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M49. Filosofie per fughe animali
Longform / Ottobre 2023A Juan Carrito, benché sia morto libero
Basterebbe un colpo d’occhio al panorama filosofico più recente per ammettere che la critica dell’antropocentrismo sia diventato un tema comune a molteplici orientamenti di pensiero, anche divergenti fra di loro: dal posthuman al realismo speculativo, dal new materialism all’ecopessimismo fino ai pensieri queer e decoloniali, la protesta contro le pretese di centralità ed eccezionalità umana sembrano proliferare alla stessa velocità con cui la minaccia d’estinzione – per lo più rappresentata dal global warming, benché la guerra atomica sembri aver conquistato una nuova giovinezza – si abbatte sulla specie homo sapiens. La sincronia non è casuale e non è soltanto il prodotto di un qualche senso di colpa collettivo per la distruttività dell’azione antropica. È piuttosto il pianeta stesso inteso come tessuto di forze e agentività aliene a fare irruzione s’una scena per millenni ritagliata a misura umana. Va da sé che non ogni critica all’antropocentrismo è anche una critica antiumanista nel senso in cui l’abbiamo conosciuta nel secolo scorso, cioè di quell’Uomo prodotto da sapere-poteri recenti o da una lunga tradizione metafisica e per tagli sacrificali (l’Uomo è sempre maschio, bianco, occidentale, adulto, eterosessuale e cisgender, abile); né, tanto meno, un antispecismo. Ma anche dove manca un’esplicita convergenza, affinità, limitrofie e promiscuità restano innegabili e l’innesto sempre possibile. In qualche modo tutte queste tensioni, vecchie e nuove, sembrano spingersi a vicenda. Sarebbe per esempio difficile negare che la riflessione di Derrida sull’animale non abbia avuto, pur con picchi discontinui, un ruolo da detonatore generale: se nell’opera del filosofo franco-algerino l’avvio di una decostruzione esplicita dell’umanismo risale almeno alla fine degli anni sessanta del secolo scorso, la pubblicazione postuma della conferenza sull’animale autobiografico sotto il titolo L’animale che dunque sono (Derrida, 2006), ha scoperto, per così dire, tutte le carte del gioco critico e insieme rovesciato sul tavolo il rimosso della tradizione antiumanista. Già il concetto (ma qui ne va della concettualità del concetto stesso) di traccia, come delineato fin da Della grammatologia (Derrida, 1998), precedendo e eccedendo le opposizioni tradizionali della metafisica trasmesse alla linguistica, sollecita dalle fondamenta la centralità assegnata al linguaggio umano: la traccia infatti non esiste né come linguaggio né come sistema di segni generale, né come significato né come significante, né come fonema né come grafema, non esistendo in generale secondo i principi dell’ontologia tradizionale che informa anche quei saperi che se ne vorrebbero immuni. Precedendo tutto il sistema delle opposizioni classiche, la traccia, cancellandosi, ne permette l’emersione e al tempo stesso le eccede come un tutt’altro intrinseco e necessario che decostruisce la fondazione della presenza a sé della coscienza attraverso l’autoaffezione della phoné, senza con questo fare a sua volta origine: un sistema di tracce si configura infatti come un gioco di derivazione alla deriva e senza inizio, priva di significante trascendentale; gioco d’iterazione differenziale di simulacri e supplementi. Perciò con scrittura non si deve intendere qualcosa di semplicemente opposto al linguaggio orale: Derrida utilizza questo lessema perché nella tradizione fonologocentrica la scrittura è sempre considerata derivata rispetto alla vocalità costituente del soggetto umano, e, in questo senso, impura e minacciosa; ma è quello stesso predicato della scrittura ad essere generalizzato in maniera da incrinare la presunzione d’origine in generale: scrittura in Derrida non è la parola scritta (che resta pensata sul calco di quella parlata), ma l’essere-derivato di ogni origine. È chiaro dunque che traccia e scrittura precedono ogni soggettività umana, aprendone costantemente la crisi. Ma tale crisi è complessa: nella conferenza intitolata ai Fini dell’uomo (Derrida, 1997, 153-185), la parola fine, nella sua equivocità, indica al tempo stesso la fine e il fine che intrecciano, nella tradizione, critica e rilancio del concetto di Uomo, provocando periodicamente una rottura dialettica della tradizione stessa: non una morte dunque, ma un rilevamento (Aufhebung) dell’Uomo. Molti testi (Derrida 2004; 2009-2010; 2010; 2011) disegneranno da qui in poi una traiettoria dall’andamento carsico, fino ad una sorta di resa dei conti con quello stesso antiumanismo che nell’annuncio ripetuto della morte dell’Uomo occulta ciò che, posto in opposizione ad esso, ne permette l’autocostituzione e il ciclo dialettico delle resurrezioni: l’Animale come singolare generale e indifferenziato, separato dall’Uomo da un confine unico e non suddivisibile, iscritto ancor prima che nel linguaggio, nella capacità di rispondere piuttosto che di reagire secondo il catalogo programmato di un etogramma inderogabile; nel pudore e dunque nella nudità e nella capacità di simulare e dissimulare (il lacaniano fingere di fingere: l’Animale non cancellerebbe le proprie tracce); e perciò di rapportarsi all’ente, a sé, alla morte, secondo la modalità dell’in quanto tale. Proprietà esclusivamente umane che, concatenate in una stessa serie, aprirebbero selettivamente l’accesso alla verità, al mondo, alla presenza a sé della coscienza, all’intenzionalità e alla libertà. Se la strategia di Derrida è quella di una redistribuzione di tale esclusività in violazione all’interdetto a suddividere il confine, permettendo così di riconoscere, nell’identità forzata dell’Animale, una molteplicità di forme di organizzazione della vita e singolarità irriducibili, è lo stesso proprio dell’Uomo (anche quando il proprio designa una carenza o una mancanza) ad venirne così colpito in maniera irreversibile, disseminandosi in un’improprietà comune e non dialettizzabile che piega il potere (nel suo valore sostantivale e verbale) verso una certa passività e dunque vulnerabilità condivise fra i viventi. A venirne scossa non è soltanto l’ontologia, ma insieme l’etica, il diritto, le scienze, la politica: e perciò la legittimazione implicita di ciò che, in riferimento alla zootecnica, Derrida chiama sterminio per moltiplicazione. filosofie per fughe animali
Ma la rottura evenemenziale prodotta dalla gatta (una gatta reale, insiste Derrida) che, esistenza singolare irriducibile a specie, genere e persino regno, attraversa il testo del filosofo in uno scambio e inseguimento di sguardi tanto asimmetrici quanto reciproci, fa da attrattore per il baccano infernale di animali demoniaci e antiedipici che vengono a infestare il proscenio umano, producendo ibridazioni di corpi e affetti in blocchi di divenire, macchine celibi e orfane e alleanze mostruose. Non si tratta di semplici fantasie umane, né di metafore filosofiche: perché il divenire-animale di Deleuze e Gattari non è un processo linguistico di significazione o produzione simbolica, ma un’operazione reale di ibridazione deterritorrializzante. Nel celebre esempio della vespa-orchidea, l’orchidea si deterritorializza formando un’immagine della vespa, che si riterritorializza sulla prima, ma così dererritorializzandosi: diviene parte dell’apparato riproduttore dell’orchidea; la vespa riterritorializza l’orchidea portandone il polline. Non è un fenomeno di mimetismo o somiglianza, ma l’esplosione di due serie eterogenee in una linea di fuga. Questo è ciò che Deleuze e Gattari chiamano rizoma. La vespa-orchidea non si riproduce, non ha genealogia, discendenza è, come blocco, al tempo stesso sterile e proliferante. Il piano di consistenza che accoglie vespa e orchidea non imita a sua volta nulla e non tende verso nulla, ma non è definito nemmeno dalle loro posizioni, come in una struttura: piuttosto da modificazioni di velocità e intensità di affetti. Il piano non cresce e non diminuisce se non all’aumento e alla riduzione delle intersezioni dei blocchi di divenire che gli sono immanenti (Deleuze & Guattari 2017). Movimento contronatura della natura stessa, contromovimento trasversale e non arborescente dell’evoluzione: involuzione reciproca senza regressione. Frammento di DNA catturato da un virus e trasportato nella doppia elica di un altro corpo. Divenire-animale dell’uomo, come per tutti i divenire minoritari (divenire-donna del maschio, divenire-bambino dell’adulto) non significa che l’uomo imiti l’animale, che vi s’identifichi, che lo diventi: ciò arresterebbe il divenire stesso in un divenuto come filiazione; ma il divenire non si arresta, piuttosto entra in un altro divenire, intersecandosi s’uno stesso piano di consistenza a n dimensioni. In gioco non c’è rassomiglianza o differenza, né corrispondenza, di caratteri, forme o funzioni: tutto questo serve semmai allo Stato per le sue classificazioni. L’uomo può sempre immaginare di essere un animale, ma ciò che è reale del divenire è il divenire stesso come divenire tra eterogeneità. Ha a che fare con una muta, una banda, una popolazione e un popolamento, una molteplicità; espansione, propagazione e contagio, in cui le nozioni classificatorie arborescenti e seriali (dall’inferiore al superiore, dall’indifferenziato al sempre più differenziato) non hanno pertinenza. Si è presi in un divenire-animale come Achab e la balena, patto con un demone. Come il piccolo Hans e il cavallo nel caso di Freud, ma senza che il cavallo diventi un simbolo e gli affetti di Hans sintomi. Le linee di fuga di questo concatenamento (Hans, cavallo, omnibus, letto, strada, ecc…) non sono rappresentazioni in un triangolo edipico, ma affetti in un divenire che non nasconde niente, tanto meno un significante trascendentale, dispotico. E se ci sono animali tendenzialmente edipici e familiari (il mio gatto, il mio cane) e altri demoniaci (la zecca, la muta di lupi, il topo, la balena), a certe condizioni tutti gli animali possono divenire demoniaci, stringere un patto innaturale con l’umano, entrare in divenire con esso e con altro, indipendentemente dal regno in cui sono classificati. Di nuovo: in ragione di differenziali d’intensità e accelerazione di affetti.
Nonostante l’amicizia e le affinità con Deleuze e Guattari (benché a volte esagerate ex post da chi ha tentato di incasellare e binarizzare la tradizione recente, opponendo, per esempio, decostruzione e pensiero biopolitico, impoverendo la ricchezza e il dinamismo di quadri concettuali ben più complessi e fecondi), sembrerebbe difficile trovare qualcosa di altrettanto “animale” nelle genealogie dell’invenzione dell’Uomo in Foucault. Eppure è proprio nella costellazione di quel nuovo potere che si configura nell’eclissi della sovranità classica, massimizzando su scala di popolazione gli effetti dei poteri disciplinari e normalizzanti (Foucault 1978; 2005a; 2005b), che un certo pensiero ha trovato il punto d’accesso per una riflessione biopolitica sulle pratiche di domesticazione e potenziamento della vita in cui le vicende delle specie s’intrecciano in maniera differenziale ma insolubile. In particolare è la stessa scoperta del campo di ciò che Foucault chiama ontologia selvaggia, ossia una concezione della vita che ne travolge le forme in direzione di trasformabilità infinita, in cui la teoria darwiniana e le pratiche zootecniche di ibridazione e selezione s’inseguono a vicenda, a rendere non più delimitabile lo stesso campo di azione biopolitico. È uno zoopotere a venire così allo scoperta in maniera irrimediabile per ogni genealogia del vivente: non si potrà più parlare di pratiche di disciplinamento senza rendere conto di ciò che avviene nello spazio dell’allevamento e dello stabulario con i loro recinti, il governo dei corpi, l’intensificazione della produttività attraverso le pratiche empiriche e i saperi scientifici (questi ultimi mai immuni dai primi). Il lavoro di Benedetta Piazzesi ha, da questo punto di vista, aperto prospettive immense: la rottura imposta dal capitalismo al giardino come wunderkammer degli exempla di specie, microcosmo che rispecchia il macrocosmo di una natura stabile e invariante, e dell’utopia della Villa in cui ogni animale è utile per natura, in direzione di una manipolabilità della vita che solo successivamente le scienze giustificheranno de iure con la teoria dell’evoluzione e i suoi flussi morfogenetici, è un evento onto-storico che non si può spiegare solo in termini economici. A annunciarsi qui è infatti una nuova economia del vivente e della vita in cui la funzione dei corpi degli animali non umani non muta in relazione a un solo vettore del potere, ossia quello, estrattivo, del capitalismo marxista. Benché l’opposizione netta fra Uomo e Animale non tramonti mai né nei saperi né nei discorsi diffusi, a sovrapporvisi è una griglia continua e differenziata attraverso la quale l’Uomo è sì riassorbito nell’alveo del vivente – dal quale l’alleanza fra platonismo e cristianesimo l’aveva sottratto, facendone uno straniero nel mondo dei corpi e della carne – ma in posizione di eccezionalità (Piazzesi 2015). Parallelamente la stessa vicenda si ripete in ambito infraumano, dove il sapere biologico differenzia gerarchicamente il continuum della specie secondo le magnitudo dei popoli e degli individui, aprendo la strada alle scienze razziali (Foucault 2009a). Anche in psichiatria (fattore attivo nello stesso processo), all’epoca del grande internamento dei folli succederà il controllo capillare della gamma infinita delle anomalie, proiettando la psichiatria stessa fuori dai manicomi ad allagare ogni sfera dell’esistenza sociale e producendo ampie zone di indistinzione con altri poteri, a cominciare da quello giuridico (Foucault 2009b). I fasci di sapere-potere eccedono insomma i confini di specie, provocando continue retroazioni da una parte all’altra della frontiera.
Agamben ha fissato questa paradossale continuità discontinua nel dispositivo onto-politico della macchina antropologica, che nel tentativo di fissare il proprio dell’Uomo permette il transito di interi gruppi umani nell’animalità, esponendoli così alla sacertà come uccidibilità senza crimine (Agamben 2002). Tale dispositivo antropo-zoo-genico, che corrisponde alla tradizione stessa del pensiero occidentale, tenta infatti, nel suo moto incessante, di risolvere il mysterium conjuntionis fra zoé e bíos, vita animale e vita umana, ossia dell’emersione stessa della seconda dalla prima. Producendo però inevitabilmente una zona di indistinzione ed eccezione, nel modo dell’inclusione di un fuori (il barbaro e lo schiavo, l’enfant sauvage, insomma l’animale dalle fattezze umane, nella macchina antica), o dell’esclusione di un dentro (l’uomo animale, ossia l’ebreo e i suoi sostituiti, ma anche l’oltrecomatoso, nella macchina moderna). In entrambi i casi, il centro della macchina è perfettamente vuoto come lo è ogni spazio di eccezione, e il missing link della conjunctio che essa dovrebbe elaborare rilancia all’infinito un’operazione di cesure e riarticolazioni il cui risultato non è mai né una vita animale né umana, ma una nuda vita, ossia un vita separata da sé stessa. Ogni tentativo di far funzionare la macchina altrimenti produrrebbe allora lo stesso risultato: la proposta messianica di Agamben è allora di applicare la dialettica in arresto di Benjamin; non tentare più di risolvere il mistero della congiunzione, ma indagare le procedure della disgiunzione biopolitica, così da arrestare la macchina e impedire una nuova operazione dialettica tra Natura e Uomo. Ciò che allora più conterà in tale coppia sarà proprio il tra che la separa impendendone la congiunzione, e, sospendendo reciprocamente i due termini, apre a qualcosa che, insediandosi nell’intervallo, non è più né Uomo né Animale, Umanità o Natura. Secondo un altro topos benjminiano, vita insalvabile nella notte salva, abbandonata e inoperosa, consegnata al gioco e alla voluttà.
M49 cancella le sue tracce, finge e finge di fingere: traccia percorsi depistanti, doppi del suo stesso sviamento, della sua deriva gioiosa. Perché ancora più che sulle fughe e sui depistaggi, sull’agency soggettiva e attiva che l’Uomo non gli riconosce, è sull’agentività passiva, sul fare blocco con le forre e le stagioni, le pendenze della luce nella selva o nelle radure, i muschi, mille altre tracce non umane, che insiste Massimo Filippi nel volume omonimo di recente pubblicazione: M49. Un orso in fuga dall’umanità. Certo, questa fuga è un’evasione, un intreccio di diversivi e diversioni; ma è anche qualcosa come uno svago, una vacanza e un abbandono. Abbandonando l’Uomo e le prigioni che tagliano e organizzano lo spazio della sorveglianza e della cattura, egli si abbandona al possibile rischioso e improgrammabile di una vita insalvabile e perciò esposta a connessioni, contatti, contagi. Fuga, ma insieme linee di fuga lungo le quali egli diviene muschio, diviene forra, picco, bosco, cielo, pendenza di luce, calore, pietra, decodificando in flussi il codice che lo cattura come elemento tassonomico fisso, elemento di Stato e di codice di procedura: unorso non come specimen, ma in quanto molteplicità, e in quanto tale animaux, molteplicità degli animali catturati nel dispositivo di esclusione includente dell’antropogenesi prima ancora di ogni prigionia, eppure in rivolta.
Una myse en abîme interseca qui più blocchi di divenire: unorso parla, un* uman*, parlandogli, ne parla, quando unorso è di nuovo catturato; l’autore ne scrive: l’uman* fa blocco con unorso, entrambi con l’autore; ma tutti cessano così di essere semplici soggetti narranti e/o narrati, diventano qualcos’altro secondo un divenire molecolare della scrittura: zone di attrazione e vicinanza, attraversamento, zone d’intensità variabile, pullulazione e contagio che non hanno bisogno di virgolette e note al testo. Filippi tira i fili di un’immensa tradizione, ma anche questi sono altrettante linee di fuga che estraggono rizomi da strutture ramificate, gerarchiche. Fino all’eclissi dei soggetti dell’annunciazione: linguaggio come sciami di particelle, vita di un cosmo in espansione, fuga di costellazioni e galassie. Lingua straniera, lingua aliena, divenire-impercettibile. Non sappiamo chi sogni, qui – Filippi, unorso imprigionato, un alt* uman*, un altro animale. Ma il sogno è reale, e immenso. E può sognare il passato o il futuro.
Non che si dissolvano la compassione, la simpatia, l’evento del venire di un altro irriducibile, in nome del quale si scrive, e – così, anche – si lotta: ma queste passioni, azioni, avvenimenti si dislocano per riposizionarsi o avventurarsi ad un grado più profondo e più intenso della partecipazione; di quella com-parizione che per Jean-Luc Nancy era apparizione reciproca, perché non si appare al mondo senza comparire a qualcun*, con qualcun*, l’un* all’altr*; di quel partage in cui si è già da sempre gettat*, essere-insieme che non forma alcun insieme, che sia di specie, di genere, di vicinato, gruppo o collezione, o quello generale dell’ente nella sua totalità. Ondate di vibrazioni fanno risuonare le passioni, i desideri e gli incontri di un’intensità nuova e inaudita. M49, unorso, è ormai irrimediabilmente Tra.Antonio Volpe
BIBLIOGRAFIA
Agamben, G. (2002). L’aperto. L’uomo e l’animale. Torino: Bollati Boringhieri.
Deleuze, G. & Guattari, F. (2017). Mille piani. Capitalismo e schizofrenia. Trad. It. di G. Passerone. Napoli-Salerno: Orthotes.
Derrida, J. (1997). Margini della filosofia. Trad. It. di M. Iofrida. Torino: Einaudi
Id. (1998). Della grammatologia. A cura di G. Dalmasso. Trad. It. di R. Balzarotti et al. Milano: Jaca Book.
Id. (2004). Aporie. Morire – Attendersi ai limiti della verità. Trad. It. di G.Berto, Bompiani, Milano.
Id. (2006). L’animale che dunque sono. Trad. It. di M. Zannini. Milano: Jaca Book.
Id. (2009-2010). La bestia e il sovrano (I-II). Trad. It. di G. Carbonelli. Milano: Jaca Book.
Id. (2010). Dello spirito. Heidegger e la questione. Trad. It. di G. Zaccaria. Milano: SE.
Id. (2011). «Il faut bien manger». O il calcolo del soggetto. Trad. It. di S. Maruzzella & F. Viri, Milano-Udine: Mimesis.
Filippi, M. (2022). M49. Un orso in fuga dall’umanità. Roma: Ortica.
Foucault, M. (1978). La volontà di sapere. Trad. It. di P. Pasquino & G. Procacci, Milano: Feltrinelli.
Id. (2005a). Nascita della biopolitica. Corso al Collège de France (1978-1979). Trad. It. di M. Bertani & V. Zini. Milano: Feltrinelli.
Id. (2005b). Sicurezza, territorio, popolazione. Corso al Collège de France (1977-1978). Trad. It. di P. Napoli. Milano: Feltrinelli.
Id. (2009a). Bisogna difendere la società. Corso al Collège de France (1975-1976). Trad. It. di M. Bertani & A. Fontana. Milano: Feltrinelli.
Id. (2009b). Gli anormali (Corso al Collège de France 1974-1975). Trad. It. di V. Marchetti, A. Salomoni. Milano: Feltrinelli.
Piazzesi, B. (2015). Così perfetti e utili. Genealogia dello sfruttamento animale. Milano-Udine: Mimesis.
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Nel presente contributo cercheremo di analizzare lo strano caso del Random Darknet Shopper, opera d’arte che, avendo come perno un meccanismo aleatorio, mette in discussione il concetto di soggetto, inteso questo nella sua accezione filosofica, a partire dalle sue risonanze giuridiche. Software programmato ad acquistare casualmente merce sul darknet, ha avuto in sorte lo scontro con alcune antinomie giuridiche. Vedremo infatti come (§1) il principio di colpevolezza alla base del regime di discorso giuridico in cui l’opera si innesta si ritrova innanzitutto sul problema dell’individuazione: cos’è (oppure – forse meglio: quale parte è) il soggetto in causa? Il software? La mostra, intesa come luogo fisico? Oppure la mostra intesa come organizzazione di eventi? Già in quest’ambiguità iniziale possiamo rinvenire il fine primo e ultimo dell’“opera” in questione, quella di perturbare. In secondo luogo, il problema filosofico sollevato è se e come è possibile ritenere l’alea (come se fosse) un soggetto. Questa necessità giuridica non può non confliggere con il carattere meramente finzionale dell’attribuzione di una volontà a qualcosa di assolutamente caotico. Così facendo, il regime giuridico non può che ritrovare il suo ‘oggetto’ al di là o al di qua dell’evento stesso, ovvero nelle istanze enuncianti o enunciate individuabili del dispositivo stesso. Ad onor del vero, questo processo è sotteso a qualsiasi giudizio e l’interruzione discorsiva, l’individuazione di un’istanza, è proprio l’effetto che il discorso giuridico produce, non ciò su cui si articola. In modo eclatante, l’opera che andremo ad analizzare non fa altro che rendere manifesto questa dinamica. Attraversandone la storia, dalle sue esibizioni (§2) alla ricezione sui rotocalchi (§3), andremo ad esaurire la bibliografia filosofico-giuridica che vi si è interessata, mostrando i tentativi e le proposte risolutive di richiudere in un discorso morale lo scandalo aperto da questo paradossale “soggetto caotico”(§4).
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1. L’opera
Random Darknet Shopper (abbr. RDS) è un progetto di computer art del duo svizzero !Mediengruppe Bitnik (al secolo Carmen Weisskopf e Domagoj Smoljo) svoltosi tra il settembre 2014 e il 2016. Come anticipato, l’“opera” è costituita da un software finalizzato a selezionare sul darknet in modo casuale, quindi ad comperare, merce del valore massimo di 100$ in bitcoin. Durante le mostre, il software procede a un acquisto a settimana. Gli articoli vengono così spediti direttamente sul luogo d’esposizione e collocati in apposite teche, che si riempiono progressivamente fino al termine della mostra. Come spiegato dagli autori sul loro sito, «Once the items arrive they are unpacked and displayed, each new object adding to a landscape of traded goods from the Darknet» (https://wwwwwwwwwwwwwwwwwwwwww.bitnik.org/r/).
Evidenziamo fin da subito un’ambiguità relativa all’identità del progetto. Con ‘RDS’ si intende, infatti, a seconda dell’aspettualizzazione: (1) l’oggetto, ovvero il software (secondo l’attorializzazione), (2) il luogo dell’esposizione e la collezione dei vari oggetti progressivamente acquistati (per spazializzazione e temporalizzazione terminativa) e (3) le sue performance, le varie acquisizioni avvenute nelle cosiddette editions (qui temporalizzazione incoativa). Poiché ogni edition è indipendente dalle altre, la raccolta del materiale inizia di volta in volta daccapo, l’acquisto degli oggetti è, come detto, casuale e il riempimento delle teche è durativo nel tempo. In breve RDS si presenta, proprio per la sua «capacità di assumere diverse impreviste strutture fisicamente inattuate», come un’opera in movimento (Eco 1980: 44).
In secondo luogo, notiamo che, se da un lato RDS è un dispositivo situato, occupando specifici punti dello spazio (il PC che gli fa da hardware e la merce esposta), dall’altro la relazione tra il suo discorso e l’ambiente rende il dispositivo sia pervasivo che – coniando un termine da aggiungere a quelli di Eugeni (2010: §3.2) – esclusivo. Infatti l’articolazione del senso di RDS gioca sul fatto che il suo automatismo non permette in alcun modo di essere partecipi dei criteri d’acquisto. Non si sa quale prossima chincaglieria troverà sul web, se non quando questa verrà direttamente portata sul luogo via posta. Si comprende allora come i !Mediengruppe Bitnik abbiamo potuto concepire RDS come «a landscape of traded goods» provenienti dal darknet cui si aggiungono nuovi elementi una volta «unpacked and displayed».
Una pervasione, dunque, dovuta a una collezione che riempie gradualmente l’intera sala dedicata. Wunderkammer contemporanea, RDS ostenta il privato e il proibito nel pubblico, funzionando così da dispositivo di sacrificio (Agamben 2005: 84).
Inoltre, l’aspettualizzazione temporale presenta RDS come una performarce artistica, confermando in questo modo l’«ipotesi» di lettura secondo la quale le avanguardie siano la «lucida e spesso consapevole ripresa di un paradigma essenzialmente liturgico», da leitourgia: «‘opera, prestazione pubblica’» (Id. 2017: 24 e 21). Si spiega dunque il motivo per il quale il duo svizzero possano definire RDS «a live Mail Art piece».
Ma “live piece” tematizza chiaramente l’Unheimlichkeit di Freud (1919), condizione – banalizziamo – in cui si ha terrore che prenda vita un oggetto inanimato, che gli oggetti rimossi possano (ri)attivarsi e (ri)entrare nella nostra vita cosciente. Era questo un meccanismo già presente nelle Wunderkammern: qui «lo statuto dell’esperienza museale attuale» vacilla, avendo davanti un «processo di accumulo quasi automatico di cui si fa fatica a comprendere la logica» cui deriva quell’«effetto di senso particolare, quello della meraviglia» da cui il nome (Donatiello 2016: 64). In breve, RDS è una macchina enunciativa automatica di un contenuto oscuro come il darknet, dispositivo hauntologico (Derrida 1994) grazie al quale il fantasma di una parte remota della rete si manifesta nella “casa” infestandola di simulacri, a mostrare il caos che alberga ogni cosmos, come suo rovescio e suo fuori.
Considerando che non permette di anticipare nulla sui suoi acquisti, RDS presenta un «regime» di interazione «dell’incidente», nel quale l’alea si costituisce come soggetto. Da un lato !Mediengruppe Bitnik programmano RDS per fargli ottenere una «motivazione in qualche modo concessiva», poiché l’esecutore, il Destinatario, obbedisce ciecamente alla volontà del Destinante che l’ha programmato; dall’altro, però, la programmazione è assolutamente autoneutralizzante, poiché, come già detto, l’oggetto di valore cui deve tendere il bot è, al di là dei limiti materiali imposti, un oggetto qualunque (Landowski 2005: 43).
Il ‘soggetto’-RDS emerge come se marchiato da una perversione della massima agostiniana «Dilige et quod vis fac», “ama e fa' che vuoi” (In Io. Ep. tr. 7, 8), dimostrandosi vera e propria forma-di-vita (Agamben 2011 : 17). In altre parole, esso è un’attorializzazione dell’alea. La macchina randomica apre quindi alla «minaccia del rischio puro al di sopra di tutti i sistemi di sicurezza», installando serenamente l’«attesa dell’inatteso» (Landowski 2005: 74). Come «se all’origine tutto fosse [...] discontinuità», RDS «non consent[e] alcuna forma di comprensione, ci pon[e] davanti all’insensato; escludendo ogni possibilità di anticipazione, non ci offr[e] moralmente alcuna sicurezza» (Greimas 1987: 89 e 74-5). Questo regime è ciò cui tende la ricerca dei !Mediengruppe Bitnik: «Randomness implies a loss of control. Loss of control is something we intentionally seek in our works: we create situations and let them play out». In RDS, infatti, «loss of control is part of the concept by delegating the buying decision to a software bot» (2015: 41).
RDS, “soggettivando l’alea”, incarnandola come attore e riproponendone le dinamiche costitutive, apre a una serie di paradossi. Innanzitutto «è solo nella sua manifestazione, realizzandosi[,] che il caso si auto-istituisce, in atto [...] in quanto legge di se stesso», andando così a coinvolgere la responsabilità indiretta dei suoi Destinanti solo ad azione compiuta (Landowski 2005: 80). Allo stesso modo, è solo tramite l’ostensione dei suoi acquisti che RDS si autocostituisce, retroattivamente, come un tipo particolare di soggetto. O – meglio – ha avuto modo di autocostituirsi.
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2. Il caso
Tre sono state le editions di RDS: alla galleria non profit Kunst Halle di San Gallo in Svizzera nella mostra “The Darknet – From Memes to Onionland. An Exploration” (14/10/2014-15/01/2015), alla Horatio Junior Gallery di Londra (11/12/2015-05/02/2016) e, infine, all’Aksioma Institute for Contemporary Art di Lubiana (24/02/2016-25/03/2016).
Ripercorrendo la prima edition attraverso l’ironico commento di Jon Lackman (2016), scopriamo che a san Gallo, «città svizzera dalle forti radici religiose» (ivi: 3), RDS si è collegato all’Agora shop, il più grande negozio illegale al mondo, dove ha acquistato ed esibito, nell’ordine: una chiave universale dei vigili del fuoco, 40$ di stecche di Chesterfield Blue provenienti dalla Romania, una borsa falsa di Louis Vuitton, la trilogia completa de Il Signore degli Anelli in ebook, altre 200 sigarette, una carta di credito VISA dorata, 120 mg di ecstasy in pillole dalla Germania prese a soli 48$, delle sneakers (false) della Nike firmate da Kanye West comprate a 75$ (le originali andavano sui 245$), un cappello da baseball con telecamera nascosta, una lettera di richiamo, un contenitore per farmaci a forma di lattina di Sprite, dei jeans, e infine la scannerizzazione di un passaporto.
La pietra dello scandalo è stata certo la partita di droga. I !Mediengruppe Bitnik constatano con sorpresa, sul loro sito, come «The parcel was sent from Germany and crossed the border and customs to Switzerland without any problems», problemi giunti solo il 12 gennaio 2015, a mostra appena conclusa, quando la polizia svizzera sequestra il bot e tutta la merce esposta.
Soltanto il 15 aprile, dopo aver testato che le pillole contengono MDMA (90 mg, non i 120 promessi), la polizia le distruggerà – così ha dichiarato –, restituendo invece tutto il resto. I !Mediengruppe Bitnik hanno così esultato sul loro sito:
At the same time we also received the order for withdrawal of prosecution. [In it] the public prosecutor states that the possession of Ecstasy was indeed a reasonable means for the purpose of sparking public debate about questions related to the exhibition. The public prosecution also asserts that the overweighing interest in the questions raised by the art work [RDS] justify the exhibition of the drugs as artefacts, even if the exhibition does hold a small risk of endangerment of third parties through the drugs exhibited. We as well as the [RDS] have been cleared of all charges. This is a great day for the bot, for us and for freedom of art!
Sebbene ci sia stato un acquisto di droga, questo non è stato voluto. Sebbene ci sia stata detenzione di droga, ciò è avvenuto a fini artistici: RDS ha creato dunque un vuoto giuridico dove, generando un illecito come evento, non è stato possibile attribuirgli un autore come responsabile. Solo la cornice artistica ha potuto rendere impunibile l’ostensione di questo gesto. In questa sede ci soffermeremo analiticamente solo sulla prima mostra. Della seconda, i curiosi sappiano che RDS, connesso questa volta ad Alpha Bay, ha acquistato: una t-shirt Lacoste falsa, due devices per l’estrazione di Bitcoin comprati con 25$, una copia elettronica di un libro di cucina francese in inglese del 1961, un cellulare con distorsore vocale, 1.825.380 indirizzi email a 100$, la scannerizzazione di una bolletta del gas inglese, concludendo con un PDF su come Hacking a Coca Cola machine.
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3. La ricezione
La notizia è salita subito agli onori della cronaca, dove si è scherzato sul fatto che il computer abbia una personalità umana e sia soggetto giuridico di diritti e doveri. Su The Guardian Kasperkevic balbetta che la polizia svizzera abbia «arrested – er, confiscated» un computer (2015); Kharpal le fa eco su CBSN (2015). Per Grey del Daily Mail RDS è addirittura un «cyber criminal!» che è stato «ARRESTED» (2015), mentre Grant dell’Indipendent sente l’imbarazzo di dover spiegare come «the consumer behind these purchases is not actually a human, though – it is an internet “bot”» (2015). RDS sembra quindi essere un soggetto pieno. Come «example of a nearly autonomous thing that bought things», esso desidera, acquista e commette crimini come tutti noi: questa è la novità su cui apre in modo clamoroso (Noto La Diega & Walden 2016: 4 nota 15).
Tant’è che a RDS si attribuisce un nome proprio, se non addirittura un genere. Come ha infatti raccontato Smoljo degli stessi !Mediengruppe Bitnik, «People also call him Randy. Normally, we try to give it a female name but this is what came out in this case» (https://exposingtheinvisible.org). Lackman invece, cercando inutilmente di non risultare sessista, attribuisce al bot il genere maschile: «For me [RDS] is not an /it /but a /he/.//Why not a /she/? I'm not sure. Only a sexist would assume an obsessive shopper is a she, right? Plus: men quail in stores, they choose stuff at random just to be done» (2016: 3). Ciò che vorremmo in ogni caso evidenziare è come la questione del soggetto giuridico comporti quella del genere e il binarismo sottesi, altrimenti non pertinenti.
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4. L’anomia
Galati ha commentato l’episodio delle pasticche evidenziando come, al di là «del risvolto potenzialmente ironico, [RDS] genera evidentemente delle domande che segnalano dei buchi giuridici sulla responsabilità degli algoritmi» (2018). La questione etico-morale è stata da subito sollevata, a partire da Power (2014), fonte di tutta la bibliografia successiva su questo «provocative example of such a shopping bot» (Gal & Elkin-Koren 2017: 315).
Una risposta viene tentata da Alves de Lima Salge e Berente (2017). Rifacendosi al kantismo di Rawls, per valutare il valore morale di un algoritmo come RDS, essi propongono un algoritmo di livello logico superiore, ovvero un meta-algoritmo. È già chiaro il pericolo della regressione all’infinito (critica avanzata da subito da Shaw 2018). Rischio, quello della regressio, contro il quale la giuscibernetica, fin dalle sue prime teorizzazioni, ha sempre invocato la necessità di un limite (Losano 1969: 169 ss).
Alves de Lima Salge e Berente, in ogni caso, si chiedono: sebbene sia stata violata una legge di Stato (il bot ha acquistato della droga vietata sul mercato regolare e un passaporto falso), si può ritenere il suo comportamento «unethical»? Per questo motivo, gli autori ritengono necessario un giudizio sulla sua attività. Il meta-algoritmo che propongono si articola di tre domande: (1) l’azione del social bot ha infranto la legge?, (2) la sua azione è ingiustificabile? (3) è coinvolto qualche inganno? Un bot, ma più in generale qualsiasi soggetto morale, non si comporta eticamente se la sua azione risponde affermativamente in progressione alle tre domande. La conclusione e il fine cui vogliono tendere gli autori – vero e proprio imperativo categorico – è che i «Social bots should always act truthfully» (ivi: 30).
Poiché il fine era artistico e l’ecstasy «in this presentation was safe», come indicato dalla polizia, gli autori dell’articolo possono ritenere il comportamento del bot «not unethical» poiché giustificabile con la moralità diffusa della comunità. Qui, però, l’impasse: per i due studiosi, che si rifanno all’Etica Nicomachea (III, 1111a), un soggetto-bot etico emerge come tale se e solo se la sua azione è allo stesso tempo saputa e voluta. Come già evidenziato, RDS si comporta come l’alea, alla quale è assolutamente finzionale attribuire una qualunque consapevolezza della propria volontà. Il bot sembra quindi muoversi a latere del meta-algoritmo, nello spazio di un vuoto giuridico.
Sorge inoltre un ennesimo problema, sollevato da Turner, per il quale RDS sarebbe un “Case Study” sulla domanda: «Could a Robot Commit a Crime?» (2019: §4.5). Per il principio del habeas corpus, anche se si individuasse la volontà del bot, questa resterebbe un carattere di una mera ψυχή (RDS è un software), cui non sarebbe relato alcun corpo punibile di reato. È il motivo di clamore del Washington Times (2015) per il quale è sorprendente che sia stato arrestato un «moving conglomeration of bits and bolts, conceived and fashioned by flesh and blood men».
Non resta dunque che dare la colpa agli sviluppatori: «Therefore, culpability rests on the knowledge of the developers» (ivi: 31), ovvero i Destinanti. Ma, anche in questo caso, si tratta di una soluzione particolare, che solo a volte può essere attuata. Si attribuisce la sostanza di soggetto al firmatario, in quanto primo riferimento fisso della catena di enunciazioni che si è venuta a creare. Ma in questo caso non si tratta di una colpa, al massimo un dolo. Si mostra così un conflitto tra due regimi discorsivi, quello del Diritto che cerca un elemento primo cui ricondurre la catena di enunciazioni (Latour 1998: 92 ss), come ad esempio un firmatario che emerge retroattivamente dalla sua firma (Derrida 1997: 393-424), e il regime discorsivo della tecnica che si articola in débrayages attanziali dove ogni attore così proiettato vive di una sua autonomia (Latour 1998: 82). Allo stesso tempo, però sono proprio i diritti d’autore, correlati della responsabilità autoriale (Franceschelli 2019), a permettere al duo svizzero di rivendicare per sé la genesi dell’opera. In breve, la funzione-autore è un «oggetto di appropriazione» la cui forma è storicamente seconda, in rapporto a ciò che di potrebbe chiamare l’appropriazione penale. I testi , i libri, i discorsi hanno cominciato ad avere realmente degli autori […] nella misura in cui l'autore poteva essere punito, vale a dire nella misura in cui i discorsi potevano essere trasgressivi. Il discorso, nella nostra cultura (e in altre probabilmente) non era, all’origine, un prodotto, una cosa, un bene; era essenzialmente un atto – un atto posto nel campo bipolare del sacro e del profano, del lecito e dell’illecito, del religioso e del blasfemo (Foucault 1971: 9).
Abbandonando così l’ipotesi d’“accusare delle cose di un crimine”, la colpa è dei programmatori, in quanto si prendono la responsabilità delle azioni del loro bot che hanno previsto. Si darebbe colpa a un bot se e solo se si potesse dimostrare che questo abbia deviato volutamente dal proprio programma, ovvero dal volere dei propri destinanti: «In such absence of deviation, it is easier to prove human involvement in the AIS’ illegal conduct. In other words, the programmer of [RDS] may also be held liable because it creates an AI to shop in the illegal market» (Andrini 2018: 79). Per lo stesso motivo, «si tratta di un reato punibile a titolo di dolo» poiché il «bot non è stato progettato o impiegato con l’intenzione di commettere il reato, ma il programmatore e/o l’utente hanno irragionevolmente accettato una serie di rischi che hanno portato al verificarsi della condotta criminosa», motivo per il quale «l’utilizzatore e/o il programmatore saranno ritenuti penalmente responsabili per il reato commesso dal bot» (Lagioia 2016: 126 e 129).
Ribadiamo: che siano colpevoli, gli artisti ne sono ben consci: «We are the legal owner of the drugs – we are responsible for everything the bot does, as we executed the code», ammette Smoljo. «But our lawyer and the Swiss constitution – continua – says art in the public interest is allowed to be free» (Power 2014).
È proprio il mondo dell’arte (Danto 1964) che infine si instaura come terzo discorso che permette di neutralizzare qualsiasi tipo di colpa da parte di RDS o dei suoi autori. I !Mediengruppe Bitnik infatti rivendicano di appartenervi.
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Conclusione
Perniola (2015) aveva individuato nell’arte più recente una certa svolta fringe, secondo la quale «Nulla è di per se stesso arte» ma «lo diventa attraverso molti fattori» in un processo detto di «artistizzazione». Evidenziamo come RDS si muova nella direzione opposta, poiché esso è da sempre costituito come opera d’arte. È il vuoto giuridico che crea a far scoppiare un conflitto discorsivo tra il mondo dell’arte e quello legale. RDS non è un’opera fringe verso altri domini: sono gli altri domini ad implodere su di esso.
Coglie bene l’essenza di RDS Volkart Schmidt nell’inserire il progetto nella cosiddetta Ästhetik der Störung, «disturbo» dato nello specifico dalla «Kollision der Systeme». Abbiamo visto come questo progetto artistico utilizzi il proprio dominio per generare cortocircuiti in quelli altrui, innanzitutto giuridico e, conseguentemente, sociale. Ciò è stato possibile grazie alle possibilità offerte dalla rete, non intesa qui ingenuamente solo come «spazio libero dal diritto», a richiamare «vagamente le origini euforiche di Internet» (2015: 4). Come spiega Boris, «Aquella emancipación del ciberespacio [...] nos parece hoy un poco ridícula». La rete non è più – o, meglio, non è mai stata – quel grande spazio orizzontale di chissà quale regno dei cieli sulla terra. Si necessita dunque di «entender el horizonte digital como un campo fundamental de esta hipergeografía que estamos habitando», per stabilire così «Términos y Condiciones de una ontología digital libertaria» (2017).
In conclusione RDS si presenta come emblematico «example of hacktivist guerrilla communication» (Delmas 2018: 75), la cui sola ragione d’esistenza, «l'esecuzione dell’atto di semplice consumo» (Volkart Schmidt 2015: 4), è una «reflection on the shadowy parts of the Internet without calling for any specific legal change, or articulating any specific political claim» (Delmas 2018: 75). RDS non vuole portare al cambiamento in nessuna legge corrente, ma sollevare una riflessione sui limiti delle legislatura stessa. Considerando che «c’è arte solo se e quando (resiste)» (Carmagnola 2019: 156), RDS è arte proprio nella sua rivendicazione.
Derrida (1996: 14 nota 1) era convinto che «la democratizzazione effettiva si misura sempre con questo criterio essenziale: la partecipazione e l’accesso all’archivio, alla sua costituzione e alla interpretazione». Se ormai la rete è la sostanza esterna del nostro inconscio tecnologico, grande produzione archiviale costantemente riattualizzata (Galati 2017: §3), RDS ne è macchina da guerrilla semiotica (Eco 1967) che, a partire dal territorio specifico dell’arte, può portare a rimetterne in discussione confini e geografia.
di Francesco Di Maio
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Il corpo del pensiero. Derrida e Adami
Sconfinamenti, Serial / Marzo 2020È stato lo stesso Derrida a spiegare le circostanze che lo hanno condotto a incontrare Valerio Adami e ad avviare con lui un buon rapporto: «Un giorno, il mio amico Jacques Dupin, che lavorava per Maeght, mi propose di collaborare con un pittore a un’opera in comune, una serigrafia che mescolasse il tratto, la pittura e la scrittura. […] Qualche mese più tardi, Jacques ha avuto l’idea di associarmi a Valerio Adami. […] Nel 1975, Dupin mi ha portato dei cataloghi e io sono rimasto subito colpito dalla forza, dall’energia del tratto, ma anche da un richiamo nel disegno – e anche nella pittura – ad altri tipi di scritture: letteraria, politica, “storica”. Assai presto ho notato l’esistenza, nella sua opera, di un certo rapporto sincopato con l’evento letterario o politico, con gli scritti di Joyce o Benjamin, con le rivoluzioni europee di questo secolo, la rivoluzione russa, quella di Berlino, ecc. Il tutto colto in modo ellittico, sincopato, in un tratto dalla forma molto singolare»
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Jacques Derrida-La Disseminazione
Recensioni / Giugno 2019«Non sono giochi di parole. I giochi di parole non mi hanno mai interessato.
Piuttosto, sono dei fuochi di parole: consumare i segni fino alla cenere»
J. Derrida, Posizioni
È un atto di audacia leggere oggi Derrida. Oggi, in un momento storico in cui, sul piano filosofico, tutto sembra portarci lontano da Derrida e giocare contro di lui. Nel tempo della filosofia come conceptual engineering e iper-specializzazione logico-linguistico-matematica1, del dominio dell’argomentazione come unico viatico di rigore e chiarezza, e della stessa chiarezza-esattezza come assoluto contrassegno di razionalità, non può più esserci posto per un filosofo come Derrida. E così gli atteggiamenti più diffusi nei confronti dell’autore della Grammatologie sono due, esattamente inversi: la diffidenza e l’esclusione dal campo filosofico – con l’inclusione in quello letterario e retorico – o la caricatura, la ripetizione, il banale scimmiottamento di uno stile. Ma rifiutare o adorare Derrida, in realtà, sono solo le due facce del medesimo malessere che vive la filosofia oggi. Derrida è il pensatore dell’effrazione, del rinvio, dell’altrove. Altrove, rispetto a ogni classificazione professionale e istituzionale: ermeneutica, filosofia del linguaggio, filosofia della mente, comunicazione, linguistica, logica, psicologia, ecc. Altrove, rispetto alla scrittura stessa. Leggere testi inaccessibili come Glas, Tympan, La carte postale o La vérité en peinture, distillandone il contenuto propriamente filosofico, è un’operazione molto complessa, una sfida alla filosofia e alla nostra stessa capacità di scrivere e di leggere, che non può essere formalizzata nello spazio di un sillogismo, di una solida connessione di premesse e conclusione. Perché richiede qualcosa di più, l’audacia di abbandonare ogni tutore, ogni appoggio concettuale e la violenza, appunto, di «consumare i segni fino alla cenere».
Per questo motivo, la recente ripubblicazione della traduzione italiana di La disseminazione (a cura di Silvano Petrosino, Milano, Jaca Book) è un evento degno di nota. Rileggere testi come “La farmacia di Platone”, “La doppia seduta” e “La disseminazione” – scritti tra il 1968 e 1970 – significa non soltanto chiedersi che cosa ne è oggi della “decostruzione”, precisamente nel senso che Derrida attribuiva a questa espressione, ma anche cercare di collocare storicamente questa domanda. Collocarla storicamente, non soltanto nel quadro della filosofia francese contemporanea – ammesso che tale espressione indichi una reale continuità di pensiero e non un semplicemente un gruppo di autori o un “clima”, ma questo è un altro problema –, bensì rispetto alla profonda trasformazione che la società occidentale ha subito negli ultimi quarant’anni con lo sviluppo della tecnologia digitale, quella che è stata definita la softwarizzazione della società. Evento, questo, connesso alla scrittura nel suo senso più proprio, cioè la trace, la messa in questione della linearità della scrittura alfabetica e quindi della metafisica della presenza, del logocentrismo e del fallo-logocentrismo.
Ma guardiamo al libro, anzitutto. Leggere La disseminazione è un’operazione complessa, che richiede tempo e fatica, nonché il coraggio di fare i conti con un pensiero molteplice, in cui sfugge il punto di inizio. «Nessun inizio offre le garanzie necessarie di neutralità» scrive Sollers in Dramma, frase collocata da Derrida nel cuore del saggio “La disseminazione”, tessuto di citazioni a metà strada tra il commento e il testo originale, autentico “avvenire” della decostruzione che si riflette in uno stile preciso. La decostruzione si presenta come lavoro sul testo che viene dal testo, che “avviene” nel testo, «una fase indispensabile di capovolgimento» (p. 50). Non è concettualizzazione selvaggia, insensata, fantasiosa. È un paziente scavo nel testo scritto, a contatto con la scrittura come esperienza del linguaggio che mette in questione il linguaggio stesso. Attraverso tale scavo ogni elemento del testo è animato da «una rotazione velata» (p. 353) che ne sprigiona l’energia nascosta, cioè il mitogramma, citando l'antropologo Leroi-Gourhan, autore molto importante per Derrida. Questo significa risalire, nel testo, dalla scrittura alfabetica al mitogramma come scrittura non-lineare ma radiale, polinodale, visiva, spaziatura, «una grafica che agisce nella stessa sequenza detta fonetica, elaborandola, traducendosi in essa ancor prima di comparire, di lasciarsi infine riconoscere, nel momento in cui cade in coda al testo, come un resto e come una sentenza» (p. 362). L’operazione derridiana assomiglia così a quelle «radiografie che scoprono, sotto l’epidermide dell’ultima pittura, un altro quadro nascosto: dello stesso pittore o di uno diverso, poco importa, che avrebbe, non disponendo di altre tele o ricercando un nuovo effetto, utilizzato la base di un vecchio dipinto o conservato il frammento di un primo schizzo. […] un’altra geometria futura» (p. 363-370).
La scrittura come «altra geometria futura» sfugge alla rappresentazione e si afferma quale condizione di ogni verità e di ogni pensiero. È questo il filo conduttore di “La farmacia di Platone”, così come di un altro testo, ormai anch’esso un classico, “La doppia seduta”, lungo “braccio di ferro” con Platone, e dietro di lui Hegel, e con il concetto di mimesis a partire da Mallarmé, dove l’obiettivo della lettura non è più “una semplice rilevazione di concetti o di parole», bensì «ricostruire una catena in movimento, gli effetti di una rete e il gioco di una sintassi» (p. 218). Anche qui Derrida guarda verso un'altra scrittura, non lineare, ovvero la mimique del Pierrot di Mallarmé, «un intaglio che apre ancora su un altro testo e pratica un’altra lettura» (p. 227) poiché «il Mimo […] non rappresenta niente, non imita niente, non deve conformarsi a un referente anteriore in un disegno di adeguazione o verosimiglianza. […] [Il Mimo è] un doppio che non raddoppia alcun semplice, che non è prevenuto da nulla, nulla che non sia già in ogni caso doppio» (p. 228).
Mi fermo a queste poche citazioni. Di che cosa ci sta parlando Derrida? Del movimento della significazione, la semiosi essenziale all'essere umano, quella necessità di dare un significato che rende possibile il linguaggio, il pensiero, la coscienza e infine la presenza stessa. Questo movimento è la materialità e l'iterabilità della traccia: il “fuori” è nel “dentro”. Il che non significa affatto affermare il primato della retorica sulla logica, come sosteneva Habermas in un celebre saggio. Derrida ci spinge invece a guardare oltre la logica e la retorica, oltre il “fuori” e il “dentro”, interrogandosi sulla contaminazione essenziale e originaria tra i due poli, «la complicità essenziale dell'empirismo e del formalismo» (p. 55). Questa è precisamente l’operazione trascendentale che la decostruzione ci insegna: mostrare la complementarietà dinamica degli opposti. Non c’è presenza piena o essere pieno o coscienza piena: la différance, nella sua mancanza di sonorità, è questo perenne movimento di superamento, questa oscillazione tra presenza e assenza, identità e differenza, rinvio infinito, ammissione dell’impossibilità della genesi, dell’origine assoluta. Su questa tesi Derrida costruisce il nodo teorico essenziale del suo pensiero, destinato a ripetersi secondo modalità sempre diverse, fino agli scritti più recenti sul dono, sull’ospitalità, sull’universalità, sulla pena di morte o sulle «politiche dell’amicizia».
Se questo è il punto nodale di La disseminazione, tracciarne un bilancio critico è cosa molto più difficile e certamente non può essere fatto in poche pagine. È una banalità dirlo, ma in questo caso è vero: siamo ancora troppo storicamente vicini all’opera del filosofo algerino per poterne avere una visione completa, apprezzandone la complessità in modo positivo – e anche in modo diverso da come Derrida stesso ha l'ha pensata. Dobbiamo procedere per tentativi. Uno di questi – a mio avviso – può essere quello di cercare di far fruttare la creatività del pensiero di Derrida mettendola a contatto con la filosofia analitica, con l'informatica e con le scienze cognitive. Può essere una strada utile non solo per rinnovare le chiavi interpretative che applichiamo a Derrida, ma anche per “disarmare” questi due ambiti, in un senso propriamente filosofico, cioè abituandoli alla torsione concettuale e linguistica della decostruzione che è «l’esporsi – come ha detto Derrida in un'intervista alla fine della sua vita – a ciò di cui non ci si può appropriare: a quel che c’è, prima di noi, senza di noi; c’è qualcuno, qualcosa che (ci) avviene, e che non ha bisogno di noi per avvenire». Compiere un'operazione di questo tipo significherebbe rispettare anche un'altra dimensione cruciale per Derrida: la destinazione, l'invio, la tensione, l'apertura del segno verso il futuro. Leggere Derrida come una lettera inviata alla filosofia futura.
Luca M. Possati
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Esce in edizione italiana, a cura di Francesco Ferrari, Confessare – l’impossibile. “Ritorni”, pentimento e riconciliazione di Jacques Derrida (Cronopio, Napoli 2018), testo che segna uno dei primi e decisivi momenti della riaffermazione, nell’opera derridiana, delle proprie origini ebraiche e dell’eredità ebraico-cristiana. Il testo originale, Avouer – l’impossible. “Retours”, repentir, réconciliation, inizialmente pubblicato negli atti di un convegno del ’98, era stato riedito solo nel 2014 da Galilée trovando luogo editoriale adeguato in coppia con il più noto e recente testo Abramo, l’altro.
Per cogliere l’importanza e il ruolo specifico di Confessare – l’impossibile non solo nell’opera derridiana ma anche nel panorama dell’epoca, nonché per constatare quanto possa ancora interpellarci questo testo, a vent’anni di distanza, bisogna ricollocarlo tra gli altri testi derridiani in cui emerge il riferimento all’ebraicità, ricostruire la sede in cui vede la luce, e per finire accennare al dibattito etico, politico e giuridico in cui si inserisce.
Confessare – l’impossibileha come precedente fondamentale Circonfessione (1991), il primo testo in cui Derrida – che già in passato aveva disseminato riferimenti a temi e autori ebraici – parla in modo autobiografico della propria origine ebraica. Il cambiamento è dovuto a ragioni complesse e stratificate, biografiche e teoretiche, prima tra tutte l’approfondirsi della lettura di Lévinas. Il nostro testo segue, inoltre, Un temoignage donné (1996) intervista (ancora inedita in italiano) compresa in un volume interamente dedicato al rapporto di alcuni intellettuali francesi dell’epoca – di origine ebraica o meno – con l’ebraismo. Precede, infine, il già menzionato Abramo, l’altro (2000), intervento al convegno, Judéités. Questions à Jacques Derrida, ormai direttamente e interamente dedicato a interrogare la o le judéités di Derrida stesso. La riaffermazione di una certa eredità ebraica diventa da questo momento in poi regolarmente presente nell’opera derridiana, intrecciata ad ogni altro tema. Come giustamente afferma il curatore nella puntuale post-fazione, Confessare – l’impossibile costituisce dunque, insieme agli altri testi in cui Derrida parla del proprio rapporto con l’ebraismo, l’«estremo approdo di quella koiné d’intellettuali ebraici diasporici che nel secolo scorso si sono confrontati, su posizione talora antitetiche, con la Judenfrage» (p. 84).
Rispetto agli altri testi, però, la sede in cui vede la luce il nostro testo gli conferisce un’importanza specifica. Esso segna infatti il momento in cui per la prima volta Derrida accetta di prendere la parola pubblicamente da una posizione e in un contesto fino ad allora evitati: in quanto intellettuale ebreo, in un convegno organizzato dalla comunità ebraica, le cui questioni sono rivolte anzitutto al pensiero e alla tradizione ebraica. Si tratta più precisamente della 37esima edizione dei Colloques des intellectuels juifs de langue française, convegni fortemente caratterizzati in senso comunitario, cui, pertanto, molti non si aspettavano che Derrida potesse mai partecipare; lo ricorda egli stesso in apertura del proprio intervento, citando una biografia di Lévinas che ne escludeva a priori la possibilità (p. 19). L’organizzazione, fondata nel ’57 come ramo del World Jewish Congress, era nata per ricostruire dopo la Shoah la comunità ebraica di Francia ed era divenuta in seguito, sotto la direzione di André Néher e Jean Halpérin, un appuntamento prestigioso della scena intellettuale francese, grazie anche alla regolare partecipazione di filosofi come Jankélévitch, Wahl e Lévinas. Il tema scelto per il ’98 è “Come vivere insieme?”, questione che doveva venir affrontata, si legge nell’introduzione agli atti del convegno, attraverso una «dimensione ebraica», certo, ma non «isolata dal resto» (Comment vivre ensemble?, p. 9) in considerazione della portata universale delle questioni in gioco. La scelta di questo tema era sfociata non a caso, si dice ancora nell’introduzione, in un dibattito sul cinquantesimo anniversario dell’adozione della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo da parte delle Nazioni Unite a Parigi (ibidem).
Questo riferimento al contesto storico è da precisare ulteriormente in quanto «quello che accade ogginel mondo» (p. 46) spiega, a detta di Derrida stesso, ragioni e portata del proprio intervento, che prende posizione nel vivo di un dibattito capitale degli anni Novanta, ricostruito efficacemente nella postfazione (pp. 85-92). Da questo punto di vista, Confessare – l’impossibile va idealmente in coppia con Perdonare. L’imperdonabile e l’imprescrittibile, un testo pubblicato nel 2004 ma la cui redazione risale a seminari e conferenze tenute proprio nel ’97/’98, ove le medesime questioni sono ulteriormente sviluppate. Il cinquantenario dei diritti umani coincide infatti con un fatto nuovo e importante proprio per la loro storia: l’inaugurazione della Corte penale internazionale dell’Aja, luogo di competenza giuridica dei “crimini contro l’umanità”, nozione codificata dopo la Shoah dal Tribunale di Norimberga (pp. 48-49). Tale nozione indica crimini in cui la vittima è l’umanità intera, il cui ambito di giudizio è mondiale, sovrastatale e internazionale, e il cui tempo di validità è imprescrittibile, cioè infinito. Il nuovo principio giuridico crea le condizioni per inediti scenari che riarticolano il rapporto tra sovranità nazionale e internazionale, tra etica, politica e diritto: si assiste in quegli anni a una «teatralizzazione della confessione» (p. 46), a diverse scene pubbliche di pentimento e di richiesta di perdono a nome di capi di Stato, ministri, o della Chiesa, e non solo per la Shoah, ma anche per sofferenze inflitte ad altri popoli. Proprio qualche mese prima si conclude la Commissione Verità e Riconciliazione nel Sudafrica post-Apartheid, preceduta da istituzioni analoghe in Cile e in Argentina, in cui traumi nazionali compaiono davanti a un’istanza giuridica sovra-statale e in cui l’accertamento dei crimini non è disgiunto da un difficile processo di riconciliazione nazionale (pp. 50-51).
La scena di questo tribunale/confessionale mondiale costituisce, a detta di Derrida, un momento di «innegabile rottura nella storia del politico, del giuridico, dei rapporti tra le comunità, la società civile e lo Stato, tra gli Stati sovrani, il diritto internazionale e le organizzazioni non governative» (p. 46), un processo che va certamente salutato positivamente, come «progresso irreversibile» del diritto, e, di più, come «l’orizzonte di tutti i progressi a venire del diritto internazionale» (p. 52). Ma questo cambiamento rinvia ad una trasformazione più vasta, e più complessa, del rapporto tra diritto e religione, che Derrida ha altrove inscritto all’interno del «ritorno del religioso» e della «mondialatinizzazione» (Fede e sapere, 1995): ossia l’epoca in cui nozioni provenienti dalla tradizione ebraico-cristiana – la giustizia, la confessione, il perdono – si trovano senza particolare consapevolezza riutilizzate dalla politica e dalla legge, richiedendo dunque un’analisi specifica per coglierne senso, deviazioni, limiti, eventuali manipolazioni.
È dunque a fronte di una tale urgenza teoretica, politica e giuridica, che Derrida sceglie di parlare per la prima volta da intellettuale ebreo franco-algerino, proprio nel contesto dei Colloques, e appunto a proposito del tema di come“vivere insieme”. L’eredità ebraica è convocata anche da lui, dunque, per interrogare il “vivere insieme”, più precisamente alla luce di tale inedita configurazione etico-politico-giuridica. Ecco pertanto che il titolo scelto, Avouer – l’impossible richiama con una variazione significativa quelli di Circonfession e di Un temoignage donné: se confesser rinvia alla confessione religiosa della colpa, e temoignage può indicare l’atto di testimoniare in ambito religioso, etico come in sede processuale, avouer traduce l’ammettere un crimine in sede giuridica (p. 9, cf. anche la nota 1 N.d.C.). Si annuncia quindi l’ambito specifico – etico-politico e giuridico – di tale intervento rispetto ai precedenti testi sull’ebraicità.
La questione è affrontata in un senso più generale, relativo al “vivere insieme”, e poi applicata al dibattito contingente, alla trasformazione in corso nel diritto. Per quanto riguarda il primo punto, la tradizione ebraica è convocata perché, in effetti, il «vivere insieme», il «vivere insieme bene» o «all’insegna del bene» (nota 6 N.d.C., p. 21), è obiettivo che non può essere raggiunto solo in virtù dell’aderenza a un dato di natura, né attraverso i soli strumenti coercitivi e punitivi delle leggi. Solo una Legge al di sopra delle leggi, un’esigenza di giustizia e di pace sovra-giuridica, permette di immaginare come vivere bene insieme. La questione è allora cosa sia questa Legge, e se proprio la tradizione ebraica possa o meno essere la fonte per pensare una tale Legge del vivere insieme bene, se cioè «può un dichiararsi ebreo in qualunque modo esso sia (e ce ne sono tanti), dare un accesso privilegiato a quella giustizia, a quella legge al di là delle leggi» (p. 34).
La risposta alla domanda per Derrida è duplice: da un lato sì, la tradizione ebraica, in effetti è il custode eletto di una Legge al di là delle leggi, che è promessa del bene, della pace, del perdono e della giustizia. «Insieme con tanti ebrei nel mondo, questa cura innocente di compassione (modo fondamentale, ai miei occhi, del vivere insieme), di questa compassione di giustizia e equità (Rahmamin, forse), la rivendicherei se non come l’essenza dell’ebraismo», almeno con qualcosa di «inseparabile» dalla propria memoria ebraica (p. 43). Il riferimento è soprattutto all’ebraismo identificato con la giustizia verso l’altro, lo straniero, da Lévinas, di cui cita un brano di Envers autrui, pronunciato proprio nella medesima sede anni prima (p. 39).
Tuttavia, per Derrida, per poter essere all’altezza di ciò che tale Legge/Giustizia al di là delle leggi impone di pensare, è necessario riaffermare l’ebraicità in un senso paradossale, rifiutando qualsiasi identificazione con l’esser-ebreo e ogni appartenenza alla comunità ebraica. L’«ipotesi» è «che questa dissociazione con sé lo renda al tempo stesso tanto meno ebreo quanto più ebreo» (p. 17): esser-ebreo, rispondere alla Legge, vorrebbe dire rompere l’identità, l’identico, e solo così poter essere aperti all’altro e alla differenza. L’esser ebreo in tal senso contesta ogni Insieme, inteso come sostantivo che indica l’Uno o la Com-unità, e rende possibile il vivere-insieme, inteso come avverbio (p. 15). L’accesso privilegiato a questa ebraicità si rivela essere proprio l’esperienza originaria di un bambino algerino, nato ebreo, cresciuto francofono in un paese arabo-musulmano occupato da cristiani, privo di un’identità semplice, non appartenente a nessuna comunità: ecco la ragione della scelta di presentarsi adesso come «marrano paradossale» o «l’ultimo degli ebrei» (p. 37).
Tornando alla necessità di riaffermare l’eredità ebraica per analizzare le sfide contemporanee del “vivere insieme”, si tratta allora di cercare di capire se il progresso del giuridico di cui si è detto corrisponda o meno all’imperativo di questa Legge custodita dall’ebraismo. Può l’eredità ebraica così intesa contribuire a restare lucidi sui meriti, e gli eventuali limiti, di una tale trasformazione etico-politico-giuridica in corso?
In effetti, la fedeltà all’imperativo ebraico deve condurre a operare una distinzione tra quel che accade in ambito giuridico-politico e quel che accade in ambito mediatico-politico, per giungere a isolare ed ad analizzare la logica etica delle domande pubbliche, e televisive, di perdono e di riconciliazione, che ai processi per crimini contro l’umanità si affiancano o si sovrappongono. Tali “scene” di riconciliazione finiscono infatti, secondo Derrida, con il semplificare una questione etica estremamente più complessa, e cioè con l’identificare l’idea del perdono tout courtcon quella del perdono condizionato e domandato. «L’etica del perdono», invece, è «profondamente divisa da due motivi eterogenei all’interno della tradizione abramitica, ebraica, cristiana e islamica che l’ha tramandata» (p. 58), e non può che esserne lacerata. Una contraddizione indecidibile, un’aporia la definisce e non può essere risolta: da un lato, è giusto che il perdono sia accordato solo a condizione che ci sia confessione di colpa, pentimento e domanda di perdono; dall’altro, la logica “iperbolica” del perdono, con termine di Jankélévitch, vuole che esso venga donato appunto per-dono, cioè in modo assoluto e incondizionato, a prescindere anche dal pentimento dell’altro.
L’eredità ebraica, allora – ma dovremmo dire in realtà abramitica, ebraico-cristiano-islamica – consiste in questo: nel restare vigilanti nei confronti della «profonda cristianizzazione – “hegeliana” in verità – che segna il linguaggio di questa mondializzazione della confessione» (p. 58), in nome di un’idea iperbolica del perdono «che resta eterogeneo nella sua incondizionalità a tutti questi ordini (etico, politico, giuridico) e alle intenzioni di riconciliazione» (p. 61) e che deve rimanere sempre in tensione con ciò che del perdono fenomenicamente può apparire, il perdono condizionato. Per quanto sembri contraddittorio, l’idea incondizionata di perdono va slegata da ogni progetto di riconciliazione: il riferimento, ebraico anch’esso a suo modo, è a Walter Benjamin e al suo accenno ellittico ad un «perdono senza riconciliazione» (p. 65), una tempesta del perdono divino che spira fino alla fine dei tempi, senza confondersi mai con la riconciliazione.
Proprio per questo, l’eredità abramitica consiste infine nel riconoscere nell’enormità del male che attraversa il Novecento una paradossale opportunità di restare fedeli al comandamento incondizionato del bene. Proprio la nozione di imprescrittibile, legata ai crimini contro l’umanità, può essere infatti all’altezza della logica iperbolica del perdono: l’imprescrittibile è l’equivalente giuridico di una riconciliazione impossibile, e sembra dunque apparentemente il corrispettivo dell’imperdonabile tout court. Mentre è proprio il contrario, almeno per Derrida – e se l’affermazione è certamente disturbante e contestabile, è difficile tuttavia non riconoscerne la pertinenza. Seguendo la logica folle, l’eccesso, lo scandalo del comandamento del perdono, è solo l’imperdonabile ad esserne all’altezza: «Al di là del suo codice giuridico e dei suoi limiti penali, il concetto di imprescrittibilità accenna a un Giudizio universale: fino alla fine dei tempi, il criminale (dittatore, torturatore, Stato nazione colpevole di crimini contro l’umanità) dovrà comparire a giudizio e rendere conto. La responsabilità che il colpevole dovrebbe assumere non ha più fine. Per sempre. È di questo impossibile che avrei volute parlarvi come della sola opportunità di perdono» (p. 65).
di Silvia Geraci
Bibliografia
Derrida, J., Abraham, l’autre, in AA. VV., Judéités. Questions pour Jacques Derrida, a cura di J. Cohen e R. Zagury-Orly, Galilée, Paris 2003, pp. 11-42; tr. it. di T. Silla, Abramo, l’altro, a cura di G. Leghissa e T. Silla, Cronopio, Napoli 2003;
Derrida, J., Circonfession, in J. Derrida, G. Bennington,Jacques Derrida, Seuil, Paris 1991; tr. it. di F. Viri, Circonfessione, in G. Bennington, Derridabase– J. Derrida, Circonfessione, tr. di D. De Santis (Derridabase), Lithos, Roma 2008;
Derrida, Un témoignage donné, in E. Weber, Questions au judaïsme. Entretiens avec Elisabeth Weber, Desclée de Brouwer, Paris 1994;
VV., Comment vivre ensemble?, Actes du XXXVII colloque des intellectuels juifs de langue française, Albin Michel, Paris 2001;
Derrida, J., Fede e sapere. Le due fonti della “religione” ai limiti della semplice ragione, tr. it. di A. Arbo, in AA. VV., La Religione. Annuario Filosofico Europeo, a cura di J. Derrida e G. Vattimo, Laterza, Roma-Bari 1995; versione francese Foi et Savoir. Le deux sources de la « religion » aux limites de la simple raison. Suivi par Le Siècle et le Pardon, Seuil, Paris 2000;
Derrida, J., Pardonner: l’impardonnable et l’imprescriptible, “Cahiers de l’Herne”, 83, 2004; Jacques Derrida; tr. it. a cura di L. Odello,Perdonare. L’imperdonabile e l’imprescrittibile, Cortina, Milano 2004.
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Nel 1996 Lev Manovich, in polemica con le derive commerciali della computer art, pubblica un articolo su Rhizome in cui contrappone la terra di Duchamp e la terra di Turing: se per il teorico dei nuovi media l’arte dopo Duchamp è sostanzialmente autoreferenziale, autoironica, complicata e orientata al contenuto, quella che utilizza le nuove tecnologie dell’informazione è invece semplice, incentrata sulla forma e rispettosa del proprio medium (qui inteso come dispositivo). Questa divaricazione fra le due terre, però, che in Duchamp Meets Turing Gabriela Galati si pone l’obbiettivo di ricongiungere, si basa su un presupposto dualismo fra contenuto e forma che, opponendo realtà e rappresentazione, rimane incapace di cogliere le modalità performative dell’arte inaugurate da Duchamp ma proprie anche degli ambienti mediali digitali, e considerare così la linea di confine fra le due “terre” come un medium connettivo (e anzi generativo) invece che come un taglio insanabile.
Facendo implodere la costellazione di dicotomie che ha sostanziato la nozione di rappresentazione tradizionale, fondativa del canone moderno e solo apparentemente superata in quello postmoderno, diventa invece possibile cogliere la dimensione incarnata dell’informazione e, per converso, quella informata della materia, ovvero i feedback loop che modulano i collegamenti fra attori umani e non umani in ambienti immersivi e dinamici insieme fisici e virtuali, dove corporeità e cognizione si performano continuamente in relazioni mediate e processi contingenti e distribuiti (pp. 15-16), come ben esemplifica uno dei casi di studio più interessanti scelti da Galati, la performance Excellences and Perfections realizzata su Instagram da Amalia Ulman fra l’Aprile e il Settembre del 2014 (pp. 72-77).Sospesi nella cesura tra originale e copia, segno e cosa, mente e corpo, il Soggetto (un soggetto che sappiamo adesso riconoscere come marcato e posizionato, appartenente alla tradizione umanista e liberale dell’Occidente) l’oggetto e il medium sono rimasti, invece, sostanzialmente divisi. In Duchamp Meets Turing, Galati propone una radicale revisione di una serie di nozioni chiave (ripetizione, simulacro, archivio, incoporazione e medium) che hanno contribuito a produrre questa interminabile catena di duplicazioni adoperate per giustificare “rappresentazionalmente” la rappresentazione – e confluite nella divaricazione fra analogico e digitale, servendosi di alcuni fondamentali antidoti teorici quali la ripetizione o la piega di Deleuze, la différance di Derrida, il postumano di Hayles, o il modello semiotico triadico di Pierce. L’obiettivo dell’autrice non è tanto quello di rintracciare una continuità delle espressioni artistiche negli ambienti digitali, né quello di garantire nuova legittimità al discorso estetico sul digitale, quanto piuttosto quello di scovare il “punto cieco” (p. 18) a partire dal quale l’umano e il macchinico avrebbero potuto ritrovarsi nel mezzo, e invece si sono ritrovati uno di fronte all’altro, pur se – ma solo in apparenza – sembrerebbe sia stato il contrario. Ma immaginare l’umano come una macchina, controllando il passaggio delle informazioni nel corpo per la gestione del suo equilibrio e del suo potenziamento (si veda la prima formulazione della teoria del cyborg di Clynes e Kline (1960), oppure la macchina come un umano, testando fino a che punto può spingersi l’intelligenza di un computer, secondo le interpretazioni prevalenti del test di Turing (la cui iniziale componente performativa e di genere è stata quasi subito assorbita in quella cognitivista-rappresentazionale), sono operazioni che presuppongono entrambe una scissione sostanziale fra l’umano e la macchina, e che possono soltanto contemplare una loro analogia o una loro reciproca sostituzione (con tutte le derive tecnoutopistiche o tecnodistopiche che ciò ha comportato), ma mai la loro coimplicazione (vedi p. 86).
Per Galati, questo punto cieco – che è anche il paradossale punto di vista di nessun soggetto in particolare, ma a partire dal quale ogni soggettività può essere costituita – è proprio il ready-made di Duchamp, che riprendendo la nozione di Lévi-Strauss, l’autrice definisce “significante fluttuante dei media” (p. 148), ovvero un medium vuoto potenzialmente riempibile in modi sempre diversi, piuttosto che qualcosa di fatto e finito stando a una traduzione letterale del termine. Un medium che si presta a spiegare il funzionamento anche dei processi digitali partendo dall’idea di un soggetto e un oggetto emergenti nel mezzo, relazionali e assemblati come quelli che popolano le riflessioni sul postumano e sul cyborg di autori come Haraway, Hayles o Caronia. Nel ready-made, l’opera d’arte si libera finalmente dalla tirannia del referente esterno di cui sarebbe segno e copia, e acquisisice una medialità immanente e radicale, senza punti di partenza né approdi (si veda la recente riflessione di Grusin in proposito).
L’intera operazione duchampiana, che ha nel ready-made il suo fulcro, è una rivolta contro lo statuto retinico dell’arte, che travolge a un tempo l’idea di estetica come contemplazione, di pittura come produzione di oggetti (unici) per un mercato e di spettatore come soggetto esclusivamente guardante, nonché il privilegio della visione (disincarnata) sugli altri sensi. Con Duchamp, l’opera cessa di essere rappresentazione e diventa medium perché il medium scavalca il privilegio del significante e anche del significato come dati nel testo e, passando al contesto, “esplode” (Krauss cit. in Galati, p. 188) facendosi processo – in quanto evento, e non stato, sempre diversamente ripetibile (pp. 62-66). Nell’“indifferenza visiva” del ready-made come opera che non viene fatta il medium non coincide con gli strumenti tecnici della pittura (supporto e pigmenti), come al contrario ribadirà Greenberg sostenendo il primato del significante nell’“esperienza puramente ottica” della pittura, né d’altra parte il ready-made come opera senza autore può essere il contenitore di un messaggio. In tal senso, la difesa duchampiana dell’arte concettuale contro l’arte “animale” come arte che piace più facilmente non va letta come un suo rifiuto della materialità, ma pittosto della piena comunicabilità dei valori che l’arte sarebbe in grado di veicolare una volta per tutte, e del gusto che questi fonderebbero a partire dalla “callistica” dominante.
Duchamp, anzi, definisce coefficiente d’arte il rinvio, lo scarto tra ciò che nell’arte si progetta e ciò che accade, tra intenzione e risultato, ovvero tra controllo e casualità, una nozione che ben si presta a essere letta all’interno di un approccio performativo come quello proposto da Galati, in cui ogni opera è attualizzazione sempre diversa di un “nodo di tendenze” (Lévy cit. in Galati, p. 120) che ne costituisce la virtualità senza fondo. Potremmo dire, allora, che il ready-made esplora il medium come interfaccia, incontro, appuntamento casuale, resi possibili da una trasparenza che, come quella de Le Grand Verre (La Mariée mise à nu par ses célibataires, même, 1915-1923) – tecnicamente non un ready-made ma operante secondo la medesima logica –, non allude a una leggibilità, quanto piuttosto alla necessità dell’attraversamento e del rimando, una trasparenza che partendo dal contesto e attraversando il testo riporta ancora, ma sempre diversamente, al contesto. Trasparenza impura, soggetta al caso che può incrinarla, come effettivamente accadde a Le Grand Verre – opera aperta per eccellenza, mai più riparata né finita – durante un trasporto, o persino opacizzarla, come testimonia Elévage de Poussière di Man Ray, fotografia del 1920 (a sua volta ready-made elevato a potenza) che ci mostra un Vetro appena riconoscibile, in posizione orizzontale e ricoperto da uno spesso strato di polvere. Qui, come anche in un’altra opera “indicale” duchampiana, Tu m’ (1918), la trasparenza si trasforma addirittura in traccia, differimento della presenza, impossibilità dell’origine, direbbe Derrida.
“L’arte è una condizione, una condizione eraclitea di continuo mutamento, no?”, dice Duchamp a Dore Ashton in un’intervista del 1966. Una condizione ready-made, dunque, fluttuante e in divenire, che istituisce lo sguardo (e il suo soggetto) altrove ogni volta, perché sempre già in ritardo o ancora in anticipo rispetto a ciò che è.
di Federica Timeto
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Tra le scuole di pensiero marcatamente connotate dalla presenza di un capostipite fondatore – si pensi alla fenomenologia di Husserl, all’ermeneutica di Heidegger, e alla biopolitica di Foucault – oggi è forse la decostruzione a godere della più vasta pervasività; e non tanto per intensità e clamore mediatico, quanto piuttosto in termini di tacita assunzione e di capillarità. A nostro modo di vedere, ciò è potuto accadere poiché, situandosi a cavallo di istanze epistemologico-metodologiche e di ipotesi ontologiche forti, il pensiero di Derrida ha raggiunto lo statuto di referente teorico ineludibile, sia dal punto di vista dei detrattori sia da quello dei più strenui fautori. Equipaggiando la filosofia di un metodo critico di lettura e riscrittura, così come, al contempo, drenando dai bacini delle filosofie decostruite operatori concettuali dormienti, la decostruzione ha fornito strumenti e spazi di disputa. È divenuta cioè il teatro ideale di animate discussioni, tanto interne, volte ad affinare la lettura degli stessi testi derridiani, quanto esterne, ossia vertenti sulla possibilità o meno di applicare le procedure e le nozioni decostruttive in relazione a prospettive di diverso lignaggio. Ora, è esattamente in direzione di questo doppio binario che si inserisce il recente lavoro di Francesco Vitale, Biodeconstruction. Jacques Derrida and Life Sciences (Suny Press, 2018). Frutto di un’attenta ricerca filologica, capace di coordinare l’approccio storico-ricostruttivo con quello più spiccatamente propositivo, il testo di Vitale si situa a pieno titolo tra i lavori della “scuola” decostruttiva progressista, intendendo con questa espressione quel filone di studi derridiani – di cui Rodolphe Gasché è probabilmente il nume tutelare – impegnati a manifestare fedeltà metodologica alla decostruzione, tramite un’espansione della sua area di operatività. Dopotutto il volume di Vitale, come si vedrà, cerca di assecondare quello che fu l’auspicio stesso di Derrida: preservare la singolarità del gesto decostruttivo tradendone però, di volta in volta, i limiti epistemici.
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Extra#2 \ TURNS. Dialoghi tra architettura e filosofia
Extra / Febbraio 2018TURNS. Dialoghi tra architettura e filosofia è la traccia di un dialogo spesso acceso, ricco di incomprensioni e riconciliazioni, che coinvolge architetti e filosofi, docenti e professionisti, e ancora biologi, dottori di ricerca, studenti. È il racconto di due discipline, architettura e filosofia, che si voltano per guardarsi reciprocamente, provando a innescare una svolta concettuale che deve divenire un nuovo punto di partenza. Precisamente questo è il doppio significato del termine “Turns”.
Da un lato infatti, il filosofo ha sempre avuto difficoltà a interloquire con l’architetto, sia per ragioni storiche sia per ragioni strettamente legate al suo metodo e ai suoi obiettivi. L’architetto sembra infatti presentarsi allo sguardo del filosofo come un personaggio al contempo perturbante e conturbante, in un misto di attrazione e biasimo, di invidia e ammirazione: una figura tanto sfuggente da investire la riflessione filosofica con effetto retroattivo, facendo scricchiolare le sue fondamenta concettuali e mettendo in dubbio nozioni fondamentali quali verità, libertà, realtà, conoscenza, invenzione, possibilità, necessità, che hanno rappresentato per secoli il lessico base del pensiero occidentale. L’interesse verso una simile figura sembrerebbe ovvio. Eppure, quasi sempre è il filosofo che viene interpellato, utilizzato o coinvolto nel lavoro dell’architetto, in molti casi con l’intento di distillare spazialmente il senso dei suoi discorsi nel progetto. Non che ciò sia impossibile, ma, forse, dovremmo domandarci se è proprio questo quello che vogliamo: o se invece non sia compito del filosofo esercitare una sistematica e implacabile strategia di provocazione interessata, al fine di produrre un effetto, una particolare condizione dello sguardo. Creare la crisi, mettendo in discussione ciò che è dato, sapendo che, come spesso accade, l’apertura verso un nuovo oggetto di conoscenza lascia insoluti quei quesiti che lo vedono direttamente implicato per produrre un effetto retroattivo di chiarificazione nel soggetto indagatore, impegnato a leggersi ora attraverso una nuova forma di mediazione.
Dall’altro lato, per l’architettura il rapporto con la filosofia è storicamente naturale, quasi che questa fosse una visione complementare sul mondo rispetto al suo operato: questo era possibile perché la società si evolveva in modo relativamente lento, attraverso sedimentazioni di usi che diventavano convenzioni sociali, di pensiero, di stile. Così andava nell’architettura egizia, in quella classica, nel medioevo, nel rinascimento, finanche nel Modernismo: i significati erano decifrabili perché si condivideva un sostrato convenzionale. Ma qualcosa è cambiato. Le correnti durano pochi anni: poi passano, come le mode, spesso senza lasciar traccia – tranne edifici già superati, ovviamente. Così, spariscono le teorie dell’architettura, cioè sistemi che dicano cosa sia giusto costruire. E senza una teoria che legittimi le scelte, fioriscono le retoriche e le poetiche personali, spesso così ridicole da essere persino (e giustamente) oggetto di satira. La condizione di fragilità dell’architettura contemporanea è ormai fisiologica. Ed è qui che la filosofia diventa non solo utile, ma necessaria. A patto, certo, di non usarla in senso analogico, con derivazioni dirette che trasformano concetti in forme e pensieri in stili. Dialogare con i filosofi serve perché essi ragionano su temi che, in qualche modo, toccano gli architetti – ad esempio, lo spazio, l’invenzione, la città, la generazione della forma, il potere. Capire qualcosa di quei temi aiuterà a progettare con una maggior consapevolezza, o una più approfondita convinzione sulle ragioni del progetto, e a capirne meglio effetti ed esiti.
A cura di Carlo Deregibus e Alberto Giustiniano
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DOI: https://doi.org/10.13135/2385-1945/1.2018
Pubblicato: gennaio 2018
Indice
Alberto Giustiniano - ARCHITECTURAL TURN. Il filosofo e le sfide del progetto [PDF It]
Carlo Deregibus - PHILOSOPHICAL TURN. Fragilità dell’architettura contemporanea [PDF It]
(S)Block-Seminar
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DA LASCAUX AI JUNKSPACE
Giovanni Leghissa - Da Lascaux ai junkspaces (passando per Ippodamo da Mileto) [PDF It]
Giovanni Durbiano – Descrivere il progetto dello spazio [PDF It]
Riccardo Palma – Molteplicità e non naturalità degli spazi nella produzione del progetto di architettura [PDF It]
RIFERIMENTI di Andrea Dutto [PDF It]
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DECOSTRUZIONE, IMMANENZA, ILOMORFISMO
Giulio Piatti – Simondon e Deleuze di fronte all’ilomorfismo. Appunti sul rapporto forma-materia [PDF It]
Carlo Deregibus – Appunti su Chōra, spazio e architettura. Da Platone a Derrida [PDF It]
Paola Gregory – Le nuove scienze e la conquista dell’informale [PDF It]
Riccardo Palma – L’assenza necessaria dell’architettura [PDF It]
RIFERIMENTI di Andrea Canclini [PDF It]
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FENOMENOLOGIA E PROGETTO
Claudio Tarditi – Fenomenologia e architettura. Introduzione al problema della percezione spaziale in Edmund Husserl [PDF It]
Alberto Giustiniano – Tempo, forma, azione. Il senso del progetto nel dialogo tra Enzo Paci e Ernesto Nathan Rogers [PDF It]
Silvia Malcovati – Per un razionalismo relazionale [PDF It]
Carlo Deregibus – L’orizzonte del progetto e la responsabilità dell’architetto [PDF It]
RIFERIMENTI di Federico Tosca [PDF It]
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MORFOGENESI E AUTOORGANIZZAZIONE
Veronica Cavedagna & Danilo Zagaria - Quale spazio per la morfogenesi e l'auto-organizzazione? [PDF It]
Paola Gregory – Morfogenesi architettonica e “vita artificiale” [PDF It]
Carlo Deregibus – Progetto e complessità. Fascino dell’analogia e libero arbitrio [PDF It]
RIFERIMENTI di Edoardo Fregonese [PDF It]
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ANTROPOGENESI E COSTRUZIONE DELLO SPAZIO
Roberto Mastroianni – Regimi dello sguardo. Sloterdijk e la metafora spaziale [PDF It]
Alessandro Armando – La scrittura del futuro e la promessa del progetto [PDF It]
Daniele Campobenedetto – Leggibilità e materialità dello spazio [PDF It]
RIFERIMENTI di Federico Cesareo [PDF It]
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POTERE E SPAZIO
Luigi Giroldo – Genealogie dello spazio contemporaneo. Utopie moderne e nascita dell’urbanistica [PDF It]
RIFERIMENTI di Andrea Canclini [PDF It]
BIBLIOGRAFIA
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Derrida lettore di Celan
Sconfinamenti, Serial / Ottobre 2017Il primo libro di Jacques Derrida interamente dedicato a un poeta appare nel 1986 e concerne Paul Celan. Si tratta del testo di una conferenza pronunciata due anni prima a Seattle, nel corso di un convegno internazionale. Cominciamo con l’esplicitare il titolo del volumetto, Schibboleth. Esso riprende quello di una poesia celaniana, ma il vocabolo – come il filosofo non manca di ricordare – ha origini assai più remote, che risalgono all’Antico Testamento. In un passo del libro dei Giudici, si narra ciò che avvenne dopo una battaglia vinta dai Galaaditi contro gli Efraimiti: «E Galaad bloccò i guadi del Giordano agli Efraimiti, in modo che quando qualcuno dei fuggitivi di Efraim diceva: “Fatemi passare!” gli uomini di Galaad gli chiedevano: “Sei tu di Efrata?” ed egli rispondeva: “No!”. Però quelli insistevano: “Di’ Schibboleth”; l’altro invece rispondeva “Sibboleth!” poiché non riusciva a pronunciarlo bene. Allora lo afferravano e lo sgozzavano nei guadi del Giordano, tanto che in quel giorno caddero uccisi quarantaduemila Efraimiti». Ecco come una parola in apparenza innocua (schibboleth in ebraico significa «spiga» o «torrente») può assumere risonanze sinistre, dato che la sua pronuncia scorretta, in una particolare circostanza bellica, fu sufficiente a causare una morte immediata e cruenta. Più tardi, però, nella cultura europea, il senso del vocabolo è cambiato, venendo ad assumere l’accezione più ampia e neutra di «segno di riconoscimento», «parola d’ordine». Così, per limitarci a ricordare due autori ben noti a Derrida, Hegel può scrivere che «l’odio per la legge, per il diritto legalmente determinato, è lo schibboleth con cui si rivelano il fanatismo, l’imbecillità e l’ipocrisia», oppure Freud può indicare nella distinzione tra coscienza e inconscio il «primo schibboleth della psicoanalisi».
Nel libro viene introdotto subito il tema che sta particolarmente a cuore al filosofo, ossia quello del rapporto tra la scrittura poetica e i richiami al tempo cronologico. Questo fa sì che a Derrida appaia inopportuno «dissociare da una parte gli scritti di Celan a proposito della data, quelli che nominano il tema della data, e dall’altra i tracciati poetici della datazione». La frase richiede qualche chiarimento, nel senso che non esistono testi di Celan incentrati sul tema della data, benché qualche accenno ad esso compaia nei rari pronunciamenti pubblici del poeta; inoltre conviene specificare che, parlando di «tracciati poetici della datazione», Derrida non allude soltanto al fatto che, nella loro versione manoscritta, le liriche di Celan sono spesso datate con precisione, ma anche ai riferimenti a date (antiche o recenti, private o storiche) che compaiono all’interno dei suoi versi.
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A cura di:
Giuseppe Zuccarino è critico e traduttore. Ha pubblicato vari saggi: La scrittura impossibile, Genova, Graphos, 1995; L’immagine e l’enigma, ivi, 1998; Critica e commento. Benjamin, Foucault, Derrida, ivi, 2000; Percorsi anomali, Udine, Campanotto, 2002; Il desiderio, la follia, la morte, ivi, 2005; Il dialogo e il silenzio, ivi, 2008; Da un’arte all’altra, Novi Ligure, Joker, 2009; Note al palinsesto, ivi, 2012; Il farsi della scrittura, Milano-Udine, Mimesis, 2012; Prospezioni. Foucault e Derrida, ivi, 2016. Tra i libri da lui tradotti figurano opere di Mallarmé, Bataille, Klossowski, Blanchot, Caillois e Barthes. Ha inoltre curato un fascicolo monografico della rivista «Riga» (n. 37, 2017) dedicato a Maurice Blanchot.
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Scrivere tra le pieghe. Nancy e Hantaï
Sconfinamenti, Serial / Febbraio 2017Tutto inizia con un duplice paradosso. Da una foto scattatagli da Antonio Semeraro nel 1994, il pittore Simon Hantaï ritaglia un particolare (che mostra le ginocchia, sformate e impolverate, dei propri pantaloni) e lo glossa sul retro con la scritta: «Ho passato la vita a quattro zampe. Scultura fatta dal corpo (Duchamp). Autoritratto, dunque». Se già questa, come immagine o sineddoche di sé, appare sorprendente, non lo è meno l’inclusione del particolare fotografico in un libro del filosofo Jean-Luc Nancy dal titolo Le Regard du portrait, accanto ad altre riproduzioni, quasi tutte di ritratti o autoritratti tradizionalmente intesi. Certo, considerando che il pittore ungherese ha dipinto gran parte delle proprie tele non su un cavalletto ma appoggiandole sul pavimento dell’atelier, si capisce in quale senso egli possa vedere nel dettaglio della foto un’immagine eloquente di se stesso. Da parte sua, Nancy prende sul serio tale definizione di ‘autoritratto’ perché si rende conto che, nell’arte contemporanea, la centralità dello sguardo della persona raffigurata si perde spesso a favore di più indirette rappresentazioni del soggetto, o di nuovi e imprevisti trattamenti «del sub e del getto (del supporto e della pittura)». In ogni caso, quando il filosofo si rivolge ad Hantaï per chiedergli l’autorizzazione a inserire nel proprio libro la foto dei pantaloni, probabilmente non immagina che la risposta positiva del pittore sarà all’origine di un carteggio fra loro destinato a durare anni e a essere pubblicato in due distinti volumi. Le lettere presentano un carattere personale e spontaneo ma, nel contempo, offrono utili spunti di riflessione. L’artista, infatti, è anche un lettore di testi filosofici, antichi e recenti, dunque in grado di dialogare senza imbarazzo col suo interlocutore. SCARICA IL PDF
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Giuseppe Zuccarino è critico e traduttore. Ha pubblicato vari saggi: La scrittura impossibile, Genova, Graphos, 1995; L’immagine e l’enigma, ivi, 1998; Critica e commento. Benjamin, Foucault, Derrida, ivi, 2000; Percorsi anomali, Udine, Campanotto, 2002; Il desiderio, la follia, la morte, ivi, 2005; Il dialogo e il silenzio, ivi, 2008; Da un’arte all’altra, Novi Ligure, Joker, 2009; Note al palinsesto, ivi, 2012; Il farsi della scrittura, Milano-Udine, Mimesis, 2012. Tra i libri da lui tradotti figurano opere di Mallarmé, Bataille, Klossowski, Blanchot, Caillois e Barthes.
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Alla voce “posthumanism” Wikipedia elenca sette possibili sfumature semantiche del termine, tutte riconducibili a diverso titolo a questa controversa nozione: si menzionano l’anti-umanismo, il postumanismo culturale, il postumanismo filosofico, la condizione postumana, fino ad arrivare ai massimalismi di transumanismo, Al Takeover ed estinzione volontaria dell’uomo. Ora, senza entrare nel merito di questa catalogazione – che come tale implica una certa arbitrarietà – cercheremo di presentare il saggio di Antonio Lucci Umano Post Umano (Inschibboleth, 2016), azzardandone una collocazione all’interno del cosiddetto postumanismo filosofico. Premessa: “postumano” indica un ambito delle scienze umane distante da una stabilizzazione disciplinare; i margini tematici a cui richiama sono sfrangiati ed estremamente porosi, continuamente soggetti a sconfinamenti e ampliamenti epistemici – di carattere sia inclusivo sia esclusivo. Dagli anni ’70 fino a oggi, infatti, l’idea di poter parlare di “postumano” nei termini di una questione culturalmente rilevante ha fatto sì che il sintagma “post” – su cui pesa tutta la portata della sua novità concettuale – divenisse l’oggetto di innumerevoli branche delle humanities. Con buona probabilità il motivo di questa fortuna è dipeso dal fatto che parlare di post-umano significhi, più o meno consapevolmente, testare la tenuta di un’idea di scienza – “umana” appunto – che mai come oggi pare minacciata da un preoccupante autosuperamento. L’espressione post-umano effettivamente, come ricorda anche Wikipedia, richiama tanto all’idea di crisi quanto alla categoria generale del “salto al di là”, sia storico (after Humanism) che locale (beyond Humanism). Posthumanism va dunque maneggiato come si maneggia un sintomo, concertando prudenza e perizia. Sarebbe eccessivamente sbrigativo liquidare l’emersione prepotente di questa nozione riducendola a un che di passeggero o magari, per additarne l’inconsistenza, a un evanescente fenomeno mediatico. E’ vero, la confusione non manca: l’oggetto su cui si dibatte rimane il più delle volte nascosto dietro un’impenetrabile cortina di nebbia concettuale; le metodologie di analisi talvolta si combinano seguendo giustapposizioni naïf, talaltra si arroccano su anguste posizioni protocollari figlie di specialismi nati l’altro ieri. Eppure, come vedremo, navigando a vista tra interdisciplinarità e tecnicismo, è ancora possibile mantenere un certo equilibrio, tale da consentirci di formulare una risposta plausibile alla domanda “cosa significa postumano?”.
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Una questione di scarpe. Derrida e Van Gogh
Sconfinamenti, Serial / Maggio 2016Il capitolo finale del volume di Jacques Derrida La vérité en peinture reca l’etichetta Restitutions – de la vérité en pointure. Essa ovviamente implica un calembour sul titolo del libro: infatti i due termini peinture e pointure sono quasi omofoni, anche se si differenziano sul piano del significato, dato che il secondo indica in francese la misura di un paio di scarpe. Questo testo derridiano è costruito in maniera inusuale, ossia come un dialogo a più voci, in cui i parlanti restano indeterminati. Si inizia con qualcuno che osserva: «Non ricordo più chi diceva “non ci sono fantasmi nei quadri di Van Gogh”? Invece qui c’è proprio una storia di fantasmi». Per dimostrare ciò, Derrida mette a confronto due autorevoli interpretazioni di un dipinto dell’artista olandese che raffigura un paio di scarpe slacciate. Gli interpreti in questione, Heidegger da un lato e lo storico dell’arte americano Meyer Schapiro dall’altro, sono accomunati dal fatto di chiedersi a chi appartengano tali scarpe, quasi fosse necessario restituirle al legittimo proprietario. Per il filosofo tedesco, che evoca il dipinto nel saggio L’origine dell’opera d’arte, a essere in causa è senz’altro «un paio di scarpe da contadino». Ma poiché egli non ha indicato con precisione nel suo testo a quale fra i vari quadri di Van Gogh raffiguranti scarpe si riferisse, Schapiro glielo ha chiesto per via epistolare, appurando che si trattava dell’opera (databile alla seconda metà del 1886) che reca il numero 255 nel catalogo compilato da Jacob Baart de la Faille. Basta questo a Schapiro per dedurre che le calzature raffigurate nel quadro non appartenevano a un qualche contadino bensì al pittore stesso, che in quel periodo risiedeva in città, a Parigi...Scarica il PDF
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Giuseppe Zuccarino è critico e traduttore. Ha pubblicato vari saggi: La scrittura impossibile, Genova, Graphos, 1995; L’immagine e l’enigma, ivi, 1998; Critica e commento. Benjamin, Foucault, Derrida, ivi, 2000; Percorsi anomali, Udine, Campanotto, 2002; Il desiderio, la follia, la morte, ivi, 2005; Il dialogo e il silenzio, ivi, 2008; Da un’arte all’altra, Novi Ligure, Joker, 2009; Note al palinsesto, ivi, 2012; Il farsi della scrittura, Milano-Udine, Mimesis, 2012. Tra i libri da lui tradotti figurano opere di Mallarmé, Bataille, Klossowski, Blanchot, Caillois e Barthes.
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Ancora troppo umani. Il postumano di Giovanni Leghissa
Recensioni / Ottobre 2015Nel suo saggio Postumani per scelta. Verso un’ecosofia dei collettivi, ospite della collana “Spiritualità senza Dio?” diretta da Luigi Berzano, Giovanni Leghissa dà unitarietà a un tema che ormai lo vede occupato da alcuni anni (La fondazione, la fondazione dell’umano, il post-umano, 2013; Il postumano: un nuovo paradigma?, 2013; curatela di aut aut, La condizione postumana, 2014). Nonostante la brevità del saggio, l’autore si propone di soddisfare la duplice esigenza teorica di inquadrare da più vicino lo sfuggente dibattito sulla questione postumana e, insieme, di estrarne una possibile interpretazione critica. Così, alla messa in ordine di linee guida di una discussione spesso frammentaria, si affianca l’argomentazione di una tesi, frutto dell’incontro di assi di ricerca eterogenei ma convergenti. Le fonti e le questioni interpellate sono infatti numerose e provenienti dalle più disparate aree del sapere filosofico. Tra i “maestri” e le tradizioni di pensiero che vediamo avvicendarsi figurano l’illuminismo, l’evoluzionismo, la filosofia francese del dopoguerra, l’epistemologia, la fenomenologia husserliana, l’idea di un sapere enciclopedico alla Enzo Paci, la decostruzione e l’antropologia filosofica di Hans Blumenberg. Come dichiara l’autore, si tratterà allora di seguire questi molteplici stimoli nell’intento di definire la condizione postumana in termini filosofici, individuando e descrivendo schematicamente gli atteggiamenti caratteristici del suo approccio.
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La macchina ineludibile
Longform / Aprile 2015In un testo apparso nel 1992 in un volume collettivo, «Nous autres Grecs», Jacques Derrida, riferendosi all’intero gruppo dei filosofi oggi noti come post-strutturalisti, osserva che essi si raccolgono «sotto il segno della differenza, e di una differenza, così come di un simulacro, non dialettizzabile». Dopo aver sottolineato quella che definisce «tale resistenza, io direi quasi tale allergia, ma non opposizione, tale risposta testarda (differenziale, non dialettica) alla dialettica», conclude:
Questa resistenza è in comune non soltanto a Deleuze e a me […], ma anche a Foucault, Lyotard e altri ancora. È stata conquistata, si potrebbe dire strappata, sempre senza fine, a un dialetticismo ereditato. Ciò che essa ha – piuttosto che rovesciato – spostato, deformato, non è stata soltanto la dialettica hegeliana, neo-hegeliana o marxista, è stata in primo luogo la dialetticità di provenienza platonica. (Derrida, 1992a, p. 257-258).[1]
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Jean-Luc Nancy – Dov’è successo?
Recensioni / Febbraio 2015Il tema dell'archivio, oggetto dell'intervista di Nathalie Léger a Jean-Luc Nancy qui proposta in traduzione italiana a cura di Igor Pelgreffi, acquista nel corso del Novecento una sempre maggiore autonomia dalle discipline che se ne sono occupate tradizionalmente, in primo luogo la storia e la filologia. Dal punto di vista filosofico, emerge così progressivamente la domanda sul senso dell'archivio e sugli effetti che esso può determinare sulle opere e sull'immagine stessa di un autore. In altre parole, come ricorda il curatore in apertura del saggio introduttivo, «come esaminare il passato del proprio lavoro? Qual è la sua materia, quali sono i suoi oggetti? Qual è la parte della cancellazione e della distruzione? Come iniziare con ciò che resta?» Innanzitutto, ogni archivio è un luogo. Non solo nel senso dello spazio fisico in cui sono raccolte le opere di uno o più autori, ma uno spazio entro cui sono possibili certe operazioni intellettuali: infatti, se da un lato l'archivio rappresenta una risorsa insostituibile nel processo di analisi del pensiero di un filosofo, nella conservazione delle sue opere e nella costruzione della sua immagine futura, dall'altro lato esso apre una serie di interrogativi filosofici inediti, relativi al funzionamento dell'archiviazione, al suo duplice carattere di mantenimento e perdita, al momento a partire dal quale si può dire di aver davvero archiviato qualcosa. In sintesi, dove e a chi (o a cosa) accade l'archiviazione? È questo l'interrogativo di fondo attorno a cui si snoda tutto il discorso di Nancy, d'ispirazione decostruttiva, qui presentato. Come osserva acutamente Pelgreffi, «non possiamo comprendere l'archivio se non immaginiamo un intreccio fra spazio dell'archivio e tempo dell'archivio così come fra spazio dell'archiviazione e tempo dell'archiviazione, cioè quello che, in termini derridiani, potremmo pensare come una différance spazio-temporale, nel senso di una spazializzazione del tempo e di una temporalizzazione dello spazio.» Ed è senza dubbio in consonanza col pensiero di Derrida che Nancy costruisce il proprio discorso sull'arché e sull'istituzione dell'archivio, col risultato - paradossale, come quasi sempre accade seguendo un approccio derridiano o,
come in questo caso, post-derridiano - che proprio l'“oggetto archivio”, la cui istituzione è segnata da un luogo e una data, finisce per essere l'elemento meno stabile per determinare la nostra relazione col passato. Piena continuità, dunque, col testo di Derrida Mal d'archive, di cui questo discorso di Nancy rappresenta idealmente la prosecuzione. Infatti, Nancy condivide la preoccupazione derridiana di una possibile riduzione dell'archivio al mito del “ritorno all'origine”, in altre parole l'istituzione di un luogo a cui consegnare il passato dell'autore, il suo tempo perduto. Al contrario, osservano Derrida e Nancy, non esiste alcuna origine piena da poter rendere presente e disponibile, ma soltanto l'archiviazione che permette di rinvenire la traccia dell'origine. Come osserva Pelgreffi, da tale confronto con Derrida emerge che il soggetto non è diviso tra due mondi, quello interno e quello sociale, ma è preso nel processo di riassorbimento e rigenerazione delle forme soggettive che dà luogo all'archivio, precedendo dunque ogni dualismo tra interiorità ed esteriorità. Ne consegue che il datum documentale non è un atomo, ma un'unità differenziata, ibrida, divisa originariamente nei suoi elementi giuridici, etici, politici ed esistenziali. Ma se Nancy richiama esplicitamente Derrida, intreccia altresì un dialogo “silenzioso” con Foucault, per il cui pensiero, com'è noto, la nozione di archeologia è di primaria importanza. Dal suo punto di vista, l'archivio permette di chiarire il nesso tra sapere e potere che si manifesta in ogni discorso: in questo senso, l'archivio non è soltanto il luogo fisico dove rinvenire tutte le informazioni su uno o più autori, ma «il sistema generale della formazione e della trasformazione degli enunciati.» In altre parole, secondo Foucault l'archivio si pone a metà strada tra il trascendentale e l'empirico, dà luogo a un ordine terzo rispetto al puramente ideale - la ragione come archetipo perfetto dell'archivio - e all'assolutamente empirico, sciolto da ogni regola discorsiva.
Questo duplice dialogo con Derrida e Foucault induce a evidenziare anche un altro fil rouge del testo di Nancy: la questione dell'alterità. Infatti, nell'istituzione dell'archivio è già sempre coinvolto l'altro, in modo tale che la domanda sull'archivio implica anche sempre la questione del rapporto tra archiviazione, estraneità e istituzione. Come ha osservato molte volte Derrida, qualunque processo di istituzione conserva una traccia di ciò che esclude, cioè di quell'estraneità che sceglie originariamente di estromettere dall'istituzione o dall'archiviazione. In sintesi, per dotarsi di una qualche identità, l'archivio, nell'atto della sua istituzione, è costretto a relazionarsi con ciò che sceglie di non archiviare. Deve nominarlo, assumerne le sembianze, in modo tale che può accadere che sia proprio l'escluso dall'archiviazione ad assumersi il compito di conservarne la memoria. Ora, tale intreccio irrisolto tra identità e alterità è continuamente rilanciato da Nancy in questo testo, ad esempio attraverso la questione “che cos'è un'opera?” - come nota il curatore, vero e proprio contrappunto alla domanda di Foucault “che cos'è un autore?”, oggetto di una conferenza al Collège de France del 1969.
Volendo individuare la tesi portante del discorso di Nancy, attorno a cui si annodano tutti i vari temi che egli affronta in questo breve testo, si potrebbe azzardare la seguente affermazione: l'archivio sottrae l'autore stesso a qualunque forma di sapere oggettivo. Il che significa che non si potrà mai raggiungere una qualche conoscenza definitiva e cogente di «chi è diventato questa firma che offre il suo nome, i suoi tratti, il suo carattere»all'archiviazione: quest'ultima resterà sempre un processo che non consente di afferrare concettualmente la natura del proprio rapporto con un certo autore, benché lo riguardi direttamente. In altre parole, chi è diventato l’autore, una volta che transita dal proprio archivio? Nancy risponde: «Nessuno che noi possiamo nominare o circoscrivere in alcun modo. “Gli archivi di X” sono un modo di far indietreggiare X più lontano, più in profondità nei suoi archivi. Noi vediamo i suoi tentativi, le sue note, le sue esitazioni, le sue vergogne forse, le sue dissimulazioni, i suoi oblii: ma lui, “lui”, dov’è?».
di Claudio Tarditi