una pista additata eppure lasciata inesplorata da parte del maestro, che ne Il pensiero selvaggio aveva scritto:
Il marxismo – se non proprio Marx – ha ragionato troppo spesso come se le pratiche dipendessero direttamente dalla praxis. Senza mettere in causa l’incontestabile primato delle infrastrutture, noi crediamo che tra praxis e pratiche si inserisca sempre un mediatore che è lo schema concettuale per opera del quale una materia e una forma, prive entrambe di esistenza indipendente, si adempiono come strutture, ossia come esseri al tempo stesso empirici e intellegibili (Lévi-Strauss 2010, p. 146, cit. in Descola 2021, 116).
Tra la disposizione simbolica dell’umano e la varietà delle forme concrete cui essa può dar luogo, ecco stagliarsi una terra di mezzo che l’antropologia sarebbe attrezzata per conquistare, e dove potrebbe giocarsi la tenuta del proprio rinnovato progetto intellettuale. Così, Descola ritiene che «sia possibile e necessario risalire […] verso un nucleo di schemi elementari della pratica le cui differenti configurazioni permetterebbero di dar conto di tutta la gamma delle relazioni con gli esistenti, una sorta di matrice originaria dove gli habitus troverebbero la loro fonte e di cui conserverebbero una traccia percepibile in ciascuna delle loro manifestazioni storiche» (Descola 2021, p. 112).
Di questi schemi – disposizioni apprese e largamente inconsce che garantiscono la possibilità agli esseri umani di rapportarsi al mondo senza doverselo reinventare a ciascuna occasione daccapo, script generalissimi d’interazione con l’alterità capaci di darle consistenza e ricondurla ogni volta entro l’ambito del domestico e dell’abituale –, Descola distingue due prestazioni fondamentali: da un lato, essi concorrono a definire l’identità dell’alterità che popola i mondi umani, attualizzando alcune delle affordances che essa reca intrinseche in seno; dall’altro, sulla base dei tratti ascritti alle entità del mondo, determinano il campo delle possibilità interattive con tali entità, rendendo disponibili certi pattern d’interazione e impedendone invece altri. Ma oltre a distinguere i due piani, Descola postula anche una gerarchia precisa che li organizzerebbe: le identificazioni precedono le relazioni; la maniera in cui gli umani percepiscono gli esistenti influenza univocamente le pratiche tramite cui essi vi si relazioneranno.
È in questo primato delle identificazioni che risiede l’originalità della proposta descoliana nel panorama del dibattito contemporaneo. È a tal riguardo, peraltro, che Descola impiega il termine, finito al centro di tante polemiche, che più ha finito per identificare il suo lavoro: ontologia. Se nell’utilizzo fattone da Viveiros de Castro o – con più moderazione – da Stengers o Latour il concetto di ontologia funge da grimaldello anticorrelazionalista, utile a ricercare – per stessa ammissione degli autori, più a tentoni che nell’ambito di un progetto dotato di ambizioni sistematiche – un accesso al mondo e non soltanto alle sue rappresentazioni, nel caso di Descola esso va invece riconosciuto svolgere, curiosamente, un ruolo squisitamente epistemologico. In un impiego del termine in questo senso più prossimo a quello dell’informatica che a quello tradizionalmente proprio della filosofia, le ontologie descoliane sono indistinguibilmente orizzonti di senso e regimi di operabilità del mondo, abitudini cognitive coltivate dai gruppi umani e insiemi di pratiche che ricorsivamente ne rinnovano la pertinenza.
Dettando il profilo degli esistenti, le diverse ontologie limitano dunque i margini entro cui i mondi potranno essere composti e modificati: così, per esempio, se gli Indiani d’Amazzonia non hanno mai addomesticato il pecari, ciò sarebbe in virtù esclusivamente della collocazione che tale animale ha entro gli schemi concettuali che organizzano il loro accesso al mondo, la quale impedirebbe loro di applicare a questo animale un tipo di relazione che pur dimostrano, nel rapporto con altre specie, di conoscere bene. La scena, allora, è quella kantiana: da una parte il soggetto umano, dall’altra un mondo conoscibile e maneggiabile solo in virtù degli schemi che ne organizzano la percezione fenomenica. Al livello di questi schemi, per Descola, ha luogo una – beninteso, inconscia – decisione fondamentale, riguardante la collocazione degli esistenti, da parte del soggetto, su un piano di continuità o discontinuità rispetto a due dimensioni che l’autore giustifica senza troppi imbarazzi come universali della percezione umana: «interiorità» e «fisicalità». Il gioco combinatorio produce una matrice quadripartita: e allora quattro sono, per Descola, le ontologie. Noi moderni, «naturalisti», ci figuriamo in un rapporto di continuità con l’alterità del regno animale e vegetale sul piano della fisicalità (quanto meno da Darwin in poi), mentre ci riteniamo distinti su quello dell’interiorità (delle facoltà cognitive); i popoli «animisti», come gli Achuar studiati da Descola, al contrario, raccontano di un mondo originariamente tutto umano, decaduto in seguito a eventi mitologici sino ad assumere il profilo ingannevole di una fisicalità frammentata; ma la speciazione nasconde una continuità irriducibile e sempre pronta a riaffiorare, lungo il tracciato invisibile – ma non per questo impercorribile – della metamorfosi (Viveiros de Castro 2019). Agli altri due poli della matrice, i «totemisti» – per esempio i popoli aborigeni dell’Australia – riconoscono continuità tra sé e determinate entità non umane su entrambi i piani, delineando così i confini di collettivi che non possono ricercare nella differenza di regno o di specie la garanzia della loro identità; mentre l’ontologia «analogista» – di cui il pensiero cinese costituisce un esemplare prototipico –, postulando discontinuità su entrambi i piani, concepisce un «cosmo composto da immanenze particolareggiate» (Descola 2021, p. 342).
L’assunto che regge l’impianto descoliano va riconosciuto essere in netta controtendenza con buona parte dell’antropologia degli ultimi trent’anni. Dal punto di vista dell’autore, come detto, le identificazioni precedono le relazioni: la diversità delle pratiche, cioè, è da ricondurre alla varietà – ampia ma finita – dei modi in cui gli umani attribuiscono capacità di agire alle entità che compongono i loro mondi. Da una parte gli umani e le loro ontologie; dall’altra, lo schermo immacolato del mondo, sul quale gli umani continuano a prodursi in un’attività in fin dei conti proiettiva. I non umani fanno capolino nel ponderoso volume unicamente come input per la cognizione di esseri umani che, a seconda dell’abitudine, potranno ritenerli più o meno affini a sé, e li tratteranno di conseguenza; ma non hanno mai occasione di dispiegare un’agentività che possa dirsi in senso stretto loro propria. In un tempo in cui proliferano le etnografie multispecie e i tentativi di simmetrizzare la scena epistemologica, Descola porge in dono all’antropologia il campo definito di un oggetto omogeneo e nuovamente tutto umano verso il quale concentrare i propri sforzi.
Ma se è vero che l’apertura postumanista delle scienze sociali, e dell’antropologia in particolare, ha coinciso con la progressiva messa a tema della questione ecologica come affare di cui le humanities non solo avrebbero i titoli per occuparsi, ma di cui esse sole saprebbero elucidare il tenore squisitamente politico, è su questo genere d’implicazioni che conviene chiudere la nostra breve rilettura di Oltre natura e cultura. Se nel gioco combinatorio disegnato dall’autore le relazioni fanno ingresso solo in un secondo momento, quando le entità hanno già acquisito il profilo di un’identità – ovvero sono state identificate da un essere umano –, è entro quei margini che esse saranno passibili di mutamento. Nell’intento di abolire ogni orizzonte evoluzionistico per la classificazione delle tecnologie umane, è la tecnica stessa a finire per sfumare sino a scomparire in uno sfondo nel quale saranno sempre le inferenze di carattere identificatorio a determinare le disponibilità del mondo a essere trattato altrimenti. Al fondo, si potrebbe dire che il mondo – così come l’insieme dei rapporti a esso – esiste, nell’antropologia di Descola, solo come correlato delle differenti visioni che diversi gruppi umani hanno di esso. E a queste condizioni, evidentemente, la storicità si trova ancora una volta ristretta all’umano soltanto – il resto ridotto a materia grezza per le nostre identificazioni. Le ontologie, in effetti – a differenza della cultura, che biologi e antropologi si erano ormai accordati a dismettere quale fattore identificativo di una qualsivoglia singolarità dell’animale umano (cfr. Morin 1974) –, sono affare squisitamente umano; e alla facoltà ontologica spetta il compito d’individuare, come era precedentemente toccato al linguaggio o alla coscienza della propria condizione mortale, una specificità irriducibile dell’essere umano, che assegna alla nostra specie il ruolo di una innegoziabile eccezionalità entro il campo della storia naturale.
Commisurato alla rivoluzione lovelockiana proposta da Latour (2019), allora, lo sforzo di Descola assume il profilo di una restaurazione perfettamente katiano-copernicana: il soggetto umano nuovamente al centro, e attorno a esso un mondo fatto unicamente delle diverse rappresentazioni che esso ne produce. La linea tra natura e cultura che l’opera ambisce a oltrepassare, di conseguenza, si trova rimpiazzata da un’altra linea: quella – inerte, priva di storia, tracciata una volta per tutte e indisponibile a rinegoziazioni – tra l’umanità e un mondo con cui essa intratterrebbe rapporti certo variegati ma comunque unilaterali.
Bisogna concluderne che l’antropologia di Descola ricerca la propria efficacia sugli stessi terreni ove il progetto strutturalista aveva ritenuto di fondare le proprie ambizioni paradigmatiche; e così facendo, finisce per esporsi al medesimo genere di critiche che quel progetto avevano bersagliato sino a minarne le fondamenta. Ma è anche vero che l’etichetta dello strutturalismo, pur esibendo la facciata di un edificio intellettuale possente e dai confini definiti, riesce a stento a tenere assieme le traiettorie di avventure che furono dotate di propositi, ambizioni e percorsi diversissimi tra loro. E ciò implica la necessità di spingersi un passo oltre nel caratterizzare l’eredità intellettuale che Oltre natura e cultura assume e rilavora. Proponendosi di raccogliere il lascito di Lévi-Strauss, in effetti, Descola si ritrova in mano un’opera certo marcata in origine da un dualismo profondo, che vede la struttura e il mondo contrapporsi in maniera frontale, segnando la giurisdizione di due regni radicalmente eterogenei. Tale opera, tuttavia, è anche popolata di trickster, figure mediane che mentre sembrano convocate in quanto punto – arbitrario – di contatto tra i due piani, sono pronte a tradire il proprio ruolo impiegatizio, mostrandosi invece – se interpellati con la giusta malizia – essi stessi artefici della sintesi, geni della significazione. Lo sciamano, per esempio: apparentemente rentier di un privilegio strutturale nel quale risiederebbe il segreto – simbolico – dell’efficacia delle sue pratiche, e in realtà depositario di tecniche e saperi che tale ordine concorrono a fondare e manutenere, «cristo magico» (De Martino 1948) di mondi il cui stare assieme non è garantito dall’arbitrarietà di un segno linguistico che sul piano orizzontale della differenza trova la propria consistenza necessariamente logica, bensì dal lavoro materiale e speculativo che incessantemente compone forma e vita; oppure il mana polinesiano, cui Lévi-Strauss parrebbe attribuire il ruolo di architrave del sistema simbolico – «semplice forma» dal «valore simbolico zero» (Lévi-Strauss 1965, LII) –, ma che a un esame più attento si rivela traccia di un gesto originario il quale, aprendo il campo del simbolico, può solo sopravvivere come cicatrice sulla sua superficie liscia (cfr. Leoni 2019).
In quegli anfratti, l’opera di Lévi-Strauss ospita già una venatura che lo strutturalismo trascende e reimpagina, schiudendo linee di fuga «selvagge» capaci, a volerle seguire, di aprire il sistema e mostrare la struttura nella sua consistenza di gesto e di evento. Non è tuttavia questo, bisogna convenire, il versante dell’opera levistraussiana che Descola percorre e decide di proseguire; bensì quello più saldo e rassicurante del paradigma. Ma come dimostra l’importante libro di Nastassja Martin (2016), che di Descola è stata allieva, messo alla prova dell’etnografia, l’impianto di Oltre natura e cultura rende necessarie ibridazioni che finiscono per snaturare la linearità del progetto che esso propone. Che si tratti dello sguardo latouriano che Martin assume come controcanto all’impostazione del maestro, o quelli resi possibile dai lavori di Donna Haraway (2003), Anna Tsing (2021), o Isabelle Stengers (2018), che in maniera simile potrebbero svolgere un ruolo analogo, le voci della cosiddetta “svolta ontologica” trovano nel testo di Descola l’opportunità per un dialogo capace di esplicitare sino in fondo la radicalità del sommovimento politico-teoretico che interessa l’antropologia da ormai trent’anni.
Alla luce di quanto detto, diviene lecito domandarsi quanto il volume riesca, a conti fatti, negli intenti da cui prende le mosse; in quale misura cioè si mostri capace di dotare l’antropologia della concettualità nuova che le aveva promesso, in grado di addomesticare le terre selvagge che si schiudono varcata la linea che distingue e istituisce gli ambiti speculari di natura e cultura. Come notato anche dalla curatrice nella sua densa postfazione, tuttavia, si tratta di bilanci che sarebbe probabilmente prematuro fare ora, se è vero che nel corso di quest’anno è attesa la pubblicazione del libro dedicato al tema della figurazione cui Descola ha consacrato i suoi sforzi negli oltre quindici anni trascorsi dalla pubblicazione originale di Par-delà. E in ogni caso, considerazioni di una tale portata non possono spettare a questo scritto, che aveva la ben più modesta ambizione di additare il percorso teoretico imbastito da Descola e dettagliare la frizione che esso provoca nel contesto del dibattito antropologico contemporaneo.
È con un auspicio, allora, che conviene chiudere queste note fugaci. Nell’inaugurare un capitolo italiano nella Wirkungsgeschichte del volume, e in attesa dell’uscita del nuovo libro, questa traduzione offre l’occasione perché, anche nel nostro paese, l’antropologia muova passi decisivi verso quel ruolo di primo piano che altrove essa è riconosciuta occupare nelle discussioni sull’ecologia politica. La questione ecologica e il relativo dibattito, in Italia, s’intrecciano infatti alle traversie di un mondo culturale nel quale all’antropologia ancora tocca in sorte una posizione largamente subalterna. Se il testo – accompagnato dalle voci che già vivaci hanno cominciato ad accoglierlo – saprà propiziare movimenti in tale direzione, un passo oltre la linea di natura e cultura sarà effettivamente stato intrapreso.
di Nicola Manghi
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Bibliografia
De Martino, Ernesto (1948), Il mondo magico. Prolegomeni a una storia del magismo, Einaudi, Torino
Descola, Philippe (2021), Oltre natura e cultura, Raffaello Cortina, Milano
Haraway, Donna (2003), The Companion Species Manifesto: Dogs, People, and Significant Otherness, Prickly Paradigm Press, Chicago
Latour, Bruno (2019), Essere di questa terra. Guerra e pace al tempo dei conflitti ecologici, Rosenberg & Sellier, Torino
Leoni, Federico (2019), “Struttura. Antropologia dell’immanenza. Mauss Lévi-Strauss Deleuze”, in R. Panattoni e R. Ronchi (a cura di), Immanenza: una mappa, Mimesis, Milano-Udine, pp. 59-74
Lévi-Strauss, Claude (1965), “Introduzione all’opera di Marcel Mauss”, in M. Mauss, Teoria generale della magia e altri saggi, Einaudi, Torino, pp. XV-LIV
Lévi-Strauss, Claude (2010), Il pensiero selvaggio, il Saggiatore, Milano
Martin, Nastassja, (2016), Les âmes sauvages. Face à l’Occident, la résistance d’un peuple d’Alaska, La Découverte, Paris
Morin, Edgar (1974), Il paradigma perduto. Che cos’è la natura umana?, Bompiani, Milano
Stengers, Isabelle (2018), “The Challenge of Ontological Politics”, in M. de la Cadena e M. Blaser (a cura di), A World of Many Worlds, Duke University Press, Durham, pp. 83-111
Tsing, Anna Lowenhaupt (2021), Il fungo alla fine del mondo. La possibilità di vivere nelle rovine del capitalismo, Keller, Rovereto
Viveiros de Castro, Eduardo (2017), Metafisiche cannibali. Elementi di antropologia post-strutturale, Ombre Corte, Verona
Viveiros de Castro, Eduardo (2019), Prospettivismo cosmologico in Amazzonia e altrove, Quodlibet, Macerata
Raramente il tono con cui si parla o si scrive è stato fatto oggetto di trattazione filosofica. Come trattare del tono? Come rendere conto di un elemento riconoscibile, ma apparentemente così distante, nella sua espressione singolare, dalla pretesa di generalità universale che muove il sapere filosofico? Un discorso che ha a che fare con il vero e con l’universale, sembra non potere e non dovere avere nulla a che fare con ciò che chiamiamo tono: un tale discorso – la filosofia – sembra, anzi, al contrario, dover richiedere, come sua condizione preliminare e proprio in virtù della sua istanza di generalità, una certa neutralità del tono. La filosofia esige quella che Jacques Derrida chiama, in Di un tono apocalittico adottato di recente in filosofia (Jaca Book, 2020), la «norma atonale dell’allocuzione» (p. 35).
Se poniamo il nostro sguardo da una prospettiva filosofica, dobbiamo allora definitivamente rinunciare a trattare del tono? Dobbiamo, di conseguenza, continuare a considerare il tono come qualcosa di semplicemente esteriore alla filosofia, come un suo “fuori”? Non sembra di questo avviso Derrida. La recente riedizione del suo scritto dà la possibilità al lettore italiano di riflettere, in maniera feconda, su una questione tutt’altro che ininfluente per le sorti della filosofia.
Questo breve lavoro – la nuova edizione con testo originale a fronte conta poco più di un centinaio di pagine – è la trascrizione di un intervento che il filosofo francese pronunciò a Cerisy-La-Salle nel 1980, in occasione di una conferenza dedicata proprio al suo pensiero e a cui gli organizzatori diedero il titolo di Fins de l’homme (Fini dell’uomo), eco dell’omonimo saggio di Derrida contenuto nella sua opera del 1971 Margini della filosofia.
La prima cosa che ci dice il titolo è che l’autore si occuperà di un certo tono, non tanto del tono in generale, ma del tono che assumono quei «discorsi della fine» (p. 69), così in voga al tempo, che annunciano, con rintocco di morte, «la fine della storia, la fine della lotta delle classi, la fine della filosofia, la morte di Dio, la fine delle religioni, la fine del cristianesimo e della morale, […] la fine del soggetto, la fine dell’uomo, la fine dell’Occidente, la fine di Edipo, la fine della terra, Apolcalypse now». (p. 69).
Il titolo, inoltre, suggerisce un esplicito richiamo, «secondo la citazione» (p. 33), ma anche nello stile della trasformazione e della parodia, al famoso testo di Kant, D’un tono da signori assunto di recente in filosofia (in Scritti sul criticismo, Laterza, 1991). In questo opuscolo del 1796, Kant se la prende con quelli che chiama «mistagoghi» (p. 266), portatori di un pensiero oracolare che trova nell’intuizione intellettuale, nell’illuminazione mistica e nell’esaltazione fantastica, le armi improprie con cui giungere alla verità e che conduce – sono le parole di Kant – alla «morte della filosofia» (p. 265). I mistagoghi confondono la voce immateriale della ragione, una voce che parla a tutti in un linguaggio universale e infinitamente trasmissibile, con la voce misteriosa e carica di immagini sensibili dell’oracolo. Così facendo, affidando a una solo e alla sua visione privata, il beneficio della conoscenza della verità e l’onere di trasmetterla, i mistagoghi si fanno portatori di una visione elitaria della filosofia che ha come diretta conseguenza una concezione della politica ristretta e settaria. Niente di più lontano dell’idea kantiana di una filosofia infinitamente aperta al progresso e di una politica profondamente egualitaria e democratica.
Ciò che è decisivo per Kant, e per Derrida che lo commenta, è il fatto che il tono che i mistagoghi assumono, il «tono gran-signore» (p. 51), non soltanto si fa portatore di una cattiva concezione della filosofia, ma la conduce di fronte al suo limite estremo. Il tono gran-signore dei mistagoghi, proprio come il tono assunto dai fautori dei discorsi della fine, è un tono apocalittico che annuncia la morte della filosofia.
Che cosa accomuna questi due toni: il tono gran-signore con cui se la prende Kant, al tono dei «discorsi della fine» a cui Derrida fa riferimento al tempo del suo discorso? Nel rispondere a questa domanda, Derrida comincia a prendere le distanze da Kant. Non lo fa opponendo una sua propria tesi a quelle del filosofo tedesco. (Kant e Derrida, entrambi con spirito illuminista, potremmo dire, da demistificatori, combattono dallo stesso lato della barricata contro i mistagoghi). Ma lo fa mostrando, com’è nel suo instancabile stile di scrittura, che le opposizioni concettuali messe in campo, in questo caso per difendere la filosofia dai suoi aguzzini, non sono poi, a ben vedere, così nette e inequivocabili.
Dopo averne tessuto l’elogio, Derrida, dunque, mostra anche limiti e criticità della trattazione kantiana. Proprio il limite – tra filosofia e il suo altro – costituisce il punto più problematico. Pur avendo avuto il coraggio di trattare da una prospettiva filosofica del tono, o quantomeno di un certo tono, Kant, opponendo al carattere mistificatorio e sensibile del tono, la purezza diafana, ideale della voce della ragione, non ha fatto altro che ripetere quell’operazione di esclusione del gesto, della scrittura, del corpo, che Derrida, nelle sue opere maggiori degli anni ’60 (La voce e il fenomeno, Della grammatologia, La scrittura e la differenza) e ’70 (La disseminazione, Margini della filosofia, Glas,) ci ha insegnato a riconoscere essere quella fondamentale della metafisica occidentale, ovvero di quella struttura in cui le coppie concettuali oppositive e gerarchizzate si organizzano in un tutto organico con al centro la verità.
In apertura del suo libello polemico, Kant parla di smarrimento del «significato originario» della filosofia intesa come «saggezza di vita perseguita con metodo». A causa di ciò – continua Kant – «il nome di filosofia venne ben presto rivendicato a titolo di ornamento dell'intelletto di pensatori fuor del comune, per i quali rappresentò una sorta di rivelazione d'un mistero» (p. 245). Soltanto in seguito a tale smarrimento, si sono create le condizioni favorevoli all’alzata di tono del mistagogo che, come il sofista, pretende di detenere in privato, in segreto, per se stesso e i suoi adepti, la verità. Il filosofo, da parte sua, per tenersi in vita, per tracciare il suo proprio spazio di azione nella polis, deve poter riconoscere il proprio altro e nettamente distinguersi da esso. Questo, problema classico della filosofia da Platone in poi, è l’obiettivo, il fine di Kant: differenziarsi da colui che usurpa il luogo della verità.
Ma siamo sicuri – invita a chiedere Derrida – che lo sviamento, lo smarrimento, la stonatura che può portare alla morte della filosofia di cui parla Kant, avvenga soltanto dopo rispetto a un prima originario in cui la filosofia sarebbe stata al riparo da ogni contaminazione? Siamo sicuri che il tono, e in particolare il tono apocalittico, sia del tutto estraneo all’essenza della voce, all’orizzonte “proprio” del filosofico? Prima di rispondere, va anzitutto chiarito un aspetto. A rigore, non si potrebbe parlare di tono al singolare. Il tono resiste alla chiusura della domanda ontologica che cos’è? Ciò che permette di alzare il tono – la stonatura, la Verstimmung, ovvero quel «turbamento delle menti inclinanti all’esaltazione fantastica» (Kant 1991, p. 265), e che comporta l’allontanamento dalla neutralità del discorso filosofico, non è un processo unitario. Più che di tono, dovremmo parlare di differenziazione dei toni, di alternanza dei toni (il Wechsel der Töne hölderliniano che ossessiona La cartolina), di «vibrazione differenziale» (Derrida 2020, p. 77) come ciò che permette a un tempo un tono e l’altro tono. Se il tono non può che essere plurale, rivolto all’altro e dell’altro, non può nemmeno mai essere neutro, come vorrebbe, invece, la norma atonale dell’allocuzione filosofica. La Verstimmung, la stonatura, «moltiplica le voci e fa saltare i toni. […] La Verstimmung generalizzata è la possibilità per l’altro tono, o il tono di un altro, di venire a interrompere in qualunque momento una musica familiare» (pp. 75-77).
Nonostante si guardi bene dal cedere alla tentazione di essenzializzare, di ontologizzare la stonatura generalizzata che apre la strada al tono apocalittico – essa è infatti precisamente ciò che impedisce di chiudere, di portare a termine ogni tentativo di questo tipo – Derrida non rinuncia, dopo aver preso le dovute precauzioni, a immaginare, potremmo dire per ragioni strategiche, una scena fondamentale. «Cediamo per poco alla tentazione di una finzione e immaginiamo questa scena fondamentale. Immaginiamo che vi sia un tono apocalittico, una unità del tono apocalittico» (p. 75).
A quale fine mira la strategia di Derrida? È questa domanda sul fine che, anzitutto, dobbiamo porci quando trattiamo con il tono dei discorsi della fine. È la stessa di Kant e di Derrida: a quale fine mirano i mistagoghi di tutti i tempi quando annunciano, con tono apocalittico, la morte della filosofia? Essi vogliono svelare la verità sulla fine che soltanto loro detengono in segreto e, mediante questa, attirare, far venire, sedurre. «Svelamento o verità, apofantica dell’imminenza della fine, di qualunque cosa che riguardi alla fine, la fine del mondo. Non soltanto la verità come verità rivelata di un segreto sulla fine o del segreto della fine. La verità stessa è la fine, la destinazione, e che la verità si sveli è l’avvenimento della fine» (p. 77). Ma, alla fine, la verità non è lo stesso fine a cui aspira anche Kant? Ecco allora che la verità, con la sua struttura apocalittica, non soltanto tiene insieme, in una scena fondamentale, tutti i discorsi sulla fine, ma rivela un accordo, un «potente programma» (p. 69) in cui escatologia e teleologia trovano, al di là della loro dichiarata opposizione, un segreto accordo. La voce della ragione e il tono apocalittico non sono affatto così nettamente opposti come vorrebbe Kant. La stonatura generalizzata, la Verstimmung è ciò permette a un tempo l’alterazione dei toni, la distinzione tra un tono e l’altro tono e la differenziazione tra tono e voce. Se è così, essa non può essere espunta dalla scena come se fosse venuta dopo nella forma dello sviamento da un significato originale puro, incontaminato e neutro. La stonatura, la venuta dell’altro, la fine, è già da sempre venuta. Il tono, e in particolare il tono apocalittico, abita già da sempre, e lo fa fino alla fine, la voce della ragione.
«La Verstimmung, – scrive Derrida –se si nomina così ormai il deragliamento, il cambio di tono come si direbbe il cambio di umore, è il disordine o il delirio della destinazione ma anche la possibilità di ogni emissione» (p. 77). In tale disordine o delirio dobbiamo certo riconoscere un rischio catastrofico che dobbiamo arginare, – la morte della filosofia – ma anche la chance, forse l’unica, che qualcosa come un invio, un senso, un desiderio, una politica, un’etica, inizi a circolare.
Cimabue - Visione del trono e del libro dei Sette Sigilli (1277-1281)
Cimabue - Visione degli angeli ai quattro lati della terra (1277- 1281)
C’è un luogo della tradizione in cui immaginare una scena fondamentale del tono apocalittico: è l’Apocalisse di Giovanni. Qui il tono apocalittico si fa, o meglio, si rivela, testo. Ogni testo apocalittico annuncia che «il tempo è vicino», che la fine è imminente. Ciò che interessa a Derrida del testo, non è tanto il contenuto rivelato, la fine, ma la sua struttura, «la verità della rivelazione invece che la verità rivelata» (p. 85). La moltiplicazione delle voci, degli invii che circolano, all’inizio dell’Apocalisse, negli scambi di messaggi rivelatori tra Gesù, l’angelo e Giovanni che scrive, è la stonatura generalizzata come «condizione trascendentale di ogni discorso, persino di ogni esperienza, di ogni marca o di ogni traccia. […] Se l’apocalisse rivela, essa è innanzitutto rivelazione dell’apocalisse, auto-presentazione della struttura apocalittica del linguaggio, della scrittura, dell’esperienza della presenza, ossia del testo o della marca in generale: cioè dell’invio divisibile per il quale non c’è auto-presentazione né destinazione assicurata» (p. 85).
Di tutti i motivi che si intrecciano nella polifonia del testo, Derrida si occupa del «Vieni», di quel «Vieni» che apre la sequenza dei sette sigilli e dei Cavalieri dell’Apocalisse. Dicevamo, la fine è già sempre venuta. Qui il participio passato non va letto come se indicasse un’azione compiuta, un contenuto rivelato: esso marca, piuttosto, il venire, l’infinito di un «Vieni». Infatti, precisa Derrida, «l’avvenimento del vieni precede e chiama l’avvenimento» (p. 97). Il vieni non può mai ridursi a un oggetto, a un tema, a una rappresentazione, perché è esso ad aprire la scena, a rendere possibile, come condizione trascendentale, ogni domanda.
Il vieni è già sempre venuto ed è sempre a-venire. È in questa strana formulazione che si può esprimere l’annuncio di quella che Derrida chiama «apocalisse senza apocalisse» (p. 99) e in cui dobbiamo riconoscere il fine senza fine, la «strategia senza finalità» (Derrida 1997, p. 33), il «compito» (Derrida 2020, p. 27) a cui mira il discorso derridiano. In «tono affermativo» (p. 97), il «Vieni», che è il «gesto nella parola, […] annuncia qui, promessa o minaccia, un’apocalisse senza apocalisse, un’apocalisse senza visione, senza verità, senza rivelazione, degli invii (perché il «vieni» è plurale in sé), degli indirizzi senza messaggio e senza destinazione, senza destinatore o destinatario decidibile, senza giudizio finale, senza altra escatologia che il tono del «Vieni», la sua stessa differaenza, un’apocalisse al di là del bene e del male» (p. 101).
Il tono è al di là dell’opposizione tra sensibilità e idealità, al di là dell’opposizione tra voce della ragione e voce oracolare, «al di là dell’essere» (p. 99). Esso annuncia, «alla vigilia della filosofia e al di là di essa» (Derrida 1997, p. 33), qui e ora, apocalypse now, la chance, forse l’unica, di un pensiero aperto all’altro, aperto all’a-venire.
In queste poche, ma densissime pagine, Derrida, nell’affrontare la questione del tono, raccoglie molti dei temi e dei motivi che lo hanno interessato fino a quel momento (ruolo e rilevanza della voce, rapporto tra nome e cosa, differenza e scrittura) e anticipa alcuni di quelli che, strettamente intersecati ai precedenti, lo impegneranno nella sua riflessione successiva (pensiero dell’a-venire, invenzione dell’altro). Per questo motivo, per la sua straordinaria capacità di condensazione, Di un tono apocalittico adottato di recente in filosofia risulta un testo chiave per avere accesso a uno dei laboratori di pensiero più fervidi di tutto il Novecento, un pensiero che con la forza del suo «Vieni» ci chiama ancora, in questi giorni apocalittici, a rispondere al suo annuncio.
In un film di qualche anno fa, Predestination (Australia 2014), i registi e fratelli gemelli Michael e Peter Spierig mettono in scena un vecchio racconto di fantascienza di Robert A. Heinlein, …All You Zombies… (1959), il cui protagonista è, al contempo, maschio e femmina, genitore e figlio/a, amante e amato/a. È la linearità (presunta) delle azioni che si susseguono nel tempo omogeneo a essere così, innanzitutto, radicalmente sovvertita. Una escogitazione narrativa originale, quella di un organismo nato all’interno della possibilità stessa di viaggiare nel tempo, autorizza un gesto che la metafisica si è sempre trattenuta dal compiere fino in fondo: elevare l’esperienza, con la sua radicale imprevedibilità, ad assoluto. Lo spettatore del film, come il suo protagonista (Jane/John), scoprono progressivamente un destino che nessuno ha scritto e che anzi si scrive, in maniera per forza di cose impersonale, attraverso il suo continuo accadere. Se si dovesse perciò trovare un’esemplificazione di quel che Federico Leoni affronta nel suo nuovo libro, L’automa. Leibniz, Bergson (Mimesis 2019), si dovrebbe, con ogni probabilità, fare ricorso a una figura analoga a quella al centro del film degli Spierig.
Anche l’automa, come la vicenda di Jane/John, è l’emblema di un divenire che si sottrae per definizione a ogni prevedibilità, come a qualsiasi pretesa di sovrana padronanza: che sfugge, in breve, alla calcolabilità dell’algoritmo. In fondo, il tema principale di questo piccolo ma importante libro, risiede nella differenza di natura che l’automa (spirituale o incorporeo, come lo definisce Leibniz) deve poter affermare rispetto alle macchine, e in particolare, in relazione alle molte macchine ‘pensanti’ con le quali oggi si tenta di strappare il divenire delle nostre vite alla sua radicale imprevedibilità. L’automa, insomma, è la figura di un organismo senza confini, di un essere che esiste tutto nel suo trasportarsi attraverso di sé, nel suo raggiungersi alla fine del proprio futuro come al principio del proprio passato, facendo così saltare per aria le paratie con le quali siamo soliti proteggerci dalla fatalità a cui ogni vita dovrebbe accordarsi. Imprevedibilità, in effetti, non significa né contingenza, né necessità, ma, piuttosto, continua ridefinizione del necessario come del possibile. Significa, in una parola, alterazione progressiva e cangiante delle stesse categorie con cui il pensiero tenta – tenta solamente – di irreggimentare l’automa.
L’argomentazione di Leoni prende due strade che, intrecciandosi l’una nell’altra come le due anime di una stessa corda, diventano progressivamente un'unica via. Il saggio, partendo dalla vicenda di Joë Bousquet, il poeta ferito di guerra paraplegico che già Gilles Deleuze eleggeva a simbolo della sua etica dell’evento (etica consistente per intero nel saper essere “all’altezza di ciò che ci accade”), mescola registro soggettivo e registro ontologico, determinando così quella indiscernibilità tra tempi distinti che fa appunto dell’automa la messa fuori gioco reiterata di tutte le opposizioni del pensiero metafisico. Una vita si scrive sempre in uno spazio che sfugge a ogni qualificazione nei termini della logica modale, vera e propria superficie di trascrizione ritmica e dialettica del divenire, allo stesso modo in cui il reale del mondo non si lascia acciuffare dalla scansione metafisica di sostanza e accidente, sostrato e accadere, soggetto e predicato. E viceversa, una vita non è un supporto al quale si aggiungono eventi, come il mondo non risponde alla distinzione di possibile e impossibile, contingenza e necessità. L’automa consiste tutto in questa ritrosia fondamentale, in tale riottosità del reale nei confronti dei nostri, umani troppo umani, schemi concettuali. La macchina, insomma, non è l’automa, perché l’automa è piuttosto la matrice informale e illocalizzabile di ogni macchina. Quel che l’automa, correttamente inteso, rivela è quindi l’impossibilità definitiva di calcolare e padroneggiare tecnicamente il divenire. Attraverso il suo situarsi sempre un passo al di là, o al di qua, di ogni concettualizzazione, come di tutte le prassi di adattamento tecnico del reale ai nostri bisogni, nel mentre che tutte le circoscrive e le include, l’automa offre la manifestazione di un’assoluta e crescente indisponibilità del reale. Reale è qui ciò che, come appunto l’automa, si muove da sé e non tollera quindi alcun genere di ingerenza, senza prima averla riassorbita.
Fritz Lang - Metropolis (1927)
Il paradosso di fronte al quale ci mette Leoni è infatti il seguente: il destino esiste solo fin quando vi si acconsente. Ogni manovra diversiva apre per ciò stesso una deviazione, istituisce “nuovo” destino, a sua volta imprevedibile. Leoni propone una sorta di psicoanalisi della metafisica, in cui la struttura nevrotica degli schemi concettuali tràditi diventa l’occasione di un lavoro decostruttivo che non può non essere, altresì, lavoro ricostruttivo. Emerge così qualcosa come una ontologia senza metafisica – un’ontologia della non invarianza dell’ontologia. Un’ontologia della perversione che dà luogo a un’ontologia che si perverte senza sosta. L’utopia, nel senso letterale della parola, è quindi costituire i prodromi di una «scienza del divenire» (p. 13), ovvero di ciò di cui, a detta di Aristotele (e con lui, di tutta l’episteme occidentale), non si dà scienza. Che il divenire sia isomorfo all’individuale è infatti fuor di dubbio: «Non esiste il movimento in generale» (p. 26). Il divenire è sempre singolare – e anzi, il divenire è il singolare. «Se si assume questo schema, scrive Leoni, la filosofia è possibile solo nella forma dell’esplorazione della propria impossibilità, è possibile solo come infinita rivisitazione della propria aporia» (p. 13). Ma la filosofia consiste proprio in questa sfida: occorre saper tramutare una impossibilità, quella della filosofia come scienza del non qualsiasi o del non generico, in effettività. Come fa, d’altronde, ogni creatore. Ogni creatore che si rispetti deve fronteggiarsi infatti con un compito impossibile – trasformare un fraintendimento in una risorsa. Harold Bloom, nel suo celebre L’angoscia dell’influenza, lo ha mostrato in relazione all’emergere di quanto definisce un «poeta forte». Ma il discorso vale vieppiù a proposito della vicenda filosofica. Anche in questo caso ne va della conversione di un travisamento inevitabile in un altrettanto inevitabile progresso, che si legittima à rebours quale correzione di quanto in passato era rimasto disatteso o, soltanto, era stato equivocato. La storia dell’automa coincide quindi con la storia della filosofia, come serie continua di tentativi riusciti proprio perché falliti. L’ontologia che Leoni lascia balenare nella sua istruttoria sull’automa registra questo fatto, elevandolo a cifra stessa del reale – di ciò che nel reale si presenta come l’essere qualsiasi. Paradosso ulteriore, quindi: il modo d’esistenza del singolare, ovvero del non-qualunque, è di essere, appunto, affatto qualsiasi. Di non avere scelta, per dir così.
Ecco allora che, nell’ultimo capitolo, L’inconscio, una storia di fantasmi, l’autore tira le fila del suo discorso con una mossa apparentemente inattesa: l’automa diventa un avatar, a sua volta, del fantasma. Lo scenario è vertiginoso e la batteria di concetti evocati vorticosa. Tutto non è altro che immagine, immagine in sé. Sono le celebri e difficili tesi del primo capitolo del bergsoniano Materia e memoria (1896), portate però qui al loro sviluppo più radicale. L’automa non è una macchina, dicevamo, ma ogni macchina è una forma, o un organo, dell’automatismo dell’automa. Pensare l’automa non significa considerare le connessioni di parti in esteriorità con cui ci si presenta il mondo notomizzato dall’intelligenza pragmatica; non è questione di funzionamenti di oggetti, ricavati dalla giustapposizione di realtà accomodate l’una all’altra secondo il loro profilo materiale. Pensare l’automa è pensare l’intramatura con la quale ogni lacerto di mondo, anche il più insignificante e infinitesimale, si installa e fugge al contempo in e da ogni altro. È vedere il mondo quale ribollio incessante di proliferazioni, di frattali in reciproca e diveniente ristrutturazione. Lo statuto dell’automa è lo statuto dell’esempio, di ciò che, senza scarti di alcun genere – senza la mediazione di una generalità interposta –, è il proprio stesso dover-essere. Di ciò che appunto è singolare: unico nel suo genere. «Ogni cosa è una ragione […] Ogni monade è insieme di un solo elemento, ma quel solo elemento non è un elemento solo, è sempre anche il proprio insieme» (pp. 44 e 74). Nell’atto di leggere Bergson e Leibniz, Leoni si precipita perciò al di là di loro – si spinge oltre il dualismo di tendenze che ancora caratterizza il dettato bergsoniano, come già Deleuze aveva notato, e il contingentismo che Leibniz fatica, malgrado tutto, a ricusare come a giustificare (significativo è che Leoni decida di non tematizzare direttamente la teodicea leibniziana). L’automa si presenta quindi come una meditazione sulla necessità di ontologizzare quanto si sottrae, in apparenza, a questa stessa eventualità: l’immaginazione – quella «funzione senza organo» (Georges Canguilhem) che, secondo il Kant della Critica del giudizio, può guadagnare in alcuni casi le prerogative di un «libero gioco» in cui non è più l’intelletto, con il suo quadro presupposto di categorie, a dettare le condizioni. Ecco che cosa vuol dire pensare una ontologia rescissa dai suoi vincoli metafisici: «E in questo senso ci sono solo nature al plurale, e ogni divisione produce una natura differente, ovvero la natura si divide producendosi in ogni divisione come un altro modo di essere natura, come un altro modo di naturare, un’altra genesi continua di discontinuità. In altre parole, tutto è artificiale, non c’è che artificio» (p. 17).
Il lavoro di Leoni, e non solo in questa occasione, ha come esito, dunque, una definitiva messa in mora della tentazione meccanicista che pure da sempre caratterizza una certa filosofia, intenta a cercare una clavis universalis con cui risolvere una volta per tutte i problemi della conoscenza e della vita. Speranza, d’altronde, dello stesso Leibniz che, con la sua characteristca universalis, immaginava di ridurre ogni controversia a un puro esercizio di calcolo. Fa notare l’Autore: «Ogni macchina contiene un appello alla trascendenza» (p. 51). Si tratta invece di lavorare a un concetto e una prassi conseguente di immanenza integrale. La suddetta chiave, sembra dirci infatti Leoni, semplicemente non esiste, perché deriva, al contrario, da un effetto interno a una potente tecnologia, che fa tutt’uno con quella alfabetica – la grammatica indoeuropea di soggetto e predicato, che struttura notoriamente gran parte della tradizione filosofica occidentale, almeno sino alla soglia del Novecento. Se pensiamo di poter ricostruire l’evento con i risultati della sua analisi (ricostruzione in atto già nella distinzione del flusso linguistico in parti del discorso), finiamo per cadere in una serie di perniciose aporie – tra le quali, e non per ultima, l’idea di un divenire che si aggiunge dall’esterno all’essere senza potersi mai davvero comporre con esso, di una molteplicità che si fa uno o di un’unità che si fa, non si capisce come, molteplice. Quel che va pensato, allora, è qualcosa che è «più di uno e meno di due» (p. 52), che resiste in questo bilico. Occorre solcare il paradosso senza cadere nell’aporia.
Fare filosofia ha sempre significato volersi cimentare con un compito inattuabile: trasformare la vita in un processo automatico. Perché si tratti di alcunché d’irrealizzabile, è presto detto: l’automa è la figura che rende impraticabile questa strada, nella stessa misura in cui la impone come inaggirabile. «Ogni automa è la macchina di ogni altro» (p. 59). La filosofia si identifica alla memoria, perenne perché ogni volta da rinnovare, di questa eccedenza o di questa sottrazione originaria, le quali rimandano entrambe, però, alla totale immanenza con cui l’automa prende forma, aderendo perfettamente solo a se medesimo. Perché di questo si tratta, di un prendere forma che resta tale – che resta in progress. L’automa, insomma, non è calcolabile. Tutto si può fare, tranne divenire-automi, se “divenire” significa passare dalla potenza all’atto. Semmai, si dovrà tornare a esserlo – tornare a essere quel che non si è mai cessato di diventare. L’unico vero automa, in altre parole, non è digitale, ma analogico. Nessun dio ci può salvare, va infine detto. Nemmeno quel dio minore che è il filosofo. Per fortuna.
L’intento di questa raccolta, che prende il titolo di “Soggettivazioni”, è stato quello di aprire una riflessione attorno alla teoria della soggettivazione lacaniana, così per come ce l’ha lasciata in eredità Lacan, a singhiozzi, nei testi stabiliti a partire dai suoi trent’anni di insegnamento orale. Cosa può dirci una psicoanalisi asistematica, distante dalle istituzioni universitarie rispetto a problemi di una concretezza innervata di realtà? Chi frequenta i dipartimenti di Psicologia e assieme l’insegnamento lacaniano sa che è incommensurabile la distanza che intercorre tra la specificità e la settorializzazione degli strumenti istituzionali a confronto con l’universalità dei concetti larghi e volontariamente mai definiti dello psicoanalista parigino. Tra l’estremamente particolare (l’ad hoc della psicologia contemporanea) e l’estremamente universale (il concetto, unità sintetica della filosofia) si rischia di incorrere in un deragliamento del punto focale, causato da uno scontro di metodi epistemologici che si sono stabilizzati ai bordi opposti l’uno rispetto all’altro. Nella scelta di prendere in considerazione un tema vasto e generale come la teoria della soggettivazione c’era l’interesse, da parte nostra, di porlo in dialogo con il campo altrettanto vasto e generale del presente. Speriamo che questa prima ricerca possa costituirsi come un’indagine (sebbene parziale) sullo statuto del soggetto in quanto campo epistemologico aperto: attingendo dalla teoria psicoanalitica e dal dibattito che ne è scaturito, il presente volume segue molteplici sentieri analitici e sottolinea di contributo in contributo la difficoltà di giungere a un’idea organica di soggetto, per la varietà di ipotesi spesso contrastanti in merito alla sua rappresentazione, formalizzazione e interpretazione. In questa raccolta crediamo che i punti maggiormente messi in rilievo da chi ha collaborato riguardino il problema della genesi, lo statuto della trasformazione, e infine un’attenzione specifica è stata rivolta al registro del Reale e ai suoi effetti.
Il rompicapo della realtà. Metafisica, ontologia e filosofia della mente in E. J. Lowe (Mimesis, Milano 2015) di Timothy Tambassi è la prima monografia dedicata interamente al pensiero di Lowe, il quale ha contribuito a impreziosirla seguendone la stesura passo per passo fino alla versione definitiva (la tesi di dottorato dell’autore) senza tuttavia potere assistere alla pubblicazione del volume, avvenuta a poco più di un anno dalla morte dello stesso Lowe. Il sottotitolo rivela il contenuto vero e proprio del libro: non ogni aspetto della ricerca di Lowe, ma quelli considerati più aderenti al suo nucleo teoretico, ossia la metafisica, l’ontologia e la filosofia della mente, a cui corrispondono i tre capitoli del libro. Più in particolare, Tambassi mira a mostrare la stretta connessione sussistente fra questi aspetti della proposta loweiana, la loro costitutiva apertura ai risultati delle scienze e, più in generale, ad altre forme di indagine della realtà. Secondo Lowe, infatti, la riflessione metafisica – focalizzata sui tre concetti cardine di realtà, di sostanza e di risorse esplicative – costituisce lo sfondo concettuale imprescindibile dell’ontologia e della filosofia della mente e conseguentemente, attraverso queste ultime, di ogni altra forma di indagine della realtà. Come vedremo, però, la scelta di presentare una sintesi coerente solo del nucleo essenziale della proposta loweiana, se da un lato abbrevia certamente la via per l’acquisizione di una certa dimestichezza col suo pensiero, dall’altro, però, rischia di contrarre nella pura dimensione dell’implicito la ricchezza di temi e questioni che pure hanno caratterizzato il lavoro filosofico di Lowe e che intrattengono un ruolo di continuo scambio col suo nucleo – e non semplicemente di mera applicazione o conseguenza.
Il primo capitolo del testo di Tambassi è dedicato alla metafisica di Lowe, definita come una disciplina razionale che studia sistematicamente le strutture fondamentali della realtà, intesa a sua volta come unitaria e indipendente dal nostro modo di osservarla, e fa ciò interamente a priori, cercando quindi di chiarire alcuni concetti universalmente applicabili (pp. 19-20). Essa definisce ciò che è possibile, sia specificando la natura stessa della possibilità sia determinando quali siano le entità possibili e che caratteristiche abbiano. Stando a questa definizione, allora, la possibilità metafisica viene qualificata come una possibilità de re, ossia una possibilità reale, che riguarda la natura stessa delle cose di cui è predicata e ciò a prescindere dal modo in cui tali cose vengono concretamente descritte. Il criterio minimale per la possibilità reale, allora, è che tra le proposizioni utilizzate per descrivere le cose sia assente la contraddizione. In questo senso, nella concezione di Lowe la possibilità logica e l’ambito della metafisica risultano coestensivi: ciò che è possibile è, cioè, vero in ogni mondo in cui valgano le leggi della logica. L’orizzonte della pura possibilità logica acquisisce poi una più compiuta determinazione per mezzo delle nozioni trascendentali – quali, per esempio, le nozioni di sostanza, proprietà e stato di cose –, che è compito proprio della metafisica approfondire e che sono alla base dell’articolazione della nostra stessa esperienza della realtà attuale (pp. 25-26). In proposito, il senso del trascendentale loweiano – a differenza di quello kantiano – riguarda sia la realtà in se stessa sia il nostro modo di pensarla. E questo proprio perché, per Lowe, se da un lato non si dà realtà al di fuori dell’esperienza possibile, dall’altro la nostra esperienza e il nostro pensiero sono una parte costitutiva della realtà stessa, e ciò che riguarda essenzialmente il nostro pensiero della realtà riguarda con ciò stesso anche la realtà in quanto tale. Il fatto che Lowe sottolinei l’indipendenza della descrizione della realtà dal nostro modo di pensarla non risulta, però, in contraddizione con quanto appena sottolineato, poiché questa indipendenza è intesa tale non tanto nei confronti del pensiero in generale, quanto piuttosto nei confronti delle particolari prospettive dei soggetti.
Fra le nozioni trascendentali la centralità assoluta spetta alla nozione di sostanza (1.3), in virtù della sua indipendenza ontologica, che comporta la sua priorità ontologica rispetto a ogni altro tipo di entità (p. 28). È qui che il discorso metafisico entra pienamente nel vivo, coinvolgendo infatti le condizioni d’esistenza e d’identità delle sostanze, che a loro volta comportano – come vedremo più avanti – l’approfondimento della natura del tempo. Una certa entità è, allora, ontologicamente indipendente – ossia è una sostanza – se e solo se non dipende per la sua identità da qualche altra entità. Da tale condizione discende anche quella relativa all’esistenza: se una certa entità dipende da un’altra per la sua identità, ne dipende anche per la sua esistenza, ossia esiste solo se esiste anche la seconda. La sostanza è indipendente in entrambi i sensi – e in ciò consiste propriamente la sua indipendenza ontologica: «Così concepita, la sostanza è un particolare (concreto) che non dipende per la sua esistenza da nient’altro oltre che da se stesso, dove la dipendenza esistenziale coinvolta è intesa in termini di dipendenza rispetto all’identità» (pp. 29-30). L’insieme delle condizioni d’identità di una sostanza – ciò che determina l’identità e l’unità di essa – è allora la sua forma, ossia il suo costituirsi come istanza di un certo genere (o tipo). In virtù di questo aspetto fondamentale della forma Lowe ammette poi l’esistenza di sostanze immateriali – quali per esempio i sé (oggetto della filosofia della mente) e le particelle ultime (che sarebbero quindi fisiche e immateriali al tempo stesso; cfr. p. 32) – accanto a quelle materiali, intendendo qui ‘materiale’ nel senso della materia prossima, ossia ciò di cui una cosa risulta immediatamente costituita.
Sempre dalla forma discende poi anche la più importante distinzione relativa alle sostanze: quella fra sostanze composte – tra le quali si annoverano le cose concrete del mondo macroscopico – e sostanze semplici (o prime) – per esempio i sé e alcune particelle subatomiche la cui immaterialità, naturalmente, consegue dalla loro semplicità – che costituiscono il fondamento ultimo dell’esistenza del reale (pp. 33-34). Una sostanza è allora composta, se possiede delle parti – dalle quali non dipende però per la propria identità – ed è invece semplice, se è priva di parti costituenti. A sua volta, la differenza fra i due tipi di sostanze si fonda su una differenza fra criteri d’identità ed è qui che il tempo gioca un ruolo decisivo: se infatti ogni sostanza materiale e ogni sostanza fisica sono necessariamente collocate in modo determinato nello spazio e nel tempo, le sostanze mentali (i sé) esistono necessariamente nel tempo ma solo contingentemente nello spazio – ossia solo nella misura in cui sono legate a sostanze fisiche quali i loro corpi: poiché per Lowe il tempo è reale per ogni tipo di sostanza, esso risulta un riferimento privilegiato. Più in particolare, è in relazione al tempo che emerge una differenza fondamentale nei criteri d’identità delle sostanze: contrariamente a quelle semplici, infatti, le sostanze composte sono dotate di un criterio d’identità diacronica (1.6), che «è fondata a partire dalle relazioni di equivalenza definite sulle loro componenti attuali o possibili […] e consiste nella conservazione di tali relazioni fra le parti costituenti possedute dalle sostanze attraverso il tempo» (pp. 36-37). La sostanza complessa, in somma, è ciò che permane attraverso il mutare delle relazioni, in cui il tempo propriamente consiste. È per questo motivo che l’esistenza stessa del tempo dipende in ultima istanza da quella delle sostanze semplici, «che persistono attraverso il tempo come “continuanti” […] e la cui persistenza è necessariamente primitiva» (p. 40).
Al culmine di queste considerazioni, Tambassi inserisce un’accurata analisi della concezione loweiana del tempo e del contesto in cui si colloca (1.7). Se il dibattito contemporaneo sulla natura del tempo è diviso fra le teorie tensionali (dall’inglese ‘tense’) e quelle atensionali – le prime ritengono essenziali le nozioni di passato, presente e futuro, le seconde si limitando a considerare le nozioni di prima, dopo e simultaneità –, Lowe assume la prima posizione, legandola essenzialmente a una concezione della persistenza (di una sostanza nel tempo) di tipo endurantista, secondo la quale una sostanza è sempre completamente presente in ogni momento in cui esiste – posizione contrapposta a quella perdurantista, secondo cui a differenti momenti dell’esistenza di una sostanza complessa corrispondono differenti parti temporali di essa.
Il secondo capitolo del libro è dedicato all’ontologia, che Tambassi rileva come «la parte più innovativa e originale» (p. 45) degli scritti di Lowe, anche perché giunta alla sua veste definitiva solo con la pubblicazione nel 2006 di The Four-Category Ontology. Dopo una ricostruzione storico-contestuale dell’ontologia analitica e del dibattito contemporaneo (2.1), Tambassi delinea la posizione loweiana sull’ontologia: «quella parte della metafisica che studia nello specifico l’essere in tre sensi fondamentali: esistenza, entità ed essenza» (p. 50). Essa ha il compito di stabilire che cosa esiste (esistenza), di determinare le categorie fondamentali dell’essere nonché le loro interrelazioni (entità) e, infine, di indagare quali siano le caratteristiche necessarie e quali le caratteristiche contingenti di una determinata entità (essenza). L’ontologia si divide inoltre in una parte a priori – quella specifica dell’elaborazione categoriale – e una empirica, che si confronta coi risultati delle altre scienze. In sintesi, allora, se la metafisica si occupa della pura possibilità, l’ontologia si occupa di ciò che esiste e coesiste. In quanto scienza dell’essere, come già osservato, essa è secondo Lowe indissolubilmente connessa alle descrizioni della realtà che emergono dal lavoro di ogni disciplina scientifica, il cui obiettivo è una descrizione vera della porzione di realtà che costituisce il suo specifico oggetto di ricerca, descrizione su cui si innesta conseguentemente anche la capacità di una scienza di fornire adeguati modelli di previsione per i fenomeni coinvolti nel suo oggetto. «L’ontologia ha l’obiettivo di unificare le diverse descrizioni […], in modo da fornire una descrizione unitaria» (p. 50), essendo il suo oggetto la realtà in se stessa e in quanto tale. Tambassi prosegue collocando la posizione di Lowe nel panorama contemporaneo relativo alle categorie ontologiche (2.2), che Lowe definisce come i tipi più generali di cose (categorie dotate di maggiore generalità) che forniscono i criteri d’identità per specifiche classi di oggetti (p. 53). Partendo dalla categoria ontologica di entità – la massima per generalità –, si arriva quindi finalmente al sistema ontologico quadri-categoriale (2.3), ottenuto combinando le suddivisioni di entità in universali/particolari e sostanziali/non sostanziali. Le quattro categorie (cfr. p. 55) sono quelle dei generi (universali sostanziali), degli attributi (universali non sostanziali), degli oggetti (particolari sostanziali, ossia le sostanze di cui si è discusso nel primo capitolo) e dei modi (particolari non sostanziali). Tutto ciò che esiste è incluso in una di queste categorie, il cui studio avviene interamente a priori. Fra le quattro categorie fondamentali, inoltre, sussistono due relazioni metafisiche fondamentali: l’istanziazione (generi e attributi istanziati rispettivamente da oggetti e modi) e la caratterizzazione (generi e oggetti caratterizzati rispettivamente da attributi e modi). A queste due prime relazioni metafisiche Lowe aggiunge poi la relazione di esemplificazione (attributi esemplificati da oggetti). A ognuna delle quattro categorie ontologiche loweiane, che categorizzano entità esistenti (anche nel caso degli universali, come vedremo), Tambassi dedica poi un’analisi specifica (2.4).
Il punto di partenza è ancora la nozione di sostanza, che nel sistema quadri-categoriale è rappresentata dalla categoria degli oggetti (2.4.1): com’era emerso nel capitolo dedicato alla metafisica, questa è la categoria delle entità che per la loro indipendenza e priorità ontologiche sono il fondamento della realtà. Così, relativamente al rapporto fra gli oggetti e i modi che li caratterizzano (proprietà e relazioni degli oggetti), Lowe pone due importanti distinzioni: la prima è che gli oggetti non sono meri sostrati privi di proprietà in se stessi (bare particulars) con la funzione di sostenere proprietà che avrebbero così un ruolo ontologicamente prioritario nelle condizioni d’identità dell’oggetto stesso. Piuttosto, invece, «gli oggetti non dipendono né per la loro esistenza né per la loro identità dai modi che li caratterizzano» (p. 61) trattandosi di due entità differenti, le prime ontologicamente indipendenti, le seconde dipendenti. La seconda distinzione importante, è quella fra oggetti e quasi-oggetti. Questi ultimi sono entità particolari e numerabili, che tuttavia sono costitutivamente privi di condizioni d’identità determinate che ne permettano l’individuazione (tali sono per esempio le particelle atomiche oggetto della meccanica quantistica): «L’indeterminatezza della loro identità è di tipo ontologico e non dipende in alcun modo dal nostro modo di conoscere le entità in questione» (p. 63). Procedendo con le altre categorie, Tambassi considera poi i modi – che si dividono in proprietà particolari (modi monadici) e relazioni particolari (modi poliadici) – e il loro rapporto con la nostra esperienza empirica (2.4.2), rapporto a proposito del quale Lowe considera la differenza fra le nostre percezioni e i fatti stessi (a loro volta distinti in eventi e processi, intesi come cambiamenti e sequenze di cambiamenti nei modi di un oggetto; cfr. p. 67). Che i modi siano delle entità particolari, inoltre, comporta l’unicità di ognuno di essi, mentre la loro dipendenza dagli oggetti implica che nessun modo può dipendere al tempo stesso da oggetti differenti; i modi, inoltre, non possono nemmeno essere considerati alla stregua di parti di un oggetto: queste sono infatti particolari sostanziali, che possono a loro volta possedere degli altri modi, ma non ridurvisi. Dalle considerazioni sui modi, Tambassi prosegue a discutere la concezione loweiana degli attributi (2.4.3.), intesi come il modo di due o più oggetti, o come un’entità portata dal genere che ne viene così caratterizzato (cfr. p. 71; per esempio, si dice che l’attributo della “trasparenza” caratterizza il genere “vetro”, che è un portatore della trasparenza; il vetro particolare (sostanza) della finestra che ho accanto e la sua particolare trasparenza (modo), sono allora rispettivamente istanze del genere “vetro” e dell’attributo “trasparenza”). Comincia qui a profilarsi il particolare realismo “immanente” sugli universali di Lowe, secondo il quale gli universali inclusi nell’inventario dell’esistente sono sia quelli istanziati attualmente sia quelli che hanno avuto istanze e che non sono però più attuali, ma non quelli di cui non si abbiano istanze (p. 70). Tambassi conclude poi il secondo capitolo con la discussione dei generi (2.4.4.) – universali sostanziali –, a cui Lowe «attribuisce un ruolo fondamentale nella descrizione dello statuto ontologico delle leggi naturali» (p. 74). Alle leggi naturali corrispondono i generi naturali da esse necessariamente caratterizzati e, in questo senso, le leggi naturali «determinano tendenze fra i particolari […] a cui si applicano, ma non i loro comportamento attuale […] che è invece il risultato di molteplici interazioni implicanti una molteplicità di leggi» (p. 77).
Infine, il terzo e ultimo capitolo prende in considerazione la filosofia della mente, definita come «la disciplina che si occupa di studiare e analizzare, da un punto di vista filosofico, i soggetti di esperienza, […] di chiarire cosa siano e se e come possano esistere» (p. 83). Con “soggetto di esperienza” s’intende ogni possibile portatore di proprietà mentali (per esempio persone, altri animali, robot e spiriti senza corpo). In gran parte, la filosofia della mente di Lowe mi sembra essere una coerente conseguenza di idee sviluppate su un piano strettamente ontologico e metafisico. Così, Lowe può tradurre il problema del rapporto mente-corpo nella questione del rapporto fra due differenti generi naturali di oggetti, l’uno rispondendo a leggi biologiche – il corpo – l'altro a leggi psicologiche – il sé. La peculiare soluzione di Lowe, chiamata anche dualismo delle sostanze non cartesiano (3.4), afferma infatti che a corpo e mente corrispondono rispettivamente una sostanza complessa e una semplice (il sé, che Tambassi presenta assieme al cosiddetto unity argument (3.5)) senza però che tali sostanze siano necessariamente separabili l’una dall’altra (per questo il dualismo è qui “non cartesiano”) e soprattutto senza che ci sia un rapporto di subalternità fra leggi biologiche e leggi psicologiche, dato che Lowe rivendica per queste ultime «uno specifico ruolo causale ed esplicativo» (p. 102) capace anche di determinare in una certa misura, amplificata dai contesti sociali, la stessa storia evolutiva biologica.
Su questo tema il testo si chiude ed è proprio a questi ultimi argomenti che si rivolge l’unica mia critica al volume. Si tratta di una critica metodologica, e non contenutistica, nei confronti di Tambassi: a mio modo di vedere, l’unica debolezza de Il rompicapo della realtà – debolezza, per altro, conseguente a una consapevole scelta di Tambassi – consiste nell’aver deliberatamente escluso tutti gli studi di Lowe che non riguardino direttamente il tema metafisico. Mi riferisco a quegli studi su Locke che hanno occupato una parte certamente non marginale del lavoro di Lowe e che potrebbero integrare in modo significativo la presentazione della metafisica loweiana proposta da Tambassi fornendo al lettore da un lato interessanti informazioni sul percorso d’indagine che Lowe ha seguito, dall’altro una visione più ampia della genesi della metafisica loweiana: la nozione loweiana di sostanza risente, infatti, del confronto con Locke e, attraverso quest’ultimo, è ampiamente debitrice della cosiddetta Early Modern Philosophy. Anzi, si potrebbe osservare che la concezione loweiana della sostanza sembra a tratti quasi sovrapponibile a quella lockiana, a esclusione di un aspetto decisivo: per Lowe, infatti, la nozione di sostanza non ha affatto una natura ipotetica, ma marcatamente reale – le sostanze, infatti, sono le autentiche componenti della realtà esistente. Questa soluzione parrebbe indirizzare Lowe verso un paradigma leibniziano, tuttvia l’autore smentisce questa apparenza sostenendo che per lui esistono sia le sostanze immateriali (com’erano le monadi leibniziane) sia le sostanze materiali (impensabili nel sistema leibniziano maturo, nel quale materia ha un carattere derivato), e ammette persino l’esistenza di entità numerabili ma non discernibili come i quasi-oggetti (anche questo aspetto è assolutamente escluso dal Leibniz maturo). Un ennesimo elemento indica quanto Lowe sia profondamente legato a Locke: Lowe non esita a definire Le categorie di Aristotele come il testo più importante nella storia dell’ontologia1, rimarcandone al contempo l’influenza sul suo pensiero, ma si discosta poi nettamente dall’idea aristotelica di sostanza prima riconvergendo verso una posizione lockiana.
Da queste rapide osservazioni conclusive – che hanno più la natura di spunti, che di critiche – mi sembra si possa guadagnare una piena prospettiva sulla fecondità di questa monografia: il nucleo teoretico del pensiero di Lowe è tutto qui, esposto in modo chiaro e sintetico. E tuttavia, così come possedere un passepartout non equivale a varcare tutte le soglie che esso ci può aprire, la ricchezza del pensiero di Lowe attende ancora importanti esplorazioni.
1Cfr. E. J. Lowe, The Four-Category Ontology, Oxford University Press, Oxford 2006, p. 58.
Il progetto Homo Sacer, conclusosi con la pubblicazione di L’uso dei corpi, ha al suo centro una casella vuota: manca, infatti, del volume II.4, quello situato tra II.3. Il sacramento del linguaggio. Archeologia del giuramento e II.5 Opus dei. Archeologia dell’ufficio. Una casella vuota che è al contempo, per dirla con il Deleuze di Logica del senso, un oggetto soprannumerario che percorre serie eterogenee introducendo convergenze o disgiunzioni. Quest’assenza al cuore del progetto archeologico di Agamben, questo posto senza occupante e occupante senza posto, fa di Homo Sacer un’opera eccessiva e difettosa, compiuta (dai toni, per molti versi, definitivi) ma al contempo incompiuta, o meglio abbandonata, deposta, dunque ancora attraversata da tensioni che vanno interrogate. Ne sono consapevoli Antonio Lucci e Luca Viglialoro, curatori del volume G. Agamben. La vita delle forme, edito da Il Melangolo, i quali nel tentativo di tracciare «una morfologia del pensiero di Agamben, indagandone alcune diramazioni» (p. 9), devono fare i conti con un’opera «compiuta-incompiuta» che costringe «a tracciare un movimento non concluso del suo oggetto di indagine esibendone così, per l’appunto, la vita» (ibidem).
Il volume contiene quindici contributi suddivisi in tre parti. La prima, Dopo Homo Sacer. Archeologia di un progetto filosofico, può essere definita, nelle sue linee principali, un’«archeologia dell’archeologia» (per riprendere il titolo dell’introduzione, scritta da Agamben, a La linea e il circolo di Enzo Melandri), nella quale vengono ricercati, nelle prime opere agambeniane, quei momenti paradigmatici che si ritroveranno in tutto Homo Sacer. La seconda, Il corpo glorioso e i suoi usi, nell’intrecciare questioni epistemologiche, teologiche e politiche, risulta nella sua brevità la parte più eterogenea del volume, nella quale emerge più chiaramente la «struttura reticolare […], l’intreccio multilineare di forme» (ibidem) che caratterizzano gli scritti dell’autore. La terza, Agamben (nel) contemporaneo, misura l’«inattualità» (p. 11) del filosofo romano: è la parte in cui si trovano i due testi più frontalmente critici, quello di Judith Revel e Federico Luisetti, i quali mirano a esibire gli effetti destoricizzanti del suo discorso.
Lucci e Viglialoro dispongono i contributi in modo da dare al volume una struttura reticolare capace di rendere conto dell’«intreccio di forme», pocanzi accennato, di cui si compone il «dispositivo scritturale agambeniano», un dispositivo «all’interno del quale insistono delle urgenze» (p. 9). Se il dispositivo rimanda, per dirla con Foucault, a un’operazione strategica che fa fronte a un’urgenza, l’urgenza del volume di Lucci e Viglialoro sembra proprio quella di far fronte a un dispositivo. Quando si parla di Agamben, infatti, la posta in gioco è senz’altro teorica e politica, ma lo è solo perché primariamente meccanologica. Tutta l’opera di Agamben è popolata da una moltitudine di macchine: macchina teologica, macchina giuridica, macchina ontologico-politica (con la sua variante ontologico-biopolitica), macchina antropogenetica, ecc. Capire la funzione di queste macchine o, anche, come abbiano preso consistenza intorno alla loro funzione, non è un semplice esercizio d’ingegneria filosofica: ne va, infatti, della possibilità di ripensare il politico. Queste macchine sono riconducibili a una macchina astratta che possiamo chiamare macchina bipolare. La macchina bipolare svolge essenzialmente un’operazione, quella di separare (il sacro dal profano, la norma dal fatto, bíos da zoé, l’umano dall’animale). Ma questa operazione non è sufficiente per rendere conto del dispositivo agambeniano: la macchina bipolare implementa un’altra funzione, quella del disporre. I termini separati sono disposti in modo tale che uno finirà per subordinare l’altro. Ci sembra opportuno, allora, attraversare il volume mantenendo ferma una prospettiva meccanologica, capace di mostrare il corpo a corpo con il quale la maggior parte dei contributi si confronta con questo dispositivo/macchina bipolare.
Se nell’intervento di Dario Gentili la macchina bipolare diventa il «dispositivo della crisi» che, in tutto il progetto Homo Sacer, «'separa' e 'dispone' in una relazione di potere gli elementi che cattura nella sua rete» (p. 51), Timothy Campbell ne mette in risalto la valenza tanatopolitica, che emerge in tutta la sua chiarezza se confrontata con la funzione del dispositif deleuziano. In Deleuze «il dispositivo condiziona la produzione di soggettività, ma evidenzia anche le linee lungo le quali la soggettivazione prodotta crea linee di fuga che confluiscono a propria volta in altri dispositivi» (p. 205). In Agamben, invece, nella società contemporanea, la proliferazione di dispositivi produce essenzialmente de-soggettivazioni (dividui, potremmo dire): a tal proposito sarebbe interessante leggere il contributo di Campbell affianco a quanto, sul dispositivo agambeniano, scrive Stiegler in Prendersi cura. Agamben non riconoscerebbe, secondo Stiegler, la natura farmacologica dei dispositivi, che di volta in volta possono produrre soggettivazione o de-soggettivazione, processi di individuazione o di dividuazione. Ciò si risolve, in Agamben, nell’elezione dell’inoperosità a unica modalità di disinnesco della macchina bipolare.
La prestazione originaria della macchina bipolare è, infatti, ontoteologica: se, sul versante teologico, funziona separando e disponendo il sacro e il profano, subordinando quest’ultimo al primo, sul versante ontologico separa e dispone l’atto dalla potenza, facendo del passaggio all’atto il momento preminente. Elettra Stimilli, nel suo contributo, si concentra proprio sul concetto di potenza, «nucleo incandescente» (p. 17) della riflessione agambeniana. Lo sforzo principale di Agamben sarebbe quello di pensare l’esistenza della potenza al di là di una sua relazione con l’atto. Ciò si traduce nel disattivare la volontà e il dovere che, come operatori metafisici, sono alla base dell’ontologia dell’effettualità per la quale «l’essere è qualcosa che deve essere realizzato e messo-in-opera» (cit., p. 27). All’operazione della macchina bipolare deve subentrare l’inoperosità, che rimanda a un differente uso del mondo «intimamente connesso a una vita che, come la potenza dell’atto, non sia separata dalla sua forma, 'una vita per la quale, nel suo modo di vivere, ne va del vivere stesso e, nel suo vivere, ne va innanzitutto del suo modo di vivere'» (p. 29). Questa vita è forma-di-vita: Antonio Lucci ne ricostruisce la storia sostenendo che «tutta la filosofia agambeniana che è racchiusa nel concetto di forma-di-vita rappresenta il tentativo di porre in costante relazione e tensione il concetto di soggetto [inteso come processo di soggettivazione], a quello di opera [intesa come opus]» (pp. 69-70). La forma-di-vita,infatti,si dà nella coincidenza tra lavoro all’opera e lavoro su di sé. Lucci sembra consapevole di muovere da una prospettiva mediologica più fedele a Sloterdijk che ad Agamben, nella quale il lavoro su di sé fa leva sul medium dell’opera: il concetto di tensione, da lui utilizzato in maniera strategica, è già un modo di pensare oltre Agamben, in quanto rimanda a una declinazione diversa del concetto di relazione che, come vedremo, verrà messa in luce dal contributo di Vittoria Borsò. In Agamben la forma-di-vita abita una soglia di indiscernibilità nella quale i termini di un’opposizione (forma e vita, potenza e atto, essere e prassi) cadono assieme, vengono deposti: Agamben spezza la relazione, risultato dell’operazione della macchina bipolare, con l’obiettivo di portare alla luce un puro irrelato. L’inoperosità è il contro-dispositivo che rende ciò possibile. Scrive Gentili: «il contatto di bíos e zoé è una soglia in cui la loro indiscernibilità si tiene in sospeso rendendo inoperosa la macchina ontologico-biopolitica che opera il loro discernimento e la loro discriminazione» (p. 62). In questo senso, però, come sostiene Stimilli: «Agamben finisce […] per non allontanarsi da un’univoca definizione metafisica del dispositivo dell’operatività che […] rischia di apparire non del tutto sufficiente per una critica del presente, se privata di un confronto con i meccanismi di potere storicamente determinati e di volta in volta funzionanti» (p. 31). In altre parole, potremmo dire che se i meccanismi di potere storicamente determinati si risolvono di volta in volta in una specifica gestione delle condotte contro le quali possono essere mobilitate specifiche contro-condotte (Foucault); a un meccanismo di potere metafisicamente determinato (la macchina bipolare) non si può che opporre, una volta per tutte, un contro-dispositivo che fa leva sull’inoperosità (Agamben).
L’univoca definizione metafisica di cui parla Stimilli è il risultato della de-storicizzazione connessa al metodo archeologico agambeniano che va di pari passo con la negazione di un’ontologia relazionale e operativa. Sulla de-storicizzazione si concentrano i contributi di Judith Revel e Federico Luisetti. Per Revel il campo come paradigma della modernità presuppone un arci-campo, un campo-matrice, che rivelerebbe il meccanismo e la funzione ultima di ogni campo che storicamente ha visto la luce. La novità che emerge storicamente sarebbe così neutralizzata nella ripetizione dell’identico, dal riproporsi di un anacronismo. Il campo, per Agamben, è il luogo in cui biopolitica e tanatopolitica, produzione di vita e produzione di morte, si confondono. Ma per Revel «produrre la morte» è un’espressione senza alcun senso e la biopolitica, che secondo l’autrice è legata storicamente a un potenziamento, alla produzione di un surplus di valore, non può essere confusa con la tanatopolitica: «è tempo di chiamare le cose con il loro nome: le filosofie del negativo non sono filosofie della potenza, la bio-politica non è tanato-politica, l’uomo non è un animale, tutti i campi non sono gli stessi, tutti gli eventi non sono permessi. È tempo di riapprendere a pensare nella storia» (p. 264). Luisetti, dal canto suo, ritiene che il metodo archeologico agambeniano non solo dissolverebbe ogni empiricità ma, soprattutto, occulterebbe lo stato di natura della modernità, il quale sta alla base della distinzione tra civilizzato e selvaggio, cultura e natura, politica ed economia. Lo stato di natura moderno è in Agamben «costantemente smembrato e duplicato in una serie arcaica e in una escatologica […], l’archeologia filosofica […] ha questa funzione di accecamento, opera al servizio della forclusione della modernità occidentale e del suo stato di natura coloniale, trascendentale e naturalistico» (p. 235). L’archeologia, anziché «provincializzare l’Occidente», liberando quelle esteriorità selvagge capaci di resistere alle sue pretese egemoniche, ne «rafforza la fantasmagoria ontoteologica» (p. 242).
Vittoria Borsò, oltre a insistere sul carattere destoricizzante del progetto Homo Sacer, che coincide con la «sostituzione della storia con la matrice storicamente invariabile del campo di concentramento inteso come paradigma della modernità» (pp. 115-116), riconduce la riflessione agambeniana a un pensiero della catastrofe opposto a un pensiero del disastro. Se in quest’ultimo la povertà dell’ente si apre a un’ontologia generativa di cui sarebbero espressione non solo la scrittura di Blanchot e i lavori di Jean-Luc Nancy e Roberto Esposito, ma anche l’ontologia operativa di Gilbert Simondon e Bruno Latour; con il pensiero della catastrofe, da una parte, si rimane legati alla promessa di una redenzione messianica che interrompa il corso catastrofico del tempo, e, dall’altra, si presuppone l’azione «di un soggetto agente poietico, che porti al collasso della politica tramite un estetica della distruzione e dell’inoperosità, capace di destituire ogni matrice (bio-)politica (Bartleby)» (p. 115).
In altre parole, se per Revel e Luisetti occorre ridimensionare la portata universalizzante e archetipica della macchina bipolare, distanziandosi dalle vocazione metafisica dell’archeologia agambeniana e rimettendo al centro della riflessione la storia; per Borsò occorre pensare la relazione non come l’effetto della macchina bipolare che divide e dispone ciò che in partenza è irrelato, ma a partire da un’ontologia operativa per la quale l’essere, utilizzando la terminologia di Simondon chiamato in causa dalla stessa Borsò, è sempre più-che-unità e più-che-identità, sempre sfasatura e processo. Il potere destituente (macchina destituente o contro-dispositivo), nel tentativo di neutralizzare i processi di dividuazione (de-soggettivazione), neutralizza anche i processi di individuazione (soggettivazione): e se permane l’ombra di un’individuazione soggettiva nelle forme della contemplazione e dell’inoperosità, scompare radicalmente la possibilità di un’individuazione collettiva, di un trans-individuale. Lucci, nel suo contributo, rileva proprio questo problema: Agamben, ne L’uso dei corpi, rinuncia a pensare una forma-di-vita comunitaria. Il concetto di tensione, da Lucci utilizzato, vuole salvaguardare la possibilità di pensare una forma-di-vita trans-individuale: «se non applichiamo tra opera e inoperosità il concetto di 'tensione', quello di inoperosità rischia di chiudersi nel solipsismo, nell’immobilismo, in una certa qual forma di ieratica contemplazione da saggio orientale […], la politica, l’arte e la felicità possono essere pensate solo come una tensione continua tra un pensiero e fare, tra opera e inoperosità, se non si vuole che l’inoperosità si traduca immediatamente in immobilità» (p. 88).
Il saggio di Lucci condensa bene quello che mi sembra lo spirito dell’intero volume: pensare con Agamben ma anche oltre Agamben. Lo stesso Agamben, nel lasciare al centro della sua imponente opera una casella vuota, nel considerare abbandonato e non concluso il suo progetto, sembra indicare la possibilità non solo di un suo proseguimento da parte di altri, ma anche di un suo radicale ripensamento.
Nella seppur sterminata letteratura critica dedicata a Edmund Husserl, il saggio di Francesca Dell'Orto, Vita e genesi del tempo. Ricerche di fenomenologia genetica e generativa, Pisa, ETS 2015, rappresenta un contributo assai rilevante per la comprensione delle tematiche fenomenologiche del tempo e della vita. Come l'Autrice nota in apertura del volume, se Husserl si è impegnato strenuamente per risolvere la complessissima questione della temporalità trascendentale - come dimostra la grande quantità di manoscritti raccolti nei volumi X e XXXIII dell'Husserliana, che coprono un arco temporale che va dal 1905 agli ultimi anni di vita del filosofo - lo stesso non si può dire della nozione di vita, la cui presenza carsica non diventa mai oggetto di interrogazione tematica, ma induce a pensare - con R. Barbaras - che la vita resti il grande concetto impensato della fenomenologia di Husserl. Eppure, è assai noto come la riflessione husserliana più matura ponga al centro le nozioni di Lebenswelt e lebendige Gegenwart, in cui la radice Leben è evidente. Dunque, l'obiettivo che Francesca Dell'Orto persegue in questo testo è ripensare il trascendentale nella sua articolazione originaria con il tempo e la vita. In questa prospettiva, la vita trascendentale è tutt'uno con la vita immanente della coscienza nel suo incessante fluire: vivere è esperire la vita, anche nel senso di "essere affetti da" essa, nel suo dispiegamento intenzionale. Da ciò consegue che, anche nelle sue manifestazioni più semplici, la vita coincide col processo della fenomenalizzazione: essa non è semplicemente un "restare in vita", ma implica sempre una dimensione di rapporto col mondo che rende possibile l'apparire come tale. In altri termini, per Husserl la vita è il «processo stabile e costante del farsi mondo, l'eterno presente vivente pre-egologico e trans-egologico che nella sua massima trascendentalità si confonde con la massima fatticità» (pp. 11-12). L'Autrice articola questa tesi di fondo lungo nove capitoli, che ricostruiscono le tappe essenziali della meditazione husserliana sul tempo, sulla vita e sulle questioni derivanti dalla loro interazione. Dopo aver messo a fuoco, nel primo capitolo, la portata dell'influenza delle teorie brentaniane dell'associazione originaria e della Proterästhese sulle prime ricerche di Husserl sul tempo, l'Autrice affronta nel secondo capitolo il tema dell'individuazione dell'io. In linea con un'indicazione di Enzo Paci, emerge in queste pagine una concezione della fenomenologia come pensiero della relazione che, come tale, non può che costituirsi come fenomenologia del tempo e dell'individuazione. Tuttavia, il processo di individuazione non dev'essere concepito come la formazione di una coscienza monoliticamente assoluta, ma come una dinamica di auto-differenziazione della coscienza da se stessa. Il terzo capitolo prende in esame una delle questioni più complesse del pensiero husserliano, ossia il rapporto tra fenomenologia e ontologia. In riferimento all'annosa quanto inevitabile questione della rottura con Heidegger, Dell'Orto - sulla scorta delle analisi di Merleau-Ponty, Beaufret e Marion - chiarisce il reciproco fraintendimento in cui sono incorsi Husserl e Heidegger: se da un lato Husserl non ha saputo riconoscere in Essere e tempo un genuino sforzo fenomenologico teso a distinguere l'essenziale scarto tra l'essere e gli enti mondani, dall'altro lato Heidegger ha sottostimato le riflessioni husserliane sulla fatticità e sulla strutturalità della genesi, che gli avrebbero probabilmente permesso di includere l'esistenza nella problematica trascendentale.
Il quarto capitolo, dopo aver ricostruito l'analisi husserliana della ritenzione, distinguendola dai vari gradi del ricordo, dalla costituzione dell'oblio e dall'associazione primaria, si focalizza sulla dimensione intersoggettiva del ricordo. Come afferma l'Autrice, «la coscienza della temporalità è un'auto-differenziazione che apre la trascendenza di un'alterità nel cuore stesso dell'immanenza. L'auto-alienazione, l'alterità che l'io diventa per se stesso già al livello della costituzione primordiale della coscienza del tempo [...], inaugura la possibilità di ogni altra forma di datità: l'alterità primaria che l'io diviene per se stesso rende insomma possibile tutti gli altri modi dell'alterità» (pp. 136-137). Sulla base di queste considerazioni, il quinto capitolo affronta il problema della protenzione, ricostruendo i passaggi che, dalle Zeitvorlesungen del 1905, hanno condotto Husserl ai Bernauer manuskripte del 1917-'18, in cui la protenzione è sempre meno il corrispettivo futuro della ritenzione e sempre più una funzione autonoma dello Zeitbewusstsein. Di particolare interesse in questo capitolo è la discussione dell'orizzonte protenzionale come orizzonte intersoggettivo: in questa prospettiva, «fondare l'intersoggettività garantendole uno statuto altrettanto originario di quello della soggettività significa assicurare un'apertura strutturale, non solo esperienziale, al riconoscimento dell'alter ego» (p. 155). La conseguenza essenziale della temporalizzazione della coscienza è dunque la configurazione del soggetto come costitutivamente aperto all'alterità.
Dopo aver analizzato, nel sesto capitolo, il rapporto tra temporalizzazione e spazializzazione della coscienza, il settimo capitolo introduce il metodo genetico come tentativo di superare le aporie del metodo statico lasciato a se stesso. Qui l'Autrice mostra lucidamente come la nozione di Unbewusst, inconscio, rappresenti lo strato ultimo della costituzione passiva della soggettività trascendentale. Husserl comprende, nel cuore delle Lezioni sulle sintesi passive, che il campo della presenza non corrisponde necessariamente al campo intenzionale dell'io, ma può restare sullo sfondo come orizzonte vuoto. Esso va concepito piuttosto come un alone di assenza che circonda qualunque coscienza affettiva e impressionale: è attraverso il ricordo o la coscienza d'immagine che l'inconscio così inteso può essere attualizzato e ricondotto all'intenzionalità cosciente. L'ottavo capitolo prende in considerazione la questione della motivazione attraverso un confronto serrato con lo schematismo kantiano. Infine, il nono capitolo tematizza l'interesse dell'ultimo Husserl per la storicità come ampliamento della tematica temporale e sintesi con quella della vita trascendentale.
In conclusione, il maggior pregio di questo eccellente testo è di fornire una visione d'insieme della fenomenologia husserliana attraverso la tematizzazione di alcune questioni essenziali, quelle appunto del tempo e della vita trascendentale. Chi avrà la pazienza di mettersi in ascolto dei testi husserliani - un ascolto lento e un esercizio ripetuto che rifugge giudizi e critiche frettolose - troverà in questo libro di Francesca Dell'Orto una preziosa guida, uno spartiacque in grado di condurre attraverso le aporie più vertiginose dei manoscritti husserliani. Tuttavia, lungi dall'avere un mero scopo didattico, questo testo si impegna teoreticamente nello sviluppo di una tesi centrale, secondo cui «il mondo è prodotto dalle operazioni concretamente fungenti, e parallelamente temporalizzatrici, dell'intenzionalità passiva che, intersecandosi l'una nell'altra e concatenandosi l'una dopo l'altra, si autotrascendono in un orizzonte esterno, non più riducibile ai singoli vissuti individuali; un orizzonte così complesso da sembrare assolutamente a priori, una Lebenswelt trascendentale precedente a qualunque Erlebnis che trovi in essa dispiegamento, che cela invece più in profondità la forma mobile del "volta per volta"» (p. 273).
Solo alla luce di queste analisi possiamo davvero comprendere, con Hans Blumemberg, che «il mondo richiede tempo».
La barca di Neurath. Sette saggi brevi, pubblicato quest’anno per le Edizioni della Normale, è un libro che ad una prima lettura potrà dare l’impressione di una certa frammentazione. L’itinerario che il lettore sarà chiamato a seguire procederà per svolte repentine e salti tematici che a prima vista lo indurranno a credere di essere di fronte a una raccolta di riflessioni tra loro scollegate, non soltanto per argomenti ma anche per gli autori di volta in volta chiamati sulla scena, facenti spesso parte di contesti geografici e accademici reciprocamente alieni. Se sono queste le prime considerazioni che balzano alla mente la ragione è che sempre più raramente siamo abituati a confrontarci con autori in grado di tener conto e servirsi in modo proficuo dei risultati e delle domande fondamentali sorte in ambiti di ricerca diversi da quelli di provenienza. In questa raccolta – che rappresenta il proseguimento di un itinerario iniziato nel 1997 con il suo celebre saggio Dell’incertezza e continuato nel 2011 con L’idea di incompletezza – Salvatore Veca non esamina soltanto questioni recentemente al centro del dibattito della filosofia politica e morale, come il rapporto tra equità, diritti fondamentali e beni comuni o i dilemmi generati da nozioni quali libertà e qualità della vita (capitoli dal 4 al 6), ma si impegna anche nell’analisi della recente querelle tra postmodernismo e nuovo realismo ricollocandola all’interno di una cornice decisamente più ampia, richiamando a quelle risorse concettuali disponibili nell’ormai classico dibattito anglosassone sul tema (capitoli dal 1 al 3).
Nel suo saggio Postumani per scelta. Verso un’ecosofia dei collettivi, ospite della collana “Spiritualità senza Dio?” diretta da Luigi Berzano, Giovanni Leghissa dà unitarietà a un tema che ormai lo vede occupato da alcuni anni (La fondazione, la fondazione dell’umano, il post-umano, 2013; Il postumano: un nuovo paradigma?, 2013; curatela di aut aut, La condizione postumana, 2014). Nonostante la brevità del saggio, l’autore si propone di soddisfare la duplice esigenza teorica di inquadrare da più vicino lo sfuggente dibattito sulla questione postumana e, insieme, di estrarne una possibile interpretazione critica. Così, alla messa in ordine di linee guida di una discussione spesso frammentaria, si affianca l’argomentazione di una tesi, frutto dell’incontro di assi di ricerca eterogenei ma convergenti. Le fonti e le questioni interpellate sono infatti numerose e provenienti dalle più disparate aree del sapere filosofico. Tra i “maestri” e le tradizioni di pensiero che vediamo avvicendarsi figurano l’illuminismo, l’evoluzionismo, la filosofia francese del dopoguerra, l’epistemologia, la fenomenologia husserliana, l’idea di un sapere enciclopedico alla Enzo Paci, la decostruzione e l’antropologia filosofica di Hans Blumenberg. Come dichiara l’autore, si tratterà allora di seguire questi molteplici stimoli nell’intento di definire la condizione postumana in termini filosofici, individuando e descrivendo schematicamente gli atteggiamenti caratteristici del suo approccio.
Dalla psico-analisi all'analisi critica del soggetto politico
In Lacan politico (Cronopio, 2015), Bruno Moroncini si cimenta nell'impresa, quantomai ardita, di estrarre dal corpus letterario di uno dei pensatori più controversi dell'ultimo secolo una serie di concetti di matrice politica, rilanciando così la partita della politicità intrinseca alla pratica psicoanalitica - in particolare se di orientamento freudo-lacaniano - e insieme la riflessione sull'annosa questione del “disagio della civiltà” che, pur latitando dall’attuale orizzonte filosofico, non può che rimandare direttamente alla questione dell’ordinamento politico. L'impresa è davvero ardita, e lo è al netto di ogni retorica se si considera che lungo l'intero arco del suo insegnamento Jaques Lacan si è sempre ben guardato dal parlare esplicitamente di politica e non ha mai nascosto un certo qual disprezzo per il materiale antropologico di cui dispone ogni partito, governo o istituzione impegnati in un progetto teso a migliorare le condizioni di vita di una collettività. Significativa, a tal riguardo, è un'intervista rilasciata a Roma nel 1974: Lacan arriva qui addirittura ad affermare che gli scienziati «cominciano ad avere un'ideuzza che si potrebbero creare dei batteri resistenti a tutto, che nessuno potrebbe più fermare. Forse così si ripulirebbe la superficie della terra da tutte le cose merdose, in particolare umane, che la abitano», per poi lasciarsi andare a una fantasia: «che sollievo sublime sarebbe se tutto d'un tratto avessimo a che fare con un vero e proprio flagello, un flagello uscito dalle mani dei biologi. Sarebbe veramente un trionfo» (Lacan, 2006, p. 96).
L'aneddoto dovrebbe bastarci a diffidare dell’autore degli illeggibili Scritti qualora ci trovassimo, come accade oggi, a dover rivitalizzare un discorso politico che riversa esangue a partire almeno dal 1989, data che inaugura la cosiddetta “fine della storia” e consegna all'ultimo uomo quella condizione di languido tormento, quell'eterno sabato di nietzscheana memoria che è un po' la cifra della civiltà occidentale post-moderna o, che dir si voglia, contemporanea. L'invito di Moroncini, invece, è quello di scavalcare la radicale impoliticità del pensiero di Lacan per provare a scovare, nei meandri della sua scrittura mistica e respingente, dei punti cardinali per la riflessione politica odierna e degli strumenti concettuali raffinati che possano orientare una critica del presente alternativa all’usuale paradigma marxista.
Il libro si apre con un dialogo serrato tra lo psicanalista francese e Alain Badiou sulla possibilità, per le scienze umane, di individuare una logica collettiva sulla quale fondare movimenti di resistenza, ovvero degli insiemi politici che possano alterare l'ordine di cose esistente. Attraverso una dettagliata analisi de Il tempo logico e l'asserzione di certezza anticipata (Lacan, 1974, pp. 191-207)¹, forse lo scritto che sintetizza al meglio le basculanti e difficili relazioni tra psicanalisi e politica, Moroncini mostra come per entrambi gli autori il cominciamento del politico possa essere individuato nel processo di decifrazione del reale in cui ogni singolo soggetto è necessariamente implicato, e evidenzia come lo stesso processo, che per la psicanalisi non è altro che il meccanismo attraverso cui si istituisce il soggetto individuale, sia assunto da Badiou come direttiva pratica per la creazione di un movimento politico.
Il tentativo di far rientrare la psicanalisi all'interno della prospettiva rivoluzionaria-comunista, però, deve fare i conti con alcuni fra i postulati più importanti del pensiero di Lacan: «Se Lacan parte dal soggetto singolare - singolarizzato dal significante che lo rappresenta nell'ordine simbolico -, il rapporto intersoggettivo non potrà mai essere pensato come preesistente e fondante, ma dovrà essere compreso come il risultato di uno scambio ambiguo e complesso fra il soggetto e l'Altro. Nè appunto quest'ultimo può essere confuso con un'intersoggettività fungente di stampo fenomenologico; l'Altro da questo punto di vista è solo una batteria ordinata di significanti e non è né un Soggetto-sostanza, come lo spirito hegeliano, né una pluralità di soggetti da sempre in relazione fra di loro come per Husserl o per Arendt. Per Lacan il soggetto è sempre quello barrato che ex-siste rispetto all'Altro, che, giusta la figura topologica dell'otto interno, è dentro-fuori l'Altro. Perché si costituisca qualcosa come una relazione intersoggettiva o anche un'organizzazione politica nel senso di Badiou, è necessario allora partire dal tentativo di decifrazione che ogni soggetto fa per proprio conto di ciò che vuole l'Altro dal momento che il significato soggettivo è contenuto in quest'ultimo come un tesoro sta nascosto in uno scrigno (è il motivo d'altronde per cui Lacan lo chiama il tesoro del significante). Una decifrazione appunto ai limiti dell'impossibile dal momento che l'Altro è (l')inconscio» (Moroncini, pp. 29-30).
Porre l'accento sulla natura costitutivamente separata del soggettomina infatti alle basi la possibilità stessa di un'intersoggettività immediata, assunta spesso dalla riflessione filosofica alla stregua di un dato naturale e appunto postulata nella riflessione di Badiou, che sembra occuparsi della definizione di una soggettività collettiva senza minimamente problematizzare quella del singolo. Si staglia con precisione, in questo passaggio, la differenza radicale che distanzia la psicologia di Lacan dalla filosofia e che rende impossibile, anche per Badiou, l'assimilazione del lacanismo a qualsiasi progetto politico che si affidi alla forma-partito: la necessità di pensare il soggetto come fondamentalmente isolato, resto individuale, come sintomo sociale del reale, prodotto dal discorso e dilaniato dal linguaggio che presiede alla sua stessa costituzione. La caustica ironia che, come nell'aneddotosopracitato, Lacan sfodera nei suoi seminari e negli interventi pubblici, lascia infatti trasparire un pensiero politicamente disilluso, animato da una sobria e lucida solitudine, che non riesce a sganciarsi dall'assunto radicale secondo cui il dramma dell'insolubilità che definisce i conflitti politici non sia altro che la manifestazione di una soggettività separata a se stessa, votata alla mancanza e costitutivamente insoddisfatta. E'questo il senso da attribuire alla massima «non esiste rapporto sessuale», con la quale Lacan allude all'impossibilità per due soggetti di «fare uno», di unirsi in un rapporto altro da quello puramente fantasmatico, essendo i soggetti appunto già divisi in se stessi da una lacerazione costitutiva.
Ma se a sbarrare l'unità del soggetto è il «discorso dell'Altro», la catena significante che insiste quale condizione materiale del pensiero, Moroncini approfondisce e problematizza, nella seconda parte del testo, il concetto di «discorso» sviluppato nel Seminario XVII, non a caso intitolato Il rovescio della psicanalisi², e propone di leggerlo alla luce della differenza saussuriana tra langue e parole: «Il discorso è una realtà linguistica che si pone fra la langue e la parole: della prima conserva il carattere formale, di struttura, della seconda l'aspetto determinato e singolare; il discorso insomma da un lato indica relazioni concrete, specifiche, modi determinati di produzione del sapere, ruoli e posizioni assunti dagli attori coinvolti in queste relazioni, dall'altro evita la proliferazione potenzialmente illimitata delle emissioni di paroles, la dispersione disordinata di enunciati singolari, l'assenza di invarianti e quindi l'impossibilità di qualunque insegnamento e trasmissione» (Moroncini, pp. 77-78). Moroncini individua quindi nel concetto lacaniano di «discorso» quel «legame sociale attraverso il quale si compie il processo della produzione, accumulazione e trasmissione del sapere, e insieme quello in cui si produce il soggetto del sapere, il fondamento cioè su cui questi poggia o si regge» (p. 80), ovvero lo strumento concettuale più adatto a fondare una critica filosofica e psicoanalitica del campo politico odierno, ponendo l'accento, più che sui rapporti di sfruttamento capitalistici, sui processi di soggettivazione. Disposizione strategica del pensiero, questa, che si fa carico dell'alto grado di complessità che caratterizza il mondo contemporaneo, sempre più intasato da narrazioni salvifiche, escatologie low-cost e programmi politici di stampo paranoide, dei quali una certa critica mainstream non sempre riesce a rendere conto.
E' così allora che nella terza parte del libro, intitolata Politiche dell'angoscia, richiamandosi agli studi freudiani sulla psicologia delle masse e facendo dialogare Heidegger con Lévinas, Moroncinipone l'accento su come il politico si ponga sin dalle sue fondamenta storiche come quell'ontologia tesa a suturare il reale «bucato» dal discorso dell'Altro, attraverso l'impossibile instaurazione di un metalinguaggio, e su come l'insistita reviviscenza nella storia della «massa primordiale» altro non sia che «l'origine della civiltà umana in generale, la cui tematizzazione è resa possibile però solo dalle attuali condizioni della vita soggettiva. Come la conoscenza dello scheletro umano permette quello della scimmia, così la realtà delle folle urbanizzate dissolve le brume dei primordi ancestrali» (p. 145).
Considerazioni, queste, che dovrebbero risuonare in tutta la loro carica sovversiva di fronte allo spettacolo increscioso e barbaro offerto dalla politica contemporanea, condannata allo stallo da una sorta di coazione a ripetere che riproduce il fenomeno della campagna elettorale nei contesti più disparati, esemplificando al meglio la deriva che può assumere il dibattito politico – e l'esercizio stesso dell'autorità istituzionale – qualora non siano esplicitati e messi in causa i moventi libidici, gli interessi particolari e strumentali che questo dibattito presuppone o nel caso in cui non si disponga di un arsenale interpretativo tale da poter decostruirne il linguaggio o meglio, il «discorso». «L'intrusione nel politico può essere fatta solo riconoscendo che non c'è discorso, e non solo analitico, se non del godimento, almeno quando ci si aspetta il lavoro della verità» (Lacan, 2001, p. 93): è con questa massima, allora, che potremmo riassumere la posizione privilegiata detenuta oggi dalla psicanalisi nel dibattito filosofico-politico. Concentrando le sue attenzioni sulla dimensione puramente impersonale del linguaggio e sottomettendo l'attività conscia del soggetto a qualcosa che è disciplinare per necessità, Lacan pone così le basi per un ripensamento critico delle forme concrete in cui si articola il nostro vivere sociale, e rilancia così la partita politica sul campo dell'interpretazione e dell'atto soggettivo che rende conto dei rapporti di subordinazione strutturali, istituiti a partire dalla realtà politica in quanto «realtà di linguaggio».
E' questo, allora, il contributo concreto che la psicoanalisi può fornire oggi al dibattito filosofico, per favorire una riflessione che dislochi il reale della politica dall'arena pubblica in cui è condannato a essere mimato, rimosso e mistificato allo spazio intimo e interno al soggetto, radicando così nell'atteggiamento individuale di fronte al mondo e nello sforzo singolare verso la comprensione quella tensione eticain grado di realizzare, anche se per poco, una relazione intersoggettiva scevra da illusioni e fantasie sociali. Una relazione che sia però consapevole dei limiti intrinseci dell'essere parlante: «L'inconscio, che vi dico così fragile sul piano ontico, è etico...e comunque sia bisogna andarci dentro» (Lacan, 2003, p. 34).
Note
1. Testo nel quale al lettore è sottoposto il famoso apologo dei prigionieri, rompicapo logico che riassume le problematiche sollevate dall'introduzione dell'inconscio (quello di Lacan, strutturato come un linguaggio) come variabile nella riflessione filosofico politica.
2. L'allusione è proprio la filosofia come disciplina che, pur fruendo delle potenzialità creative del linguaggio, non ne considera quegli effetti che potremmo considerare di «rinculo», o di «contraccolpo», che sono invece il campo dell'esperienza psicoanalitica: «Attraverso lo strumento del linguaggio si instaura un certo numero di relazioni stabili, all'interno delle quali è di certo possibile iscrivere qualcosa che è molto più ampio e che va ben oltre le enunciazioni effettive. Nessun bisogno di queste perché il nostro comportamento, i nostri atti si iscrivano eventualmente nel quadro di certi enunciati primordiali» (p.5)
Bibliografia
Lacan, J. (1974). Il tempo logico e l'asserzione di certezza anticipata (in Scritti, Vol. I). Einaudi : Torino
Lacan, J. (2001). Il Seminario XVII: Il rovescio della psicanalisi. Einaudi : Torino
Lacan, J. (2003). Seminario XI: I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi. Einaudi : Torino
Lacan, J. (2006). Dei Nomi del Padre seguito da Il trionfo della religione. Einaudi : Torino
Quando Karl Marx si interrogò sul ruolo che la legge occupava nelle dinamiche della società moderna, scelse di risolverlo, come ben noto, negandole qualsiasi specifica autonomia: il diritto – come d’altronde la religione, la filosofia e la politica – non sarebbero nient’altro che il riflesso passivo, ossia una sovrastruttura, di quella concreta base economica che ben più attivamente si agita nel cuore della società. L’antica tradizione ebraica, di certo non sconosciuta allo stesso Marx, insegnava invece che la legge è stata data agli uomini perché questi la custodissero e la salvaguardassero dall’oblio, rendendo così tanto il Testo quanto la Voce dei suoi interpreti il suo sigillo imperituro. Chiunque osservi il funzionamento della società attuale, delle sue regole e dei suoi vincoli, dei suoi flussi e dei suoi varchi, può domandarsi se queste note affermazioni mantengano ancora qualcosa delle proprie antiche verità. Nella recente pubblicazione di Pier Giuseppe Monateri tali stringenti interrogativi si uniscono a un’analisi inedita e originale, in cui attraverso un approccio comparatistico si indaga sull’origine del fenomeno giuridico nella tradizione Occidentale e sugli effetti che le memorie normative suscitano negli attuali processi economici e produttivi.
Innegabilmente, vi fu un tempo nella storia del pensiero giuridico in cui la riflessione sulla norma non era soltanto oggetto di un pensiero tecnicistico o economicistico, ma al contrario interrogazione profonda sui meccanismi che governavano l’umano, il divino e lo spazio politico. Nel nuovo ordine mondiale, tuttavia, sembra che la scienza giuridica stia attraversando un processo di inesorabile declino, un lento tramonto che si acuisce vieppiù a causa della crescente predominanza di discipline “altre”, quali l’economia e la finanza, che nella loro costante rincorsa verso un nuovo paradigma di pensiero paiono sbarazzarsi con fermezza di qualsiasi scrupolo culturale.
Pier Giuseppe Monateri affronta criticamente la perdita di considerazione del fenomeno giuridico, compiendo una nuova e accurata riflessione genealogica sul medesimo, la quale si dimostra – proprio alla luce dell’attuale contesto neoliberista – emblematicamente necessaria. La tesi principale sostenuta dall’Autore è che in un mondo tendente ovunque all’uniformità politica ed economica, la legge persiste a differenziare e a contrassegnare i diversi corpi politici, formalizzandosi in un elemento di caratterizzazione che se a prima vista appare assente o mancante, si rivela in realtà quale matrice storica delle istituzioni occidentali. La legge, così prosegue l’Autore, possiede una riserva di senso più profonda della politica stessa e la prova di ciò consiste nel fatto che se nell’attuale crisi globale la sovranità appare disperdersi e la politica neutralizzarsi, proprio il fenomeno normativo mantiene al contrario la propria incatturabile identità, che si dispiega così nei luoghi, negli stili e nelle forme politiche dell’Occidente.
Sintetizzando brevemente l’ampia analisi sviluppata nel testo, è oramai constatazione abituale suddividere i sistemi giuridici mondiali in due distinte famiglie: da un lato la tradizione giuridica di common law, diffusa soprattutto nei paesi anglosassoni, dall’altro quella di civil law, tipica al contrario della tradizione giuridica continentale di scuola romanista (Francia, Germania, Italia, Spagna).
Tale suddivisione – se interpretata nella particolare ottica efficientistica propugnata dal sistema WTO-FMI-Banca Mondiale – diviene immediatamente un fattore problematico. L’armonia potenzialmente “irenica” di una sola regola juris, paradiso in terra per la massimizzazione delle transazioni commerciali, è infatti bruscamente osteggiata proprio dalla persistenza di diverse culture giuridiche, di differenti (e antitetici) modi di statuizione delle regole, e – cosa che maggiormente interessa – di diversi linguaggi normativi nell’amministrazione della giustizia. Nei Diktat degli organismi internazionali, tuttavia, il diritto non può permettersi di essere vario: esso deve farsi uniforme.
Fu così, come illustra Pier Giuseppe Monateri, che si diede avvio a un’aspra lotta culturale, tutt’oggi in pieno svolgimento, testimoniata da alcuni rapporti emessi dalla Banca Mondiale nel 2004 e nel 2005. Tali report sancirono definitivamente l’inefficienza dei sistemi giuridici di origine romanista rispetto agli opposti modelli giuridici di common law, in ciò coadiuvati anche da quel movimento internazionalmente noto come Law and Finance, a sua volta propugnatore della diffusione del tipo anglosassone a discapito di quelli “rivali”.
Chiaramente, proprio sul punto della pretesa superiorità di una tradizione rispetto a un’altra tali correnti di pensiero mostrano vistosamente la più chiara debolezza. Ciò non soltanto in un’ottica – come si diceva – culturale, ma prim’ancora in una di tipo storico-narrativo.
Il percorso logico che Pier Giuseppe Monateri individua si giova, così, tanto della riflessione politica classica quanto di uno spiccato approccio letterario, teso alla critica delle procedura di sponsorizzazione delle regole giuridiche. Se infatti la globalizzazione ha come fine il dissolvimento puro e totale dei corpi politici con il preciso obiettivo di realizzare uno spazio politico liscio, privo di resistenze e dagli effetti sconfinati, occorre, come necessaria forma di critica, evidenziare proprio quelle differenze, quelle singolarità e quegli scarti che persistono nell’esistenza attuale di ciascuna tradizione normativa. Ciò diviene tanto più essenziale se si considera l’importanza di una decostruzione delle rappresentazioni offerte dalla Banca Mondiale, dal FMI e dal WTO, che sulla base di indagini genealogiche finalisticamente orientate operano per imporre un solo linguaggio globale.
Come sottolinea Pier Giuseppe Monateri, da questo passaggio emerge in realtà la vera “ragione” del contendere: essa non risulta più semplicemente la questione di quale tipo di regola giuridica da utilizzare, o di quale sistema di giustizia imbastire. La vera questione diviene quella sulla natura duale o unitaria dell’Occidente, ossia sul problema dell’esistenza o meno di due diversi modelli di società (come si ricordava, quello di civil law e quello di common law), e quindi anche di quale dei due rendere concretamente operativo su scala internazionale. Proprio attraverso questo varco, l’indagine dell’Autore da giuridica si fa geopolitica e ha il pregio di sviluppare una ricostruzione spaziale dei meccanismi di origine del politico tanto in Europa, quanto nel continente americano.
Certo, nella suesposta presa di posizione del WTO, ciò che emerge è la polemica concreta verso ogni forma di socialismo e di sovranità statale, oramai ampiamente messa in scena attraverso innumerevoli strategie. Secondo questa vulgata, il diritto continentale (in primis quello francese e quello dei suoi più stretti imitatori europei) viene considerato storicamente statalista, pertanto inadatto a garantire le flessibilità normative spesso richieste dai grandi investitori globali. Inoltre, la burocratizzazione della magistratura continentale – considerata completamente sottomessa agli ordini dello stato centrale –garantisce ancora diritti e privilegi che si oppongono strutturalmente all’operare dei mercati finanziari. Tuttavia, ciò che in realtà tali organismi sovranazionali mirano ad attaccare è proprio il politico nelle sue forme di manifestazione istituzionali; un attacco che viene condotto, per di più, attraverso la pretesa ricostruzione storica delle origini della legge.
In questo senso, diviene dunque fondamentale condurre un nuovo tipo di esame che si giovi anche degli strumenti della critica letteraria, della filosofia politica e della storia delle tradizioni giuridiche. In accordo con ciò, la nozione che nel saggio viene precisamente individuata è quella, giuridico-letteraria, di “stile” della tradizione. Lo stile, secondo la ricostruzione di Pier Giuseppe Monateri, non attiene ai fronzoli della scrittura, o alla sua composizione manieristica. Esso non indica nemmeno un semplice giudizio di gusto sulla bellezza o sulla piacevolezza di un determinata scrittura. Lo stile è in realtà una vera e propria ontologia che differenzia ciascun corpo politico nella sua rispettiva esistenza storica, marcando quindi lo spazio sconfinato neoliberale con precise striature che distinguono, interrompono e oppongono gli stati nazione. I diversi stili della legge e della giustizia sono, così, gli elementi pregnanti per una geopolitica del diritto in cui lo “spazio” diviene quella soglia attraverso cui la legge ottiene una determinata visibilità.
A primo avviso, ciò potrebbe sembrare assai distante dagli scopi del diritto comparato, inteso quale disciplina finalizzata esclusivamente a evidenziare le differenze dei molteplici sistemi giuridici e le rispettive regole operative. Eppure, ogni problema di diritto comparato è anche, in ultima istanza, un problema che investe il politico e la sua identità. Cos’è allora, oggi, il diritto comparato? In Europa, come si accennava, esso è un mezzo per realizzare un diritto unico (esemplarmente, il codice europeo); nell’esperienza statunitense è invece lo strumento che consente di creare ranking tra le diverse tradizioni giuridiche, le quali divengono così dei veri e propri “oggetti” forniti di indici e valori numerici. In breve, attraverso un certo uso della disciplina, si staglia netto il pericolo di una tentazione riduzionistica, che considera il complesso corpus politico e istituzionale di una nazione alla pari di un indice aritmetico incasellato in una classifica, passibile quindi di essere sostituito, cancellato e modificato senza particolari problematiche.
È su questo piano politico-giuridico che insiste, con rigore, l’opera di Pier Giuseppe Monateri. La nuova funzione che egli individua, infatti, è proprio quella del diritto comparato inteso appunto quale disciplina volta allo studio delle differenze e alla comprensione degli spazi nomici. Forse, è proprio attraverso tale passaggio che è possibile rilevare il vero paradosso della classificazione economicistica voluta dai grandi organismi sovranazionali: nonostante la preminenza dei modelli matematici e dei loro calcoli marginali, la legge continua a occupare il centro degli interessi economici odierni. L’idea che domina tali pratiche è che le riforme e il progresso siano possibili, dopotutto, soltanto attraverso riforme giuridiche. In questo senso, è allora il governo della legge, inteso come cattura del mezzo giuridico, a interessare alle grandi organizzazioni, e a spingerle così a scontrarsi e a imbastire narrazioni che mostrano, qualora accuratamente analizzate, il proprio fine affabulatorio. L'importante giurista statunitense Robert Cover scrive nell'articolo intitolato Nomos and Narrative (in “Harvard Law Review”, 97, 1983) che noi abitiamo una legge, un nòmos, e questo nòmos occupa sempre uno spazio specifico, che si volge quindi in spazio giuridicamente organizzato. Se lo spazio è allora quella soglia in cui la legge si rende visibile, tale forma di visibilità ricade proprio nella pratica degli stili in quanto rappresentazioni visibili della legge: il diritto comparato può allora divenire quella disciplina che conferisce un senso globale alla legge, disvelandone in ultima istanza la sua “misteriosa” presenza.
Forse, è proprio in questi termini (come già rilevato da von Hayek) che è possibile abbozzare una conclusione: la legge è molto più ineffabile, molto più sublime e molto più ingovernabile di quello che crediamo. Essa non può divenire oggetto di ranking o di classifiche. Eppure, evitare la tentazione di ridurre il diritto a un oggetto misurabile non significa affatto affermarne l’inesistenza: al contrario, la legge esiste e ci governa molto più di quanto riusciamo noi stessi ad amministrarla. Ciò è tanto più curioso se si considera che spesso, nella tradizione giuridica di common law, i grandi commentatori ripetevano l’adagio per cui il giudice, nell’atto di decidere, “scopre” la legge. Ironicamente, considerare la legge come esistente ben al di là degli oggetti che la presentificano è proprio l’idea di fondo che si oppone al modello della disponibilità assoluta voluta dagli apparati finanziari: un’idea, come si sarà notato, che è tratta da quella stessa cultura giuridica che la Banca Mondiale e il FMI vorrebbero invece imporre al globo intero.
Il merito ultimo del saggio di Pier Giuseppe Monateri è allora quello di illustrare le diverse immagini della legge che continuano, inesorabilmente, a segnare le differenze e gli scarti all’interno dell’attuale spazio globale. Solo con un’effettiva e rinnovata conoscenza di tali meccanismi, uniti a un approccio critico e vigile verso gli stringenti Diktat internazionali, sarà forse possibile smascherare le narrative mendaci e le subliminali pratiche egemoniche del nuovo ordine neoliberale.