Se si vuol comprendere la posta in gioco del pensiero di Gilles Deleuze, ci sono due luoghi da frequentare, strettamente connessi e corrispondenti in buona sostanza alle sue due grandi opere teoriche degli anni ’60 (Differenza e ripetizione e Logica del senso): nel primo troviamo il progetto di un “empirismo trascendentale” o “superiore”, che non ricalchi più, come nel criticismo kantiano, le condizioni di possibilità della conoscenza sugli atti empirici della coscienza, ma che ci permetta di cogliere in se stessa la genesi trascendentale della differenza, ossia di “ciò per cui il dato è dato” (Deleuze 1997, p. 287). Nel secondo possiamo apprezzare il modo in cui Deleuze cerca di mettere in atto questo progetto, tramite la nozione-chiave di evento: dalla correlazione soggetto-oggetto – vera e propria impasse su cui si è incagliata buona parte del pensiero moderno – si può uscire, sembra dirci Deleuze, mostrando come la ragione trascendentale di entrambi si trovi proprio in una dimensione evenemenziale, ossia in quel vettore che dà conto da un lato di ciò che accade concretamente nella realtà, dall’altro dell’atto processuale che ha portato alla sua stessa realizzazione. L’evento possiede infatti per Deleuze una “struttura doppia”: è tanto “incorporeo” (trascendentale), slegato dalle sue concrete effettuazioni spazio-temporali quanto “incorporato” (empirico), incistato nella singolarità di ogni sua reale occorrenza (Deleuze 1975, p. 135).
Alessandra Campo, in Fantasma e sensazione. Lacan con Kant (Aesthetica Preprint, 2020) si inserisce nel progetto disegnato da Deleuze, percorrendo però una via che potremmo definire laterale. Pur appoggiandosi all’opera deleuziana, Campo tenta di mostrare come l’esigenza di un empirismo trascendentale – di una scienza compiutamente trascendentale del sensibile – abiti alcuni luoghi decisivi della filosofia kantiana e della psicanalisi lacaniana. Si tratta di una prospettiva originale, per almeno due motivi: in primo luogo perché ci costringe a ritornare analiticamente al criticismo kantiano, con cui l’autrice ingaggia un vero e proprio corpo a corpo, mostrandone la straordinaria attualità; in secondo luogo – e soprattutto – perché, ben al di là di un semplice confronto (ormai fin troppo percorso) tra filosofia e psicanalisi, tenta di avvicinare il progetto kantiano – a prima vista così saldo nella sua ricerca della certezza epistemica – alla prospettiva lacaniana, forse troppo frettolosamente autocertificatasi come anti-filosofica. In altri termini, come sembra emergere tra le righe del testo, se è vero che nella domanda kantiana intorno alla conoscenza si può intravedere in controluce un percorso in direzione dell’inconscio, nel reale lacaniano assistiamo altresì a un profondo sforzo speculativo volto a ghermire la genesi della realtà.
Al centro del saggio troviamo l’analisi della sensazione secondo Kant; appoggiandosi in particolare alle letture di Luigi Scaravelli (Scritti Kantiani) e Tommaso Tuppini (Kant.Sensazione, realtà, intensità), Campo mostra come per analizzare a fondo il senso dell’estetica kantiana non ci si debba affatto confrontare, come ci si dovrebbe aspettare, con l’omonima sezione della Critica della ragion pura, quanto piuttosto con quella dedicata alle Anticipazioni della percezione (p. 19), pagine non a caso definite da Deleuze “straordinarie” (Deleuze 2004, p. 81). Qui Kant analizza infatti la sensazione ben prima della sua trasformazione – mediante il decisivo ruolo delle intuizioni – in percezione spazio-temporalmente localizzata, mostrando innanzitutto la sostanziale passività del soggetto, affetto e modificato da un fuori a-dimensionale. Nelle Anticipazioni Kant ci mostra così il modo del tutto peculiare in cui i sensi pensano (p. 57), un modo intensivo che costituisce una sorta di tertium nella distinzione tra fenomeno e noumeno. Per Kant “il reale che è oggetto di sensazione, ha una quantità intensiva, cioè un grado”: prima della realtà estesa, quantificata spazio-temporalmente e in seguito sintetizzata dalle categorie, vi è insomma un reale intenso, graduato e qualitativo, condizione trascendentale di ogni successiva operazione di sintesi.
Parente prossimo – se non omonimo – della sensazione è, secondo Campo, il fantasma freudo-lacaniano. Come la sensazione per Kant, anche il fantasma assurge a condizione trascendentale dell’esperienza. Formatosi come consolazione contro l’angoscia per l’interruzione di un primordiale stato di godimento, il fantasma, secondo il Lacan del Seminario VI, è un’istanza in grado di costituire il soggetto al tempo stesso proteggendolo dall’irruenza del reale. Compito del fantasma è allora quello – come la sensazione kantiana – di rendere la conoscenza possibile, eseguendo una traduzione o un transito tra il reale (intenso) che non è lingua e la realtà (estesa) che lo è (p. 45). Il fantasma, paradossale figura al contempo genetica e di frontiera, è allora, in senso heideggeriano, ciò che a un tempo maschera e rivela la natura dirompente del reale (p. 84). Così come ogni sensazione possiede un grado che permetterà la sintesi operata prima dalle intuizioni e poi dalle categorie, allo stesso modo il fantasma trova la propria condizione trascendentale nell’oggetto a piccolo, argine che impedisce al soggetto di svanire di fronte al reale (p. 86) e che innesca l’impresa conoscitiva.
Nella complessa analogia a quattro termini (sensazione e grado da un lato, fantasma e oggetto a piccolo dall’altro) è la relazione di transizione a fare da protagonista dell’analisi di Campo: tanto per la sensazione quanto per il fantasma si tratta – si è visto – di figure che permettono il transito da una dimensione condizionante intensa che esiste atemporalmente, ma che colpisce e dunque è sentita, a una dimensione estesa che accade, ma risulta inevitabilmente condizionata, derivata. È un passaggio che Campo descrive in vari modi: come “mediatizzazione” tra un “nulla d’origine” a partire da cui sorge il grado/a piccolo e un “nulla di destino” verso cui inderogabilmente si consuma (p. 80); come barra/frazione che genera i poli (esteso e intenso) di un campo (p. 98); come skia-grafie (scrittura d’ombra) che fa transitare la luce verso il buio (p. 51); come abbassamento del profilo cosale dallo choc alla rappresentazione (p. 100). Ciò che emerge è l’idea che esista “un altro modo di ricevere” (p. 19), ossia un modo differente di intendere la passività e l’aisthesis: non più come percezione spazio-temporalmente localizzata e rappresentabile, ma come choc o trauma tale per cui il soggetto viene modificato/toccato proprio là dove non sente e non vede (p. 51), sul crinale tra l’insensibile/impercettibile (a priori) e il sensibile (a posteriori). La sensazione e il fantasma si sviluppano insomma per caduta e annullamento del proprio grado di intensità nell’esteso: l’andare a 0 dell’intenso diventa così paradossale legge di sviluppo (p. 78). Nei più classici termini della metafisica occidentale, si può intendere tale passaggio come transito dall’essere effetto (modificato, colpito) all’essere causa (ossia percipiente).
A questo proposito, il testo di Campo risulta permeato da una polemica nei confronti delle pretese di oggettività proprie di ogni regime epistemico: se tutta la realtà oggettivamente conoscibile va ricondotta in ultima battuta alla sensazione, ecco riemergere l’inquietante quesito che aveva tormentato la filosofia moderna: ciò che garantisce l’esistenza empirica della realtà è la stessa istanza che ne sancisce la dimensione inevitabilmente soggettiva, in quanto modificazione della sensibilità (p. 47). Ciò significa che l’approdo ultimo della sensazione kantiana e del fantasma lacaniano va derubricato nella cornice di un solipsismo senza alcuna via d’uscita? Al contrario: il riconoscimento di un’embricazione costitutiva tra soggettività e oggettività nella conoscenza – discorso che riguarda tanto la psicanalisi quanto la filosofia – rilancia l’opportunità di un empirismo trascendentale, superiore e radicale, capace di ritrovare in una dimensione estetico-cosmologica la ragione stessa della correlazione soggetto-oggetto.
Fantasma e sensazione. Lacan con Kant è un testo che indaga questioni filosofiche profonde e fondamentali con un focus interpretativo efficace. Ha il pregio dell’ambizione e dell’assoluto rigore dell’analisi – specialmente per quanto riguarda la filosofia kantiana – e, forse, il difetto di un’eccessiva densità: l’importanza dei quesiti mobilitati e delle loro implicazioni risulta a volte implicita, a svantaggio in particolare di chi non avesse immediata dimestichezza con molte delle questioni affrontate. Si sarebbe altresì apprezzato qualche approfondimento ulteriore rispetto all’originale tema estetologico che emerge dalle analisi – ossia quello di un’estetica dell’aniconico o di una figuratività non-figurativa (p. 51) – che, tra Francis Bacon e Paul Klee, si sforza incessantemente di rendere visibile l’invisibile. Ciononostante, il saggio di Campo è un riuscito tentativo di afferrare con le armi della speculazione filosofica e in un modo decisamente poco battuto il problema della sensazione e del fantasma. Al di là della doppia neutralizzazione, secondo cui essi sono, nella migliore delle ipotesi, una sorta di trasparente pharmakon propedeutico a più alte e “libere” forme di cognizione oppure, nella peggiore, mera illusione da correggere con i metodi quantitativi della scienza (psichiatrica o fisica), Campo ci mostra in che modo i sensi e l’inconscio “pensano”, cioè – in senso whiteheadiano – esibiscano una qualità (e una logica) che precede la loro “prima quantificazione” (p. 15); soglie atopiche e atemporali capaci di realizzare il campo della conoscenza, essi, proprio nei termini dell’evento secondo Deleuze, non smettono di insistervi.
Com’è noto, il volume XI della Husserliana 1 (1966) raccoglie i manoscritti che Husserl dedica al problema delle sintesi passive tra il 1918 e il 1926. In realtà, la più recente pubblicazione dei Bernauer Manuskripte nel volume XXXIII (2001), a cui Husserl lavorò con Edith Stein nelle estati 1917 e ’18, mostra come la tematica della passività fosse latentemente presente già da molto tempo, in quanto strettamente connessa con il problema – «il più complesso di tutti i problemi fenomenologici» (Husserl 1966a, 276) – della coscienza interna del tempo. E se si considera che quest’ultimo tema occupa Husserl almeno fin dai corsi sulla percezione del 1905-’08 (raccolti in Hua X e XVI), è lecito almeno supporre che la fenomenologia genetica “covasse” nel laboratorio fenomenologico husserliano molto prima degli anni Venti.
Anno più anno meno, un secolo fa. Un secolo in cui si è tentato dapprima di archiviare la fenomenologia husserliana, per fare spazio alle grandi ondate culturali esistenzialiste, strutturaliste e post-strutturaliste, per poi ridarle nuova linfa innestandola su tradizioni di pensiero anche molto lontane dalle sue origini. La storia della fenomenologia nell’ultimo secolo è dunque caratterizzata dalla sua continua ibridazione con altri modelli filosofici – iniziata ben prima della morte di Husserl: si pensi al § 7 di Sein und Zeit, dove troviamo in nuce il concetto di “fenomenologia dell’inapparente” (Heidegger 1976, 59) – e, soprattutto, con intenti teorici molto frequentemente in aperto contrasto con lo spirito fenomenologico che ha da sempre animato le ricerche husserliane.
L’intento di questa raccolta, che prende il titolo di “Soggettivazioni”, è stato quello di aprire una riflessione attorno alla teoria della soggettivazione lacaniana, così per come ce l’ha lasciata in eredità Lacan, a singhiozzi, nei testi stabiliti a partire dai suoi trent’anni di insegnamento orale. Cosa può dirci una psicoanalisi asistematica, distante dalle istituzioni universitarie rispetto a problemi di una concretezza innervata di realtà? Chi frequenta i dipartimenti di Psicologia e assieme l’insegnamento lacaniano sa che è incommensurabile la distanza che intercorre tra la specificità e la settorializzazione degli strumenti istituzionali a confronto con l’universalità dei concetti larghi e volontariamente mai definiti dello psicoanalista parigino. Tra l’estremamente particolare (l’ad hoc della psicologia contemporanea) e l’estremamente universale (il concetto, unità sintetica della filosofia) si rischia di incorrere in un deragliamento del punto focale, causato da uno scontro di metodi epistemologici che si sono stabilizzati ai bordi opposti l’uno rispetto all’altro. Nella scelta di prendere in considerazione un tema vasto e generale come la teoria della soggettivazione c’era l’interesse, da parte nostra, di porlo in dialogo con il campo altrettanto vasto e generale del presente. Speriamo che questa prima ricerca possa costituirsi come un’indagine (sebbene parziale) sullo statuto del soggetto in quanto campo epistemologico aperto: attingendo dalla teoria psicoanalitica e dal dibattito che ne è scaturito, il presente volume segue molteplici sentieri analitici e sottolinea di contributo in contributo la difficoltà di giungere a un’idea organica di soggetto, per la varietà di ipotesi spesso contrastanti in merito alla sua rappresentazione, formalizzazione e interpretazione. In questa raccolta crediamo che i punti maggiormente messi in rilievo da chi ha collaborato riguardino il problema della genesi, lo statuto della trasformazione, e infine un’attenzione specifica è stata rivolta al registro del Reale e ai suoi effetti.
Se volessimo individuare le idee che si collocano alla base della nascita della filosofia in India dovremmo articolare un discorso attraverso tre passaggi tra loro collegati. Innanzitutto dovremmo dire che i testi radicali della riflessione filosofica indiana, le Upaniṣad, sono interamente pervasi dalla ricerca della corrispondenza tra macro e micro cosmo. Questa istanza di unità diventò però immediatamente l’occasione per riflettere su due problemi interconnessi. Il primo problema è quello che in occidente definiremmo del “trascendentale”, intendendo con ciò un’anticipazione della visione kantiana secondo cui la realtà empirica è soltanto la forma in cui la realtà essenziale si presenta alla coscienza, ma tale realtà empirica non sussiste indipendentemente da una coscienza. In tempi antichissimi, intorno al secondo millennio avanti Cristo, tale visione della correlazione tra coscienza e mondo e insieme della necessità di un suo superamento verso una dimensione unitaria dell’esperienza divenne manifesta ai veggenti vedici assisi in meditazione nelle foreste indiane. Le Upaniṣad dettero il nome di ātman (letteralmente: “sé”) alla scoperta di questo principio trascendentale. Da un punto di vista metafisico l’ātman è un principio reggitore e ordinatore dell’universo e, quando viene considerato come Sé universale, possiede anche un aspetto psichico che lo rende auto-cosciente del tutto. Il punto centrale di questo primo aspetto della riflessione indiana delle origini è quindi l’identificazione del cosmico con lo psichico, nel senso che l’ātman si configura come un assoluto che possiede insieme i caratteri dell’essere e del pensiero. La coscienza-ātman non ha quindi niente fuori di sé, e tutti gli oggetti e le relazioni dell’universo esistono solo in quanto oggetti-di-conoscenza. Questo quadro concettuale, che possiede una innegabile connotazione trascendentalista, compare per la prima volta nella Bṛhadāraṇyaka Upaniṣad (tra il IX e l'VIII secolo a.C), attraverso il punto di vista del maestro Yājñavalkya [1] e sarà una delle direttrici principali della riflessione filosofica indiana matura. Durante il periodo classico della filosofia indiana (V-VIII secolo d. C.) – in cui troviamo dei sistemi filosofici distinti che però condividono alcune idee di base che provengono dalla fase upaniṣadica – portato fondamentale di tale concezione trascendentale sarà il concetto di māyā, ovvero 1) il fatto che il mondo empirico sia “apparenza”, dal momento che non è possibile conoscere la reale essenza delle cose, e 2) che la pluralità non sia reale in senso proprio, dal momento che solo l’unità è reale, e questa unità è l’unità della coscienza, cioè dell’ātman. [2]
Questo lavoro di Ronchi non può essere ignorato da chi continua o comincia a considerare la filosofia uno sforzo rigoroso e sistematico. Esso, non esito a dire, risponde a una delle domande comunemente dette “da un milione di dollari”: ma la filosofia ci serve oggi? Se sì, in che modo? E risponde non dicendo che è così e perché è così, ma mostrandolo. Apocalissi valoriali, catastrofi culturali, instabilità politiche, identità frantumate, mutamenti sociali, stravolgimenti psicologici, crisi economiche, flussi perpetui, turbolenze costanti, intrecci inestricabili, dinamiche inarrestabili, movimentismi, aperture incessanti, ossessione per la novità, e così via: sembrerebbe questa la cifra della contemporaneità, di un’epoca in cui trasformazioni e processi sembrano moltiplicarsi in modo quasi asfissiante. Vediamo istituzioni nascenti o fatiscenti, crisi economico-sistemiche, esistenze in costante transizione, affermazione del lifelonglearning, moltiplicazione di scoperte scientifiche e di progetti di ricerca in campi nuovi, sommovimenti sociali e politici e chi più ne ha più ne metta. Si tratta di una fase storico-culturale che comincia a essere esplicitamente connotata come «interregno» (C. Bordoni), quasi alla stregua di un limbo perpetuo, di una fase di transizione in atto ma senza un “verso dove”, di un cambiamento in corso ma senza un “verso cosa”, di un post- (modernità, verità, democrazia, guerra, comunità, Stato, …) che rigira su di sé, sospeso tra l’euforia e la fobia per ciò che sarà, come tra il disprezzo e la malinconia per ciò che è stato. Sembrerebbe di vivere in un periodo socio-politico nel quale la depressione si diffonde, intesa come affaticamento esistenziale e proprio in rapporto alla configurazione di un ambiente dove riveste un ruolo centrale la persistenza dello sforzo di configurare il proprio posizionamento, piuttosto che la permanenza di una posizione data (A. Ehrenberg). Simili fenomeni dinamico-relazionali o «d’intorno», per dirla con E. Morin, sembrano aprire almeno tre tipi di interrogativi.
É uscita a novembre 2016, tre anni dopo la prima edizione tedesca, la traduzione inglese dell'ultima fatica di Vittorio Hösle, A Short History of German Philosophy, curata da Steven Rendall per Princeton University Press e arricchita di una nuova prefazione. L'autore, italo-tedesco e attualmente docente alla University of Notre Dame, la più prestigiosa università cattolica degli Stati Uniti, si è distinto sin da giovane grazie a una serie di pubblicazioni ambiziose, culminate nel 1987 in un poderoso studio sul sistema filosofico hegeliano (Il sistema di Hegel, tradotto in italiano nel 2012 per La scuola di Pitagora), e nel 1997 in un altrettanto voluminoso lavoro sul rapporto tra moralità e politica (Moral und Politik, non ancora tradotto in italiano). In altri libri e saggi Hösle ha coltivato interessi interdisciplinari, mostrando una padronanza di diversi campi culturali a dir poco rara al giorno d'oggi (si è occupato tra le altre cose di Darwin, di filosofia della religione e di estetica del cinema). Il tratto distintivo del suo pensiero consiste nel riconoscere la verità filosofica dell'idealismo oggettivo, seguendo la via tracciata tra gli altri da Platone, Vico ed Hegel, e tenendo conto del fondamentale contributo kantiano. Questa impostazione secondo Hösle si rivela valida ancora oggi, ma va aggiornata e confrontata con le acquisizioni del dibattito scientifico e filosofico attuale. Torna così in questo autore a essere cruciale l'istanza sistematica dell'opera hegeliana, oggi a dir poco negletta: coloro che recentemente si sono avvicinati a Hegel (si pensi solo agli americani Robert Brandom e John McDowell, o al tedesco Axel Honneth) si rapportano a essa con indifferenza, se non con sospetto.
A Short History of German Philosophy, come recita il titolo “una breve storia della filosofia tedesca”, è un lavoro certamente più leggero e accessibile rispetto ad altri dell'autore, ma non per questo meno ricco di stimoli intellettuali. Il libro è espressamente rivolto a un pubblico non solo specialistico e vuole invogliare a una lettura di prima mano delle grandi opere filosofiche di cui si occupa. In circa 300 pagine Hösle riesce a condensare, adottando una prosa chiara e brillante, l'epopea filosofica dello “spirito tedesco”, dai suoi albori con Meister Eckhart ai suoi sviluppi fino ad Hans Jonas. Gli autori selezionati sono tutti classici, per la qualità delle loro opere e l'influsso generato sul dibattito filosofico, e tutti di lingua tedesca. Il criterio linguistico, piuttosto che etnico o geografico, è quello selezionato dall'autore per poter essere considerati parte della “filosofia tedesca”: i filosofi esaminati che pure hanno pubblicato importanti opere in lingue diverse (per esempio Leibniz o Jonas) sono comunque legati al tedesco almeno in una delle loro opere più importanti.
Secondo Hösle – come ha modo di chiarire nella prefazione all'edizione inglese del libro – esistono dei tratti filosofici comuni, almeno alcuni dei quali si riscontrano in tutti i grandi filosofi di lingua tedesca. É perciò legittimo considerarli non come un affastellarsi di autori slegati tra loro, ma alla luce del contributo comune dato dallo “spirito tedesco” alla filosofia. I tratti caratteristici individuati dall'autore sono la concezione razionalistica della teologia; la tensione sistematica; la ricerca di una conoscenza sintetica a priori; la fondazione dell'etica sulla ragione piuttosto che sul sentimento; la combinazione di filosofia e filologia. Anche una figura apparentemente eterodossa come quella di Nietzsche rientra in questa tradizione, non soltanto per i suoi brillanti esordi come filologo greco, ma per la polemica che intraprende contro l'idea di Dio, che è allo stesso tempo lotta contro il razionalismo e la sistematicità del pensiero: l'unitarietà con cui Nietzsche considera razionalismo e teologia, pur nella radicale presa di distanza, è profondamente insita nello spirito tedesco.
Hösle non si limita a ricostruire -in modo sintetico ma mai superficiale - le elaborazioni concettuali più significative elaborate dai diversi autori, ma ne offre una valutazione teoretica, alle volte a dire il vero piuttosto succinta. Non sorprende, considerato l'orientamento filosofico dell'autore, che nel libro la stagione dell'idealismo tedesco occupi il posto d'onore. Nonostante lo sforzo di rendere giustizia alla grandezza di ogni filosofo preso in esame (anche quando, come nel caso di Nietzsche o Marx, risulta evidente la distanza critica), la sensazione che si ha leggendo il testo è di assistere, in una prima fase, a una climax ascendente: dopo i contributi ancora non pienamente maturi di Eckhart, Cusano, Paracelso e Böhme si prende rapidamente quota grazie al razionalismo di Leibniz e alla filosofia trascendentale di Kant (in particolare la sua etica), ci si eleva ulteriormente con l'idealismo soggettivo di Fichte e la sua ricerca di un fondamento ultimo, e infine si culmina nell'idealismo oggettivo di Schelling e nel sistema di Hegel.
Dopo l'idealismo, l'impressione che si ricava dal libro è una sorta di fuga della filosofia tedesca da se stessa, che si concretizza nella rivolta contro il Cristianesimo (Schopenhauer), contro il mondo borghese (Marx) e contro la morale universale (Nietzsche); per poi disperdersi in sentieri non più ricomponibili. Si passano in rassegna quindi gli autori da cui trarrà origine la tradizione analitica (Frege, gli empiristi logici e Wittgeinstein); il tentativo di fondare le scienze umane e sociali da parte dei neokantiani e di Dilthey, che scade però nel relativismo; l'originale ricerca heideggeriana di una riproposizione della “questione dell'essere”. Un capitolo è dedicato a Carl Schmitt e Arnold Gehlen, i filosofi più compromessi con il nazionalsocialismo, dei quali viene in ogni caso riconosciuta la grandezza. A questo proposito Hösle non dà credito a una visione che consideri il percorso della filosofia tedesca come necessariamente predeterminato verso il nazismo, tuttavia l'opera non manca di rilevare le lacune e le elaborazioni che possono aver favorito o assecondato, al di là di fattori contingenti ben più decisivi, l'ascesa di Hitler (per esempio l'assenza nel pensiero tedesco di una teoria della resistenza, in parte dovuta al potente influsso luterano; la morale anti-cristiana di Nietzsche; la mancanza di un'etica e l'enfasi sulla decisione infondata in Heidegger e Schmitt). Vengono quindi presi in esame Gadamer, di cui viene apprezzata più che altro la teoria estetica; i filosofi della Scuola di Francoforte, tra i quali Hösle mette in maggior rilievo il meno noto Karl-Otto Apel, valorizzando il suo tentativo di fondazione dell'intersoggettività trascendentale; e infine Hans Jonas, il cui Principio responsabilità ha avuto il grande merito di mettere a fuoco uno dei maggiori problemi etici e politici del Ventunesimo secolo, la salvaguardia del pianeta.
A modo di vedere dell'autore non è più possibile oggi parlare di una “filosofia tedesca”: non solo il livello della ricerca in Germania si è sensibilmente abbassato, in parte a causa della fuga di intellettuali all'estero per via del nazismo; la Germania attuale è inoltre parte di una cultura europea, a sua volta sempre più intrecciata con una cultura globale, e non ha più senso distinguere uno “spirito tedesco” con caratteristiche peculiari che si distingua con nettezza rispetto agli altri. Il mondo globalizzato rende poi sempre più difficile elaborare una filosofia con le caratteristiche e le ambizioni proprie della migliore tradizione dello “spirito tedesco”. L'ascesa dell'inglese come lingua accademica internazionale tende a uniformare lo stile e le problematiche del dibattito filosofico alla tradizione anglo-sassone, per lo più analitica; la specializzazione sempre più marcata rende arduo conservare lo sguardo d'insieme e l'ampiezza di prospettive richieste da un pensiero sistematico; l'industria culturale livella la produzione intellettuale verso il basso e rende più difficile che un pensiero valido sia riconosciuto quando emerge. Auspicio e speranza dell'autore è che il pensiero filosofico del futuro, superata la gigantesca crisi ecologica, istituzionale e mentale che viviamo oggi, saprà trarre nuovo nutrimento dagli antichi maestri, tra i quali un posto di rilievo spetta senza dubbio agli autori citati nel libro.
Una considerazione a parte merita infine la fenomenologia di Husserl. Hösle non esita a riconoscere in quest'ultimo “il più grande filosofo del ventesimo secolo”, per la sua grande finezza teorica e la sua dedizione al pensiero; tuttavia non sembra giudicare la sua fenomenologia foriera di sviluppi così decisivi. Eppure il tentativo husserliano costituisce senza dubbio il maggior sforzo, successivo all'idealismo tedesco, di rifondare il pensiero filosofico su un piano trascendentale. La vastità dell'impresa fenomenologica e la fecondità degli influssi che essa continua a esercitare in ambiti diversi come le scienze cognitive, la biologia ela psicologia, inducono a pensare che proprio la fenomenologia sia la migliore erede dello “spirito tedesco” di cui parla il libro, e che sia in grado di “urbanizzare” (o meglio globalizzare) tale spirito depurandolo degli aspetti più stantii. Ci auguriamo che l'autore abbia occasione in futuro di tornare più estesamente sulla possibilità e fertilità di accogliere la fenomenologia nel solco dell'idealismo oggettivo.
Il rompicapo della realtà. Metafisica, ontologia e filosofia della mente in E. J. Lowe (Mimesis, Milano 2015) di Timothy Tambassi è la prima monografia dedicata interamente al pensiero di Lowe, il quale ha contribuito a impreziosirla seguendone la stesura passo per passo fino alla versione definitiva (la tesi di dottorato dell’autore) senza tuttavia potere assistere alla pubblicazione del volume, avvenuta a poco più di un anno dalla morte dello stesso Lowe. Il sottotitolo rivela il contenuto vero e proprio del libro: non ogni aspetto della ricerca di Lowe, ma quelli considerati più aderenti al suo nucleo teoretico, ossia la metafisica, l’ontologia e la filosofia della mente, a cui corrispondono i tre capitoli del libro. Più in particolare, Tambassi mira a mostrare la stretta connessione sussistente fra questi aspetti della proposta loweiana, la loro costitutiva apertura ai risultati delle scienze e, più in generale, ad altre forme di indagine della realtà. Secondo Lowe, infatti, la riflessione metafisica – focalizzata sui tre concetti cardine di realtà, di sostanza e di risorse esplicative – costituisce lo sfondo concettuale imprescindibile dell’ontologia e della filosofia della mente e conseguentemente, attraverso queste ultime, di ogni altra forma di indagine della realtà. Come vedremo, però, la scelta di presentare una sintesi coerente solo del nucleo essenziale della proposta loweiana, se da un lato abbrevia certamente la via per l’acquisizione di una certa dimestichezza col suo pensiero, dall’altro, però, rischia di contrarre nella pura dimensione dell’implicito la ricchezza di temi e questioni che pure hanno caratterizzato il lavoro filosofico di Lowe e che intrattengono un ruolo di continuo scambio col suo nucleo – e non semplicemente di mera applicazione o conseguenza.
Il primo capitolo del testo di Tambassi è dedicato alla metafisica di Lowe, definita come una disciplina razionale che studia sistematicamente le strutture fondamentali della realtà, intesa a sua volta come unitaria e indipendente dal nostro modo di osservarla, e fa ciò interamente a priori, cercando quindi di chiarire alcuni concetti universalmente applicabili (pp. 19-20). Essa definisce ciò che è possibile, sia specificando la natura stessa della possibilità sia determinando quali siano le entità possibili e che caratteristiche abbiano. Stando a questa definizione, allora, la possibilità metafisica viene qualificata come una possibilità de re, ossia una possibilità reale, che riguarda la natura stessa delle cose di cui è predicata e ciò a prescindere dal modo in cui tali cose vengono concretamente descritte. Il criterio minimale per la possibilità reale, allora, è che tra le proposizioni utilizzate per descrivere le cose sia assente la contraddizione. In questo senso, nella concezione di Lowe la possibilità logica e l’ambito della metafisica risultano coestensivi: ciò che è possibile è, cioè, vero in ogni mondo in cui valgano le leggi della logica. L’orizzonte della pura possibilità logica acquisisce poi una più compiuta determinazione per mezzo delle nozioni trascendentali – quali, per esempio, le nozioni di sostanza, proprietà e stato di cose –, che è compito proprio della metafisica approfondire e che sono alla base dell’articolazione della nostra stessa esperienza della realtà attuale (pp. 25-26). In proposito, il senso del trascendentale loweiano – a differenza di quello kantiano – riguarda sia la realtà in se stessa sia il nostro modo di pensarla. E questo proprio perché, per Lowe, se da un lato non si dà realtà al di fuori dell’esperienza possibile, dall’altro la nostra esperienza e il nostro pensiero sono una parte costitutiva della realtà stessa, e ciò che riguarda essenzialmente il nostro pensiero della realtà riguarda con ciò stesso anche la realtà in quanto tale. Il fatto che Lowe sottolinei l’indipendenza della descrizione della realtà dal nostro modo di pensarla non risulta, però, in contraddizione con quanto appena sottolineato, poiché questa indipendenza è intesa tale non tanto nei confronti del pensiero in generale, quanto piuttosto nei confronti delle particolari prospettive dei soggetti.
Fra le nozioni trascendentali la centralità assoluta spetta alla nozione di sostanza (1.3), in virtù della sua indipendenza ontologica, che comporta la sua priorità ontologica rispetto a ogni altro tipo di entità (p. 28). È qui che il discorso metafisico entra pienamente nel vivo, coinvolgendo infatti le condizioni d’esistenza e d’identità delle sostanze, che a loro volta comportano – come vedremo più avanti – l’approfondimento della natura del tempo. Una certa entità è, allora, ontologicamente indipendente – ossia è una sostanza – se e solo se non dipende per la sua identità da qualche altra entità. Da tale condizione discende anche quella relativa all’esistenza: se una certa entità dipende da un’altra per la sua identità, ne dipende anche per la sua esistenza, ossia esiste solo se esiste anche la seconda. La sostanza è indipendente in entrambi i sensi – e in ciò consiste propriamente la sua indipendenza ontologica: «Così concepita, la sostanza è un particolare (concreto) che non dipende per la sua esistenza da nient’altro oltre che da se stesso, dove la dipendenza esistenziale coinvolta è intesa in termini di dipendenza rispetto all’identità» (pp. 29-30). L’insieme delle condizioni d’identità di una sostanza – ciò che determina l’identità e l’unità di essa – è allora la sua forma, ossia il suo costituirsi come istanza di un certo genere (o tipo). In virtù di questo aspetto fondamentale della forma Lowe ammette poi l’esistenza di sostanze immateriali – quali per esempio i sé (oggetto della filosofia della mente) e le particelle ultime (che sarebbero quindi fisiche e immateriali al tempo stesso; cfr. p. 32) – accanto a quelle materiali, intendendo qui ‘materiale’ nel senso della materia prossima, ossia ciò di cui una cosa risulta immediatamente costituita.
Sempre dalla forma discende poi anche la più importante distinzione relativa alle sostanze: quella fra sostanze composte – tra le quali si annoverano le cose concrete del mondo macroscopico – e sostanze semplici (o prime) – per esempio i sé e alcune particelle subatomiche la cui immaterialità, naturalmente, consegue dalla loro semplicità – che costituiscono il fondamento ultimo dell’esistenza del reale (pp. 33-34). Una sostanza è allora composta, se possiede delle parti – dalle quali non dipende però per la propria identità – ed è invece semplice, se è priva di parti costituenti. A sua volta, la differenza fra i due tipi di sostanze si fonda su una differenza fra criteri d’identità ed è qui che il tempo gioca un ruolo decisivo: se infatti ogni sostanza materiale e ogni sostanza fisica sono necessariamente collocate in modo determinato nello spazio e nel tempo, le sostanze mentali (i sé) esistono necessariamente nel tempo ma solo contingentemente nello spazio – ossia solo nella misura in cui sono legate a sostanze fisiche quali i loro corpi: poiché per Lowe il tempo è reale per ogni tipo di sostanza, esso risulta un riferimento privilegiato. Più in particolare, è in relazione al tempo che emerge una differenza fondamentale nei criteri d’identità delle sostanze: contrariamente a quelle semplici, infatti, le sostanze composte sono dotate di un criterio d’identità diacronica (1.6), che «è fondata a partire dalle relazioni di equivalenza definite sulle loro componenti attuali o possibili […] e consiste nella conservazione di tali relazioni fra le parti costituenti possedute dalle sostanze attraverso il tempo» (pp. 36-37). La sostanza complessa, in somma, è ciò che permane attraverso il mutare delle relazioni, in cui il tempo propriamente consiste. È per questo motivo che l’esistenza stessa del tempo dipende in ultima istanza da quella delle sostanze semplici, «che persistono attraverso il tempo come “continuanti” […] e la cui persistenza è necessariamente primitiva» (p. 40).
Al culmine di queste considerazioni, Tambassi inserisce un’accurata analisi della concezione loweiana del tempo e del contesto in cui si colloca (1.7). Se il dibattito contemporaneo sulla natura del tempo è diviso fra le teorie tensionali (dall’inglese ‘tense’) e quelle atensionali – le prime ritengono essenziali le nozioni di passato, presente e futuro, le seconde si limitando a considerare le nozioni di prima, dopo e simultaneità –, Lowe assume la prima posizione, legandola essenzialmente a una concezione della persistenza (di una sostanza nel tempo) di tipo endurantista, secondo la quale una sostanza è sempre completamente presente in ogni momento in cui esiste – posizione contrapposta a quella perdurantista, secondo cui a differenti momenti dell’esistenza di una sostanza complessa corrispondono differenti parti temporali di essa.
Il secondo capitolo del libro è dedicato all’ontologia, che Tambassi rileva come «la parte più innovativa e originale» (p. 45) degli scritti di Lowe, anche perché giunta alla sua veste definitiva solo con la pubblicazione nel 2006 di The Four-Category Ontology. Dopo una ricostruzione storico-contestuale dell’ontologia analitica e del dibattito contemporaneo (2.1), Tambassi delinea la posizione loweiana sull’ontologia: «quella parte della metafisica che studia nello specifico l’essere in tre sensi fondamentali: esistenza, entità ed essenza» (p. 50). Essa ha il compito di stabilire che cosa esiste (esistenza), di determinare le categorie fondamentali dell’essere nonché le loro interrelazioni (entità) e, infine, di indagare quali siano le caratteristiche necessarie e quali le caratteristiche contingenti di una determinata entità (essenza). L’ontologia si divide inoltre in una parte a priori – quella specifica dell’elaborazione categoriale – e una empirica, che si confronta coi risultati delle altre scienze. In sintesi, allora, se la metafisica si occupa della pura possibilità, l’ontologia si occupa di ciò che esiste e coesiste. In quanto scienza dell’essere, come già osservato, essa è secondo Lowe indissolubilmente connessa alle descrizioni della realtà che emergono dal lavoro di ogni disciplina scientifica, il cui obiettivo è una descrizione vera della porzione di realtà che costituisce il suo specifico oggetto di ricerca, descrizione su cui si innesta conseguentemente anche la capacità di una scienza di fornire adeguati modelli di previsione per i fenomeni coinvolti nel suo oggetto. «L’ontologia ha l’obiettivo di unificare le diverse descrizioni […], in modo da fornire una descrizione unitaria» (p. 50), essendo il suo oggetto la realtà in se stessa e in quanto tale. Tambassi prosegue collocando la posizione di Lowe nel panorama contemporaneo relativo alle categorie ontologiche (2.2), che Lowe definisce come i tipi più generali di cose (categorie dotate di maggiore generalità) che forniscono i criteri d’identità per specifiche classi di oggetti (p. 53). Partendo dalla categoria ontologica di entità – la massima per generalità –, si arriva quindi finalmente al sistema ontologico quadri-categoriale (2.3), ottenuto combinando le suddivisioni di entità in universali/particolari e sostanziali/non sostanziali. Le quattro categorie (cfr. p. 55) sono quelle dei generi (universali sostanziali), degli attributi (universali non sostanziali), degli oggetti (particolari sostanziali, ossia le sostanze di cui si è discusso nel primo capitolo) e dei modi (particolari non sostanziali). Tutto ciò che esiste è incluso in una di queste categorie, il cui studio avviene interamente a priori. Fra le quattro categorie fondamentali, inoltre, sussistono due relazioni metafisiche fondamentali: l’istanziazione (generi e attributi istanziati rispettivamente da oggetti e modi) e la caratterizzazione (generi e oggetti caratterizzati rispettivamente da attributi e modi). A queste due prime relazioni metafisiche Lowe aggiunge poi la relazione di esemplificazione (attributi esemplificati da oggetti). A ognuna delle quattro categorie ontologiche loweiane, che categorizzano entità esistenti (anche nel caso degli universali, come vedremo), Tambassi dedica poi un’analisi specifica (2.4).
Il punto di partenza è ancora la nozione di sostanza, che nel sistema quadri-categoriale è rappresentata dalla categoria degli oggetti (2.4.1): com’era emerso nel capitolo dedicato alla metafisica, questa è la categoria delle entità che per la loro indipendenza e priorità ontologiche sono il fondamento della realtà. Così, relativamente al rapporto fra gli oggetti e i modi che li caratterizzano (proprietà e relazioni degli oggetti), Lowe pone due importanti distinzioni: la prima è che gli oggetti non sono meri sostrati privi di proprietà in se stessi (bare particulars) con la funzione di sostenere proprietà che avrebbero così un ruolo ontologicamente prioritario nelle condizioni d’identità dell’oggetto stesso. Piuttosto, invece, «gli oggetti non dipendono né per la loro esistenza né per la loro identità dai modi che li caratterizzano» (p. 61) trattandosi di due entità differenti, le prime ontologicamente indipendenti, le seconde dipendenti. La seconda distinzione importante, è quella fra oggetti e quasi-oggetti. Questi ultimi sono entità particolari e numerabili, che tuttavia sono costitutivamente privi di condizioni d’identità determinate che ne permettano l’individuazione (tali sono per esempio le particelle atomiche oggetto della meccanica quantistica): «L’indeterminatezza della loro identità è di tipo ontologico e non dipende in alcun modo dal nostro modo di conoscere le entità in questione» (p. 63). Procedendo con le altre categorie, Tambassi considera poi i modi – che si dividono in proprietà particolari (modi monadici) e relazioni particolari (modi poliadici) – e il loro rapporto con la nostra esperienza empirica (2.4.2), rapporto a proposito del quale Lowe considera la differenza fra le nostre percezioni e i fatti stessi (a loro volta distinti in eventi e processi, intesi come cambiamenti e sequenze di cambiamenti nei modi di un oggetto; cfr. p. 67). Che i modi siano delle entità particolari, inoltre, comporta l’unicità di ognuno di essi, mentre la loro dipendenza dagli oggetti implica che nessun modo può dipendere al tempo stesso da oggetti differenti; i modi, inoltre, non possono nemmeno essere considerati alla stregua di parti di un oggetto: queste sono infatti particolari sostanziali, che possono a loro volta possedere degli altri modi, ma non ridurvisi. Dalle considerazioni sui modi, Tambassi prosegue a discutere la concezione loweiana degli attributi (2.4.3.), intesi come il modo di due o più oggetti, o come un’entità portata dal genere che ne viene così caratterizzato (cfr. p. 71; per esempio, si dice che l’attributo della “trasparenza” caratterizza il genere “vetro”, che è un portatore della trasparenza; il vetro particolare (sostanza) della finestra che ho accanto e la sua particolare trasparenza (modo), sono allora rispettivamente istanze del genere “vetro” e dell’attributo “trasparenza”). Comincia qui a profilarsi il particolare realismo “immanente” sugli universali di Lowe, secondo il quale gli universali inclusi nell’inventario dell’esistente sono sia quelli istanziati attualmente sia quelli che hanno avuto istanze e che non sono però più attuali, ma non quelli di cui non si abbiano istanze (p. 70). Tambassi conclude poi il secondo capitolo con la discussione dei generi (2.4.4.) – universali sostanziali –, a cui Lowe «attribuisce un ruolo fondamentale nella descrizione dello statuto ontologico delle leggi naturali» (p. 74). Alle leggi naturali corrispondono i generi naturali da esse necessariamente caratterizzati e, in questo senso, le leggi naturali «determinano tendenze fra i particolari […] a cui si applicano, ma non i loro comportamento attuale […] che è invece il risultato di molteplici interazioni implicanti una molteplicità di leggi» (p. 77).
Infine, il terzo e ultimo capitolo prende in considerazione la filosofia della mente, definita come «la disciplina che si occupa di studiare e analizzare, da un punto di vista filosofico, i soggetti di esperienza, […] di chiarire cosa siano e se e come possano esistere» (p. 83). Con “soggetto di esperienza” s’intende ogni possibile portatore di proprietà mentali (per esempio persone, altri animali, robot e spiriti senza corpo). In gran parte, la filosofia della mente di Lowe mi sembra essere una coerente conseguenza di idee sviluppate su un piano strettamente ontologico e metafisico. Così, Lowe può tradurre il problema del rapporto mente-corpo nella questione del rapporto fra due differenti generi naturali di oggetti, l’uno rispondendo a leggi biologiche – il corpo – l'altro a leggi psicologiche – il sé. La peculiare soluzione di Lowe, chiamata anche dualismo delle sostanze non cartesiano (3.4), afferma infatti che a corpo e mente corrispondono rispettivamente una sostanza complessa e una semplice (il sé, che Tambassi presenta assieme al cosiddetto unity argument (3.5)) senza però che tali sostanze siano necessariamente separabili l’una dall’altra (per questo il dualismo è qui “non cartesiano”) e soprattutto senza che ci sia un rapporto di subalternità fra leggi biologiche e leggi psicologiche, dato che Lowe rivendica per queste ultime «uno specifico ruolo causale ed esplicativo» (p. 102) capace anche di determinare in una certa misura, amplificata dai contesti sociali, la stessa storia evolutiva biologica.
Su questo tema il testo si chiude ed è proprio a questi ultimi argomenti che si rivolge l’unica mia critica al volume. Si tratta di una critica metodologica, e non contenutistica, nei confronti di Tambassi: a mio modo di vedere, l’unica debolezza de Il rompicapo della realtà – debolezza, per altro, conseguente a una consapevole scelta di Tambassi – consiste nell’aver deliberatamente escluso tutti gli studi di Lowe che non riguardino direttamente il tema metafisico. Mi riferisco a quegli studi su Locke che hanno occupato una parte certamente non marginale del lavoro di Lowe e che potrebbero integrare in modo significativo la presentazione della metafisica loweiana proposta da Tambassi fornendo al lettore da un lato interessanti informazioni sul percorso d’indagine che Lowe ha seguito, dall’altro una visione più ampia della genesi della metafisica loweiana: la nozione loweiana di sostanza risente, infatti, del confronto con Locke e, attraverso quest’ultimo, è ampiamente debitrice della cosiddetta Early Modern Philosophy. Anzi, si potrebbe osservare che la concezione loweiana della sostanza sembra a tratti quasi sovrapponibile a quella lockiana, a esclusione di un aspetto decisivo: per Lowe, infatti, la nozione di sostanza non ha affatto una natura ipotetica, ma marcatamente reale – le sostanze, infatti, sono le autentiche componenti della realtà esistente. Questa soluzione parrebbe indirizzare Lowe verso un paradigma leibniziano, tuttvia l’autore smentisce questa apparenza sostenendo che per lui esistono sia le sostanze immateriali (com’erano le monadi leibniziane) sia le sostanze materiali (impensabili nel sistema leibniziano maturo, nel quale materia ha un carattere derivato), e ammette persino l’esistenza di entità numerabili ma non discernibili come i quasi-oggetti (anche questo aspetto è assolutamente escluso dal Leibniz maturo). Un ennesimo elemento indica quanto Lowe sia profondamente legato a Locke: Lowe non esita a definire Le categorie di Aristotele come il testo più importante nella storia dell’ontologia1, rimarcandone al contempo l’influenza sul suo pensiero, ma si discosta poi nettamente dall’idea aristotelica di sostanza prima riconvergendo verso una posizione lockiana.
Da queste rapide osservazioni conclusive – che hanno più la natura di spunti, che di critiche – mi sembra si possa guadagnare una piena prospettiva sulla fecondità di questa monografia: il nucleo teoretico del pensiero di Lowe è tutto qui, esposto in modo chiaro e sintetico. E tuttavia, così come possedere un passepartout non equivale a varcare tutte le soglie che esso ci può aprire, la ricchezza del pensiero di Lowe attende ancora importanti esplorazioni.
1Cfr. E. J. Lowe, The Four-Category Ontology, Oxford University Press, Oxford 2006, p. 58.
Il tema dell’impersonale costituisce il fulcro di un dibattito odierno forse sfuggente ma variamente presente in assi tematiche e ambiti di ricerca assai differenti. Si tratta, molto in generale, di un tentativo di rimettere in discussione la nozione di soggettività, antropologicamente circoscritta, per giungere a teorizzare una sorta di spazio impersonale, capace di fondare e articolare le linee dell’intero piano della realtà concretamente esperibile. Si potrebbe obiettare che un simile tema mantenga un’impostazione di tipo “metafisico”, intesa in senso negativo, come fautrice di una speculazione antiquata, piattamente astratta e slegata dalla contemporaneità. A questa obiezione, che tende a schivare con forse troppa leggerezza gli ammonimenti heideggeriani e derridiani – è possibile uscire dall’epoca della metafisica? O meglio, è possibile una filosofia che non sia per ciò stesso metafisica? – corrisponde un atteggiamento oggi ben radicato, che tende a svalutare il pensiero “puro”, considerato logoro e inadatto a cogliere le linee in cui si articola il mondo di oggi.
Affrontare l’impersonale altro non significa se non riformulare la questione trascendentale della fondazione, ossia del rapporto e della connessione tra dato empirico e pensiero, concetti e realtà, ontologia e epistemologia, soggetto e oggetto, anima e corpo. Occuparsi dell’impersonale può voler dire porre una questione dal sapore evidentemente genetico, volta a indagare il sorgere stesso del reale; quel momento intensivo che ci fa transitare verso la realtà che esperiamo quotidianamente, dal piano di immanenza deleuziano alla spaziatura derridiana, passando per la questione della sintesi passiva in Husserl – per limitarsi a qualche breve esempio. D’altra parte riflettere sull’impersonale significa praticare un pensiero critico nei confronti di un’istanza, quella del soggetto, che costituisce ancora uno dei poli problematici fondamentali della riflessione filosofica. Dalla critica “biopolitica” dell’interiorità agostiniana e della nozione di “persona” al ripensamento profondo (antropologico, farmacologico, sferologico) della tecnica, passando per l’atmosferologia come decostruzione dell’introiettivismo patico, chi si interroga sull’impersonale ambisce così a demitizzare gran parte del soggettivismo che ha caratterizzato la riflessione filosofica almeno da Descartes in avanti.
Non meno importanti i contributi provenienti dal côté più strettamente biologico e vitalista, che prende le proprie mosse dalla vivace ricezione francese del bergsonismo nel secondo dopoguerra. A orientare questo filone è l’idea di un divenire organico della vita, in opposizione ai vari riduzionismi neopositivistici – fisiologia, psico-fisica, etc. - promotori di una suddivisione del vivente in semplice somma di parti meccaniche, aggregabili e quantitativamente misurabili. Figure come Raymond Ruyer, Georges Canguilhem e Gilbert Simondon, tra le altre, inaugurano così un pensiero fisico-biologico (e filosofico) che pone il proprio accento sul rapporto tra individuo e ambiente, tra virtualità preindividuale e meccanismi di attualizzazione.
La questione dell’impersonale non ha evidentemente limitazioni tematiche né frontiere ben circoscrivibili, ma si distribuisce piuttosto all’interno di una serie di incroci tra punti di vista e contesti cronologico-geografici differenti, che il seguente numero vorrebbe provare a far dialogare.
*Atti del convegno svoltosi a Torino il 28 e 29 aprile 2016, organizzato da Gaetano Chiurazzi, Carlo Molinar Min e Giulio Piatti, con il patrocinio dell’Università degli Studi di Torino e del dipartimento di Filosofia e Scienze dell’educazione, e in collaborazione con Philosophy Kitchen. Rivista di filosofia contemporanea.
Si desidera qui ringraziare il professor Roberto Salizzoni per il sostegno e i preziosi suggerimenti nel corso delle fasi di organizzazione del convegno.
Alla voce “posthumanism” Wikipedia elenca sette possibili sfumature semantiche del termine, tutte riconducibili a diverso titolo a questa controversa nozione: si menzionano l’anti-umanismo, il postumanismo culturale, il postumanismo filosofico, la condizione postumana, fino ad arrivare ai massimalismi di transumanismo, Al Takeover ed estinzione volontaria dell’uomo. Ora, senza entrare nel merito di questa catalogazione – che come tale implica una certa arbitrarietà – cercheremo di presentare il saggio di Antonio Lucci Umano Post Umano (Inschibboleth, 2016), azzardandone una collocazione all’interno del cosiddetto postumanismo filosofico. Premessa: “postumano” indica un ambito delle scienze umane distante da una stabilizzazione disciplinare; i margini tematici a cui richiama sono sfrangiati ed estremamente porosi, continuamente soggetti a sconfinamenti e ampliamenti epistemici – di carattere sia inclusivo sia esclusivo. Dagli anni ’70 fino a oggi, infatti, l’idea di poter parlare di “postumano” nei termini di una questione culturalmente rilevante ha fatto sì che il sintagma “post” – su cui pesa tutta la portata della sua novità concettuale – divenisse l’oggetto di innumerevoli branche delle humanities. Con buona probabilità il motivo di questa fortuna è dipeso dal fatto che parlare di post-umano significhi, più o meno consapevolmente, testare la tenuta di un’idea di scienza – “umana” appunto – che mai come oggi pare minacciata da un preoccupante autosuperamento. L’espressione post-umano effettivamente, come ricorda anche Wikipedia, richiama tanto all’idea di crisi quanto alla categoria generale del “salto al di là”, sia storico (after Humanism) che locale (beyond Humanism). Posthumanism va dunque maneggiato come si maneggia un sintomo, concertando prudenza e perizia. Sarebbe eccessivamente sbrigativo liquidare l’emersione prepotente di questa nozione riducendola a un che di passeggero o magari, per additarne l’inconsistenza, a un evanescente fenomeno mediatico. E’ vero, la confusione non manca: l’oggetto su cui si dibatte rimane il più delle volte nascosto dietro un’impenetrabile cortina di nebbia concettuale; le metodologie di analisi talvolta si combinano seguendo giustapposizioni naïf, talaltra si arroccano su anguste posizioni protocollari figlie di specialismi nati l’altro ieri. Eppure, come vedremo, navigando a vista tra interdisciplinarità e tecnicismo, è ancora possibile mantenere un certo equilibrio, tale da consentirci di formulare una risposta plausibile alla domanda “cosa significa postumano?”.
Nella seppur sterminata letteratura critica dedicata a Edmund Husserl, il saggio di Francesca Dell'Orto, Vita e genesi del tempo. Ricerche di fenomenologia genetica e generativa, Pisa, ETS 2015, rappresenta un contributo assai rilevante per la comprensione delle tematiche fenomenologiche del tempo e della vita. Come l'Autrice nota in apertura del volume, se Husserl si è impegnato strenuamente per risolvere la complessissima questione della temporalità trascendentale - come dimostra la grande quantità di manoscritti raccolti nei volumi X e XXXIII dell'Husserliana, che coprono un arco temporale che va dal 1905 agli ultimi anni di vita del filosofo - lo stesso non si può dire della nozione di vita, la cui presenza carsica non diventa mai oggetto di interrogazione tematica, ma induce a pensare - con R. Barbaras - che la vita resti il grande concetto impensato della fenomenologia di Husserl. Eppure, è assai noto come la riflessione husserliana più matura ponga al centro le nozioni di Lebenswelt e lebendige Gegenwart, in cui la radice Leben è evidente. Dunque, l'obiettivo che Francesca Dell'Orto persegue in questo testo è ripensare il trascendentale nella sua articolazione originaria con il tempo e la vita. In questa prospettiva, la vita trascendentale è tutt'uno con la vita immanente della coscienza nel suo incessante fluire: vivere è esperire la vita, anche nel senso di "essere affetti da" essa, nel suo dispiegamento intenzionale. Da ciò consegue che, anche nelle sue manifestazioni più semplici, la vita coincide col processo della fenomenalizzazione: essa non è semplicemente un "restare in vita", ma implica sempre una dimensione di rapporto col mondo che rende possibile l'apparire come tale. In altri termini, per Husserl la vita è il «processo stabile e costante del farsi mondo, l'eterno presente vivente pre-egologico e trans-egologico che nella sua massima trascendentalità si confonde con la massima fatticità» (pp. 11-12). L'Autrice articola questa tesi di fondo lungo nove capitoli, che ricostruiscono le tappe essenziali della meditazione husserliana sul tempo, sulla vita e sulle questioni derivanti dalla loro interazione. Dopo aver messo a fuoco, nel primo capitolo, la portata dell'influenza delle teorie brentaniane dell'associazione originaria e della Proterästhese sulle prime ricerche di Husserl sul tempo, l'Autrice affronta nel secondo capitolo il tema dell'individuazione dell'io. In linea con un'indicazione di Enzo Paci, emerge in queste pagine una concezione della fenomenologia come pensiero della relazione che, come tale, non può che costituirsi come fenomenologia del tempo e dell'individuazione. Tuttavia, il processo di individuazione non dev'essere concepito come la formazione di una coscienza monoliticamente assoluta, ma come una dinamica di auto-differenziazione della coscienza da se stessa. Il terzo capitolo prende in esame una delle questioni più complesse del pensiero husserliano, ossia il rapporto tra fenomenologia e ontologia. In riferimento all'annosa quanto inevitabile questione della rottura con Heidegger, Dell'Orto - sulla scorta delle analisi di Merleau-Ponty, Beaufret e Marion - chiarisce il reciproco fraintendimento in cui sono incorsi Husserl e Heidegger: se da un lato Husserl non ha saputo riconoscere in Essere e tempo un genuino sforzo fenomenologico teso a distinguere l'essenziale scarto tra l'essere e gli enti mondani, dall'altro lato Heidegger ha sottostimato le riflessioni husserliane sulla fatticità e sulla strutturalità della genesi, che gli avrebbero probabilmente permesso di includere l'esistenza nella problematica trascendentale.
Il quarto capitolo, dopo aver ricostruito l'analisi husserliana della ritenzione, distinguendola dai vari gradi del ricordo, dalla costituzione dell'oblio e dall'associazione primaria, si focalizza sulla dimensione intersoggettiva del ricordo. Come afferma l'Autrice, «la coscienza della temporalità è un'auto-differenziazione che apre la trascendenza di un'alterità nel cuore stesso dell'immanenza. L'auto-alienazione, l'alterità che l'io diventa per se stesso già al livello della costituzione primordiale della coscienza del tempo [...], inaugura la possibilità di ogni altra forma di datità: l'alterità primaria che l'io diviene per se stesso rende insomma possibile tutti gli altri modi dell'alterità» (pp. 136-137). Sulla base di queste considerazioni, il quinto capitolo affronta il problema della protenzione, ricostruendo i passaggi che, dalle Zeitvorlesungen del 1905, hanno condotto Husserl ai Bernauer manuskripte del 1917-'18, in cui la protenzione è sempre meno il corrispettivo futuro della ritenzione e sempre più una funzione autonoma dello Zeitbewusstsein. Di particolare interesse in questo capitolo è la discussione dell'orizzonte protenzionale come orizzonte intersoggettivo: in questa prospettiva, «fondare l'intersoggettività garantendole uno statuto altrettanto originario di quello della soggettività significa assicurare un'apertura strutturale, non solo esperienziale, al riconoscimento dell'alter ego» (p. 155). La conseguenza essenziale della temporalizzazione della coscienza è dunque la configurazione del soggetto come costitutivamente aperto all'alterità.
Dopo aver analizzato, nel sesto capitolo, il rapporto tra temporalizzazione e spazializzazione della coscienza, il settimo capitolo introduce il metodo genetico come tentativo di superare le aporie del metodo statico lasciato a se stesso. Qui l'Autrice mostra lucidamente come la nozione di Unbewusst, inconscio, rappresenti lo strato ultimo della costituzione passiva della soggettività trascendentale. Husserl comprende, nel cuore delle Lezioni sulle sintesi passive, che il campo della presenza non corrisponde necessariamente al campo intenzionale dell'io, ma può restare sullo sfondo come orizzonte vuoto. Esso va concepito piuttosto come un alone di assenza che circonda qualunque coscienza affettiva e impressionale: è attraverso il ricordo o la coscienza d'immagine che l'inconscio così inteso può essere attualizzato e ricondotto all'intenzionalità cosciente. L'ottavo capitolo prende in considerazione la questione della motivazione attraverso un confronto serrato con lo schematismo kantiano. Infine, il nono capitolo tematizza l'interesse dell'ultimo Husserl per la storicità come ampliamento della tematica temporale e sintesi con quella della vita trascendentale.
In conclusione, il maggior pregio di questo eccellente testo è di fornire una visione d'insieme della fenomenologia husserliana attraverso la tematizzazione di alcune questioni essenziali, quelle appunto del tempo e della vita trascendentale. Chi avrà la pazienza di mettersi in ascolto dei testi husserliani - un ascolto lento e un esercizio ripetuto che rifugge giudizi e critiche frettolose - troverà in questo libro di Francesca Dell'Orto una preziosa guida, uno spartiacque in grado di condurre attraverso le aporie più vertiginose dei manoscritti husserliani. Tuttavia, lungi dall'avere un mero scopo didattico, questo testo si impegna teoreticamente nello sviluppo di una tesi centrale, secondo cui «il mondo è prodotto dalle operazioni concretamente fungenti, e parallelamente temporalizzatrici, dell'intenzionalità passiva che, intersecandosi l'una nell'altra e concatenandosi l'una dopo l'altra, si autotrascendono in un orizzonte esterno, non più riducibile ai singoli vissuti individuali; un orizzonte così complesso da sembrare assolutamente a priori, una Lebenswelt trascendentale precedente a qualunque Erlebnis che trovi in essa dispiegamento, che cela invece più in profondità la forma mobile del "volta per volta"» (p. 273).
Solo alla luce di queste analisi possiamo davvero comprendere, con Hans Blumemberg, che «il mondo richiede tempo».
Nel suo saggio Postumani per scelta. Verso un’ecosofia dei collettivi, ospite della collana “Spiritualità senza Dio?” diretta da Luigi Berzano, Giovanni Leghissa dà unitarietà a un tema che ormai lo vede occupato da alcuni anni (La fondazione, la fondazione dell’umano, il post-umano, 2013; Il postumano: un nuovo paradigma?, 2013; curatela di aut aut, La condizione postumana, 2014). Nonostante la brevità del saggio, l’autore si propone di soddisfare la duplice esigenza teorica di inquadrare da più vicino lo sfuggente dibattito sulla questione postumana e, insieme, di estrarne una possibile interpretazione critica. Così, alla messa in ordine di linee guida di una discussione spesso frammentaria, si affianca l’argomentazione di una tesi, frutto dell’incontro di assi di ricerca eterogenei ma convergenti. Le fonti e le questioni interpellate sono infatti numerose e provenienti dalle più disparate aree del sapere filosofico. Tra i “maestri” e le tradizioni di pensiero che vediamo avvicendarsi figurano l’illuminismo, l’evoluzionismo, la filosofia francese del dopoguerra, l’epistemologia, la fenomenologia husserliana, l’idea di un sapere enciclopedico alla Enzo Paci, la decostruzione e l’antropologia filosofica di Hans Blumenberg. Come dichiara l’autore, si tratterà allora di seguire questi molteplici stimoli nell’intento di definire la condizione postumana in termini filosofici, individuando e descrivendo schematicamente gli atteggiamenti caratteristici del suo approccio.
Non occorre un grande impegno teorico per mostrare come si possa fare filosofia senza ricorrere alla nozione di “trascendentale” ‒ oppure, in maniera più profonda, senza assumere la posizione trascendentale. Lo mostra, banalmente, la storia del pensiero filosofico novecentesco. Dalla filosofia analitica alla filosofia ermeneutica, non si contano le tradizioni filosofiche che hanno reso persuasiva l’idea secondo cui l’interrogazione filosofica potesse ‒ e, anzi, dovesse ‒ articolarsi senza ripetere il gesto fondativo, ovvero senza declinare la domanda sulla fondazione in modo tale da dover passare attraverso la questione trascendentale.
Si fa prima se si interrogano i saperi che descrivono ‒ o spiegano ‒ l’esperienza. Si fa prima se si imposta il discorso filosofico immettendolo nell’alveo del discorso scientifico, il quale parla direttamente dell’esperienza. Un po’ come quando si deve insegnare a qualcuno come si nuota. Gli si mostrano i gesti del nuoto stando sulla riva? No, lo si butta in acqua, magari in acque poco profonde, e gli si insegna, dentro l’acqua, a nuotare. Così, appunto, si fa prima. Assumere la posizione trascendentale, in tale prospettiva, non risulta essere altro che un’inutile perdita di tempo.
Tuttavia, è lecito almeno sollevare un dubbio: si può davvero accordare alla filosofia il ruolo di sapere critico, che interroga i propri fondamenti, quelli degli altri saperi e, più in generale, il fondamento del rapporto tra sapere ed esperienza, senza passare attraverso la nozione di trascendentale? Si può davvero fare a meno di chiedersi sia come è fatto, in generale, il soggetto che fa esperienza del mondo, sia come sono fatti quei mondi ai quali si rapporta ogni esperienza possibile?
Se tale domanda, tale dubbio, risulta anche solo vagamente plausibile, allora si vede bene che perseguire l’obiettivo di praticare una filosofia in qualche modo definibile come “trascendentale” non si configura più come una semplice perdita di tempo.
Tutta la difficoltà sta, ora, nel mettersi d’accordo su ciò che l’espressione “in qualche modo” indica. Lo scopo di questo primo numero consiste nel mettere alla prova alcune possibili letture e declinazioni di tale espressione