-
-
Possiamo davvero sbarazzarci del concetto di sistema? Mantenere insieme, il testo di Emilia Marra edito da Meltemi, abita la tensione teoretica che un tale interrogativo solleva e lascia aperto, attraversando il panorama della Francia post-strutturalista, con particolare riferimento a Foucault, Derrida e Deleuze.
Per l’autrice si tratta di mettere alla prova la possibilità che l’idea di sistema sia cambiata in risposta alle urgenze della realtà (p. 16) più che di pensare ad una sua liquidatoria (e in fondo superficiale) dimissione.
Se sentire parlare di sistema ad oggi provoca una sorta di istintiva “orticaria concettuale”, secondo Marra l’esigenza di concretezza che ha individuato nel molteplice e nel disparato la cifra del contemporaneo sembra del resto far riemergere la necessità di posture filosofiche che tengano in considerazione in maniera rinnovata la figura del sistema. Il sistema è cioè uno spettro filosofico che continua a farci visita, e di cui l’autrice si propone di seguire sintomatologicamente la variazione (p.10). Porre il problema del sistema non è anacronistico: come ci ricordano Deleuze e Guattari - a cui Marra si appoggia -,«si parla del fallimento dei sistemi odierni, quando è soltanto il concetto di sistema che è cambiato» (Deleuze, Guattari 1996, p. xv).
In questa prospettiva la scommessa dell’autrice è quella di seguire una nuova piegatura del concetto di sistema. Serve cioè un nuovo gesto per il sistema, che non può più fare capo ad una soggettività fondativa. Tale gesto è quello del “mantenere insieme”, che scava ed erode quello del “mettere insieme”, o meglio di un ego cogito che mette insieme. Punto focale del testo è il rapporto tra questi due tipi di gesti e il progressivo slittamento verso l’esigenza contemporanea del “mantenere insieme”.
Se il “mettere insieme” presuppone un soggetto forte che aggiunge qualcosa alla realtà mettendo insieme, appunto, dei pezzi di reale che altrimenti sarebbero frammentari e scomposti, la postura del “mantenere insieme”, declinata rigorosamente all’infinito, allude invece ad un altro stile per il pensiero, secondo cui l’insieme c’è già ed è già reale (p. 14). Lo scarto tra la prima e la terza persona è quello che conduce dall’idea che il fare sistema sia il portato di un’attività soggettiva, alla visione secondo la quale il sistema sia un evento impersonale che continua a prodursi al di qua dell’io. Per l’autrice fare sistema non ha più a che vedere con un gesto architettonico dove il molteplice deve adattarsi all’uno per mano di un’operazione di unificazione soggettiva: l’io non è l’architetto che ricompone l’ammasso del sensibile operando verso un fine sovrasensibile, ma al più un’increspatura del reale stesso, di cui non può che assecondare le flussioni, le relazioni e le reti.
A variare sono le condizioni essenziali del sistema (centralità del soggetto, rapporto soggetto-oggetto e relazione con il tempo), e dunque, in ultima analisi, il senso stesso della nozione di sistema, che viene risemantizzato dall’interno dei suoi confini, emergendo dalle smagliature dei sistemi metafisici, intesi in senso classico.
Per tenere traccia di un’innegabile molteplicità si rende dunque necessario un nuovo modo di pensare il sistema, che non ceda alla tentazione di negarla (p. 15). La questione è quella posta da Derrida, il quale saccheggiando un’espressione di Blanchot, definisce il problema come quello del «mantenere insieme del disparato stesso. Non di tenere assieme il disparato, ma di portarsi là dove il disparato stesso tiene assieme, senza ferire la dis-giuntura, la dispersione o la differenza» (Derrida 1994, p. 41). In quest’ottica “mantenere insieme” significa assecondare il flusso, seguirne i movimenti, rintracciarne le venature. Il perno del sistema non è la soggettività, ma una rete complessa di relazioni che precedono ed eccedono il soggetto. Il “mantenere insieme” evoca un’immagine che parla di un gesto che accoglie il disparato e la molteplicità. Non si tratta più di fare capo ad un io soggettivo che fonda un sistema impermeabile al Fuori. Il cardine mobile di questa nuova figura del sistema è al contrario una rete complessa attraverso cui il soggetto si muove e viene definito (p. 216). In ultima analisi le coordinate risemantizzate del sistema risiedono in un «io dissolto che si oppone ad ogni forma di ego cogito» (p. 187).
Se la questione del sistema fa segno per coordinate eterogenee, per l’autrice è fondamentale rintracciare tali direzionalità non tanto in una fiera opposizione alla nozione stessa e ad un rigetto della sua storia concettuale, quanto piuttosto in un’analisi delle variazioni che la questione della totalità pone proprio dall’interno della metafisica. Appoggiandosi a Derrida, Marra ci ricorda che non ha alcun senso non servirsi dei concetti della metafisica per far crollare la metafisica, dal momento che non disponiamo di nessuna sintassi e di nessun lessico che sia in fondo estraneo a questa storia; non possiamo enunciare nessuna proposizione distruttrice che non faccia filtrare qualcosa dalla logica di ciò che vorremo contestare. Come rileva l’autrice non si tratta di saltare sull’altra riva e di sferrare da lì l’attacco alla metafisica. La nozione di sistema è stata erosa goccia dopo goccia dall’interno della sua stessa storia concettuale, tramite progressive stratificazioni decostruttive. Non si può in linea di principio sfuggire alla metafisica poiché ci si muove entro il bacino della sua storia concettuale: la resistenza è sempre una linea di fuga interna a ciò che mette in fuga. L’autrice ci propone dunque di seguire i cambiamenti impercettibili e le trasformazioni silenziose a cui il concetto di sistema è sottoposto, disegnandone dei nuovi contorni. La sfida avanzata dal testo di Marra è precisamente questo tentativo di mettere in fuga il sistema e di proporre una linea che lo disfi dal suo interno, senza mai sbarazzarsene del tutto. Il testo non ci parla quindi della fine dei sistemi, ma piuttosto di quali sono ad oggi i confini della nozione di sistema, nonché di quali siano gli effetti che un rinnovato concetto di sistema può produrre.
Per Marra i progetti di Foucault, Derrida e Deleuze hanno il vantaggio strategico di offrire una mappa per seguire e tracciare tale variazione. Al contrario e allo stesso tempo il sistema come problema filosofico è una particolare lente per poter rileggere la genesi dei progetti teorici di Foucault, Derrida e Deleuze (p. 16). Secondo l’autrice l’attraversamento teoretico dei progetti filosofici dei tre autori permette di ragionare al di qua di semplici “fazioni concettuali”. Marra ci guida cioè attraverso una terza via, in alleanza con Foucault, Derrida e Deleuze, che non cancella un certo tipo di spirito sistematico, ma non vi aderisce nemmeno in maniera acritica. La figura del sistema che la triade concettuale “Foucault-Derrida-Deleuze” mobilita va vista come un’anamorfosi dei sistemi metafisici e non come una totale cesura dagli stessi presupposti che li animano.
La domanda che mantiene insieme il testo e lo percorre in maniera sagittale, attraversando concettualmente il panorama della Francia post-strutturalista è la seguente: può darsi un sistema filosofico in assenza di un Io assoluto, senza teleologia e senza passaggio mediatore tramite la contraddizione? (p. 101). La figura del sistema non è un semplice disegno sulla sabbia che si cancella sotto l’onda decostruttiva del post-strutturalismo, ma una traccia che continua a interpellarci e a seguirci, solo con nuove forme e nuovi codici.
Senza pretendere di ridurre in toto il pensiero dei tre filosofi all’etichetta del post-strutturalismo e di amalgamare le loro specifiche prospettive l’una nell’altra fino a discioglierne le differenze, l’autrice ci pone di fronte a una triade filosofica né opposta né convergente, ma che vale la pena tentare di mantenere insieme, poiché sicuramente in tale assemblaggio concettuale qualcosa è entrato in risonanza (p. 191). Nella fattispecie tale risonanza orbita attorno alla questione del “mantenere insieme” in assenza di una soggettività intesa in senso forte. In forme e modalità eterogenee il mantenersi insieme del disparato è inequivocabilmente una cifra e postura comune alla triade “Foucault-Derrida-Deleuze”. Per pensare alla questione del sistema occorre dunque porsi nel mezzo del diastema che crea il disparato, partendo dalla disgiunzione come figura della molteplicità.
Marra comincia da Foucault per rendere conto di questa “atmosfera di pensiero”. Il termine “sistema” ricorre spesso nella produzione foucaultiana: sistema delle passioni, delle punizioni, degli errori, del linguaggio etc. Eppure, per Marra in Foucault il sistema è un vero e proprio gesto e problema filosofico, che chiama in causa un’immagine della razionalità che non consente più «di contare su categorie che comunemente operano nell’individuazione di quegli elementi che dell’insieme fanno parte, e che assumono al contempo su sé il compito fondamentale di separarli da tutti gli altri, secondo l’insuperata credenza dell’omnis determinatio est negatio» (p. 204). L’operazione foucaultiana è quella di porsi dal lato del disparato, nel tentativo di pensare un “ordine” nonostante i decentramenti operati dai maestri del sospetto. L’ontologia dell’attualità fa segno per regolarità che trovano nel disparato la propria cifra, eppure esibiscono in un certo senso una qualche forma di continuità. È proprio entro tale tensione e smagliatura che Foucault cerca archeologicamente di ricostruire una nuova immagine per il sistema, sconfessando nella fattispecie la coppia oppositiva divenire/sistema e di storia/struttura. Il sistema si configura in questo senso come «il complesso preindividuale che determina le condotte in un certo spazio-tempo, e che emerge innanzitutto dai discorsi, trasformati poi in pratiche di esclusione, leggi, etiche e politiche, o contraddizioni tra questi aspetti» (p. 224). La ragione dialettica fa spazio alla ragione analitica, che è consapevolezza della scissione del pensiero, o di non poter più pensare un pensiero, nella direzione dove il pensiero sfugge a sé stesso. Occorre cioè mantenere insieme ed accogliere certe discontinuità che l’empirico produce, prendere atto di come il cogito moderno non possa che porsi nella forma di un’interrogazione continua, che lungi dall’ostracizzare le opacità del pensiero, le assume nella loro radicalità. Il pensiero, non si offre cioè solo nella forma del pensato, ma anche del non-pensante. Inoltre, esso è un fatto sistematico che prima di presentarsi come individuale, si configura come preindividuale. Per Foucault, prima di ogni esistenza umana, prima di ogni pensiero umano, c’è già un sapere, un sistema.
Il secondo personaggio concettuale a cui Marra si appoggia per ricostruire i confini di una nuova immagine del sistema è Derrida. Per Derrida centrale è definire ed abitare lo spazio del non fondamento, possibilità questa che si apre nel linguaggio, dove vita e idealità si fanno indiscernibili. Tale coalescenza introduce la non-presenza e la differenza, il segno e il rinvio. Questo itinerario speculativo, che dissoda e mobilita l’intera storia della metafisica occidentale, prenderà il nome di decostruzione. Essa è la possibilità del sistema impossibile, nome di una tensione inesauribile che è proprio il luogo nel quale si dà un divenire irrinunciabile per la filosofia. La decostruzione altro non è che la disfunzione, l’impossibilità fattuale del sistema. La decostruzione è la possibilità di disertare la scelta tra apertura e totalità, stando al centro di un’incoerenza strutturale, che altro non è che la possibilità del sistema impossibile. L’avventura della decostruzione prende corpo attraverso un’interrogazione delle ragioni per le quali la presenza si è affermata come paradigma filosofico privilegiato della metafisica, esprimendosi in particolar modo tramite il sistema della lingua associato alla scrittura fonetico-alfabetica. Per Derrida c’è un divenire-segno del simbolo che ci mette sulla via di una scrittura non totalmente fonetica. Il fonocentrismo assume che la phoné sia esclusivamente fonetica, mentre Derrida scardina questa presunta equazione e si orienta verso un pensiero della traccia, sostituendo alla cosalità dell’ente, presente in sé stesso in modo stabile e ben definito, il suo tracciarsi infinito, nel labirintico rimando tra segni e interpretanti. In questo senso: «la possibilità del sistema totale sarà allora possibilità di un movimento differenziale che renderà ragione dell’espressione grafica e di quella non grafica a partire non già da un’identità, ma da un’archi-scrittura» (p. 254). L’archi-scrittura traccia una differenza infinita che continua a prodursi rispetto alla cosa, apre una disparatezza costitutiva che deve, al contrario e allo stesso tempo, sempre costituirsi. Tale tensione inesauribile è precisamente lo spazio del sistema. In maniera speculare per Derrida il soggetto è il primo attore colto nell’atto stesso del suo scomparire nella scrittura, dissolvenza che trasborda verso l’oggettualità ideale, raccolta dal noi speculativo attraverso la tradizione. La decostruzione si spinge dunque anche verso il soggetto, ma non verso una sua totale liquidazione, come spesso si è tentati di pensare. In Derrida il soggetto è cioè sicuramente riorientato, ripensato, ma mai dismesso del tutto. Il fatto che esso coincida con la sua stessa dissolvenza non è cioè un mero effetto ottico, ma il darsi di un processo che continua ad avvenire. Per Derrida ogni grafema è essenzialmente testamentario, e l’io è precisamente questa dissoluzione che continua ad avvenire.
La terza tappa che consente all’autrice di fare un passo ulteriore nell’identificazione di coordinate rinnovate per il sistema è la filosofia di Deleuze. Quello che interessa a Marra lettrice di Deleuze è il suo accento per un sistema che sia un’eterogenesi delle differenze, in grado di mantenere insieme l’univoco e il molteplice in maniera funambolica. Questo aspetto fondamentale del “sistema” filosofico deleuziano, ovvero la capacità di aprirsi al disparato lungo la superficie di un unico campo immanente, oltre che in senso ontologico, si traduce in una peculiare visione della transdisciplinarietà. Deleuze mantiene insieme la polivocità del sapere, tra letteratura e scienza, attraversando la linguistica e la psicanalisi, la pittura e l’arte etc. Senza perdere l’univocità, la pluralità si dispone lungo un piano di immanenza laddove le differenze sono potenze e non essenze. Altro punto centrale per l’empirismo trascendentale deleuziano è sicuramente il rifiuto del soggetto come punto di partenza obbligato nell’analisi del reale. La vita, in senso pieno, non è esperienza vissuta personale e idiosincratica, ma flusso pre-personale ed anonimo composto da singolarità. Il soggetto si costituisce cioè nel e attraverso il dato. Per Deleuze avviene un importante spostamento della genesi del senso dall’Ego trascendentale alle singolarità pre-individuali che fanno emergere il soggetto da tale campo informale. Inoltre, la tensione che abita la filosofia della differenza deleuziana deforma dall’interno le logiche hegeliane del negativo: incompatibilità senza contraddizione, o sintesi disgiuntiva sono le chiavi deleuziane per abitare un nuovo spazio sistematico. La contraddizione è cioè solo una modalità antropologica della differenza, mentre l’espressione è differenza genuina. Ad esprimere l’essere è l’eterno ritorno, che rompe la logica del fondamento, aprendo la possibilità di un sistema dell’avvenire, della possibilità stessa della novità.
In ultima analisi, il testo di Marra è un tentativo di “mantenere insieme” la storia concettuale della nozione di sistema, sondandone le variazioni intensive nell’ambito della Francia post-strutturalista. Le coordinate entro cui tale operazione strategica prende corpo sono eterogenee per i vari pensatori chiamati in causa, eppure conservano una certa somiglianza di famiglia, parlandoci di problemi che risuonano, pur nelle loro dissonanze.
Silvia Zanelli
Deleuze G., Guattari F., Che cos’è la filosofia? (1991), tr.it. di De Lorenzis A., Einaudi, Torino 1996.
Derrida, J. Spettri di Marx (1993), tr.it. di Chiurazzi G., Raffaello Cortina Editore, Milano 1994.
-
Su “Metafisica concreta” di Massimo Cacciari
Recensioni / Giugno 2024Sul piano tematico, Metafisica concreta (Cacciari 2023) ha una struttura circolare: comincia con un’analisi dell’analogia del sole nel sesto libro della Repubblica di Platone e si conclude affermando la necessità per la filosofia-metafisica di assumere un linguaggio propriamente analogico. L’immagine platonica che assimila l’Agathón alla luce del sole non è semplice metafora. La metafora è potenzialmente traducibile in un significato determinato e ultimativo; caratteristica essenziale dell’analogia è invece di non poter in alcun modo ridursi alla perfetta identità tra il termine analogo e il suo referente. L’ “altro” che l’allegoria e la metafora dicono, l’analogia si limita ad indicare. Nel mythos platonico Cacciari riconosce quindi una configurazione proporzionale, i cui termini, proprio perché collocabili entro una relazione di simmetria, devono mantenere una qualche omogeneità e somiglianza. Nessuna alterità assoluta, dunque, tra la luce del sole e gli enti che quella luce aggioga a sé, come dice Cacciari riproponendo la traduzione heideggeriana a cui aveva già accennato in Labirinto filosofico (in pagine che vanno affiancate ai primi capitoli di Metafisica concreta: cfr. Cacciari 2014, 115-124). Con questo, l’indirizzo speculativo del libro è delineato. Analogico è il metodo di Cacciari e analogico non può che essere il linguaggio che mette in relazione, assimilandole, metafisica e scienza. Quale la ragione dell’analogia? Quale la sua intima giustificazione? Se tale ragione fosse rintracciabile una volta per tutte, se l’analogia fosse pienamente giustificabile, essa cesserebbe di essere quello che è: da uguaglianza di rapporti diventerebbe mera tautologia. Anche se articolata secondo la forma canonica di proporzionalità e simmetria, il medio che lega i termini di un’analogia è sempre niente di più che un punto: «Punto inafferrabile, ma condizione insieme della possibilità che gli opposti vengano trattati analogicamente» (Cacciari 2023, 379). Ma anche quel punto merita di essere indagato scientificamente; tornando al linguaggio platonico, anche quello dell’Agathón è máthema, conoscenza trasmissibile e insegnabile. L’Agathón eccede tanto la sfera degli enti fisici quanto l’orizzonte noetico-intellettuale, ma il sole non potrebbe esserne il figlio naturale se non ne condividesse almeno in parte i lineamenti o il profilo genetico. Nella «grande analogia» platonica, l’Agathón non è un’anomalia che il linguaggio analogico non riesce a ricondurre a sé, ma è piuttosto ciò che costitutivamente residua dall’analogia proprio rendendola possibile. L’Agathón è simbolo dell’insufficienza di ogni ragionamento analogico; un’insufficienza necessaria perché il linguaggio adoperato sia autenticamente analogico. Il Melandri di cui Cacciari, in nota, dice di non stancarsi di ricordare i meriti (cfr. Cacciari 2023, 397) lo aveva detto con parole che sembrano risuonare nelle pagine di Metafisica concreta: «la soluzione analogica è sempre imperfetta: il suo residuo inesplicabile replica l’analogia all’infinito» (Melandri 2023, 159).
La trattazione di Cacciari si riannoda a quella di nove anni prima; in Labirinto filosofico si leggeva: «Un’urgenza ancora più forte di quella che si presume spinga la metafisica a vedere, spinge la parola ad indicare ‘ciò’ che riesce solo a immaginare» (Cacciari 2014, 149). Concreta sarà allora quella metafisica che sa concordare le due istanze: da un lato il vedere-determinare, dall’altro la Dichtung analogica, immaginativa e poetica (in Metafisica concreta sono frequenti i richiami a Dante, ma anche a Eliot e Pound). Tanto la metafisica quanto la scienza orientano le loro indagini secondo l’ideale regolativo e irraggiungibile dell’identità kath’autò dell’ente, la singolarità che non potrà mai essere compresa epistemicamente ma sempre soltanto indicata.
In termini più “concreti”: la metafisica-scienza deve porsi il problema del “caso”, indagarlo secondo criteri rigorosi, ma non può mai esaurire l’evento del suo accadere. Quella che individua “casi” è un’operazione totalmente noetico-scientifica. La necessità e l’universalità del caso lo rendono irriducibile all’evento che, per quanto anch’esso necessario, è sempre individuale, è ciò che «il soggetto avverte come espressione di una propria Tyche» (Cacciari 2023, 272). Qui Cacciari rincontra Carlo Diano, che già nelle sezioni “dialogate” di Dell’Inizio veniva evocato in perifrasi: «il mio maestro di greco» (Cacciari 2008, 245). Ma di Diano ora adotta anche il peculiare lessico. L’impossibile-possibile, l’eccedenza dell’ente rispetto alla sua predicazione è «ápeiron onniavvolgente» (Cacciari 2023, 409), quell’ápeiron periéchon che Diano individuava come il polo divino dell’evento, l’altro polo essendo costituito dall’hic et nunc dell’esistenza singolare, l’«esserci» heideggeriano che a sua volta ritorna con prepotenza nelle pagine di Metafisica concreta. La metafisica oscilla tra questi due poli, conferisce loro una forma che non è mai sintesi definitiva. La parola non può nominare quell’ápeiron e aporoúmenon che l’ente è, e, insieme, non può rinunciare al tentativo di farlo. Questo vale tanto per la parola, ancora intrisa di mythologeîn, della filosofia ai suoi esordi, quanto per l’epistéme contemporanea e per la stessa «metafisica concreta» di Cacciari. Anzi, tutto il libro di Cacciari è animato da questo tentativo di nominare il non nominabile. Nell’ultima parte del libro ne trovate un resoconto: «la cosa è l’Ultimo, il risultato della Erinnerung, l’éschaton, l’ulteriore, l’eccedente, l’Impossibilità del possibile» (Cacciari 2023, 377). E sono solo alcuni dei nomi a cui ci si può appellare: altri sono, oltre ai già evocati «ápeiron» e «Agathón», anche «epékeina tês ousías» e, con un altro omaggio al «maestro di greco», «evento». Il Reale è questa impossibile dialettica tra la singolarità dell’evento e l’eterna riproposizione di forme volte a contenerlo o esorcizzarlo: «Reale è tanto l’evento che colpisce individualmente […] quanto la forma in cui questi tende incessantemente e necessariamente a comprenderlo, a farlo propria Sache (Cacciari 2023, 393).
La riflessione sul possibile, sul caso e sul tempo introduce il dialogo con Severino, confronto decisivo nella proposta teorica complessiva. Già in Labirinto filosofico Cacciari ammetteva che il cammino di Severino non è «in contrasto con il cammino che qui si svolge» (Cacciari 2014, 48). Questo, però, solo fino a che Severino ammette l’impossibilità che la totalità appaia (quell’impossibilità che in Severino fa scattare la «contraddizione C»). Ma l’accordo si interrompe là dove la riflessione severiniana chiude ogni spazio al possibile per “affidarsi” (termine quanto mai improprio nella prospettiva severiniana ma legittimo in quella cacciariana) alla necessità del «destino». È anche il luogo in cui, secondo Cacciari, la riflessione di Severino rinuncia ad ogni “spinta” escatologica: la Gioia – il toglimento di ogni contraddizione e l’apparire dell’ente per ciò che è in verità – è qui e già da sempre data; originaria è la verità dell’ente, la sua identità e tautologicità (e certo anche la sua eternità, ma quest’ultima è in Severino sempre il risultato di una deduzione, la conseguenza fondamentale del suo discorso, mai il presupposto del discorso stesso): «per lui [Severino] ognuno siede alla destra del padre ab origine» (Cacciari 2023, 304). Al contrario, la prospettiva ontologica di Cacciari manifesta una solidarietà di fondo con la forma escatologica del pensare: l’aporia dell’ente è infatti tale da stimolare il pensiero in direzione di una verità sempre ancora da indagare e situabile soltanto in un futuro aionico (éschaton era appunto uno dei “nomi” dell’innominabile).
Ogni passo di allontanamento da Severino sembra un passo in direzione di Heidegger, anche se a tratti i due sentieri sembrano quasi incrociarsi (ed è lì, forse, che è necessario abbandonarli entrambi). La pretesa ultima di Severino è quella di incarnare il linguaggio con cui l’essere si dice (è l’essere a dirsi; noi possiamo, al più, testimoniarlo, esserne i portavoce), ma il suo linguaggio è perfettamente logico. Di contro, la prospettiva heideggeriana viene da Cacciari efficacemente riassunta in questo modo: «Non perché c’è il pensiero c’è l’essere, ma perché l’essere è, è il pensiero» (Cacciari 2023, 224). Il pensiero è strutturalmente in difetto rispetto all’essere che intende testimoniare: «Il pensare e la coscienza sopraggiungono sì, ma non come vincitori su carri trionfali» (Cacciari 2023, 248). A sua volta, la parola è in difetto rispetto al pensiero di cui intende essere espressione; è mancante non soltanto rispetto alla cosa che intende testimoniare, ma anche rispetto all’idea da cui la parola stessa origina: «La parola spalanca l’abisso dell’origine, non lo colma, lo indica» (ibidem). La concretezza dello sguardo metafisico è nella consapevolezza che tale eccedenza non riposa in un orizzonte occulto, ma si manifesta e si annuncia nell’ apparire dell’ente e nel tentativo – sempre in scacco – di dirne la singolarità. Proprio la verità dischiusa nella maniera più rigorosa dall’idealismo e “confermata” dalla scienza contemporanea lo testimonia: non c’è oggetto e non c’è soggetto, ma soltanto la relazione tra i termini. Il linguaggio della metafisica concreta è dunque analogico per una necessità dettata dalla struttura stessa dell’ente e non per vezzo retorico. Ana-logico è l’infinito approssimarsi del linguaggio all’ “in sé” dell’ente, a quell’autoidentità che al ragionamento logico rimane inaccessibile.
Come si vede, il libro è un continuo confronto con alcune delle grandi prospettive ontologiche che hanno orientato l’epistéme occidentale. La prima metà è anzi proprio una sorta di storia della metafisica in cui Cacciari si confronta con i grandi “sistemi” filosofici dell’antichità, della modernità e della contemporaneità, dipanandone i nodi teoretici decisivi e poi, infine, distanziandosene. Aristotele squaderna le categorie con cui concepire il possibile; ma per pensare il vero possibile, il possibile non riducibile all’essere (attualmente) in potenza è necessario spingersi oltre quelle categorie, forzarle fino a farle collassare. Spinoza insegna l’intima unità tra scienza e filosofia, il cui metodo comune è lo scire per causas, ma dobbiamo abbandonarlo quando intende anche il Primo (o, dal punto di vista dell’io “indagante”, l’Ultimo) come Causa a sua volta. Kant ci avverte circa i limiti del conoscere, ma non possiamo seguirlo nel ritenere che la metafisica cada fuori da quei limiti. E ancora, contra Hegel è necessario rivendicare i diritti della filo-sofia: lungi dal dismetterlo, essa deve conservare l’abito di “amante” del sapere senza per questo rinunciare alla vocazione a farsi piena e compiuta sophía. Così come non possiamo seguire Heidegger nel ritenere la metafisica come poco più che il sapere che riduce l’ente al “disponibile” ed “utilizzabile”. L’impressione è che quella fenomenologico-husserliana sia la prospettiva filosofica con la quale Cacciari avverte un sostanziale accordo. Del resto, il principio dell’intenzionalità fenomenologica altro non è che la combinazione armonica tra «le forme di predicazione dell’ente» (Cacciari 2023, 214) e il riconoscimento della indeterminabilità dell’ente stesso nella sua interezza e unità. La fenomenologia husserliana riconosce cioè che «[l]a filosofia è chiamata a costruire analogie e metodi di comparazione che interpretino e chiariscano questo essere logikôs (nel senso del légein-colligere) dell’ente in quanto ente» (ibidem).
L’immagine platonica conteneva un paradosso: spiegava in termini analogici ciò di cui affermava l’eccedenza rispetto ad ogni lógos. L’Agathón è Principio di ogni vedere e condizione di ogni conoscere e in quanto tale mai determinabile. Al contempo, però, il lógos metafisico è strutturalmente impossibilitato a interrompere l’indagine, ad arrestarsi di fronte a ciò che gli si presenta come un’anomalia. Il libro di Cacciari si muove totalmente all’interno di questa aporia. «Nessun Principio chiude il diaporeîn» (Cacciari 2023, 399). Contrariamente a quanto stabilito dal divieto aristotelico, la filosofia è costantemente chiamata a operare la metábasis eis állo génos; il “salto” (così si intitola uno dei diciannove capitoli del libro) da un orizzonte all’altro del sapere è non solo proficuo in termini epistemologici, ma necessario per conservare il movimento strutturalmente “diaporetico” del filosofare.
Michele Ricciotti
Bibliografia
Cacciari, M. (2008). Dell’Inizio. Milano: Adelphi.
Cacciari, M. (2014), Labirinto filosofico, Milano: Adelphi.
Cacciari, M. (2023) Metafisica concreta, Milano: Adelphi.
Diano, C. (2022), Opere. A cura di F. Diano. Firenze-Milano: Giunti-Bompiani.
Melandri, E. (2023), L’analogia, la simmetria, la proporzione. A cura di L. Guidetti, Macerata: Quodlibet.
-
L’aurora inapparente. Upanishad, Bruno e Böhme nella metafisica giovanile di Giorgio Colli di Ludovica Boi si apre con una prefazione a cura di Francesco Cattaneo e si presenta come un dettagliato studio delle influenze “mistiche” sulla filosofia del periodo giovanile di Giorgio Colli, dalla metà degli anni ’30 al 1946-1947. Physis kryptesthai philei (del 1948, riedito nel 1988 con il titolo La natura ama nascondersi) non è in effetti preso in considerazione e si fanno solo brevi accenni agli appunti filosofici del 1947 (pubblicati nel volume Trame nascoste. Studi su Giorgio Colli). Si può quindi dire che Boi cerchi innanzitutto di rendere ragione della concezione del mondo – da lei definita come “metafisica” – che si può ricavare dagli appunti pubblicati postumi da Enrico Colli in Apollineo e dionisiaco, dalla tesi di laurea di Colli (che fu scomposta in due volumi pubblicati separatamente sempre a cura di Enrico Colli, Filosofi sovrumani e Platone politico) e dalla raccolta intitolata Empedocle, curata da Federica Montevecchi. Tra questi testi, è indubbio che Apollineo e dionisiaco giochi un ruolo centrale: uno dei meriti maggiori del libro di Boi è proprio quello di aver reso accessibili alcune sezioni e teorie comprese in questa raccolta di scritti postumi. Non esagero dicendo che Boi fornisce una prima e imprescindibile ricerca sulle fonti non greche del pensiero del giovane Colli. Ogni studio futuro di questi testi dovrà tener conto dei risultati e delle problematiche messe in risalto nel libro di Boi.
L’autrice però non desidera limitare lo scopo dell’indagine a un obiettivo “esclusivamente storiografico o specialistico”, bensì mira “a illustrare la fecondità di un particolare modo di intendere la filosofia, memore di vissuti emozionali che giacciono alla radice di ogni sapere, compreso quello scientifico” (p. 21). Questo secondo aspetto della ricerca condotta da Boi è evidentemente di ampia portata e non sempre trova uno sviluppo adeguato nel volume, a causa del lavoro di ricostruzione storiografica che è necessario come presupposto per la teoresi che Boi si propone di sostenere. Quest’ultimo aspetto non inficia in nulla il valore del libro, poiché esso riesce appieno nel suo intento di mostrare gli influssi decisivi delle Upanishad, di Bruno e di Böhme sulla metafisica del giovane Colli. Ciò detto, ci si attende in futuro uno sviluppo più ampio e organico delle linee filosofiche che Boi traccia nella sua introduzione e, in generale, nelle sezioni conclusive dei vari capitoli.
Il libro di Boi si compone di due sezioni di lunghezza ineguale. La prima, più breve, è un percorso di presentazione e interpretazione delle fonti che il giovane Colli predilesse nella sua particolare lettura dei Presocratici. In questa parte del libro, Boi prende in considerazione tre autori: Karl Joël, Erwin Rohde e Paul Deussen. Il primo di questi è senza dubbio fondamentale sotto più punti di vista. Innanzitutto, Joël permette, grazie alla sua particolare lettura storico-filosofica in Der Ursprung der Naturphilosophie aus dem Geiste der Mystik, di giustificare in un certo modo il percorso che va dalle Upanishad a Böhme passando per Bruno, nel senso che tutti questi complessi di pensiero hanno in comune con i Presocratici e gli inizi della filosofia greca un certo rapporto con il mondo e il divino che qui si caratterizza con il termine “mistico”. Ma Joël è altresì fondamentale per l’aspetto più teoretico del libro, in quanto mette al centro del discorso il sentimento o la reazione sentimentale. Questo punto è sottolineato a più riprese da Boi, anche in riferimento a Colli, il quale in effetti in Apollineo e dionisiaco fa alcuni accenni alla sfera dei sentimenti. In particolare, il sentimento è avvicinato alla vissutezza e a un’intensa esperienza di vita che si configura come una sorta di divinizzazione o “immortalizzazione della coscienza” (p. 114). In un’ottica di teoresi colliana e in vista di possibili sviluppi del lavoro di Boi, mi chiedo se del sentimento sia possibile fornire una sorta di definizione o quantomeno se sia possibile determinarne i caratteri che lo distinguono da altre esperienze di vita. Inoltre, nella distinzione colliana tra immediatezza ed espressione, o tra interiorità ed espressione (per usare termini più consoni al periodo giovanile) il sentimento sarà pur sempre espressione o qualcosa altro?
La seconda sezione, che occupa i due terzi del libro, si prefigge di trattare del misticismo filosofico in Giorgio Colli secondo le tre influenze già menzionate: le Upanishad, Giordano Bruno e Jakob Böhme. Il capitolo sulle Upanishad è lodevole per lo sforzo di Boi di ricerca delle fonti utilizzate da Colli e allo stesso tempo per lo studio indipendente di questi testi al fine di reperire corrispondenze o affinità con Colli che egli stesso non aveva messo in risalto nei suoi appunti. Per quanto riguarda l’interpretazione filosofica di queste pagine, l’influenza delle Upanishad sulla metafisica colliana è sicuramente dimostrata nel dettaglio, ma alcuni sviluppi – che potremmo definire inediti – meritano senza dubbio un’attenzione particolare. Mi riferisco, per esempio, alla nozione di empatia, che è utilizzata da Boi per creare un ponte tra la visione delle Upanishad e quella di Colli nell’interpretare la Grecia arcaica (p. 98). Non è chiaro a chi scrive quale sia il senso esatto da dare a “empatia” in questo discorso e, per quanto interessante, il collegamento tra le Upanishad e Colli rischia in questo caso di rimanere vago in assenza di specificazioni. Suppongo che l’empatia possa giocare un ruolo in ciò che Boi definisce come “intersoggettività patica” nella sua introduzione (p. 23), ma la nozione avrebbe meritato un più ampio sviluppo, in connessione soprattutto con il già citato “sentimento” e il cosiddetto “sentimento attivo” di cui si parla alle pp. 110-112.
Il capitolo sul pensiero di Giordano Bruno si concentra su gli Eroici furori, l’opera del Nolano che Colli utilizza maggiormente. Questa parte del libro è pregevole per un duplice motivo: gli accenni fugaci di Colli a Bruno vengono sviluppati nel dettaglio e questo permette al lettore di comprendere appieno la portata dell’influenza esercitata da Bruno su Colli; oltre a questo aspetto, Boi sottolinea anche i limiti della lettura colliana di Bruno e sostiene che la filosofia di quest’ultimo avrebbe potuto rappresentare un modello per il giovane Colli anche per la sua concezione della politicità (pp. 154-156). L’ultimo capitolo tratta, come si è detto, del pensiero di Jakob Böhme. Anche in questo caso l’analisi di Boi è ricca e dettagliata. Inoltre, a differenza delle Upanishad e di Bruno, in questo caso ci troveremo a fare i conti con degli influssi sulla parte più teoretica della filosofia del giovane Colli. In effetti, la tesi sostenuta da Boi è che l’impianto metafisico di Colli sia fortemente debitore nei confronti di Böhme. Innanzitutto per la nozione di Ungrund, che troverebbe una piena corrispondenza nella cosa in sé o interiorità colliana, in quanto tutte queste nozioni presentano il duplice carattere di mancanza e di desiderio di divenire altro da sé, di esprimersi per conoscersi (pp. 198-199). In secondo luogo, per la concezione del fondo della realtà come di un’unità plurale che possiede una paradossale “molteplicità intrinseca” (p. 201). Queste pagine sono tra le più ricche di spunti per una corretta comprensione filosofica della metafisica del giovane Colli e va dato merito a Boi di aver mostrato in modo convincente che l’influsso di Böhme su Colli non si limita al suo tratto puramente mistico, ma include anche dei presupposti teoretici pregni di conseguenze.
Ci si potrebbe domandare dell’assenza di Nietzsche in una tale analisi, soprattutto per quanto riguarda il pensiero dei Presocratici e per le nozioni di apollineo e dionisiaco. L’autrice non nega in nessun momento del sicuro influsso nicciano sulle posizioni del giovane Colli, ma fa notare giustamente che esiste già una letteratura di studi al riguardo. L’ultimo in ordine di apparizione è l’importante volume di Chiara Colli Staude, Friedrich Nietzsche, Giorgio Colli und die Griechen: Philologie und Philosophie zwischen Unzeitgemäßheit und Leben (Königshausen und Neumann, 2019).
In conclusione, il libro di Boi non potrà non far parte della biblioteca degli studiosi di Giorgio Colli, in quanto si tratta di un lavoro pionieristico su testi e fonti poco indagate. Mi auguro inoltre che la linea teoretica che si intravede nel lavoro di Boi possa trovare presto un adeguato sviluppo. Le ultime parole del suo libro sembrano in effetti evocare il programma per un prossimo studio: “l’ipotesi metafisica di Colli testimonia il suo debito nei confronti dei mistici, anche molto al di là degli anni giovanili”. Questo libro in realtà mostra solamente l’influsso dei mistici sul giovane Colli, ma non tratta delle opere mature, se non in modo sporadico. L’autrice sembra convinta che questo influsso si estenda anche al di là del periodo giovanile, ma una tale ricerca resta da compiere.
Luca Torrente
Bibliografia
Colli, G. Apollineo e dionisiaco, a cura di E. Colli, Adelphi, Milano 2010.
Colli, G. Empedocle, a cura di F. Montevecchi, Adelphi, Milano 2019.
Colli, G. Filosofi sovrumani, a cura di E. Colli, Adelphi, Milano 2009.
Colli, G. La natura ama nascondersi, a cura di E. Colli, Adelphi, Milano 19882.Colli, G. Platone politico, a cura di E. Colli, Adelphi, Milano 2007.
-
Il carattere performativo dell’affettività
Recensioni / Ottobre 2023Che cosa fanno gli affetti? É questa domanda ad ispirare l’ultimo progetto di Georges Didi-Huberman, una trilogia sul carattere performativo dell’affettività i cui primi sviluppi sono confluiti in Brouillards de peines et de désirs. Faits d’affects 1, pubblicato a gennaio 2023 per Les Éditions de Minuit.
La composizione del testo (532 pagine) è atipica. Si tratta di un’ampia e composita raccolta di appunti – anche autobiografici – datati e redatti in maniera relativamente indipendente tra l’ottobre del 2019 e il dicembre 2020 per un seminario tuttora in corso all’École des Hautes Études en Sciences Sociales di Parigi.
La loro organizzazione non è cronologica, ma suddivisa tematicamente in due parti. La prima, A parole, raccoglie gli scritti che ripercorrono la concettualizzazione degli affetti nella tradizione occidentale, decostruendola e mostrando i più ampi limiti di un approccio definitorio. La seconda, A gesti, getta invece le basi per una nuova comprensione non (esclusivamente) logico-linguistica del loro operare, vera e propria posta in gioco della trilogia. «Questa ricerca ontologica su cosa siano le emozioni deve cedere il posto ad un’interrogazione più modesta, ma più rigorosa, su cosa dei tali processi facciano» (p. 22) e, secondo l’autore, «altre relazioni, oltre a quelle logiche, sono possibili. Diventa allora necessario esplorarne le risorse» (p. 401).
Ma prima di introdurci più nel merito delle argomentazioni, è importante sottolineare come questo approccio pragmatico non sia prerogativa di Didi-Huberman. Al contrario, è il fulcro della cosiddetta Affective Turn che, al di là del possibile sapore posticcio di un’etichettatura di questo tipo, dal 2007 indica il ripresentarsi di un interesse pratico-politico e anti-essenzialistico per l’affettività, le cui radici sono da ricercarsi innanzitutto nella domanda spinoziana su cosa possa un corpo. E il testo di Didi-Huberman si colloca consapevolmente all’interno di questa cornice, confrontandosi soprattutto con i suoi sviluppi in area francese, rifacendosi ampiamente a Gilles Deleuze (in particolare, pp. 234-241) e polemizzando, ad esempio, con l’approccio de La société des affects di Frédéric Lordon (p. 18).
Il presupposto condiviso dalle differenti voci del dibattito è infatti l’inversione del tradizionale rapporto tra soggetti e affetti, per pensare questi ultimi non come stati mentali o comunque correlativi soggettivi, ma come dimensioni fattuali dell’esperienza che abbiano, tra gli altri poteri, quello individuante.
In questo senso,
Gli affetti sono a tutti gli effetti dei fatti. Ci rendono ciò che siamo quando appariamo ai nostri simili per esprimere loro – nel senso radicale del termine, spinoziano o deleuziano – qualcosa. Sono dei fatti nella misura in cui, lungi dall’essere solamente attivi o passivi, fanno: creano una nuova configurazione all’interfaccia della nostra psiche, del nostro corpo e del mondo; danno la luce a nuove significazioni; improvvisano una relazione inedita agli altri; fondano una temporalità imprevista, spesso decisiva per la nostra storia (p.15).
E, come anticipato, alla critica della tradizione è dedicata la prima parte di Brouillards de peines et de désirs, una sorta di genealogia non lineare dell’affettività e di quello che l’autore ritiene essere il suo grande fraintendimento. Dopo alcune considerazioni preliminari di carattere per lo più autobiografico, il testo si apre con l’analisi di uno dei pochi esempi virtuosi, insieme alla poetica di Giacomo Leopardi (pp. 51-58), della concettualizzazione occidentale degli affetti. È l’Iliade di Omero (pp. 33-50), in cui appare una complessa concezione delle emozioni come «nubi» (p. 34) impersonali e autonome che catturano gli individui influenzandone la sfera d’azione, in una metafisica non dualistica della porosità. L’affetto ha nell’Iliade grande dignità, perché è «un’emozione che dura, che si sviluppa in mille conseguenze: che quindi instaura una temporalità» (p. 33) e l’ira di Achille ne è infatti protagonista. Ma già con Platone e Aristotele (p. 39) inizia un lento processo di sottomissione dell’affettività alla ragione e poi al cogito, rafforzata dallo sclerotizzarsi di alcune dicotomie che, nel corso del testo, vengono messe in moto e fatte implodere: azione-passione, soggetto-affetto, ragione-sensibilità.
In questa prospettiva si inserisce ad esempio la critica alla concezione evoluzionistica delle emozioni (pp. 77-92), la quale distingue tra un’area cerebrale primitiva dedicata all’affettività e una corteccia prefrontale in cui si svolgerebbero le funzioni intellettive. L’autore mostra come questa distinzione sia fonte di discriminazioni di genere e razza, in quanto concepisce come meno sviluppati coloro che mostrano un’emotività più esplicita, non controllata e inibita dall’intelletto. «Parlare delle emozioni in termini di “riflessi” o di centri nervosi “primitivi”, meno “evoluti” che i “superiori”, ecco come si evince – anche solo per la scelta del vocabolario – una scala di valori filosofici o antropologici i cui presupposti morali sono evidenti» (p. 80). Oppure l’associazione tra pathos e patologico, in cui l’affettività è erroneamente ridotta ad una dimensione oggettiva e sintomatologica, in cui è perso il suo significato originale e costitutivo per la soggettività. E, per decostruire questo appiattimento teorico (e ancora una volta politico), Didi-Huberman riprende il celebre saggio di Georges Canguilhem, Il normale e il patologico (p. 95-96). O, ancora, la critica nietzscheana alla distinzione kantiana tra sensazione e sentimento che scinde l’aspetto percettivo della sensibilità da quello affettivo (pp. 59-64). I riferimenti di Didi-Huberman sono infatti vastissimi e questo carattere enciclopedico è uno dei principali punti di forza del testo.
La prima parte dell’opera si chiude infine con una considerazione sull’analfabetismo affettivo (p. 139-166) come momento da cui è necessario passare per un ripensamento radicale degli affetti, ma in cui, paradossalmente, l’approccio riduzionista e stereotipato all’affettività rischia maggiormente di imporsi. È l’occasione per fare riferimento all’appiattimento nell’espressione delle emozioni causato dal diffondersi degli emoticons (pp. 142-148), rispetto a cui Didi-Huberman dichiara: «Ecco, quindi, il modo peggiore di essere analfabeti: sottomettersi ad un alfabeto che è già stato deciso per voi» (p. 148). Ad esso si contrappone l’analfabetismo poetico, cerniera con la seconda parte, costruttiva, del testo:
Si potrebbe dire, in questa prospettiva, che l’omaggio di Michel Foucault a Jorge Luis Borges non fu nient’altro che una maniera di introdurre il miglior modo d’essere analfabeti: il modo poetico, il quale non elude mai la “feroce materialità” delle lingue, delle immagini o delle emozioni. (…) Borges, in effetti, non ha mai smesso di far sorgere questo “disordine che fa scintillare i frammenti di un gran numero di ordini possibili” (p. 162).
Nella seconda parte dell’opera, Didi-Huberman indaga infatti i momenti in cui l’affettività, liberata dal giogo del logos, ha potuto esprimersi in maniere differenti. Attraverso di essi, si inaugura un percorso di ripensamento non linguistico-concettuale degli affetti che sarà probabilmente ripreso e ampliato nei successivi due volumi della trilogia. Vasto spazio è dedicato, in questo senso, all’analisi delle pitture rupestri (pp. 293-309) e, in particolare, alle impronte delle mani impresse sulle grotte di Chauvet e Lascaux, mani tese in cui «tanto il fare segno è potente, quanto la significazione resta problematica» (p. 297). All’espressività di questo gesto, sono affiancate differenti analisi filosofico-antropologiche: l’intenzionalità husserliana e il legame heideggeriano tra affettività e temporalità (pp. 203-220), la già citata concezione intensiva degli affetti di Nietzsche e Deleuze (pp. 221-244), ma soprattutto le indagini di Leroi-Gouhran (p. 294) e l’antropologia bataillana fondata sul desiderio dell’impossibile (p. 302). Analisi che effettivamente si discostano dalla tradizionale concezione dell’affettività, ma che restano concettuali, mostrando un’ambiguità dell’opera: l’oscillare tra il desiderio di voler superare nettamente l’approccio logico-linguistico all’affettività o, più modestamente (ma forse anche più efficacemente), un ripensamento della sua concettualità. Ambiguità che è sicuramente dovuta anche alla struttura non lineare del testo, in cui piani argomentativi differenti si sovrappongono, e che forse sarà risolta nei volumi successivi.
Sempre alla seconda parte del testo, A gesti, appartengono infine interessanti analisi del rapporto tra affetti e movimento (p. 324) e quindi della capacità dell’affettività di produrre senso – anche inteso come orientamento spaziale; della rappresentazione del gesto in arte – da Caravaggio al contemporaneo (pp. 309-348); delle Pathosformeln di Aby Warburg (pp. 452-457) o della danza (pp. 494-508), emblema di un approccio non definitorio, ma espressivo, alla vita affettiva, con cui il testo si chiude. «Far danzare il pensiero sarà allora, in questa prospettiva, aprire tutte le proprie ragioni all’emozione, alla commozione» (p. 506).
Riteniamo che quest’opera inaugurale possa offrire un’interessante chiave d’accesso al dibattito sugli affetti perché, grazie al suo carattere storico ed enciclopedico, fornisce una ricchissima introduzione al tema e una sintesi della sua trattazione in tradizioni e discipline differenti – una sorta di stato dell’arte che non va però a scapito della profondità teoretica degli autori citati. Uno dei meriti del testo è infatti la sua capacità di tenere insieme un’eterogeneità di riferimenti, senza appiattirli.
Un ulteriore motivo di interesse per il pubblico italiano è inoltre l’ampia conoscenza che Didi-Huberman dimostra di questa particolare regione del dibattito, richiamandosi, tra gli altri, ai lavori sul contatto di Colli (pp. 326-328), all’atmosferologia di Griffero (p. 421), o allo studio del rapporto tra percezione e nuovi media di Carbone (p. 190) e Pinotti (p. 401).
Attendiamo quindi il completamento della trilogia per seguirne i promettenti sviluppi.
Francesca Perotto
-
Aristotele dopo Deleuze
Recensioni / Ottobre 2022Se nel 1977 Michel Foucault, nella sua prefazione alla prima edizione statunitense de L’anti-Edipo, scriveva che tale testo altro non fosse se non «un libro di etica» (p. xiii), ci sembra che un giudizio complessivo analogo si possa dare anche a L’intollerabile. Aristotele dopo Deleuze (Mimesis, 2022), terza monografia di Fabio Treppiedi. Discostandosi in parte dai due lavori precedenti (Treppiedi 2015 e Treppiedi 2016), l’autore sceglie questa volta di ibridare il pensatore parigino con un autore quale Aristotele, in un gesto teoretico singolare se si considera come Deleuze sia tradizionalmente accostato a un panthéon filosofico ben definito, tra i cui rappresentanti – da Bergson a Nietzsche, dagli stoici a Spinoza – Aristotele non figura affatto. Come anzi precisa lo stesso Treppiedi, «non sarà difficile considerare nemici Aristotele e Deleuze» (p. 14), dal momento che lo Stagirita rientra a pieno titolo tra i rappresentanti di quell’«Immagine dogmatica e moraleggiante del pensiero» (Deleuze 1997, p. 186) presa di mira nella terza sezione di Differenza e ripetizione.
Lungi dal configurarsi come una ricostruzione di taglio storico o filologico del rapporto tra i due pensatori – l’autore non fa mistero di volersi discostare da una simile impostazione: «va da sé, con buona pace degli specialisti, che Aristotele e Deleuze parlino in modi differenti di princìpi a loro volta differenti» (p. 17) – il saggio di Treppiedi mira a offrirne una lettura squisitamente teoretica, con particolare attenzione, come accennato, al côté etico e politico implicato da tale congiuntura. L’autore non fa mistero di come i tre capitoli del suo libro «propongano altrettante variazioni sul tema della metafisica in direzione di problemi che ci toccano da vicino: disillusione, perdita di socialità, crisi e apatie del presente, rapporti tra soggetti e potere» (p. 9). Muovendo dalla «posta in gioco dell’interrogarsi sul presente a partire dal passato inquieto della metafisica» (p. 98), che assurge così a principale asse portante del testo, e tenendo presente la distinzione deleuziana tra princìpi e concetti, Treppiedi precisa più nel dettaglio il senso in cui tale espressione va intesa: «diremmo che uno dei significati di metafisica […] sta proprio nella forza esercitata sul pensiero da un principio che spinge al di là del comune le capacità del pensatore» (p. 18).
A riprova della tesi di Differenza e ripetizione secondo cui «c’è nel mondo qualcosa che costringe a pensare» (Deleuze 1997, p. 182), si può dunque rilevare come in gioco vi siano al contempo la genesi del pensiero e la problematica dell’afferrabilità di ciò che costitutivamente vi sfugge: in questo senso, «metafisica è sperimentare la portata di un principio che infrange il pensiero e che i filosofi ci restituiscono a frammenti, attraverso concetti, cocci di un intero, l’intollerabile, che di qua dal suo collidere col pensare e rifrangersi in immagini resta impensato» (pp. 129-130). Ecco qui fare capolino l’intollerabile, nozione che non a caso compare nel titolo del saggio di Treppiedi; ed è proprio la metafisica, con i suoi “sforzi immani” (p. 95), a doversene far carico: se in Pourparler leggiamo che «si percepisce qualcosa d’intollerabile, d’insopportabile, persino nella vita più quotidiana» (Deleuze 2000, p. 73), ecco che la storia della metafisica si configura allora come una “polifonia dell’intollerabile” (p. 130), volta ad articolare il rapporto tra princìpi e concetti anche laddove i due stridono, delineando una traiettoria che ha luogo ai bordi del pensiero, poiché «il principio spinge infatti il pensiero al limite, come un suo perno internamente dinamico e variabile, agitato da sussulti che espongono il filosofo alla prova dell’intollerabile» (p. 14).
Qual è dunque il rapporto tra princìpi e concetti? In che misura l’intollerabile trova spazio a partire dalla loro disgiuntura? A tali domande sembra offrire una risposta il primo capitolo del testo, intitolato “L’attaccamento alla vita”, il quale mira a offrire un’originale lettura di quella dicotomia tra ϑεωρία ed ἐπιστήμη, tra βίος ϑεωρητικός e βίος πολιτικός, che la metafisica, sin dagli albori della sua storia, ha stabilito come uno dei propri temi privilegiati di riflessione.
Muovendosi entro le maglie di una variegata griglia di riferimenti (Aristotele 1966, Aristotele 2000, Bergson 2006), Treppiedi delinea i contorni di «una filosofia battagliera, che s’installa al cuore dei problemi da cui procedono le differenze ridotte dal tempo a mere contrapposizioni» (p. 24). La tesi di fondo, secondo cui «l’esperienza della realtà necessita dell’illusione» (p. 34), con quest’ultima a venire esplicitamente ricondotta a quella che, ne Le due fonti della morale e della religione, Bergson chiamava “fabulazione”, viene trattata soprattutto per quanto concerne il suo aspetto più concreto e pragmatico, ovvero a partire da quella «discrepanza tra il vivere acquietato sui ritmi collaudati della società e il vedere quanto d’intollerabile c’è in essa» (p. 34), in linea con quella «violenza di ciò che costringe a pensare» (Deleuze 1997, p. 184) già segnalata in Differenza e ripetizione. Procedendo da variazioni sul celebre tema del soldato in fuga dalla battaglia nei Secondi analitici, Treppiedi si sofferma sulla distinzione tra attenzione alla vita, ovvero «la tendenza a mantenere vivo il rapporto con la comunità in cui ci si ritrova» (p. 35), e attaccamento alla vita, ovvero «il “principio attivo” […] del vivere lì dove difficoltà e pericoli fanno oscillare la linea di confine tra chi sta bene e chi sta male» (p. 35). Grazie alla messa a fuoco dello spostamento che qui si genera, ovvero di quell’«andare e venire incessante dal concetto di attenzione alla vita al principio dell’attaccamento alla vita nei termini di un intimo differenziarsi della medesima ζωή, “una vita” secondo l’ultimo Deleuze» (p. 62), l’autore offre una disamina del rapporto tra comunità e società in chiave prettamente politica e dunque – come già rimarcato – per forza di cose etica. Ne risulta allora una messa a fuoco della difficile relazione tra ϑεωρία ed ἐπιστήμη, la cui gestione rientra a pieno titolo tra il gravoso compito della metafisica: se la ϑεωρία indica quella «capacità di considerare i concetti nella loro problematica unità con i princìpi» (p. 26), ne consegue che «chiedersi cosa ne è del concetto laddove lo si separa dal principio, che senso abbia il canto senza il grido che lo accompagna, […] vuol dire anche chiedersi cosa ne è della ϑεωρία laddove si eccede con l’ἐπιστήμη» (p. 33).
Il dissidio tra princìpi e concetti è anche il punto di partenza della seconda sezione, intitolata La farmacia di Aristotele, la quale si focalizza maggiormente sui due autori al centro del lavoro di Treppiedi, nella convinzione che Aristotele sia «il filosofo di cui Deleuze esplicita più volte il grido, facendone il paradigma dei gridi filosofici» (p. 66). La discrepanza tra princìpi e concetti troverebbe, per lo Stagirita, una formulazione apparentemente conciliatoria intorno alla nozione di ἀρχή: «in risposta all’impatto intollerabile col principio, Aristotele fa di questo un concetto e lo nomina ἀρχή», compiendo dunque «un’operazione che gli darà modo di arginare l’insorgere convulso e insostenibile del principio nella ϑεωρία mediante l’isolamento in essa di un apposito dinamismo, l’ἀρχή, un dispositivo capace di dirottare verso l’ἐπιστήμη la densa sperimentazione implicita nell’intuire il principio» (p. 74). Ben presto, tuttavia, il capitolo torna ad assumere una connotazione decisamente etica: quell’«atteggiamento di sfiducia e di scetticismo» che Treppiedi etichetta come “delusionismo” (p. 77), figlio in ultima analisi dell’aristotelismo – «è effetto collaterale del dispositivo aristotelico di potenza e atto, di un φάρμακον cui il nostro pensare si è nel tempo assuefatto» (p. 79) –, viene correlato dall’autore a una classica aporia aristotelica, ovvero al «problema del movimento e della sua indefinibilità, che costituisce per Deleuze il grido di Aristotele» e che «emerge effettivamente come la bestia nera dello Stagirita, un elemento ribelle e inaffidabile che sfugge ad ogni tentativo di definizione» (pp. 81-82). La concettualizzazione aristotelica della κίνησις ha come effetto la subordinazione della potenza all’atto; ne consegue, secondo l’autore, «è quindi la rappresentazione aristotelica del movimento che incide sul nostro pensare» (p. 83). È questo il φάρμακον aristotelico in opera per quanto concerne il delusionismo, un dispositivo che sorge da una μετάβασις εἰς ἄλλο γένος tra principio e concetto: «il φάρμακον aristotelico determina il riflusso del canto sul grido, un raggelarsi del concetto alla superficie del principio che ci fa rappresentare il primo come identico in tutto e per tutto al secondo» (p. 85). Ancora una volta si tratta di rendere più accettabile, più “digeribile”, l’intollerabile del titolo – un’operazione di fabulazione, direbbe Bergson –, esattamente come fa Aristotele con «quanto vi è di più intollerabile», ovvero con «quell’indefinibilità estrema del movimento» (p. 86) di cui si è detto. La soluzione, suggerisce Treppiedi richiamandosi ad Agamben 2005 e Stiegler 2014, è quella di provare ad «accorgerci che è la potenza ad aggiungere qualcosa all’atto» (pp. 90-91) e non viceversa, ovvero di provare a ripensare il movimento senza snaturarlo: «seppure in grado di sospendere la κίνησις […] quanto basta per immetterla nel circuito dell’ἐπιστήμη, l’ἀρχή non può nulla contro la prepotenza della κίνησις stessa, unico elemento che per Aristotele resta ἀόριστον – “indefinibile” si legge nella Fisica – e che per ciò stesso costituisce in tutto il suo sistema non il canto più incisivo, l’ἀρχή, ma il principio più intollerabile, il grido che lo Stagirita contiene nell’ἀρχή» (p. 91). È il ritratto della fabulazione di “un altro Aristotele” quello che qui emerge, un Aristotele «combattuto tra una ϑεωρία del movimento che lo obbligherebbe al silenzio e l’ipotesi di una ἐπιστήμη che lo costringe a sacrificarne una parte» (p. 92). Ancora una volta, ci accorgiamo di come l’intollerabile costituisca il cardine dell’oscillazione tra questi due poli.
Il terzo capitolo, "Rispondere all’intollerabile", spezza tuttavia una lancia in favore dello Stagirita: in lui «non si dovrà vedere solo l’avvelenatore, il responsabile del nostro delusionismo cronico», trattandosi al contrario di «una figura a metà tra il medico e il taumaturgo», siccome «è sempre tra gli scaffali della sua farmacia che troveremo l’antidoto al delusionismo» (p. 96). Aristotele sembra infatti poter offrire anche la necessaria griglia teorica atta a offrire una risposta all’intollerabile: facendo appello a Simondon 2006 e Stiegler 2005, Treppiedi mette in luce come la fabulazione dia prova di quanto l’uomo «sia capace di resistere, di scorgere l’intollerabile e rispondervi» (p. 104). L’indagine prende una svolta esplicitamente politica, poiché infatti «la metafisica dovrà arrivare […] a farsi lotta politica contro tutto ciò che rallenta la κίνησις» (p. 104), con il nesso tra filosofia e politica che sarebbe opera dello stesso Deleuze – «al cuore della filosofia vibrerebbe per Deleuze qualcosa di politico, talmente radicato in essa da imporsi come impensato» (p. 106). Se Treppiedi si spinge a dire che, a partire già dalla lotta iconoclasta all’“Immagine del pensiero”, «il concetto di resistenza è quello che […] Deleuze ha intesi più di altri lasciarci in eredità», la ragione sta appunto nel côté etico-politico qui racchiuso: «il potere è sempre minacciato non tanto da ciò che vi si contrappone quanto piuttosto da un’alterità irrappresentabile, ad esso profondamente immanente e tuttavia estranea» (p. 112), dal che segue che esso «opera come un’ἀρχή nella misura in cui non fa che negare, impedire e confinare», dando vita cioè a «un operare in cui riecheggia il più potente e ingannevole dei canti aristotelici» (pp. 115-116). La radicalizzazione del potere in controllo, denunciata, tra gli altri, dallo stesso Deleuze, ci impone però una riflessione sulle modalità di resistenza, riflessione che si può leggere «come il monito a dare una possibilità alla metafisica, a un discorso sui princìpi che è forse il più improbabile – inattuale? – degli approcci al presente» (p. 120). Per illustrarlo, Treppiedi fa leva sulle riflessioni deleuziane sul maggio 1968: attingendo a Pourparler (pp. 126-127), egli insiste infatti sulla necessità di «riprendere il concetto bergsoniano di fabulazione e dargli un senso politico» (Deleuze 2000, p. 229) – «la sola possibilità degli uomini è nel divenire rivoluzionario. Solo così possono scongiurare la vergogna o rispondere all’intollerabile» (Deleuze 2000, p. 225). Per questa ragione, dunque, la metafisica, «da astratta quale può sembrare, trapassa fulminea in una politica dell’impensato» (p. 135).
Il giudizio complessivo sul libro di Treppiedi non può che essere positivo. Benché di lettura non agevolissima, dal momento che, pur nella sua brevità, tende – come si è accennato – a tralasciare le ricostruzioni storiche o didascaliche a vantaggio di un impianto esclusivamente teoretico, con il rischio forse di disorientare il lettore che vi si approccia ricercando una ricostruzione del rapporto tra Deleuze e Aristotele che L’intollerabile. Aristotele dopo Deleuze programmaticamente non offre, tale testo può, a nostro avviso, rientrare a pieno titolo in quella rinnovata fioritura dei lavori marcatamente interpretativi dell’opera deleuziana cui sembra di assistere negli ultimi anni. Non ci sembra fuori luogo sostenere che la ricezione del variegato pensiero del filosofo parigino, dopo i fasti interpretativi degli anni novanta, che hanno in qualche modo tracciato le principali diramazioni ermeneutiche a venire – da Mengue 1994 e Zourabichvili 1998 a Badiou 2004, passando per Alliez 1995, Alliez 1998 e Hardt 2000 –, stia conoscendo oggi una nuova linfa teorica, dando vita a nuovi itinerari di pensiero – da Ronchi 2015 a Lapoujade 2020 – in cui anche il più recente lavoro di Treppiedi potrebbe senz’altro essere iscritto.
di Davide Pilotto
Bibliografia
Agamben, G. (2005). La potenza del pensiero. Saggi e conferenze. Vicenza: Neri Pozza.
Alliez, É. (1995). Deleuze. Philosophie virtuelle. Paris: Les empêcheurs de tourner en rond.
Alliez, É. (a cura di) (1998). Gilles Deleuze. Une vie philosophique, Paris: Synthélabo.
Aristotele (1955). Secondi analitici. In Organon (275-403 e 889-913). A cura di G. Colli. Torino: Utet.
Aristotele (1966). Politica. A cura di R. Laurenti. Laterza: Bari.
Aristotele (2000). Metafisica. A cura di G. Reale. Milano: Bompiani.
Badiou, Alain (2004). Deleuze. «Il clamore dell’Essere». Trad. it. di D. Tarizzo. Torino: Einaudi.
Bergson, H. (2006). Le due fonti della morale e della religione. Trad. it. di M. Vinciguerra. Milano: Se.
Deleuze, G. (1997). Differenza e ripetizione. Trad. it. di G. Guglielmi et al. Milano: Raffaello Cortina.
Deleuze, G. (2000). Pourparler. Trad. it. di S. Verdicchio. Macerata: Quodlibet.
Deleuze, G. & Guattari, F. (2017). Mille piani. Capitalismo e schizofrenia. A cura di P. Vignola. Trad. it. di G. Passerone et al. Napoli-Salerno: Orthotes.
Derrida, J. (1985). La farmacia di Platone. Trad. it. di R. Balzarotti. Milano: Jaca Book.
Foucault, M. (1977). Preface. In G. Deleuze & F. Guattari, Anti-Oedipus: Capitalism and Schizophrenia (xi-xiv). Trad. ing. di R. Hurley et al. New York: Viking.
Hardt, M. (2000). Gilles Deleuze. Un apprendistato in filosofia. A cura di E. De Medio. Milano: A-change.
Lapoujade, D. (2020). Deleuze. I movimenti aberranti. A cura di C. D’Aurizio. Milano-Udine: Mimesis.
Mengue, P. (1994). Gilles Deleuze ou le systeme du multiple. Paris: Kimé.
Ronchi, R. (2015). Gilles Deleuze. Credere nel reale. Milano: Feltrinelli.
Simondon, G. (2020). L'individuazione alla luce delle nozioni di forma e d’informazione. A cura di G. Carrozzini. Milano-Udine: Mimesis.
Stiegler, B. (2005). Passare all’atto. Trad. it. di E. Imbergamo. Roma: Fazi.
Stiegler, B. (2014). Prendersi cura. Della gioventù e delle generazioni. A cura di P. Vignola. Napoli-Salerno: Orthotes.
Treppiedi, F. (2015). Differenti ripetizioni. Pensare con Deleuze. Tricase: Youcanprint.
Treppiedi, F. (2016). Le condizioni dell’esperienza reale. Deleuze e l’empirismo trascendentale. Firenze: Clinamen.
Treppiedi, F. (2022). L’intollerabile. Aristotele dopo Deleuze. Milano-Udine: Mimesis.
Zourabichvili, F. (1998). Deleuze: una filosofia dell’evento. Trad. it. di F. Agostini. Verona: Ombre Corte.
-
Filosofia del vegetale. Un’antologia
Recensioni / Settembre 2022La pubblicazione di Philosophie du végétal. Botanique, épistémologie, ontologie. Textes réunis par Q. Hiernaux conferma le attese suscitate dalla dicitura della collana che la casa editrice Vrin (Parigi) propone per la collocazione del volume: trattasi davvero di un testo chiave di filosofia del vegetale. E lo è almeno per due semplici motivi. Primo, l’antologia – questa è la natura del volume – mette a disposizione in traduzione per un pubblico francofono brani di undici opere di filosofia vegetale e di botanica filosofica: opere che possono ritenersi rilevanti o perché storicamente influenti per lo sviluppo degli studi botanici, o perché significative per le posizioni e le prospettive sugli studi in oggetto, o perché corroboranti alle linee di ricerca in corso. Secondo, l’operazione di cernita e raccolta dei brani operata da Quentin Hiernaux rappresenta un tentativo organico e ragionato di messa a punto dello stato dell’arte di un ordine di saperi, se non si vuole osare con ‘disciplina’, attualmente molto operosi che, oltre a offrire un numero crescente di pubblicazioni, sembrano cercare una propria definizione (filosofia vegetale, filosofia della biologia vegetale, botanica filosofica ecc.) e una loro costituzione disciplinare (si pensi all’ormai nemmeno troppo recente manifesto, scritto nei primissimi anni Duemila, per inaugurare la cosiddetta Neurobiologia vegetale), fornendo così il doppio servizio d’evidenziare le radici storico-teoriche dei dibatti attuali (p.e. l’intelligenza vegetale o la domanda sui diritti per le piante) e di dare consistenza storica, teorica ed epistemologica ai dibattiti stessi.
Per il fatto che il curatore sembra avere sotto gli occhi sia la totalità del quadro filosofico e scientifico entro cui le ricerche sul vegetale si sono, nel corso dei secoli, talvolta manifestate o talaltra inabissate, sia la posizione da cui, oggi, i sostenitori e i detrattori prendono parola, destinare il volume ai soli specialisti o aspiranti tali è un’operazione editoriale comprensibile, per non dire scientificamente necessitata dalla “proliferazione” di nuovi settori all’interno della classificazione deweyana, ma decisamente riduttiva. Decidere su quale scaffale della biblioteca collocare un libro, con la titubanza o la risolutezza che si dà di caso in caso, è l’ultimo (oppure il primo?) momento delle fasi di realizzazione del libro stesso, e non è mai un’operazione neutra: incide sui percorsi di ricerca e decide il destino di una disciplina, comprese le relazioni che essa intrattiene con le altre. Ora, il fatto che una lettura attenta del volume faccia pensare che la dicitura “filosofia vegetale”, pur necessitata come ho detto, non renda del tutto merito alle varie ratio che si possono rintracciare percorrendo i diversi piani di lettura (cui a breve accennerò) dice forse qualcosa sui contorni e sull’autonomia dell’insieme di questi saperi, e interroga, al di là delle contingenti divisioni in settori disciplinari, sulla bontà del farne una disciplina a parte, a discapito della conoscenza nel suo complesso. Philosophie du végétal è sì un’antologia di filosofia vegetale, ma è anche e variamente, soprattutto in base alle competenze e alla provenienza di chi la legge, un’antologia di storia del pensiero scientifico (in filigrana: l’istituirsi della botanica vs la medicina, la farmacologia e lo studio delle piante medicinali, l’intermediazione araba nella conservazione e nello sviluppo delle scienze, lo sviluppo del metodo scientifico moderno e la storia dei metodi di classificazione delle specie), un’antologia di filosofia della scienza (p.e. ci sono cenni al dibattito sull’anima e sul calore come principio vitale, alla nascita della biologia moderna, allo sviluppo del pensiero trasformista ed evoluzionista) e, percorso ancora più interessante, un’antologia di storia della filosofia (un esempio su tutti: la ricezione pervasiva dell’aristotelismo) – soltanto per limitare la restituzione all’esperienza del lettore che io incarno. Perché, allora, verrebbe da chiedere, dedicare a un (s)oggetto escluso una disciplina a parte se l’intento di partenza è quello di toglierlo dallo sfondo e dargli spessore, invece di procedere a una riscrittura dall’interno delle discipline? Perché il bordo, e non la piega?
Il lettore si trova tra le mani un volume compatto di oltre quattrocento pagine che rappresenta uno degli esiti della ricerca di Hiernaux, sapientemente istruttivo nei confronti del lettore anche meno avvezzo e teoreticamente generoso verso l’intero dibattito. Infatti, l’“Introduzione generale” e le “Introduzioni” specifiche alle singole sezioni, così come la ricca “Bibliografia”, pur corredando il volume come vere e proprie mappe a uso e consumo di tutti, affinché ciascuno possa attraversare il testo con il proprio passo – l’antologia si presenta così come uno strumento fruibile più volte e secondo le diverse intenzioni –, sono anche dei saggi a sé stanti, delle opere dentro l’opera, in grado di far intravedere, per quanto discretamente, la postura filosofica del curatore. Postura la cui cifra potrebbe essere restituita sotto la forma del tentativo teorico attento e delicato, al limite dell’equilibrismo, di non agire alcuna cattura del fenomeno, ma di lasciarlo proliferare: per paradosso, stare fermi per lasciare che sia il vegetale a venirci incontro, lasciare che sia lui, “senza volto e senza sguardo” (p. 7), a guardarci. Un simile equilibrismo è tutt’altro che una fascinazione che lascia il tempo che trova: è piuttosto e innanzitutto la manifestazione di un’etica ecologica rispetto ai rapporti che intratteniamo con altre specie e altri regni, cioè con altri modi di fare mondo. Ancora di più, è l’indice di un’ecologia epistemologica che riguarda il rapporto tra soggetto di conoscenza e oggetto conosciuto, e il riconoscimento dei limiti, intesi anche come vie di uscita, dati dal fatto di trovarsi irrimediabilmente in una posizione di partenza che insieme ci condanna e ci salva, se si è disposti a lasciarsi catturare. Accostandoci, infatti, alle sempre più numerose pubblicazioni che si annoverano nell’elenco della filosofia del vegetale, per usare la dicitura di Vrin, viene spesso da chiedersi che cosa rappresenti, nell’economia del discorso, il vegetale: se il reale tentativo, per quanto possibile, di mettere scientemente a tema una forma di vita altra o il rinnovarsi del discorso sull’umano che, normalizzando le altre forme di vita, non fa che trovare nelle differenze di grado le ragioni della propria ratio, eludendo così la differenza di naturapalesata dall’altro e il problema da essa posto. Se è vero che la filosofia ha sovente indagato il rapporto costitutivo di attività e passività, tema che è anche della filosofia del vegetale, quanto è a suo agio quando tale rapporto riguarda prima di tutto sé stessa e la propria costituzione? A intendere che, forse, un contributo filosofico sugli studi clorofilliani potrebbe arrivare solo dopo un momento di esposizione alla passività, solo dopo che i suoi capisaldi mereologici e assiologici si sono fatti attraversare.
Hiernaux sceglie di ripercorrere l’intera storia delle nostre conoscenze filosofico-scientifiche: dal III sec. a.C. agli ultimi decenni degli anni Duemila, e si serve di rappresentanti proveniente da botanica, biologia e filosofia, di diverse regioni dell’“Occidente”, confermando così l’operazione critica di stabilizzazione della disciplina vegetale proprio all’interno di quel paradigma scientifico ed epistemologico che lo ha escluso, il nostro, e che – aggiungo – si è costituito anche in virtù di questa esclusione. Si tratta, va detto, di un’operazione ben consapevole, come dimostra il fatto che, qui (p.e. p. 258) e in altri luoghi (penso a Du comportement végétal à l’intelligence des plantes ?, Quæ 2000), la più ampia ricerca di Hiernaux restituisce notizia di altri paradigmi di cui, per esempio, l’antropologia ci dà conto e che la nostra filosofia non dovrebbe più trascurare, in cui il vegetale non ha mai avuto il ruolo di sfondo, come Bruta Natura, e nei quali la separazione con l’umano, per non parlare della sua subalternità, non è stata nemmeno lontanamente contemplata.
I brani presentati sono suddivisi in tre sezioni: 1. Storia filosofica della botanica e statuto della pianta; 2. Epistemologia delle scienze vegetali; 3. Ontologia ed etica del vegetale. L’obiettivo della sezione 1 è di «riscrivere la problematica della trattazione delle piante nella sua dimensione storica» «raggruppando i testi dedicati alla storia filosofica della botanica e allo statuto della pianta», con il corollario non secondario di «mostrare il potenziale filosofico della botanica» (p. 9, trad. mia). Interpellate le voci del coro composto da Teofrasto (371-288 a. C.), Andrea Cesalpino (1519-1603), Julien Offray de la Mettrie (1709-1751) e Agnes Arber (1979-1960), veniamo a conoscenza delle ricezioni e dei commenti alle opere di Aristotele, Cartesio, Goethe – per citare i più noti. Ciò che lega i primi quattro capitoli della Historia Plantarum di Teofrasto, ritenuto il fondatore della Botanica nella sua prefigurazione di scienza sperimentale, giacché le sue ricerche «s’ispirano all’esigenza di tener conto dei fatti e di limitare la trascendenza» (cfr. nota introduttiva di J. Tricot all’edizione de La Métaphysique, Vrin 1948, p. 534, trad. mia), il divin parlatore come lo ebbe a soprannominare il maestro Aristotele, di cui Teofrasto coniuga l’approccio naturalista alle influenze filosofiche del pitagorico Menestore di Sibari e dei fisiologi greci, Anassagora, Empedocle e Democrito; i primi cinque capitoli del De Plantis LIBRI XVI di Cesalpino, botanico, medico, anatomista e filosofo, allievo di Luigi Ghini e suo successore alla cattedra di botanica e al ruolo di prefetto dell’orto botanico dell’Università di Pisa (cfr. C. Colombero, Il pensiero filosofico di Andrea Cisalpino, «Rivista Critica di Storia della Filosofia», 32 (3), p. 270), perfetto rappresentante della tensione tra la tradizione dei saperi compilativi medievali sulle piante e la botanica teorica moderna su base fisiologica, cui si deve il contributo per la fondazione teorica della scienza botanica emancipata da medicina e farmacologia, pur nel solco della ricezione di Aristotele e Teofrasto; il breve testo del botanico, medico e filosofo de la Mettrie, Homme-Plante, esempio di riaffermazione della gerarchia del vivente di stampo aristotelico entro la cornice del meccanicismo cartesiano, espresso fedelmente dall’accostamento della pianta alla macchina; il capitolo quinto di The Natural Philosophy of the Plant Form della botanica Arber, allieva della botanica Ethel Sargant, traduttrice di Versuch die Metamorphose der Pflanzen di Goethe, prima donna botanica a essere accolta dalla Royal Society e prima donna insignita con la medaglia d’oro dalla Linnean Society of London per i suoi studi in anatomia e morfologia vegetale, che prendono posto accanto ai suoi studi di storia della botanica e di filosofia botanica, influenzati da Aristotele e Cisalpino, come pure da Spinoza, Bacone e de Condolle (cfr. per approfondire la figura di Arber, il saggio premessa di L. Tongiorgi Tomasi in A. Arber, Erbari. Origine ed evoluzione 1470-1670, Aboca 2019): è il tema dell’“ordinamento generale del mondo” o della continuità tra i regni, o per meglio dire delle forme di vita, a partire dalle determinazioni comuni che, da una parte, hanno accostato le forme di vita mostrandone la similitudine (fino ad arrivare all’idea trasformista delle variazioni individuali in seno a una norma o a un tipo specifico) ma che, dall’altra, hanno generato gerarchie pregiudizievoli circa la positività di cui ciascuna forma si fa portatrice. Se l’impronta zoomorfica che ha connotato, fin dal battesimo aristotelico, gli studi naturalistici (non solo quelli sulle piante!) sembrerebbe inevitabile, oltre che metodologicamente giustificata dal bisogno di spiegare ciò che è meno noto per mezzo di ciò che è più noto, è quantomeno opportuno considerare il rischio di distorsione che comporta prendere il modello animale come riferimento per gli studi dedicati ad altre forme di vita e per la conoscenza del vivente in generale (p.e. p. 25). «Fino alla fine del XIX secolo, la botanica si è presentata come scienza dei viventi non-animali, raggruppando indifferentemente lo studio delle piante e delle alghe, quello dei funghi, dei licheni, e anche dei coralli o dei batteri. Questi esseri, al di là o più tradizionalmente “al di qua” dell’animale che non sono, possono anche essere avvicinati in maniera non gerarchica e positiva, cioè secondo le loro specificità e i modi di vita propri» (p. 11, trad. mia). Dei tentativi erano stati fatti: già da Teofrasto si rintraccerebbe l’esercizio di studiare le piante “per sé stesse”: non secondo la caratterizzazione difettiva, secondo mancanza, rispetto al modello delle forme animali, ma per la positività che caratterizza specificamente la forma di vita vegetale, ovvero la capacità di variazione e l’elevata plasticità. «Quindi, che cosa significa, per la pianta, avere un corpo?» (p. 11, trad. mia; la formulazione fa venire in mente l’articolo: P. Calvo, What is it like to be a plant?, «Journal of Consciousness Studies», 24, 2017, 205–227). Quello che unisce «il pensiero naturalista della tradizione, almeno dopo Teofrasto, passando per la botanica moderna, per arrivare alla morfologia goethiana di Agnes Arber [è che] il corpo della pianta mette sottosopra l’organizzazione animale del tutto e della parte» (p. 12l, trad. mia). Sembra essere già percezione aristotelica che la differenza tra forme di vita animali e forme di vita vegetali stia nel fatto che le prime sono di tipo gerarchico e finalista, le seconde sono, per dirla à la Mancuso, organizzazioni orizzontali, poiché la loro crescita iterattiva e indefinita rende difficoltosa, se non impossibile, la delimitazione delle loro parti. Da una simile differenza di organizzazione, che altro non è che un differente rapporto organo/organi-organismo, segue un diverso senso della totalità: indivisibile per le forme animali, divisibile per le forme vegetali; un diverso senso dell’autonomia o dell’individualità, cioè dell’uno.
La sezione 2, su epistemologia e filosofia della biologia vegetale, è attraversata da due domande: «quale posto il vegetale occupa nello sviluppo della biologia del XX secolo?», «su quali principi e metodi si basa l’approccio scientifico del vegetale?» (p. 12, trad. mia). Per districarsi, Hiernaux seleziona due temi conduttori: il comportamento e l’individualità. «Dal XVIII secolo, i progressi sperimentali delle scienze naturali danno l’impressione che il concetto di anima possa essere abbandonato a profitto di un meccanismo per comprendere la vita delle piante. Dalla fine del XIX secolo, la concezione del vivente basata sull’anima fa progressivamente spazio alla biologia contemporanea. Poco a poco, s’impone il paradigma evoluzionista. La fisiologia inaugura importanti scoperte sperimentali sul funzionamento delle piante che rivoluzionano la botanica. Questa nuova disciplina di laboratorio, con protocolli e strumenti propri, si diffonde per tutta l’Europa. […] Gli sviluppi della fisiologia vegetale cambiano il rapporto verso la sensibilità delle piante. […] L’esclusività del registro delle spiegazioni causali e meccanicistiche non può essere ormai considerato legittimo» (pp. 127-128, trad. mia). Si affina così un’attenzione sempre maggiore verso la possibilità di rintracciare un ordine psichico o cognitivo anche nelle forme vegetali. Autrici e autori principali di questa sezione sono Léo Errera (1858-1905), Anthony Trewavas (1939), Fatima Cvrčková – Helena Lipavská – Viktor Zársky, Ellen Clarke; con loro si offre l’occasione di richiamare anche la scuola tedesca di J. von Sachs e W. Pfeffer, il lavoro di R. Francé, gli studi di Linneo e di Darwin, ma anche Porfirio, Duns Scoto, Leibniz, financo Simondon. Attraverso la proposta del dattiloscritto della conferenza del 1900 Les Plantes ont-elles une âme? di Errera, professore di botanica con formazione filosofica, fervente evoluzionista, istitutore del primo laboratorio belga di anatomia e fisiologia vegetale presso l’Université Libre de Bruxelles, già attento alle ricerche sui fenomeni di variazione elettrica rintracciabili nei vegetali tanto quanto nei fenomeni nervosi, che andrebbero a sostenere, in un quadro darwiniano, la continuità tra forme di vita oltre le fratture ontologiche tra regni, ricerche al centro dei dibattiti contemporanei; del capitolo nono di Plant Behaviour and Intelligence di Trewavas, fisiologo vegetale impegnato nel campo della segnalazione chimica delle piante, esponente della Neurobiologia vegetale, sostenitore dell’irriducibilità della spiegazione dei comportamenti a un ordine esclusivamente genetico o chimico aprendo così alla possibilità di una comparazione etologica con gli animali più semplici, osservatore e teorizzatore della comunicazione elettrica nelle forme vegetali spiegata in termini di “cognizione minima”; dell’articolo Plant Intelligence Why, why not or where? dei biologi praghesi Cvrčkovà, Lipavská e Zársky, che introducono il lettore alla domanda sull’intelligenza vegetale, contribuendo a fare ordine in vista della costruzione di una discussione scientifica sul tema: si delinea come il dibattito sul comportamento vegetale sia vincolato ad altri due aspetti che, nel corso dei secoli, sia in filosofia sia nelle scienze sperimentali, hanno pregiudicato la stessa ricerca fisiologica vegetale: 1) la mancanza negli organismi clorofilliani di un sistema nervoso, 2) la difficoltà di circoscrivere in essi l’individuo. Quello che preme sottolineare, per mostrare il dialogo tra le due sezioni del volume, è che la disquisizione tra sostenitori e detrattori del comportamento vegetale intelligente – ci sia perdonata la ridondanza – si gioca all’interno e nel confronto con un paradigma, il nostro, figlio, da una parte, della vulgata della tradizione aristotelica dell’anima (si noti il passaggio e l’evoluzione storica del concetto di “anima”, attraverso quello di “calore”, fino a quello di “comportamento”) e, dall’altra, della tradizione cartesiana del dualismo mente-corpo. Com’è possibile attribuire un’intenzionalità a un essere privo di mente? E anche, come circoscrivere e attribuire comportamenti a una soggettività che non è un individuo? Gli studi sul comportamento vegetale, allora, rappresenterebbero il viatico per proporre un altro paradigma metafisico (e un’altra assiologia) alternativo a quello di matrice zoocentrica. Sulle difficoltà, e i paradossi che ne conseguono, di far combaciare l’organismo verde e il concetto d’individuo delle scienze biologiche, ricade la scelta dell’articolo Plant individuality: a solution to the demographer’s dilemma di Clarke, filosofa ed epistemologa della biologia che «trae le conclusioni biologiche del problema della grande plasticità e della variabilità delle piante, [lasciato irrisolto] da Teofrasto e da Aristotele» (p. 137, trad. mia). Dalla lettura del contributo di Clarke si evince il circolo vizioso in cui ci si trova se non si possiede un concetto chiaro di individuo vegetale in seno alla teoria evoluzionistica.
La sezione 3 è dedicata interamente all’ontologia e all’etica, che si palesano, nel quadro del volume, indiscernibili. «La riflessione ontologica sul vegetale consiste da una parte nell’interessarsi ai suoi modi di esistenza […], dall’altra ci conduce a ripensare il modo di avvicinare il mondo, l’anima, il divenire ecc. nella loro relazione con le piante»; «l’etica, invece, s’interessa al modo in cui diamo valore a certe entità o azioni nel quadro dei nostri diritti, responsabilità e doveri verso le piante» (p. 247, trad. mia). L’articolo Plant-Soul: The Elusive Meanings of Vegetative Life di Michael Marder, filosofo dell’Università dei Paesi Baschi Vitoria-Gasteiz, che, all’incrocio tra fenomenologia, ecologia e pensiero politico, attribuisce al vegetale un’intenzionalità originaria non cosciente, tentando di sottrarlo sia alla definizione di essere mancante (tipica della svalutazione metafisica) sia a quella di essere indicibile (della feticizzazione pagana); e il prologo al libro La vie de plantes. Une métaphysique du mélange di Emanuele Coccia, filosofo italiano, formatosi anche sulle pagine della filosofia medievale, da cui egli deriva l’attenzione per la riflessione sulle diverse concezioni di “mondo”, lavorano entrambi per la formulazione di un paradigma maggiormente ecologico rintracciabile nel cosiddetto biocentrismo, rispetto al quale il contributo specifico del pensiero sul vegetale risiede nell’invito a ristrutturare ancora più marcatamente l’ontologia nei termini di “processo”, a detrazione di quelli di “sostanza”. Verrebbe da pensare che i concetti di “condivisione” di Marder e di “mescolanza”di Coccia vadano nella stessa direzione: mettono l’accento sulla continuità piuttosto che sulla frattura tra ordini del reale e sottolineano come il reale sia composto da intricate relazioni, se non vere e proprie relazioni di dipendenza, che riguardano anche l’umano rispetto al vegetale. “Le piante sono il mondo”, scrive Coccia, che in altri scritti arriva a radicalizzare fino al paradosso l’immagine delle piante giardinieri del giardino che siamo noi. In virtù del ripensamento delle relazioni tra mondo umano e mondo vegetale, chiude l’articolo Beyond “Second Animals”: Making Sense of Plant Ethics di Sylvie Pouteau, biologa vegetale, attiva nel dibattito sull’etica delle piante, diritti compresi. Con Pouteau, l’invito è di rivalutare il modo in cui letteralmente ci serviamo delle piante, giustificati da una visione gerarchica del mondo, alimentata a sua volta dall’ordine delle scienze naturali, per immaginarealtri rapporti possibili in cui l’utilità non sia l’unico e il solo. E, tuttavia, giunti alla fine del volume, come sollevati da una rivoluzione finalmente pensata, una frase scritta nell’“Introduzione” alla terza sezione rimette in gioco quelle che sembrano le nuove conclusioni cui siamo arrivati, e invita a ripercorrere il volume da capo, come un’ultima mano di carte sul tavolo riapre la partita: «Porsi la questione dell’autonomia della pianta verso il suo ambiente ha senso solo nella misura in cui siamo prigionieri dei nostri dualismi. Le piante, che sia per la loro cognizione senza cervello o per il loro metabolismo aperto sull’ambiente, rimescolano le carte dell’ontologia [ancora fin troppo, NdR] classica» (pp. 253-254, trad. mia).
Indizio per frequentare le pagine, sembrerebbe che l’obiettivo minimo dell’autore sia che, una volta chiuso il libro, il lettore trattenga che il vegetale sia più di una cosa inerte e meno di una cosa a disposizione (p. 19). Il che significa riconoscere al vegetale una propria agentività, financo una propria soggettività, secondo la logica per cui liberare dall’eteronomia implica riconoscere l’autonomia. Tuttavia, si tratta di un obiettivo troppo modesto alla luce dell’accuratezza con cui Hiernaux, che dà prova di essere un abile dissezionatore, taglia e ricompone i nessi alla base delle nostre conoscenze (e della nostra identità). Allora, altrove, a mio avviso, si rintraccia la vera domanda che dà l’avvio all’immaginazione di quest’antologia, declinata per la filosofia ma valida anche per gli altri saperi: «Si tratta di domandarsi non più come la filosofia ci permetta di comprendere le piante, ma come la comprensione delle piante possa trasformare la filosofia» (pp. 16-17, trad. mia). Che cosa succederebbe se un esile cirro iniziasse ad arrampicarsi su secoli e secoli di storia, pratiche e biblioteche, e con i suoi rami e germogli iniziasse a crescere e a scriverci sopra: saremmo in grado di reggere all’immagine di quella proliferazione clorofilliana o finiremmo per assomigliare di più a un edificio abbandonato?
di Veronica Cavedagna
-
Rudi Capra: riflessioni sulla filosofia comparata
Recensioni / Maggio 2022I Flauti del cielo. Quattro divagazioni sul tema della filosofia comparata – pubblicato nel 2020 da Mimesis per la collana Pensieri d’Oriente – non definisce semplicemente, come annuncia il sottotitolo, forma e funzione della filosofia comparata, ma fa molto di più: piuttosto che limitarsi a meditare il senso della pratica comparativa o a circoscriverne le modalità d’azione, così collocandosi su di un piano preliminare e introduttivo, esibisce la fecondità del meccanismo comparativo impiegandolo in modo intensivo in ogni piega del discorso che pagina dopo pagina si articola e assume consistenza. In altri termini, la comparazione non è soltanto il contenuto del libro, ma anche la forma mediante la quale esso si struttura. Il ritmo complessivo è scandito da «quattro divagazioni», ciascuna delle quali applica la forma comparativa nell’ottica di un tema specifico, a sua volta connesso agli altri e quindi alla composizione nella sua totalità, come un movimento in una sinfonia. La metafora musicale fa da sottofondo a tutto l’ordito: il titolo stesso – tratto da un’antica parabola taoista – allude all’armonia invisibile che pervade l’universo visibile, a quella musica senza suono che è matrice silenziosa di tutti i suoni senza per questo perderne la tonalità specifica.
L’esito dell’operazione di Rudi Capra, che in ogni pagina intreccia fili di colori dissimili, è in tal senso tutt’altro che dissonante: la continua oscillazione tra il registro metafisico occidentale e quello proprio alle tradizioni taoista, ruista, buddhista, zen – sebbene orientata ad esibire delle differenze piuttosto che a sottolineare delle affinità – non si sbilancia mai su di un polo a scapito dell’altro, ma si mantiene in equilibrio tra i due. Le quattro sezioni nelle quali il testo si suddivide – Identità, Sé, Volontà, Natura – sconfinano incessantemente le une nelle altre: in ciascuna riverberano le riflessioni che la precedono e sono anticipate quelle che seguono, così da conferire all’incedere argomentativo una continuità cogente senza appesantire la lettura. La scrittura è infatti arricchita da numerosi riferimenti letterari, cinematografici, mitici tutt’altro che estrinseci e meramente decorativi, a testimonianza della molteplicità irriducibile delle risorse che alimentano il pensiero filosofico da un lato, e sulle quali quest’ultimo agisce in quanto catalizzatore di senso dall’altro. L’incessante confronto con le filosofie orientali non assume mai la forma di un esercizio fine a se stesso, bensì retroagisce sulla tradizione occidentale rendendone manifesti i presupposti. Sebbene il testo non abbia l’ampiezza necessaria a consentire una ricostruzione minuziosa della storia della metafisica, l’autore coglie ed espone in modo efficace le linee di coerenza che la attraversano senza appiattirle le une sulle altre, saggiandone al contempo la consistenza mediante l’accostamento a vie del pensiero tracciate fuori dai suoi confini. Ciò non significa affatto che non vi siano, nella storia del pensiero occidentale, alcune linee di fuga eccentriche rispetto alla tradizione dominante e che consentirebbero un accostamento tutt’altro che improbabile con le filosofie orientali; significa però che l’Occidente ha infine scelto Parmenide e non Eraclito, ritenendo quell’intuizione più promettente, più feconda per il pensiero: «per effetto congiunto dell’influenza platonico-aristotelica da un lato, giudaico-cristiana dall’altro, la tradizione occidentale rispetto al fuoco eracliteo – differenza, dinamicità, evanescenza, inafferrabilità – ha preferito l’essere parmenideo – identità, staticità, permanenza, tersità» (p. 18). La storia della metafisica coincide in larga parte in un’esplorazione approfondita e molteplice delle implicazioni di questo presupposto di fondo.
L’obiettivo fondamentale del libro di Rudi Capra è quello, impiegando le parole dell’autore, di «ascoltare le note nascoste che espongono i limiti inerenti del canone occiduo ed esortano allo sviluppo di un contrappunto interculturale» (p. 15): l’intonazione complessiva assume quindi, sin dalle prime righe dell’Introduzione, un andamento decostruttivo, animato dalla persuasione che il confronto con la tradizione sino-giapponese e buddhista indiana, nella sua differenza costitutiva da quella occidentale, sia fondamentale per aiutare quest’ultima a cogliere la parzialità della visione del mondo e dell’uomo che in essa ha assunto forma nel corso dei secoli. La metafisica si è infatti sviluppata sulla scorta di un pensiero antitetico – che si struttura mediante polarità conflittuali e irriducibili –, di una concezione profondamente unitaria dell’identità personale, di un soggetto dominato dalla volontà nel suo rapporto tragico al fato o al destino che la sopravanza, di una natura ridotta, antropocentricamente, ad essere una risorsa preposta al soddisfacimento dei bisogni umani. Completamente diverso è il modello adottato, scrive l’autore, dall’antichità cinese, che si avvale di un pensiero correlativo – nel quale le polarità sono inserite in una circolarità processuale, in un equilibrio dinamico ma non oppositivo – e che mostra la valenza relativa, circostanziale e quindi non assoluta delle leggi fondamentali del pensiero occidentale – quella d’identità, quella di non contraddizione e quella del terzo escluso.
Al modello di un’identità forte, cioè di un nucleo inscalfibile e monolitico che «ha costituito il pregiudizio supremo della metafisica occidentale» (p. 18), le filosofie orientali preferiscono l’intuizione di un’identità debole: ogni cosa, essere, concetto non è che un nodo in una rete, il termine di una relazionalità cosmica che lo precede e lo decentra incessantemente, differendolo in un gioco di specchi infinito. Conseguentemente, il sé – cioè l’identità personale – può essere inteso come un fondamento «unitario, permanente e inalterabile, che ha i connotati storici della psyche greca, dell’anima cristiana e dell’ego cartesiano» (p. 47) oppure «come una proiezione delle nostre funzioni cognitive» (ivi) che infine poggia su di un vuoto: una costruzione impermanente e non sostanziale, fluida e non statica, provvisoria e non assoluta. La correlazione di tutto con tutto impedisce di pensare nei termini del fondamento, della coincidenza pura e senza scarti di ciascun ente con se stesso, di un rapporto univoco e irreversibile tra una causa e il suo effetto – grandi tentazioni della metafisica – ma apre piuttosto ciascuna cosa sulla sua stessa vacuità (śūnyatā), la spalanca al vuoto che già da sempre la abita. Śūnyatā non è, infatti, una «cosa», un possesso stabile e definitivo che si ottiene al compiersi di un processo di svuotamento, bensì un gesto inesauribile che coincide con la capacità di non legarsi ad alcuna forma determinata, nemmeno a quella che nomina e definisce l’indeterminato.
Come sostiene la scuola buddhista cinese Tiantai, se l’assenza di una natura intrinseca (svabhāva) che sia fondamento puro e indivisibile dei fenomeni è la conseguenza implicita e necessaria della loro genesi co-dipendente (pratītyasamutpāda), allora «ogni fenomeno nell’universo è il risultato locale e condizionato di tutte le azioni e condizioni e fenomeni nell’universo, laddove una differenza tra i fenomeni può essere tracciata soltanto sulla base di una coerenza locale e condizionata» (p. 121). Misurarsi con la concezione buddista di vacuità è quindi un esercizio fecondo per il pensiero occidentale, perché costringe ad abbandonare gli schemi oppositivi e fa collassare i termini dei dualismi gli uni sugli altri: essere e nulla, fondante e fondato, causa ed effetto non sono nozioni adeguate a rendere conto di un’intuizione che esige di essere compresa mediante uno sforzo ulteriore, che vada cioè al di là della lingua metafisica – dominata dalla copula e pertanto predisposta alla reificazione, all’identificazione, alla presentificazione di ciò che in essa viene nominato – e dei concetti che la strutturano. La śūnyatā si svuota anche di se stessa, si libera della propria forma particolare, è un nome che svolge la funzione di esprimere l’insostanzialità ultima di tutte le cose, azioni, parole, quindi anche di se stesso: il vuoto non può che svuotarsi, “è” nient’altro che svuotamento.
La scommessa della filosofia comparata si gioca in tal senso all’altezza dell’esigenza di pensare altrimenti dall’ideologia antropocentrica e tecnocentrica all’interno della quale l’uomo contemporaneo concepisce se stesso e il suo rapporto con il mondo: non si tratta di criticare i successi della scienza, bensì di comprendere la problematicità «dell’uso impostole dall’antropocentrismo radicale, ideologia che presuppone una netta separazione tra soggetto e oggetto, tra umanità e natura, e subordina la totalità degli elementi e dei processi naturali a uno strumentalismo bruto» (p. 111). Porsi in ascolto di una voce differente, che non parli cioè il linguaggio metafisico dell’essere e dell’identità, è cruciale per coglierne i limiti. Se il pensiero antitetico tende a separare uomo e natura e ad affermare il predominio del primo sulla seconda – così riducendola ad essere, con le parole di Heidegger, un “fondo disponibile” all’azione manipolante della tecnica – il pensiero correlativo è ecologico per definizione: l’uomo è parte integrante dei processi naturali, ed è quindi chiamato ad assecondarli, a risuonare con essi, non a controllarli o addirittura a deviarli a suo piacimento. Un unico soffio vitale (qi) pervade i molteplici stati del reale, innerva le cose visibili e la dimensione dell’invisibile, assumendo gradi di rarefazione o concentrazione differenti ma provvisori, sempre in procinto di trasformarsi, di mutare forma: una sola è la musica cosmica, sebbene ogni essere, cosa, pensiero sia una nota irriducibile di un’armonia che si rinnova e si esprime ad ogni suono.
Il libro di Rudi Capra ha il pregio di esibire con chiarezza e perentorietà l’esigenza, ormai innegabile quanto urgente, di una contaminazione feconda tra i pensieri, i linguaggi, le culture: la filosofia comparata come chance per la filosofia tout court.
di Emma Lavinia Bon
-
Sulla Object-Oriented Ontology
Recensioni / Settembre 2021In Verso il concreto (1932), Jean Wahl intravedeva nella filosofia a lui contemporanea, con grande spirito di previsione, un nuovo corso realista, votato a una comune reazione nei confronti dell’astrattezza della dialettica hegeliana: Heidegger, Husserl, Bergson, James, Whitehead e Gabriel Marcel – solo per citare alcuni nomi – sembravano ai suoi occhi riorientare il pensiero filosofico verso la concretezza dell’esperienza a partire da tre assi principali: 1. la convinzione che esista un fondo della realtà “non relazionale”, situato al di là di tutte le relazioni che pure costituiscono e vivificano il mondo empirico; 2. la conseguente e inevitabile reimmissione – nel cuore di forme anche radicali di realismo – di una sorta di “idealismo magico” che determina un’impossibilità de facto di raggiungere gli aspetti più profondi del reale; 3. l’apertura a istanze non strettamente filosofiche, ma anche letterarie, poetiche ed artistiche, in grado di riuscire nell’impresa conoscitiva là dove la razionalità del concetto fallisce. Se l’operazione di Wahl è stata a tutti gli effetti seminale nell’influenzare un’intera stagione della filosofia continentale francese (e non solo) in un percorso che giunge sostanzialmente sino al progetto deleuziano dell’empirismo trascendentale, si potrebbe altresì mostrare come le tre caratteristiche intraviste all’opera da Wahl nel pensiero degli anni ’30 siano perfettamente presenti anche nella cosiddetta Ontologia orientata agli oggetti (spesso abbreviata in OOO), a cui è dedicato il primo volume in lingua italiana, curato da Vincenzo Cuomo ed Enrico Schirò, Decentrare l’umano. Perché la Object-Oriented Ontology (a cura di V. Cuomo e E. Schirò, Kaiak Edizioni, 2021).
Sarebbe tuttavia arduo tratteggiare con precisione storia e sviluppi della OOO, movimento ibrido e assolutamente eterogeneo, legato in primis alla figura e al pensiero di Graham Harman, ma nato in seno a un complesso intreccio di rinnovati realismi sorti tra la fine del Ventesimo Secolo e il primo decennio del Ventunesimo, dallo speculative realism di Quentin Meillassoux, etichetta teorica più generale al cui interno si possono forse far rientrare tali realismi, al new materialism, passando per alcune forme dell’accelerazionismo e per il più laterale Nuovo Realismo difeso in Italia da Maurizio Ferraris. Certo, è possibile trovare cifra comune di tale svolta realista nella denuncia del cosiddetto “correlazionismo”, ossia dell’imprigionamento e del ridimensionamento della realtà (e dunque dei suoi oggetti) all’interno dello schema duale soggetto-oggetto, in un percorso moderno che da Cartesio giunge sino Kant; tuttavia l’eterogeneità di tali riflessioni, tale per cui ogni autore afferente a questa svolta professa in fondo una sua personale posizione, è confermata dalla parte antologica del volume, nella quale due dei nomi più prestigiosi associati a questo tournantesibiscono visioni sostanzialmente antitetiche: da un lato il neo-aristotelismo di Harman, il quale elabora una filosofia che dà consistenza alle forme sostanziali e individuali della realtà, da lui battezzate “oggetti” (p. 86); dall’altra il “(neo)platonismo” di Levi R. Bryant, che pare voler abbandonare la staticità dell’ontologia harmaniana in favore di una metafisica processuale della piega e del differenziale di chiara ascendenza deleuziana (pp. 48-53).
I testi presenti nel volume, tanto nella sua parte antologica quanto nella sua parte critica, introducono il lettore di fronte alle principali innovazioni teoriche prodotte dalla OOO. A emergere è innanzitutto la creatività del lavoro interpretativo harmaniano a partire dal corpus delle opere heideggeriane e husserliane: attraverso l’estensione del Dasein e dell’intenzionalità da presupposti di natura correlazionale e soggettivistica a principi insiti nella realtà nel suo complesso, Harman estrapola dalla tradizione “fenomenologica” una filosofia che difende strenuamente la dignità degli oggetti (p. 16) dalla loro riducibilità a componenti/parti (undermining) e/o a effetti/relazioni (overmining). Sono infatti gli oggetti – reali e sensuali – i veri protagonisti del pensiero harmaniano, i quali fungono da grimaldello risolutamente anti-olista attraverso il quale fuoriuscire dall’antropocentrismo insito nella tradizione filosofica moderna, per rilanciare di conseguenza una vera e propria metafisica. A partire da qui si rende comprensibile il denso inventario concettuale elaborato da Harman e ben riassunto dall’introduzione al volume firmata da Enrico Schirò: dal ritiro degli oggetti reali rispetto alle pretese del soggetto conoscente (withdrawal) alla natura piatta e radicalmente antigerarchica dell’ontologia (flatness), fino alla complessa natura della causalità, quasi un contatto senza contatto tra oggetti reali (vicarious causation). Seguendo la strada inaugurata da Harman, Timothy Morton – attraverso uno stile letterario tanto evocativo quanto espressivo – ha poi condotto la OOO verso nuovi orizzonti ecologici attraverso l’analisi delle eterogenee scale temporali (p. 68) dischiuse dai cosiddetti “iperoggetti”: l’importanza delle questioni ambientali – riconosciuta peraltro proprio da Harman, nell’intervista condotta da Thiago Pinho, come più cogente rispetto a una critica del capitalismo (p. 92) – traghettano così la OOO verso alcune delle più pressanti sfide della contemporaneità
Tra i punti di forza del volume, vi è certamente il suo sguardo non apologetico (p. 11): se è vero che la OOO ha effettivamente riaperto i giochi della filosofia continentale in seguito al declinare della stagione postmoderna, ciò non significa che la sua proposta teorica sia esente da criticità. Oltre alla già citata critica di Levi Bryant alla “staticità” della OOO, non va per esempio passata sotto silenzio, secondo Jean Claude Leveque, l’interpretazione harmaniana di Heidegger, certo creativa, ma non priva di imprecisioni (pp. 158-159) né la difficoltà di riconfigurare l’Ontologia orientata agli oggetti in un’ottica di critica del presente (pp. 170-171). Buona parte dei rilievi presenti nel volume si concentra però sulla problematicità di un realismo che, nell’insistere sull’irriducibilità degli oggetti ai modi in cui a essi si può accedere, costruisce una complessa dualità – più (post)kantiana di quanto Harman non voglia ammettere – tra ciò che è “in sé” e ciò che è “per noi”, come sostiene Levi Bryant (p. 43). In questo modo si slitterebbe senza soluzione di continuità verso forme di idealismo che Felice Cimatti – autore del contributo più critico presente nel volume – liquida in fondo come teologiche (p. 202). Non avendo fatto davvero i conti l’eredità trascendentale da un lato e con il linguistic turn dall’altro, la OOO ipostatizzerebbe secondo Cimatti la natura degli oggetti (o iperoggetti) a figure mistiche e divine (p. 230).
Non meno importante – per comprendere appieno il valore della proposta della OOO – è misurarne le concrete applicazioni ai diversi campi del sapere: come sottolinea Leveque, buona parte delle più interessanti proposte teoriche contemporanee ha fatto fortuna ben al di là del ristretto campo dei dipartimenti di filosofia (p. 151). La OOO non fa eccezione: si pensi a titolo di esempio all’influenza esercitata sulla programmazione informatica e in special modo videoludica, mediata dalla figura del teorico e programmatore Ian Bogost, o sulla teoria architettonica e il design (Harman insegna filosofia alla Southern California Institute of Architecture). Ma è anche la filosofia della mente a poter trovare nella OOO un buon alleato: come mostra Marco Mattei, si può tentare di collegare le riflessioni di Harman sugli oggetti tanto alla tradizione panpsichista quanto ad alcuni fondamentali contributi provenienti da certo cognitivismo contemporaneo (G. Tononi, A. Chalmers), in nome di una vera e propria “psicologia speculativa”. La OOO sembra poi poter fornire una convincente interpretazione etico-politica della tecnica, come evidenzia Claudio Kulesko attraverso un’affascinante analisi “accelerazionista” dei film Gremlins e Gremlins 2: eradicando l’utensile dall’orizzonte di un accesso soltanto umano e ridonandogli così compiutamente agency, Harman, secondo Kulesko, dischiude la possibilità di pensare un orizzonte tragico nel quale «la “dromosfera” diviene il luogo di una potenziale carneficina» (p. 286).
È però probabilmente il campo della teoria estetica quello nel quale le intuizioni della OOO sembrano poter dare i contributi più significativi. Harman stesso, nel mostrare l’impossibilità di un accesso umano e immediato agli oggetti, rivaluta infatti la potenza euristica del “non letteralismo” proprio per esempio della metafora e considera l’estetica come una vera e propria “filosofia prima” (p. 38). È a partire da queste considerazioni – messe in pratica per la prima volta da Harman nel suo libro dedicato a H.P. Lovecraft – che si muove il contributo di Cuomo, il quale, appoggiandosi al pensiero di Harman e integrandolo con alcune intuizioni decisive di Morton sull’algoritmo culturale agrilogistico (p. 255), mostra con chiarezza come sia possibile concepire un’estetica OOO che colga nell’idea di bellezza un accesso a quella “danza delle cose” (p. 269) situata al di là dell’orizzonte sensuale nel quale percezione e cognizione sembrerebbero dover restare inevitabilmente relegate. In questo modo Harman e Morton sarebbero in grado di confrontarsi con l’eredità kantiana, riprendendo e al tempo stesso rovesciando le principali definizioni del bello presenti nella Critica del giudizio.
Non si può – per concludere – se non salutare con entusiasmo l’uscita di Decentrare l’umano: da un lato perché dà voce a un movimento filosofico passato a lungo inosservato nel panorama filosofico italiano e dall’altro perché ne mostra senza retorica pregi e difetti, capacità di comprensione del presente e aspetti problematici. A emergere dalle pagine del volume è però anzitutto l’aspetto a parere di chi scrive più significativo della OOO, ossia il coraggioso tentativo di rilanciare un pensiero di natura metafisica – una “teoria del tutto” – capace di opporsi a quella liquidazione della filosofia prima che ha purtroppo caratterizzato buona parte delle riflessioni sviluppate nel Ventesimo secolo.
di Giulio Piatti
-
Breve storia dell’analogia
Longform / Giugno 2021L’analogia accompagna la storia della filosofia sin dai suoi albori[1]. Questa nozione viene elaborata nel contesto della riflessione matematica greca, in particolare da autori come Euclide ed Eudosso di Cnido, i quali la caratterizzano come un’uguaglianza di rapporti quantitativi, cioè una proporzione per cui A : B = C : D. Nella riflessione filosofica è utilizzata già da Platone, che nel Timeo la definisce “il più bello dei legami” (Plato, Tymaeus 31c) e nella Repubblica delinea la celebre analogia tra il Sole e l’Idea del Bene (Plato, Respublica 508d). Ben presente anche nella riflessione degli Accademici successivi, in particolare Speusippo, essa viene ripresa da Aristotele, che più di tutti ne fa un uso ampio e trasversale, applicandola ai diversi ambiti della sua speculazione filosofica e scientifica. A dispetto delle numerose occorrenze di questo termine negli scritti aristotelici, lo Stagirita ne fornisce una esplicita definizione soltanto in poche occasioni. Ad esempio, nella Poetica, dopo aver menzionato la metafora per analogia, spiega: «per analogia dico quando sono in uguale rapporto il secondo elemento con il primo e il quarto con il terzo. Si dirà allora il quarto per il secondo o il secondo per il quarto» (Aristoteles, Poetica, 21, 57b 16-33.). Nell’Etica Nicomachea, nel presentare il giusto come qualcosa che si stabilisce per mezzo di un’analogia, Aristotele afferma che questa costituisce «un’uguaglianza di rapporti, e si ha tra almeno quattro termini» (Aristoteles., Ethica Nicomachea, V, 6, 1131a 30 – 31). Infatti la giustizia, in modo particolare quella distributiva, si realizza nell’uguaglianza proporzionale tra le persone coinvolte e i beni assegnati. Ancora, nelle opere biologiche si fa un largo uso dell’analogia, intesa soprattutto come identità di funzione tra i termini considerati, al fine di istituire connessioni utili alla comprensione del mondo vegetale e animale:
Intendo per analogia che alcuni animali hanno il polmone, altri non hanno il polmone ma un altro organo che sostituisce la funzione svolta dal polmone negli animali che lo possiedono; ancora, alcuni hanno il sangue, altri qualche cosa di analogo che possiede le stesse proprietà presentate dal sangue negli animali sanguigni (Id., De partibus animalium, I, 5, 645b 6-1).
L’analogia viene chiamata in causa anche in alcuni importanti passi della Metafisica. Nel libro V, trattando dell’uno per sé, Aristotele distingue livelli diversi di unità: per numero, specie, genere e analogia. Quest’ultima è definita come la relazione per cui questo sta a quello come altro sta ad altro, ed è presentata come il tipo più ampio e debole di unità, l’unico in grado di oltrepassare le distinzioni tra le categorie e così abbracciare la totalità dell’essere (Aristoteles, Metaphysica, V, 6, 1016b 30-35). Nel libro IX si afferma esplicitamente che le nozioni di potenza e atto, per via della loro generalità e del loro carattere fondativo, non possono essere definite, ma possono essere comprese soltanto mediante l’analogia. Infatti, è possibile dire che l’atto sta alla potenza come chi costruisce sta a chi può costruire, chi è sveglio a chi dorme, chi vede a chi ha gli occhi chiusi pur avendo la vista. Di conseguenza, tutte le cose si dicono in atto non nello stesso modo, ma solo per analogia: «come questo sta in questo o rispetto a questo, così quest’altro sta in quello o rispetto a quello» (Aristoteles, Metaphysica, IX, 6, 1048b 7-8). Alcune cose sono dette atto in quanto movimento rispetto alla quiete, altre come forma rispetto a una certa materia: stati diversi che però condividono il fatto di attualizzare in un determinato modo una potenza. Il libro XII, poi, contiene la famosa dottrina secondo la quale tutti gli enti in un certo senso possiedono i medesimi princìpi, mentre in un altro senso no. Quello che Aristotele intende dire è che tutti gli enti possiedono gli stessi princìpi non secondo il numero, come sostenevano i platonici, bensì soltanto per analogia, nella misura in cui enti diversi hanno princìpi diversi, i quali però svolgono la medesima funzione. Per ogni ente è infatti possibile individuare qualcosa di corrispondente al sostrato, alla privazione, alla forma e alla causa motrice, senza che questi siano numericamente identici per tutte le cose (Aristoteles, Metaphysica, XII, 4, 1070a 30 – 1070b 35).
Questa veloce panoramica ci consente di capire quanto sia pervasiva la presenza dell’analogia nel pensiero aristotelico: questa viene impiegata come una modalità di ragionamento duttile, dinamica, adattabile a contesti diversi e dalla spiccata capacità euristica. Aristotele mantiene comunque sempre fermo il nucleo di fondo della sua concezione dell’analogia, cioè l’idea che si tratti di una relazione che coinvolge due coppie di termini, delle quali si stabilisce l’uguaglianza (quantitativa o qualitativa) di rapporto. La tradizione successiva, tuttavia, finirà con l’attribuire ad Aristotele una concezione molto più ampia dell’analogia, facendovi rientrare anche la situazione descritta in un altro passo della Metafisica, uno dei più celebri dell’opera.
All’inizio del quarto libro Aristotele esordisce affermando che esiste una scienza che studia l’essere in quanto essere. Infatti, benché questo si dica in molti modi, tutti questi sono riferiti a un’unica natura, cioè alla sostanza. Tale relazione pros hen (letteralmente: “verso un’unica cosa”), cioè il riferimento costitutivo alla sostanza che tutte le categorie presentano, è ciò che conferisce all’essere, nonostante la dispersione dei modi in cui si manifesta, quel grado minimo di unità sufficiente a farne oggetto di scienza.
La tradizione esegetica successiva, nel tentativo di fornire una versione il più possibile sistematica del pensiero dello Stagirita, ha riservato un’attenzione particolare al primo paragrafo delle Categorie, dove vengono distinte le cose omonime (aventi lo stesso nome e una definizione diversa, come “animale” detto di un uomo e di un dipinto)[2], quelle sinonime (aventi lo stesso nome e la medesima definizione, come “animale” detto di un uomo e di un bue)[3] e quelle paronime (il cui nome deriva da un altro attraverso la modifica della terminazione, come “grammatico” da “grammatica”). Soprattutto a partire da Porfirio, i commentatori hanno cercato di comporre le indicazioni sparse nel corpus aristotelico circa i diversi tipi di relazione per elaborare una griglia esaustiva, che in seguito Severino Boezio, traducendo e commentando le Categorie, ha contribuito in modo determinante a diffondere nell’Occidente latino medievale:
All’interno di questa griglia è importante osservare principalmente due cose. Innanzitutto, viene sviluppata una suddivisione interna all’omonimia, per cui si distingue l’omonimia casuale (non c’è alcun legame tra l’attribuzione del nome e la definizione della cosa nominata) e quella razionale (c’è un certo legame tra l’attribuzione del nome e la definizione della cosa nominata). Tra i tipi di omonimia razionale compaiono sia l’analogia (cioè la proporzione, ad esempio quella in virtù di cui l’unità e il punto sono entrambi princìpi, rispettivamente del numero e della superficie), sia la relazione pros hen, che esprime il riferimento di tutte le categorie alla sostanza. In secondo luogo, la paronimia comincia a essere interpretata non soltanto come una relazione di tipo grammaticale (così come la intendeva Aristotele), ma, platonicamente, anche come una relazione di partecipazione reale, in virtù di cui, ad esempio, il coraggioso può essere detto tale nella misura in cui partecipa del coraggio.
Le varie riproposizioni e riformulazioni di questo schema avanzate dai commentatori greci tardo-antichi e dai filosofi arabi hanno prodotto, nel lungo periodo, una sovrapposizione tra tipi di relazione che in origine erano distinti: la relazione pros hen e la paronimia finiscono per fondersi, andando a occupare contemporaneamente una collocazione intermedia rispetto alle altre, e in riferimento a esse si comincia a utilizzare il lessico dell’analogia. Questo fatto viene registrato puntualmente nel Liber de praedicabilibus, trattato di logica composto da Alberto Magno:
Analoghi sono i termini che convengono proporzionalmente, come dicono gli arabi: sono intermedi tra gli univoci e gli equivoci e sono imposti a cose diverse nell’essere e nella sostanza in virtù del riferimento a un’unica cosa alla quale essi sono proporzionati (Albertus Magnus, Liber de praedicabilibus, I, 5).
Dalla tradizione araba gli europei ricavano quindi una nuova classe di termini, che non compariva come tale nella griglia elaborata da Porfirio e trasmessa da Boezio. I termini analogici sono presentati come intermedi tra quelli univoci (che Aristotele chiamava sinonimi) e quelli equivoci (omonimi), nella misura in cui sono meno rigidi dei primi e, rispetto ai secondi, garantiscono un grado minimo di unità e coerenza del discorso. I termini analogici sono utilizzati nelle situazioni in cui si riscontra un ordine di anteriorità e posteriorità nelle realtà nominate, dove perciò non è possibile ricorrere alla predicazione univoca. Questo è il caso dell’essere: dal momento che, aristotelicamente, si dice in molti modi, senza che questi possano essere risolti in una forma superiore di unità che li ricomprenda tutti, occorre spiegare in che modo l’essere conservi un certo grado di unità e in che senso sia la sostanza sia le altre categorie possono essere chiamate “enti” nonostante la superiorità della prima, dalla quale le altre dipendono quanto alla loro esistenza. Se Aristotele, come abbiamo visto, aveva giustificato l’unità dell’essere introducendo, nel IV libro della Metafisica, la relazione pros hen, i medievali cominceranno ad affermare che l’essere praedicatur analogice, si predica analogicamente. Oltre a questa applicazione ontologica, l’analogia si afferma anche come strumento fondamentale in teologia. A partire da una tradizione neoplatonica che ha in Proclo il suo punto di riferimento (e che si diffonde in ambito cristiano grazie agli scritti dello pseudo-Dionigi Aeropagita e in ambito islamico grazie al Liber de causis[4]), l’analogia viene impiegata anche per descrivere il modo in cui l’essere e le varie perfezioni vengono comunicate dalla Causa Prima a tutta la creazione proporzionalmente alla capacità recettiva di ogni ente, cioè alla sua maggiore o minore eminenza.
In conformità con questo duplice campo di applicazione, Tommaso d’Aquino è solito introdurre l’analogia distinguendone due accezioni principali:
il Creatore e la creatura si riconducono in unità non per una comunanza di univocità, bensì di analogia. Tale comunanza, però, può essere di due tipi: quello per cui alcune cose partecipano di alcunché di unico secondo anteriorità e posteriorità, come la potenza e l’atto partecipano della nozione di ente, e similmente la sostanza e l’accidente; oppure quello per cui un’unica cosa riceve dall’altra l’essere e la nozione, e tale è l’analogia che intercorre tra la creatura e il Creatore (Thomas De Aquino, Scriptum super I Sententiarum, Prologus, q.1, art. 2, ad 2.).
Tommaso è l’autore di solito accostato più strettamente all’analogia dell’essere, ma bisogna tenere presente che l’espressione analogia entis non compare mai nei suoi scritti. Egli chiama in causa l’analogia occasionalmente, in varie opere, presentandola di volta in volta in modo leggermente diverso in funzione del problema specifico che sta affrontando. Nella maggior parte dei casi, l’Aquinate se ne serve in un contesto teologico, al fine di precisare quale tipo di analogia ci consenta di attribuire a Dio l’essere, la bontà, la giustizia e altri attributi essenziali a partire dal modo in cui li sperimentiamo nelle creature. Nel corpus thomisticum coesistono perciò diverse formulazioni dell’analogia, che hanno posto gli interpreti di fronte alla difficoltà di capire se al riguardo esista effettivamente una dottrina tommasiana ufficiale, e se sì, quale sia. A prescindere da questo annoso problema, è possibile osservare che il maestro domenicano distingue spesso tra analogia duorum ad tertium (di due cose a una terza) e analogia unius ad alterum (di una cosa all’altra): la prima descrive il diverso rapportarsi di due cose a qualcosa di anteriore a entrambe, come quello della sostanza e dell’accidente alla ratio entis; la seconda descrive il rapporto esclusivo di una cosa verso ciò da cui dipende, come avviene per la creatura nei confronti del Creatore. Un’altra distinzione rilevante, che assume un’importanza preponderante all’interno della tradizione tomista successiva, è quella tra analogia di attribuzione (o proporzione) e analogia di proporzionalità. In realtà, questa terminologia non è strettamente tommasiana, ma deriva dall’opuscolo De nominum analogia composto dal commentatore tomista rinascimentale Tommaso De Vio, detto il Gaetano, che per secoli è stato considerato come la presentazione ufficiale della dottrina tommasiana dell’analogia. L’analogia di attribuzione descrive il fatto che tante realtà diverse sono tutte in relazione a un’unica e medesima natura, da cui dipendono; quella di proporzionalità mette in risalto l’identità di rapporto tra coppie diverse[5]. La prima è la relazione pros hen aristotelica, sovrapposta al movimento neoplatonico di exitus e reditus della creazione rispetto alla Causa Prima, che esprime il possesso, da parte delle creature, delle varie perfezioni (essere, bontà, sapienza etc.) pre-contenute in maniera sovraeminente in Dio; la seconda corrisponde al senso originale dell’ἀναλογία aristotelica. Entrambi questi significati, per Tommaso, costituiscono un tipo di analogia:
Costituiscono un’unità per proporzione o analogia tutte le cose che convengono nel fatto che questa sta a quella come una cosa sta a un’altra. Questo, poi, si può intendere in due modi: o nel senso che due cose presentano relazioni diverse a un’unica cosa, come “sanativo” detto dell’urina significa la relazione di segno della salute, mentre è detto della medicina perché significa la relazione di causa rispetto alla stessa. Oppure nel senso per cui si dà un medesimo rapporto tra due cose e cose diverse, come quello della calma rispetto al mare e del sereno rispetto all’aria: infatti la calma è la quiete del mare, il sereno quella dell’aria (Thomas De Aquino, In XII libros Metaphysicorum Aristotelis Expositio, V, lec. 8, par. 879).
La tradizione tomista attribuirà grande importanza al ruolo svolto dall’analogia all’interno del pensiero dell’Aquinate, dando luogo a un dibattito interno, giunto sino ai giorni nostri, circa la superiorità dell’analogia di attribuzione o di quella di proporzionalità[6]. L’analogia in Tommaso è stata a lungo considerata un elemento perfettamente coerente con l’impianto aristotelico del suo pensiero, tanto che si è parlato di “dottrina aristotelico-tomista dell’analogia”. A partire dalla metà del secolo scorso, gli studiosi hanno messo in discussione questo assunto, soprattutto con l’obiettivo di tornare a una lettura diretta di Aristotele senza alcuna mediazione tomistica. Nel far questo, si è cominciato a valorizzare anche la tradizione esegetica antica, tardo antica e medievale araba, al fine di reperire quali slittamenti terminologici e concettuali abbiano reso possibile il progressivo costituirsi di quella che noi oggi conosciamo come la dottrina dell’analogia dell’essere.
di Giovanni Gambi
[1] Per una panoramica generale dei testi relativi alla filosofia antica e medievale e per la bibliografia rimando a G. Catapano, C. Martini, R. Salis (2020).
[2] Il termine zoon in greco significa sia “animale” sia “dipinto”, “ritratto”.
[3] L’uomo e il bue sono specie del genere animale, per cui ad essi il predicato “animale” si applica con lo stesso significato.
[4] Il libro del filosofo Aristotele sull’esposizione del Bene puro, sintesi sincretistica realizzata nel IX secolo nel circolo di al-Kindī sulla base degliElementi di Teologia di Proclo, conoscerà una larghissima diffusione in Europa a partire dal XIII secolo con il titolo di Liber de Causis.
[5] In Quaestiones disputatae de veritate, q. 2, art. 11, Resp. Tommaso distingue tra convenientia proportionis e convenientia proportionalitatis; in Summa theologiae, Pars I, q. 13, a. 5, Resp. distingue l’analogia per cui multa habent proportionem ad unum e quella per cui unum habet proportionem ad alterum.
[6] Per un veloce riepilogo delle posizioni sostenute in questo dibattito cfr. A. Donato, Il ruolo dell’analogia di attribuzione e di proporzionalità nella dottrina dell’Essere di Tommaso d’Aquino, «Medioevo. Rivista di storia della filosofia medievale», 28 (2003), pp. 163-190; spec. pp. 163-171.
.
.
Bibliografia
Albertus Magnus, Liber de praedicabilibus.
Aristoteles, De partibus animalium.
Id., Ethica Nicomachea
Id., Metaphysica.
Id., Poetica.
Id., Respublica.
G. Catapano, C. Martini, R. Salis (a cura di), L’analogia dell’essere. Testi antichi e medievali, Padova University Press, Padova 2020.
A. Donato, Il ruolo dell’analogia di attribuzione e di proporzionalità nella dottrina dell’Essere di Tommaso d’Aquino, «Medioevo. Rivista di storia della filosofia medievale», 28 (2003), pp. 163-190.
Plato, Timæus.
Thomas De Aquinas, Quaestiones disputatae de veritate.
Id., Scriptum super I Sententiarum.
Id., Summa theologiae.
-
Derrida, il testo biologico, la prevaricazione
Longform / Dicembre 2020Un commento al seminario "La vita la morte" di Jacques Derrida
.
.
“È importante, per me, nel filosofare, mutar sempre posizione, non stare troppo a lungo su una gamba sola, per non irrigidirmi.”
Wittgenstein (1980, p. 61)
Il titolo di questo seminario di Derrida (2019) del 1975-6 dice perspicuamente più che il suo oggetto, il nodo attorno a cui si avvolge (difficile dire se per scioglierlo o al contrario per annodarlo): la vita la morte.
Non “la vita, la morte” né “la vita e la morte” dunque, dove la virgola o l’et sancirebbero una separazione tra le due, premessa e promessa di una loro prevedibile opposizione. E nemmeno “la vita è la morte” né “la morte è la vita”, che avrebbe il valore di un’eguaglianza, come risultato della soluzione di un’equazione: questa identità tra la vita e la morte non è qualcosa che Derrida trova, come risultato di un processo argomentativo, ma qualcosa che pone sin dall’inizio, sfida e scommessa di tutto questo seminario.
Notiamo però che Derrida scrive sempre “la vita la morte” (o lavitalamorte) mettendo in precedenza la vita. Il precedere cronologico della vita sulla morte appare ovvio, ma per Derrida l’anteriorità empirica non implica assolutamente una precedenza logica. Perché allora questa antecedenza sintagmatica della vita sulla morte?
Per un filosofo tradizionale questa scelta grafica di Derrida non avrebbe alcuna importanza. Ma sappiamo che invece per Derrida le scelte di scrittura – anche mettere una parola prima di un’altra – sono importanti tracce filosofiche, hanno la densità di una concettualità inconscia. È proprio sulla traccia del pensiero di Derrida che quindi poniamo questa questione di traccia: ‘vita morte’ e ‘morte vita’ non sono equivalenti.
Ora, il perno attorno a cui sembra girare il seminario è una sentenza di Nietzsche:
“Evitiamo di dire che la morte sarebbe opposta alla vita. Il vivente è solo un genere di ciò che è morto, un genere molto raro[1].”
Cosa voleva dire Nietzsche?
Da un punto di vista razionale, si tratta di un assurdo. Perché diamo per scontata una gerarchia logica tra vita e morte: non ci sarebbe morte se non ci fosse vita. D’altro canto, sappiamo dalla biologia (anche se qui Derrida contesta questo sapere, come vedremo) che ci sono vite senza morte, quelle che si riproducono agameticamente. Insomma, la morte implica la vita, non viceversa. E invece Nietzsche rovescia la gerarchia, facendo della vita un sotto-genere della morte.
Chiama egli “morto” semplicemente ciò che non è vivente? Ma dare a morto il senso di non-vivente significa proprio far prevaricare la dimensione della vita sull’ente in generale. Nello stesso momento in cui Nietzsche dice che la vita è un sotto-insieme della morte, ipso facto mette la vita, il vitale di cui la morte è fattore, in una posizione direi egemonica: apparendo come morto, il non-vivente viene riportato così alla logica della vita, alle opposizioni vitali. Dire che ciò che non è mai vissuto è morto, è dare in realtà alla nozione di vita una portata che va ben al di là della vita biologica – insomma, Nietzsche enuncerebbe qui il suo vitalismo (quindi, lo sforzo di Derrida, nel corso di questo stesso seminario, di contestare l’etichetta di “vitalista” attribuita solitamente a Nietzsche non è del tutto convincente).
Abbiamo detto prevaricazione: è un punto essenziale su cui torneremo. In effetti, qui Nietzsche, proprio dicendo che la vita è un genere del morto, fa prevaricare la categoria della vita sull’ente in generale.
Eppure, malgrado il rovesciamento di Nietzsche, Derrida dà la precedenza grafica alla vita. Nell’identificazione vita-morte, resta la traccia di una non-identificazione, su cui – derridianamente – dovremmo interrogarci.
Potremmo dire che in questo seminario Derrida si interroga sul “biologico”, nella misura in cui questo è anche interrogarsi sul “tanatologico”.
Derrida slitta da una lettura all’altra. Grosso modo, in questo seminario abbiamo quattro “stasimi” del suo confronto con testi che tematizzano questo bio-tanatologico: un primo in cui si confronta con Ecce Homo di Nietzsche; un secondo in cui articola un confronto serrato con il libro di François Jacob (1970) La logica del vivente, pubblicato cinque anni prima; un terzo sulla lettura heideggeriana del cosiddetto “vitalismo” di Nietzsche; e un quarto in cui si confronta con Al di là del principio di piacere di Freud. Qui mi limiterò a commentare il commento di Derrida al libro di Jacob.
.
1.
In questa parte del seminario Derrida si confronta con il testo, in senso lato divulgativo, di Jacob. Con un testo più storico, di storia della biologia, che biologico, come enuncia il suo sottotitolo: Storia dell’ereditarietà. Derrida lo prende però come fosse un testo filosofico, lo analizza come tale, e ovviamente da questa lettura emergono cedimenti metafisici nel testo del biologo o storico della biologia. Wittgenstein, che disprezzava la divulgazione scientifica, disse “Le opere di divulgazione scientifica non sono l’espressione del duro lavoro dei nostri uomini di scienza, bensì del loro riposarsi sugli allori” (Wittgenstein 1980, p. 86). Derrida in Jacob vede insomma gli allori, anche se, tengo a dirlo, il riposarsi di Jacob è a tutt’oggi esemplare.
In certi punti, Derrida sembra promuoversi miglior biologo di Jacob (il quale vinse il premio Nobel in medicina). Ad esempio, quando confuta l’idea (di Jacob? della biologia moderna? del modo che ha la biologia di raccontarsi?) secondo cui la riproduzione dei batteri è asessuata. Jacob fa notare che la sessualità e la morte sono un’”invenzione” (così scrive) che la vita fa a un certo punto della propria storia, sottolineando che la sessualità e la morte si implicano: è veramente mortale solo il vivente sessuato. (Evidentemente questo guasta de facto l’assunto di partenza di tutto il seminario derridiano: il sovrapporsi logico della vita e della morte.) Ora Derrida, rifacendosi ad altri biologi, cerca di mostrare che avvengono inserimenti di materiale genetico da un batterio all’altro, il che può considerarsi una forma di riproduzione sessuata. Inoltre, solleva un’obiezione di buon senso all’idea che un batterio non muoia, dato che alcuni batteri certamente si dissolvono. Se un batterio produce dieci copie di sé e poi ne restano solo sette, come possiamo non dire che quattro batteri sono morti?
La domanda da porsi è perché Derrida ci tenga tanto a contestare l’idea che la sessualità e la morte siano prodotti successivi della vita, fino al punto da usare argomenti biologici contro un biologo nobélier. Perché tiene tanto a fare della morte qualcosa di coestensivo alla vita, e non un’”invenzione” succedanea della vita stessa? Ma prima di rispondere a questa domanda, vorrei mostrare come l’obiezione di Derrida mostra che egli non abbia colto l’essenziale dell’argomento di Jacob.
Derrida non sembra cogliere il fatto che, per la biologia, solo con la sessualità e la morte diventa pertinente il concetto di individuo – di indivisibile, che è la traduzione del greco ατομος. L’individuo o atomo è tale perché il suo genoma è del tutto diverso da quello di ciascun genitore (sessuato), ed è completamente diverso da quello di ogni altro essere vivente della stessa specie (a parte il caso dei gemelli veri). La genetica insomma ha modificato il nostro concetto originario, comune, di individuo: che non è più, prima di tutto, l’indivisibile, ma è il portatore di un assetto genetico unico. La morte quindi equivale alla scomparsa di questo unicum. Mentre la riproduzione non sessuata è produzione di cloni – all’epoca il termine “clone” non era entrato nel linguaggio comune, e difatti Derrida non lo usa mai. I cloni sono individui diversi dal punto di vista del linguaggio comune, ma non dal punto di vista biologico, perché hanno identico genoma.
Questo taglia corto alle obiezioni che Derrida solleva all’idea che un batterio, ad esempio, non muoia. Se per individuo intendiamo chi porta genomi diversi, il batterio non muore nel senso che copie di sé comunque sopravvivono. Un libro non muore se restano alcune copie di esso, anche se il manoscritto originale fosse andato perduto.
(Si dirà che uno dei due gemelli omozigoti umani può morire, mentre l’altro può sopravvivere. Se fossero lo stesso individuo, dovrebbero morire assieme. Ma consideriamo due gemelli due individui distinti perché oltre al senso genetico di “individuo” abbiamo un altro senso che ci deriva dal linguaggio comune: l’avere due cervelli e quindi due coscienze diverse. Le due coscienze diverse individualizzano, per noi, ciascun gemello. Due sensi diversi di “individuo” si sovrappongono nel nostro linguaggio. Si dà però il caso che il batterio non abbia alcun cervello né alcuna coscienza, nel caso suo, quindi, il senso genetico di individuo può prevalere.)
Inoltre, le eccezioni alla riproduzione asessuata nei batteri che Derrida evoca non inficiano la distinzione categoriale di Jacob tra vita asessuata-immortale da una parte, e vita sessuata-mortale dall’altra. Il problema vero non è stabilire quali specie rientrino nella prima categoria e se non ci siano eccezioni, ma stabilire questa distinzione, che resta valida malgrado i distinguo di Derrida.
Derrida non apprezza insomma l’interesse del senso nuovo dato al termine “individuo” (ovvero, sessuato e mortale) come impossibilità di replicarsi integralmente. Eppure questo nuovo senso dato a individuo – e quindi anche alla sua morte – è filosoficamente importante perché rompe con l’idea che Homo sapiens, ad esempio, abbia un’”essenza”, che ci sia un’essenza della specie umana. Siccome non esistono due individui geneticamente eguali, ogni individuo è portatore di una variabilità che potrebbe avere successo storico, cioè riprodursi e quindi mutare, a poco a poco, certe caratteristiche che consideriamo umane. Per la genetica, ogni individuo è un mutante. Non c’è quindi veramente un tratto comune a tutti gli esseri umani, ogni umano è un potenziale punto di fuga da un’umanità “media”. Questo è il senso della rivoluzione darwiniana: il disgregarsi del concetto di specie. Species è versione latina di είδος, la forma essenziale (termine che tradurrei oggi con struttura). Non c’è unastruttura umana. Per la biologia pre-darwiniana le specie animali erano essenze, mentre con Darwin abbiamo solo esistenze animali. Strano quindi che la vocazione anti-metafisica di Derrida non lo porti a valorizzare questo anti-essenzialismo della moderna biologia.
.
2.
Certamente Derrida ha spesso ragione nel mettere in rilievo certe ingenuità concettuali di Jacob. Per esempio, Jacob dice che la biologia non si interessa alla vita – non pone il problema dell’essenzadella vita – ma ai viventi. “Oggi nei laboratori non si interroga più la vita … Ci si sforza solo di analizzare i sistemi viventi, la loro struttura, la loro funzione, la loro storia” (p. 116[2]) Qui Derrida ha buon gioco nel dire che sostituire alla vita il vivente non dispensa dalla domanda non solo filosofica, direi, ma anche biologica: che cosa fa di un vivente un vivente?
E in effetti, Jacob si contraddice de facto perché dice spesso e forte l’essenza del vivente: è qualcosa che ha la capacità di riprodursi. La riproducibilità – l’avere eredi - è ciò che fa del vivente un vivente.
La riproducibilità evoca il concetto di disegno, di progetto. Concetti che Jacob non disdegna, ma avvertendo:
“L’essere vivente rappresenta certo l’esecuzione di un disegno, ma che nessuna intelligenza ha concepito.”
Dice Derrida: se c’è un’omogeneità tra le produzioni del vivente umano (testi, calcolatrici, programmatrici, ecc.) e il funzionamento della riproduzione genetica, l’opposizione tra scienze della natura e le altre scienze perde pertinenza e rigore. È quello che lui nel fondo desidera? Questo sarà il punto essenziale – ma non detto - del commento di Derrida.
Intanto però Derrida si dedica a criticare i filosofemi, direi, del biologo. Ad esempio, scova dell’hegelismo in Jacob, e per lui Hegel “è il più metafisico di tutti i metafisici”. Jacob, facendo del vivente un impulso a riprodursi, nella vita “ritrova l’essenzialità dell’essenza, l’origine e la fine dell’essenza come dinamica ed energia d’essere” (p. 121) “La vita è l’essenza… la vita è più essenziale del non-vivente che essa integra in sé”.
“Mi applico a render chiaro il rapporto che il discorso del genetista, dello scienziato biologo moderno mantiene con la tradizione filosofica: debito e dipendenza sconosciute, diniego, semplificazione, caricatura, sottomissione ai vincoli di un codice, di un programma, appunto, di macchine calcolatrici da cui egli si crede liberato mentre invece ne riproduce i funzionamenti, ecc.” (p. 123)
Insomma, per Derrida non c’è rottura (e non è chiaro se se ne rammarichi o se ne compiaccia) tra filosofia metafisica e scienza, il che è in continuità con un certo atteggiamento del filosofo detto “continentale”, quello di una sorta di rivalsa professionale contro l’egemonia politica della scienza: “credete di esservi liberati della filosofia, e invece fate voi stessi un sacco di filosofemi!”
È vero che Jacob talvolta arrischia enunciati che è facile qualificare di rodomontate, come: “La biologia non cerca la verità. Essa costruisce la propria”. Anche qui Derrida ha buon gioco nel mostrare come in realtà la biologia, proprio nella misura in cui cerca la propria verità, presuppone una nozione generale di verità, senza la quale non sarebbe nemmeno possibile dire che cerca una propria verità. Ma qui Derrida non usa il “principio di carità” che la filosofia stessa ha promosso[3]: che occorre sforzarsi di trovare una logica ad affermazioni che a prima vista appaiono illogiche o paradossali.
L’enunciato di Jacob che Derrida deride può essere interpretato caritatevolmente come un modo di dire: “il biologo non ha bisogno, come i filosofi, di interrogarsi prima su cosa significhi verità in biologia: ne ha una nozione intuitiva che gli basta per operare”. E questo è vero per ogni scienza. Non è il mestiere dello scienziato interrogarsi sul concetto di verità, il suo lavoro consiste nell’usare questo concetto per poter dire il vero sul vivente.
L’enunciato di Jacob può essere anche inteso in senso feyerabendiano[4]: la biologia, come ogni scienza, cambia il proprio metodo scientifico a seconda delle opportunità e dei problemi che le si pongono. La biologia è opportunista, come ogni scienza. Nella sua storia essa ha cambiato spesso metodo, dandosi cioè fini e funzioni diverse. Così con Linneo e Buffon la biologia si auto-interpretava come descrizione accurata delle diverse specie animali, sulla base di una teoria preformista. Con Lamarck e Darwin, invece, si è posta il problema dell’origine delle specie, ovvero sulle ragioni della storia del prodursi e del distruggersi delle forme animali. Cambiamento che si può ravvisare nella storia di ogni scienza. È il senso stesso di “fare biologia” che è cambiato. Ma talvolta nemmeno Derrida se ne rende conto.
Per esempio, Derrida critica il concetto di “riproduzione” in Jacob:
“Il discorso di Jacob – come quello di una certa modernità – maneggia il concetto di produzione o ri-produzione come se fosse trasparente, univoco, che vada da sé, come se ci fosse anche una distinzione o un’opposizione chiara tra produrre e riprodurre, riprodurre e riprodursi. In nessun momento Jacob si chiede quel che ciò vuol dire, mai sottopone questo concetto o parole di produzione/riproduzione (di sé) alla pur minima domanda critica” (p. 135).
Anche qui, la critica di Derrida ripercorre la critica che da molto tempo – da quando la filosofia speculativa ha divorziato dalla concettualizzazione scientifica, diciamo da Kant in poi – la filosofia rivolge alla scienza: che quest’ultima è incapace di pensare i concetti che essa usa, che non si interroga sull’’essenza’ dei propri concetti. (È il rimprovero che già Socrate rivolgeva sistematicamente a qualunque “esperto” ateniese che non si ponesse interrogativi filosofici sul proprio campo di sapere.) Si rimprovera insomma alla scienza di non essere filosofica, il che implica un assunto metafisico forte, nel senso che la riflessione filosofica in qualche modo fonderebbe il discorso della scienza e delle scienze particolari. (E questo a dispetto del fatto che Derrida si sia posto sempre come filosofo non-fondazionalista.) Se la filosofia è in grado di criticare la concettualizzazione scientifica, questo vuol dire in effetti che questa concettualizzazione manca di qualcosa per essere valida, per reggersi da sé, e che questo reggersi è fornito da un altrove dalla scienza, dalla riflessione filosofica appunto. E in effetti, per molti secoli si è pensato che per fare scienza si dovesse prima capire filosoficamente quale fosse il suo oggetto e il modo corretto di procedere per renderne conto. Così Descartes, per esempio, pensava che non potesse essere un buon fisico se prima non avesse stabilito un criterio di certezza. Ma da secoli sappiamo che questo non è vero: possiamo dire che anzi il filosofo di solito arriva dopo lo scienziato, dopo che questi ha scoperto qualcosa che tutti accettiamo. Il filosofo, si dice, giunge sempre al tramonto.
È un peccato che Derrida non tenga in alcun conto l’”altra filosofia”, che poi è anch’essa per lo più continentale, nel senso che è sorta in Austria e in Germania: la filosofia della scienza moderna, il filone cha va da Mach al Circolo di Vienna, a Popper, a Kuhn, a Lakatos, a Feyerabend… Il confronto con questo filone avrebbe aiutato certamente Derrida a distinguere più perspicuamente il discorso dello scienziato da ciò che la scienza di fatto fa. Una distinzione ripresa da Feyerabend, il quale diceva: “Spesso si crede che la scienza fatta da uno scienziato non sia quella pubblicata nelle riviste specialistiche, ma quello che lo scienziato dice quando pontifica”.
Ora, per limitarci al tanto bistrattato (dalla filosofia “continentale”) Popper, bisogna convenire che due o tre cose importanti sulla scienza le ha dette. Una è che la grande scienza – quella che fornisce le visioni del mondo che poi diventano le nostre, anche di Derrida – non nasce dall’osservazione dei fatti, ma da teorie. E che queste teorie sono all’inizio delle metafisiche o dei miti. La separazione netta tra fisica (scienza) e metafisica su cui si basa il positivismo logico è storicamente fallace: le teorie scientifiche sorgono sempre da qualche metafisica. Ciò che separa man mano – col tempo, in un processo mai del tutto concluso, secondo una separazione che chiamerei asintotica – la scienza dalla metafisica è il modo in cui la scienza seleziona via via i suoi asserti (secondo Popper, attraverso tentativi ripetuti di falsificazione, ma questa è un’idea sua, confutata dai post-popperiani). Ora, quando giustamente Derrida vede il discorso di Jacob – ma di qualsiasi biologo, in fondo – intriso di presupposti metafisici (fino a vedervi un hegelismo di fondo) non fa che ri-scoprire l’ombrello: che tutti i concetti della scienza hanno un’origine metafisica, e ne portano le tracce, anche se sono stati rimodellati dal procedere corroborativo (è questo il termine di Popper, che non significa verificativo) della scienza. E questo anche in fisica. Tanti concetti fondamentali della fisica tradiscono la loro origine filosofica o metafisica: per esempio energia, che viene dall’energheia aristotelica. O i concetti di materia, potenza, atomo, forza, vuoto, continuo e discontinuo…
La moderna filosofia della scienza ha detto un’altra cosa importante: che qualche secolo fa il pensiero scientifico si separa da quello filosofico quando cessa di pensare che esso debba partire da una definizione delle cose che esso studia. La scienza non è matematica, non nasce da definizioni precise e rigorose dei propri oggetti, insomma, la scienza non si interroga sulle essenze di ciò che vuole studiare. È in questo senso, credo, che Jacob può dire “la biologia costruisce la propria verità”. La scienza nasce sempre dal linguaggio comune, che essa non interroga come invece è opportuno che faccia la filosofia. La chimica non ha scoperto la composizione dell’acqua (cosa che qualcuno potrebbe chiamare l’“essenza dell’acqua”), l’essere una certa combinazione di idrogeno e ossigeno, partendo da una definizione esaustiva e non-ambigua di acqua. I chimici si sono occupati di quello che la gente comune chiamava acqua. Perciò tutti i fondamentali concetti scientifici fanno risuonare l’eco di concetti ed esperienze comuni: la gravitazione evoca subito la mela di Newton, la forza e l’energia evocano le attività umane, la causa efficiente il tirare e spingere, azione e reazione sono atti animali, gli astri sono quelli che gli umani hanno chiamato tali guardandoli a occhio nudo, ecc.
Questo confuta o limita ciò che avevamo prima detto, che le teorie nascono sempre da ipotesi metafisiche o mitiche? No, perché gli oggetti di cui la scienza si occupa all’inizio (poi essa scopre oggetti non comuni, nuovi, come i buchi neri o i quark) sono oggetti comuni, ma il modo di spiegarne il comportamento è preso da metafisiche. La scienza coniuga linguaggio comune e concetti metafisici, e quindi bypassa l’onere di riflettere filosoficamente sul senso dei concetti.
Certamente poi il sapere scientifico rimbalza sul linguaggio comune e lo modifica. La chimica ha studiato l’acqua senza definirla prima, ma quando ha scoperto la sua struttura chimica, allora essa ha avuto un effetto di rinculo sul linguaggio comune stesso: sappiamo che possiamo chiamare legittimamente acqua solo ciò che è H2O. L’astronomia ha descritto la luna come pianeta perché così la considerava il sapere comune, poi, con la rivoluzione copernicana, ci ha detto che la luna è invece un satellite, e come tale oggi il linguaggio comune la considera. Ciò che chiamiamo sapere della nostra epoca è effetto di una lunga storia di doppio scambio a zig zag tra linguaggio comune e linguaggio scientifico.
Quindi, non so se Derrida, quando critica Jacob perché – come ogni biologo – non si interroga sull’essenza del vivente (pur fornendo a sua volta una definizione dell’essenza del vivente come ereditarietà), si renda conto di criticare in generale la scienza in quanto scienza. Tutto il ragionare di Jacob sul vivente parte dal concetto comune di vivente. Ancor prima che la biologia si sviluppasse come scienza, i nostri antenati, i greci, i romani…, hanno sempre considerato un albero o una mosca come esseri viventi, pur senza disporre di una definizione precisa (filosofi a parte). Ne avevano una definizione implicita, e il compito dei filosofi è stato di esplicitarla. Il biologo non si interroga sull’essenza del vivente se non après coup, quando scopre certe caratteristiche non evidenti (che il linguaggio comune non riconosce) del vivente (ad esempio, il suo essere espressione di un genoma). La scienza fa bene insomma a non interrogarsi sul concetto di vivente, perché è il suo operare in un certo modo sul vivente che gli fornirà poi un concetto di vivente, che sarà comunque sempre provvisorio, rivedibile.
Scrive ancora Derrida:
“[Criticare] i discorsi degli scienziati – per esempio dei biologi – i quali, quando assumono una portata filosofica o epistemologica generale, non sono abbastanza vigilanti quanto alla filosofia o all’ideologia implicita in quel che dicono, non interrogano abbastanza il sistema e la storia dei concetti operativi di cui si servono…” (p. 139)
È una critica agli scienziati solo quando fanno discorsi con “una portata filosofica o epistemologica generale” (quando “pontificano”)? O una critica agli scienziati in generale, in quanto sono scienziati? In questo secondo caso, direi che è impossibile, per chiunque faccia scienza, non usare concetti filosofici, come abbiamo visto, dato che impregnano le loro teorie sin dall’inizio. Derrida vorrebbe allora che gli scienziati facessero solo il loro lavoro?… ma dove comincia e finisce questo loro lavoro? Consiste nel descrivere dei semplici meccanismi? Ma anche quando diciamo che lo scienziato di oggi ricostruisce i meccanismi che operano nella natura, già nel dire “meccanismo” implichiamo tutta una filosofia che è fusa nel concetto stesso. È la metafisica su cui si basa tutta la scienza moderna: che gli enti si relazionano gli uni con gli altri come gli ingranaggi in un meccanismo, in una macchina. Di questa metafisica non possiamo dire che sia vera o falsa, possiamo dire solo che finora ha funzionato, perché la scienza in questi secoli ha avuto un grande sviluppo. Una macchina non funziona perché è vera, funziona perché funziona.
In effetti, la mechané di cui parlavano i greci erano solo le macchine costruite dagli umani per svolgere una certa funzione. Ai greci non sarebbe mai passato per la mente di pensare che la physis – la natura – fosse mechané! Solo in seguito, con la rivoluzione galileiana, si è sviluppata una “meccanica”, la natura viene studiata come se fosse una macchina. Ma una macchina che non serve a nulla, e che nessuno ha creato (l’ipotesi creazionista non è mai scientifica perché segna lo scacco della spiegazione scientifica). È l’atto istitutivo della scienza moderna: la natura è una immensa macchina, ma che non serve a nulla. La biologia moderna è meccanicista – su questo ha ragione il tanto spregiato (dai filosofi) Jacques Monod (1970). Ma già quando il biologo afferma di essere meccanicista emana del filosofico, perché gli si può ricordare che il modello della macchina per pensare la natura è di per sé una scelta metafisica. O meglio, una scommessa: la scienza moderna si impegna a spiegare tutto (non il Tutto) come meccanismo. Abbiamo anche qui una prevaricazione che in sostanza caratterizza ogni metafisica: la macchina, inizialmente solo una parte dell’ente, diventa l’essenziale di tutti gli enti.
Tutta la scienza moderna si basa anche su un altro assioma: la conservazione dell’energia. Non si tratta di una scoperta empirica, ma di una scommessa che identifica la ricerca in quanto scientifica. La scienza esclude a priori che ci possa essere creazione o annullamento di energia, perché sarebbero “miracoli”. Conservazione di energia perché, dopo Einstein, l’energia è equivalente della materia. La forma tradizionale di questo assioma è: “nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma”. Questo all’interno di un tutto (universo) che viene ipso facto concepito come chiuso. Fin quando un tutto è aperto, non è mai “tutto”. Può darsi che il nostro universo sia uno di altri innumerevoli universi di cui nulla sappiamo, ma anche senza saperne nulla la scienza già sa che questo tutti-gli-universi non diminuisce né si accresce. Potremmo anche dire che la materia-energia non muore mai. Si tratta evidentemente di una visione metafisica, ma sarebbe assurdo criticare le moderne teorie scientifiche – che tutte tengono conto di questo assioma – perché esse si basano su una metafisica sbagliata! Che sia sbagliata o meno nessuna filosofia ce lo può dire, ce lo potrebbe dire solo il fallimento della scienza. Se la moderna scienza fallisse, se dovesse ammettere che certe cose emergono dal nulla, allora dovremmo considerare fallace anche la metafisica su cui si regge.
Proprio perché la scienza riusa il linguaggio filosofico, può dispensarsi dal pensarlo filosoficamente.
Qualcuno potrà dire che qui Derrida non critica i filosofemi di Jacob in quanto disapprova la contaminazione di filosofia e scienza, ma li critica perché ritiene che Jacob non si renda conto di essere anche filosofo. Ma, come abbiamo visto, è inevitabile che lo scienziato debba essere anche “filosofo”, perché ogni scienza ha basi metafisiche. È essenziale allora che lo scienziato se ne renda conto, che ammetta di essere filosofo senza saperlo? Non credo che questo sia il punto.
Il filosofo ha un compito che allo scienziato viene risparmiato: quello di mettere filosoficamente in discussione i filosofemi che sono alla base di ogni paradigma scientifico, ma direi anche della maggior parte delle nostre credenze, politiche religiose artistiche, ecc. Quella che chiamiamo filosofia è la riflessione, non sempre critica, su ciò che chiamerei filosofie popolari, le visioni del mondo che ispirano le nostre vite e le nostre credenze. E la scienza ha alla base una sua “filosofia popolare”. Ma mettere in discussione questi filosofemi popolari – qui è il punto – non deve portarci (è questa la tentazione a cui molti filosofi cedono) a criticare la concettualizzazione scientifica in quanto tale! Non si critica una teoria scientifica criticandone i presupposti filosofici. Sarebbe come voler criticare un ottimo cuoco cinese perché ispira la sua arte all’opposizione taoista tra yin e yang…
.
3.
Derrida critica insomma i “filosofemi” di Jacob perché non si rende conto che quel che il secondo dice ha una semplice funzione euristica (termine che Derrida usa due volte in questo seminario). Ovvero, la scienza non si fa solo con delle equazioni, o con delle previsioni calcolabili, ma elaborando anche modelli che chiamerei immaginari, una certa immagine di che cosa accada in un oggetto che serve a guidare l’immaginazione scientifica. Per esempio, il darwinismo non è in grado di prevedere assolutamente nulla sul futuro della vita (che sempre più dipende da decisioni politiche umane, ormai), ma ci offre un modello preciso grazie a cui pensare la storia della vita. È falso credere che le scienze siano sempre predittive: spesso prevedono poco o nulla, ma ci offrono una descrizione virtuale della macchina supposta.
Così, per esempio, la fisica parla di informazione. In cosmologia si dice comunemente che la luce delle stelle che giunge fino a noi “ci informa” del loro esserci. Ovviamente qui informazione ha un valore metaforico, se consideriamo essenziale in ogni informazione la volontà consapevole, animale o umana, di informare un altro animale o essere umano. Eppure usare la metafora informativa può essere euristicamente utile nella misura in cui essa piega la ricerca scientifica in un senso piuttosto che in un altro. Comunque, l’uso di figure antropomorfiche – come segnale, informazione, messaggio, codice, programma, ecc. – è la spia di qualcosa di più profondo nella scienza. Ovvero, l’uso di queste metafore è una traccia della scienza come elaborazione soggettiva. La scienza non è lo specchio della natura: è prodotto di un dialogo continuo con la natura. Una teoria scientifica è regolare un certo giococon la natura (la natura può essere considerata il partner dello scienziato nel gioco della scienza; un partner coatto, ma un partner[5]).
Si pensi ad esempio a concetti come ordine e disordine, fondamentali nella termodinamica. È evidente che ordine e disordine sono valutazioni soggettive, non oggettive. Se guardiamo una stanza, possiamo percepirla come ordinata o disordinata, ma che c’è di “oggettivo” in questo? Chiamiamo un sistema di cose più disordinato di un altro quando il primo esige una descrizione più complessa (e più lunga) del secondo. Una stanza molto disordinata ha un suo ordine, anche se molto complesso. Ma la complessità è pur sempre una valutazione soggettiva: è una reazione umana a qualcosa che deve essere capito. “Disordine” dice semplicemente il supplemento di sforzo che dobbiamo impiegare per trovarvi un suo ordine, che comunque esiste (a qualsiasi cosa possiamo trovare un ordine, una “legge” che la regoli[6]). L’entropia è la tendenza del mondo ad assumere degli ordini sempre più complessi, fino al punto che qualunque essere umano rinuncerà a trovarne uno. Quando la termodinamica dice che in un sistema chiuso ogni energia tende irreversibilmente al calore, ovvero all’energia più disordinata (ovvero più porobabile), dice che il calore è un’energia la cui descrizione è troppo complicata. Il mondo è una corsa verso la complessità, verso il caos – il quale non sarebbe all’origine del mondo, ma punto di arrivo del mondo. Come si vede, una valutazione soggettiva è incastrata nei concetti stessi, oggettivi, di “calore” e di “energia” in generale. Anche la scienza più sofisticata tradisce le proprie umili origini, il suo derivare da valutazioni umane, molto terra terra: se qualcosa è disordinata o meno, se è complicato capirla o meno, quanto tempo e quanta energia dobbiamo impiegare per descriverla, ecc.
Si prenda il concetto, tuttora controverso, di probabilità. A lungo si è discusso che cosa essa sia, se abbia una base oggettiva (è più probabile ciò che è più frequente) o sia squisitamente soggettiva (ovvero, si basa sulle nostre attese). Oggi, dopo Ramsey e de Finetti, è la teoria soggettivista della probabilità a prevalere in matematica e in logica. Eppure la probabilità è nel cuore delle cose stesse, dato che per la fisica quantistica fenomeni che consideriamo oggettivi sono di fatto uno spettro di probabilità[7]. Sono quei punti critici della scienza in cui oggettivo e soggettivo si intersecano, dove la scienza deve convenire che certi fenomeni oggettivi possono essere descritti solo in relazione al nostro sapere e alle nostre attese. Da qui i paradossi ben noti, come l’indeterminazione di Heisenberg o il gatto di Schrödinger. Probabilmente questi paradossi sono una nemesi, il venir fuori di qualcosa di rimosso, il fatto cioè che la scienza inizia come un modo di valutare soggettivamente il mondo, e che tale, anche al culmine della maturità, essa resta. Che le cose sono, fondamentalmente, indistricabili dalle nostre reazioni soggettive a esse. È come se la scienza, divenuta principessa del reame del sapere, dovesse sempre re-incontrare la Cenerentola che essa era.
.
4.
Ora, l’importante è che la critica, anche dura, al testo di Jacob da parte di Derrida si rovesci poi in un’accoglienza piena del modello proposto da Jacob – la riproduzione biologica come un processo testuale. Lungi dal vedere i riferimenti linguistici e testuali di Jacob come metafore pedagogiche, Derrida li prende alla lettera e conclude che il vivente ci dà l’esempio di una testualità senza messaggio e senza comprensione.
Jacob si pone il problema di fino a che punto la moderna scienza del vivente possa fare a meno di concetti “teleologici”, ovvero di concetti appartenenti all’ordine del linguaggio e della scrittura, e quindi all’ordine dei fini, dei programmi… Abbiamo detto dell’ampio uso che le scienze di oggi fanno di concetti come “informazione”, “messaggio”, “codice (genetico)”, “istruzioni”, che sembrano tutti implicare una soggettività, un Io, uno “spirito”… Jacob afferma che la descrizione dell’eredità come un programma cifrato in una sequenza di radicali chimici fa scomparire la contraddizione tra teleologia e meccanismo (diremmo: tra soggettività e oggettività). La riproduzione – per Jacob, la struttura essenziale del vivente – funziona come un testo. Come scrive in modo pungente:
“A lungo il biologo si è ritrovato davanti alla teleologia come essere accanto a una donna di cui non può fare a meno, ma con cui non vuole farsi vedere in compagnia in pubblico. Il concetto di programma dà ora uno statuto legale a questa relazione segreta.” (p. 17)
Ora, mi pare che Derrida accolga completamente questa “legalizzazione”. Assistiamo a una doppia strategia di Derrida nel suo confronto col pensiero biologico via Jacob: da una parte, abbiamo visto, critica le concettualizzazioni di Jacob, dall’altra invece ne fa uso per insinuare ciò che la sua filosofia insinua (direi anzi che la filosofia di Derrida è tutta un’insinuazione), come se cercasse nel modo in cui il biologo dice il proprio sapere dei supporti al proprio discorso. Da una parte certi concetti sono criticati, come abbiamo visto, dall’altra però essi sono utilizzati per giustificare il suo ”la vita la morte”. Può fare questo però solo forzando il senso di certi concetti biologici, piegandoli al proprio uso per così dire.
Per esempio, Derrida pensa di leggere in Jacob l’idea che la sessualità e la morte, queste “invenzioni”, siano supplementi. Che si tratti di qualcosa che si aggiunge alla vita, che la supplisce. Ma si ha allora il sospetto che Derrida non abbia capito quello che Jacob e la biologia dicono della sessualità e della morte. La sessualità non è qualcosa che supplisce o si aggiunge alla vita, non più di quanto l’”invenzione” dei mammiferi sia un supplemento dei vertebrati… La sessualità è semplicemente un modo di replicazione (modo nuovo in una certa fase di evoluzione della vita), di cui la morte dell’individuo è una conseguenza intrinseca. È un’innovazione nel modo di riproduzione, non un supplemento. Ma l’idea che la sessualità e la morte siano supplementi faceva gioco a Derrida, che ha sempre insistito sulla posizione del supplemento nei vari campi. Direi che si tratta qui di un’appropriazione indebita.
Derrida insiste d’altro canto sull’ambiguità del concetto di produzione e ri-produzione in biologia perché quel che gli interessa nel fondo è mostrare come ogni riproduzione di sé sia riproduzione di una riproduzione. Che non c’è un prodotto primo che dia inizio a un processo di riproduzione. Ogni prodotto è riprodotto. Questo è uno dei temi fondamentali del pensiero derridiano: le copie, le tracce, le rappresentazioni, non hanno un originale, un’origine da cui derivano. Derrida si gioca tutto nel rinvio all’infinito, come nella mise en abyme.
È difficile capire non il pensiero così enunciato di Derrida – lo si può leggere nei manuali di filosofia, ormai – ma la sua enunciazione, cioè, che cosa Derrida voglia in fondo dire (o meglio, cosa voglia mostrarci) con questa insistenza. Dato che non si tratta nemmeno di una teoria, quanto di una critica di ogni teoria che voglia dire l’origine di qualcosa. Dopo tutto, non ci è ancora possibile capire Derrida, perché non siamo ancora riusciti a decostruirlo. (Questo per dire che, malgrado le mie critiche qui a Derrida, in fondo sono derridiano).
Derrida riprende il paradosso ben noto “è nato prima l’uovo o la gallina?” (a cui fa riferimento anche Jacob). Questa domanda è già derridiana, in quanto si dà per scontato che a questa domanda non ci sia risposta, che gireremo in tondo sempre tra un’origine e l’altra… Ora, si dà il caso che la teoria genetica moderna ci dia invece la risposta: all’origine c’è l’uovo. L’uovo in effetti è il contenitore del genoma del pollo, e il pollo ne è il fenotipo. Il pollo di oggi esiste perché l’uovo del pre-pollo o proto-pollo ha subito una mutazione, che ha dato nascita al pollo; l’origine del mutamento può essere solo nel genoma, cioè nell’uovo, non nel fenotipo del pre-pollo o proto-pollo. Da qui il noto apoftegma: “la gallina è un taxi usato da un uovo per produrre un altro uovo”. Certo si potrebbe sempre dire: ma ci voleva comunque un proto-pollo con un proprio uovo, l’uovo del pollo non nasce spontaneamente. Certo, e così si potrebbe retrocedere, man mano, fino all’origine del vivente sulla terra. Ammesso che ogni forma vivente venga da un unico ceppo. Allora, c’è un’origine della vita, anche se non c’è un’origine delle specie, come ci ha detto Darwin?[8]
Per le scienze dell’evoluzione la vita certamente è un evento, appare a un certo punto della storia del pianeta. La geologia ci dice che la vita lascia tracce solo a partire da un certo momento della storia della terra. Ma la biologia non è in grado di dire cosa abbia prodotto questo evento, e come si è prodotto. La biologia esclude che ci sia stata creazione ex nihilo, perché questo è escluso dal gioco stesso della scienza. Perciò per la biologia ci deve essere un’origine, dobbiamo supporre un primo prodotto che non fu a sua volta un ri-prodotto. L’assunto filosofico di Derrida non può quindi essere accettato dal biologo. Per cui ci si chiede: perché comunque per Derrida è così importante affermare che comunque, della produzione e riproduzione, non c’è origine?
La verità, secondo me, è che nel fondo Derrida diffida delle scienze perché queste sono sempre ricerca di un’origine, insomma di una causa prima in senso aristotelico. Certamente la scienza rimanda sempre più all’indietro la causa prima, sia nel più antico, sia nel più elementare. Sia verso un evento da cui verrebbe fuori anche il tempo (oggi, teoria del Big Bang), sia verso qualcosa di irriducibile, di non riducibile ad altro, verso un semplice che non sia a sua volta composto (le particelle non a caso dette elementari, i quark, ecc.). Ma il filosofo sa che questo rinvio – al più arcaico e al più elementare – è un processo infinito, ovvero, sa che ogni spiegazione scientifica, ogni Erklärung, sarà sempre provvisoria e regionale. Mentre la filosofia tende (anche quando non lo sa) all’assoluto, ovvero al non-regionale, alla totalità dell’ente, a un tutto non relativo, ovvero non in relazione con altre parti… Ma dell’assoluto non si può dire nulla, perché ogni predicazione lo relativizza, ne differisce, per così dire, l’assolutezza.
Allora, la manovra di Derrida per salvare “l’assoluto” è consistita nel fare di questo differimento, di questa différance, dell’assoluto… l’assoluto stesso. Nella figura della “traccia” si inscrive, si incide, questo scacco della filosofia nel dire l’assoluto, ma facendo di questo scacco l’assoluto stesso, facendo prevaricare lo scacco dell’assoluto sull’assoluto. Altrimenti il filosofo – teme Derrida – dovrebbe rassegnarsi a dipendere dalle spiegazioni (sempre regionali e provvisorie, sempre storiche) delle scienze, insomma a costruire una metafisica realista che faccia da sgabello al confort filosofico degli scienziati (questa è la funzione di molto epistemologi oggi, e del “nuovo realismo”). La filosofia come ancilla scientiarum. Che non sia mai! Da qui la sfida “barocca” di Derrida (che citava appunto i quadri barocchi, di differimento, di David Teniers il Giovane): tutto è ri-produzione, non c’è produzione originaria.
E perché non può (o non deve?) esserci produzione originaria? Perché la produzione originaria – del cosmo ad esempio, o della vita su questo pianeta – stabilisce un inizio del gioco, ma Derrida vuole che il gioco non abbia mai inizio. In ogni caso, ci sarà sempre e comunque già gioco. La catena degli effetti lascerà béant l’ultimo o il primo degli effetti, insomma, la causa prima è sempre differita. Ma allora questo differimento della causa prima verrà eletto a “causa prima”, ad archi-traccia, a traccia che viene prima di ogni traccia e che comanda la produzione di tutte le tracce. In questo modo Derrida pensa di salvare la capra e il cavolo: salvare la sempre recidiva vocazione della filosofia all’assoluto, e allo stesso tempo denunciare l’eterna relatività di questo assoluto, rinunciare all’assoluto come a qualcosa di sempre effimero, dato che rimanda sempre… a qualche altro assoluto.
.
5.
Quindi, Derrida mette tanto impegno nel criticare la filosofia implicita, “ingenua”, di Jacob, perché ci tiene a impossessarsi del concetto essenziale che, secondo lui, Jacob avanza: che la vita è una forma di scrittura. In effetti nozioni come codice, produzione e riproduzione, trascrizione, programma, ecc., sono tutte nozioni legate al concetto di scrittura. Ma, come è noto, Derrida non pensa alla scrittura come a un succedaneo della parola orale, ma come a qualcosa che precede (filosoficamente, non cronologicamente) il linguaggio orale propriamente detto. Egli vuole proporre una nozione di scrittura che non la riduca a trascrizione successiva di un pensiero, che non la faccia provenire da un’intenzione soggettiva cosciente. In questo senso, gli sembra che la genetica moderna conforti, avalli direi, la sua proposta filosofica.
Derrida vorrebbe insomma estendere il concetto di testualità fino a renderlo co-estensivo al vivente.
“Questa situazione – un testo senza riferimento esterno, tutto al di fuori perché senz’altro riferimento che un testo rimarcante [remarquant[10]] un testo -, questa situazione non è in fondo quella del testo della biogenetica che si scrive su un testo di cui essa fa parte o di cui essa è il prodotto, che si scrive su un oggetto o un referente che non solo è a sua volta già un testo, ma un testo senza il quale il testo scientifico – esso stesso prodotto del vivente – non potrebbe scriversi?” (p. 159)
Ciò gli permette di avanzare una metafisica che escluda ogni forma di realismo: non solo la vita è testualità, ma possiamo rigettare ogni riferimento all’autorità, direi, di un reale, di cui la scrittura sarebbe semplice riproduzione o rappresentazione.
“Riferendo il vivente alla struttura di un testo, si compie visibilmente un progresso concettuale nella bio-genetica, un progresso nella conoscenza, se volete, del vivente, se intendiamo questo progresso della conoscenza come allo stesso tempo una trasformazione dello statuto della conoscenza che non ha più nulla a che fare […] con un reale meta-testuale, ma con del testo, e che consiste quindi a scrivere testo su testo.” (p. 160)
Non siamo in pieno idealismo, ma in qualcosa che gli rassomiglia: in pieno testualismo. Le sue obiezioni a una visione realista possono essere nel fondo alquanto simili a quelle che già a suo tempo furono articolate dall’idealismo tedesco a partire da Fichte – ovvero, che anche quando diciamo che c’è una realtà fuori del testo, possiamo dire questa realtà solo grazie a un testo, per cui “la realtà” è pur sempre un testo a cui rimanda un altro testo. Così, il suo rigetto di un originario, di un evento che sia origine di tutti gli altri, è il corollario filosofico dell’idea che non c’è un reale all’origine dei testi, che non c’è un reale prima del testo che questo testo inizialmente rappresenterebbe. Il mondo diventa una fenomenologia della testualità così come per l’idealismo il mondo era fenomenologia dello Spirito.
Hegel (“il più metafisico dei metafisici”, come dice Derrida) disse che ogni vera filosofia è idealista anche se non lo sa o lo nega. “Accusare” anche Derrida di idealismo, quindi, potrebbe essere un modo di confermare l’enunciato di Hegel. E in effetti possiamo dire che Hegel ha ragione, a suo modo. Il punto – ed è qui la divaricazione – è se il filosofo di questo proprio idealismo se ne rammarichi o meno. In questo senso ogni vera filosofia (con buona pace di Badiou) è anti-filosofica: denunciando il proprio incorreggibile idealismo, cerca di andare oltre… la filosofia.
Ma anche qui, dietro l’enunciato testualista di Derrida, quale enunciazione dobbiamo leggervi? Ovvero, in quale contesto, in quale con-testo – in che cosa intorno al testo – dobbiamo leggere il testo di Derrida? Certamente il suo testualismo, preso alla lettera, è un avatar dell’idealismo, e quindi un approccio metafisico a dispetto del fatto che Derrida voglia chiudere con la metafisica. Ma è questo ciò che egli ci mostra? L’enunciato è ciò che si dice, l’enunciazione è ciò che si mostra.
La differenza tra enunciato ed enunciazione è colta da una famosa barzelletta ebraica. Due ebrei si incontrano in treno e uno chiede all’altro dove vada, e l’altro risponde “vado a Cracovia”. Risposta che irrita il primo, il quale protesta: “Ma perché dici di andare a Cracovia per farmi credere che vai a Varsavia, mentre in realtà vai proprio a Cracovia?”
Possiamo dire che Derrida dice di andare filosoficamente a Cracovia – andare contro la metafisica della tradizione filosofica - per farci credere che vada a Varsavia, ovvero verso una metafisica testualista. Questo ci fa pensare, come pensa l’ebreo della barzelletta, che lui vada davveroa Cracovia, cioè che intenda veramente disfarsi della metafisica, compresa della propria, quella testualista. Mi pare che questa sia la lettura che fanno di lui molti derridiani. Ma se prendere Derrida au pied de la lettre fosse a sua volta un malinteso, un modo di cadere nel suo tranello? Se invece Derrida andasse davvero dove non dice di andare, ovvero verso una nuova metafisica? Perché il secondo ebreo pensa di essere ancor più acuto e scafato del primo nella misura in cui prende il primo alla lettera – e se invece questo suo essere non-dupe, il suo non lasciarsi ingannare, come dice Lacan, fosse il suo errore? Les non-dupes errent. Perché in effetti la barzelletta dei due ebrei resta aperta, non conosciamo la verità, per cui possiamo rovesciare l’enunciazione potenzialmente all’infinito. Più si cerca di essere non-dupe, più si rischia di errare.
Questa nuova (non detta) metafisica verso cui di fatto Derrida va è certamente legata a qualcosa di personale, di idiosincratico. E mi chiedo se in ogni filosofia, anche in quelle che si vogliono le più razionali, le più puramente argomentative, le più anonime, non si esprima questa opacità soggettiva del filosofo. È il tema che Derrida stesso affronterà in questo seminario parlando della biografia del filosofo, a proposito dell’uomo Nietzsche. Ovvero, al centro di ogni filosofia, per quanto rigorosamente impersonale, si annida un ombelico biografico, direi un’ossessione privata, qualcosa che gli altri non condividono originariamente, ma che finiscono con l’assumere quando entrano nel gioco di quella filosofia. Non ereditiamo solo le argomentazioni dei grandi filosofi, anche le loro ossessioni. Ora, sappiamo che Derrida era ossessionato dalla scrittura, varie testimonianze ce ne parlano. Scrivere per lui era molto più che esprimersi, era, direi, un tracciare delle forme indelebili nel marmo, o forse nella carne.
Ma questa sua ossessione personale ha avuto molto successo, soprattutto nel campo della critica e della storia letterarie, ovvero in professioni di scrittura. Un po’ come i massoni –masons, muratori – hanno creato una visione metafisica e cosmologica fondata sulla costruzione architettonica, analogamente la metafisica derridiana della traccia e della scrittura fornisce una sorta di esaltazione filosofica di quegli artigiani della scrittura che sono gli accademici nelle Humanities. Derrida è diventato l’interprete più prestigioso della confraternita di coloro che scrivono. Come nella massoneria, gli strumenti del lavoro diventano l’essenza del lavoro stesso.
Ma, al di là di questa confraternita mondiale, gran parte del pensiero moderno ha pensato di trovare nel concetto derridiano di testo la soluzione che questo pensiero da tempo cerca: qualcosa che metta finalmente fine alla divisione di vecchia data tra mondo dei segni e mondo delle cose. È la stessa ragione per cui a un certo punto, nella seconda metà del XX° secolo, il pensiero è sembrato coagularsi attorno al significante linguaggio: il linguaggio andava a pennello nel superare la divisione che da secoli tormenta il pensiero occidentale, quello appunto tra segni e cose, o tra res cogitans e res extensa, quindi tra spirito e materia, mente e mondo, ecc. Perché il linguaggio sembra una moneta che ha una faccia materiale, sensibile (i suoni, le lettere, la struttura fonologica) e una faccia mentale, intelligibile (il versante semantico, l’espressione di idee). Ma il linguaggio, il logos, dirà Derrida, è ancora troppo poco materiale, troppo poco ‘cosa’, dato che solo gli esseri umani posseggono un linguaggio. Derrida vuole andare oltre, e pensa di trovare nella nozione di traccia – in qualcosa di non sempre intenzionale, in una semplice differenza inferta a qualcosa di omogeneo – il significante giusto per dire questo superamento. Il superamento della micidiale divisione all’origine delle metafisiche, che originariamente era tra un intellegibile e un sensibile, tra είδος ed ειδωλων, di cui sarà sempre problematico l’intreccio e la reciproca congruenza.
In sostanza, Derrida partecipa a un grande sogno della cultura, non solo parigina, dell’epoca: superare la divisione tra cultura umanistica e cultura scientifica, non accettare più la barriera diltheyana tra scienze dello spirito e scienze della natura. Abbiamo visto che la nozione di testo secondo Derrida poteva permettere questa congiunzione.
Poco dopo il seminario di Derrida, Ilya Prigogine e Isabelle Stengers pubblicheranno La nuova alleanza[11], che proseguirà lo stesso progetto, lo stesso sogno: la nuova auspicata alleanza sarà esplicitamente quella tra scienze umane e scienze della natura (solo che qui il riferimento filosofico sarà Bergson).
Molta acqua da allora è passata sotto i ponti, e possiamo dire oggi che questo sogno non è mai divenuto realtà. In seguito, le Humanities e le Natural sciences si sono sempre più separate, e da entrambi i lati. La cultura filosofica continentale è slittata da allora sempre più verso forme di spiritualismo, verso l’ermeneutica, verso una ripresa del bergsonismo o della fenomenologia; mentre le scienze hanno riaffermato spavaldamente il loro riduzionismo e hanno investito lo stesso “spirituale” attraverso le neuroscienze, di cui all’epoca del seminario di Derrida non si parlava. Le neuroscienze tematizzeranno la vita mentale degli esseri umani a partire dalla struttura del cervello, a partire da un organo materiale.
Tengo a dire che anche io lavoro da tempo a un superamento delle metafisiche che oppongono spirito e mondo, scienza dello spirito e scienze della natura, nature e nurture, ecc.[12] In questo senso lo sforzo di Derrida è anche il mio. Il punto, secondo me, è il modo in cui Derrida rigetta questa opposizione. Egli fa prevalere - direi prevaricare - un concetto profondamente antropologico come quello di scrittura facendone il modello di processi naturali. Anche il concetto di traccia, se non antropocentrico, è zoocentrico: una traccia è tale solo per qualcuno che la consideri tale. La forma di un piede sulla sabbia è traccia solo per qualcuno che cerchi chi vi è passato.
Come per Nietzsche, abbiamo visto, la nozione di vita prevarica su quella di ente in generale – anche se nella forma negativa della morte - analogamente in Derrida la nozione di scrittura o di traccia prevarica sull’ente in generale.
È come se Derrida dicesse: "Non c'è divisione tra pensieri e cose, perché tutte le cose sono forme di pensieri..." Non si supera veramente un'opposizione facendo prevaricare uno dei termini di un'opposizione sull'altro. È un superamento illusorio.
La testualità è una prevaricazione metafisica nel senso che tutte le metafisiche sono sempre l’atto di una prevaricazione categoriale: una parte dell’ente prevarica la totalità dell’ente, ponendosi come essenza dell’ente in generale. E così la scrittura – o meglio la traccia – questo ente in particolare, differenziale e in differita, diventa qualcosa di essenziale della totalità dell’ente.
Malgrado tutte le sue critiche a Jacob, qui Derrida esprime la speranza che la biologia moderna possa abbandonare i presupposti meccanicisti da cui essa è partita, e da cui è partita ogni scienza moderna. Ma così non si rende conto che tutte le nozioni illustrate da Jacob, e che richiamano l’ordine dei segni e della scrittura, sono concetti, appunto, euristici - la biologia era allora, e lo sarà sempre più, meccanicista. Quando il biologo dice “codice genetico” sta usando una metafora: sa che si tratta in fin dei conti solo di processi chimici. Derrida prende metafore didattiche per la struttura stessa della cosa biologica.
Questo non significa che il mondo dello spirito e quello delle cose naturali siano necessariamente separati. Ma un punto di vista che vada oltre questa divaricazione non può essere quello della prevaricazione dei concetti di un mondo su quelli dell’altro.
.
6.
Storicamente, direi che la concettualizzazione della filosofia della scienza è andata in una direzione per certi versi opposta alla proposta di Derrida, di prendere la scrittura (quindi anche la scrittura dei biologi, i testi che essi scrivono) come modello per rappresentare il vivente. Si è affermata invece sempre più – e non dico che me ne rallegri, ma è un fatto - una visione delle teorie scientifiche, dei modelli scientifici – inclusa quindi la teoria biologica – come essi stessi organismi il cui modello è l’organismo biologico secondo il darwinismo. Ovvero, una teoria non è solo né essenzialmente un’immagine del mondo, dell’oggetto che essa vuole descrivere e spiegare, è essa stessa una sorta di organismo simil-vivente, soggetta a processi fondamentali molto simili a quelli della vita biologica.
Il darwinismo afferma che la vita ha una storia per mutazione e selezione: la mutazione è casuale, stocastica, e poi ogni mutazione è messa al vaglio dell’ambiente dell’organismo, che la premia o la elimina. Ogni organismo ha un doppio ambiente: da una parte i congeneri (per esempio, vincere contro altri maschi la competizione per accaparrarmi le femmine, ecc.), dall’altra l’ambiente extra-specifico (assicurarmi le prede, sfuggire ai predatori, far fronte a cambiamenti climatici, ecc.). L’equivalente della selezione delle teorie è anch’essa duplice: una teoria deve competere con le altre teorie rivali, e allo stesso tempo fornire spiegazioni migliori del proprio oggetto di ricerca. Conta la capacità che ha una teoria di prevedere certe cose del mondo, e anche di offrire un modello migliore, che appaia verosimile, di ciò che accade nel mondo che descrive, rispetto ad altri modelli. Ma le teorie scientifiche sono a loro volta frutto del caso, del fatto cioè che a un certo punto compaiono degli esseri umani – Galileo, Newton, Darwin, Mendel, Einstein, ecc. – che concepiscono, non importa come e non importa perché, delle idee nuove. Dawkins (1976) chiama queste idee memi, da mimesis, e i memi sono il corrispettivo culturale dei geni. Questi memi nuovi sono mutanti intellettuali – i quali vengono poi sottoposti all’esame dei fatti, ovvero della porzione di realtà che intendono descrivere, e alle critiche dei memi (teorie) rivali. Nessuna teoria spiega tutto, ma può spiegare più di un’altra, per cui finisce col prevalere nella lotta per l’esistenza memetica. Una teoria scientifica è vista sempre meno come una riproduzione fotografica del mondo, sempre più come un organismo composito che sopravvive nel mare del reale. Una teoria ci appare più vera di un’altra perché sopravvive meglio dell’altra.
Una critica puramente filosofica delle teorie nuove lascia quindi il tempo che trova: quel che conta è la capacità di ogni teoria di sopravvivere e trasmettersi (riprodursi) nelle comunità scientifiche. Per una teoria scientifica accettata le critiche filosofiche sono per lo più come le punture di zanzare per un elefante. Una teoria biologica, quindi, prodotto del vivente, tende spontaneamente a comportarsi essa stessa come una sorta di organismo vivente in relazione a quel mondo vivente che vuole descrivere.
Possiamo dire quindi che l’idea peregrina di Charles Darwin – che le specie mutano non perché trasmettono caratteri acquisiti dal fenotipo, ma per una mutazione puramente casuale del genotipo – fu essa stessa una mutazione memetica che è stata positivamente selezionata dalla ricerca successiva, nel senso che essa si è dimostrata adatta a sopravvivere nella massa di dati che le scienze dell’evoluzione hanno prodotto da allora in poi. Certo anche il darwinismo ha i suoi contro-fatti, molti tratti della vita non possono essere spiegati darwinianamente[13], eppure il darwinismo sopravvive come idea dominante perché si adatta abbastanza bene (non perfettamente) ai fatti biologici.
In questa ottica, non è più la testualità il modello della biologia moderna, ma i testi che gli umani producono trovano il loro modello nel vivente stesso.
.
di Sergio Benvenuto
.
.
.
[1] La gaia scienza, n° 109.
[2] I riferimenti al testo di Jacob sono quelli dati da Derrida, quindi si riferiscono all’edizione originale francese.
[3] Il principio di carità nell’analisi testuale è stato promosso da Neil Wilson (June 1959), Quine (1975) e Davidson.
[4] Feyerabend 1975.
[5] Riprendo qui la brillante descrizione di Hintikka della scienza come un gioco, assimilabile quindi a una teoria generale dei giochi. Hintikka, 1975, capp. II-III-V.
[6] È questo un presupposto fondamentale della matematica moderna: a qualsiasi insieme, per quanto in apparenza caotico, possiamo trovare un ordine, una “legge” che ne descriva la composizione.
[7] La meccanica quantistica considera il flusso o corrente di probabilità come un fluido eterogeneo (la corrente di probabilità è il tasso di flusso di questo fluido). È un vettore reale, come in una corrente elettrica. Un fluido (ente oggettivo) può essere descritto in termini probabilistici (di attese soggettive), e un calcolo probabilistico può essere descritto come un ente oggettivo.
[8] Più volte è stato notato che il titolo di “L’origine delle specie” è fuorviante, perché di fatto non dice nulla delle origini delle specie, e di fatto dissolve anche il concetto di specie.
[9] Se fosse per Derrida, fra i quadri dell’arciduca ci dovrebbe essere anche il quadro di Teniers “L’arciduca Leopold Wilhelm nella sua galleria a Bruxelles”… Avremmo quella che i francesi chiamano myse an abyme.
[10] Remarquer quindi nel doppio senso: come un testo che marca un altro testo una seconda volta, che lo ri-marca, ma anche che lo nota, lo rende rimarchevole, lo fa essere testo mentre prima, non notato, non lo era.
[11] Prigogine & Stengers, 1979.
[12] Rimando qui a: S. Benvenuto, "Natura/ Cultura. Critica ad un paradigma culturale" in Giorgio de Finis & Riccardo Scartezzini, a cura di, Universalità & Differenza. Cosmopolitismo e relativismo nelle relazioni tra identità sociali e culture, FrancoAngeli, Milano 1996, pp. 116-142.
[13] Del resto, nemmeno Darwin era “darwiniano” fino in fondo, per fortuna. Cfr. Pievani (2013, 2015).
.
.
Bibliografia
R. Dawkins (1976) The Selfish Gene, Oxford Univ. Press, Oxford. Tr.it. Il gene egoista. La parte immortale di ogni essere vivente, Mondadori, Milano 1992.
J. Derrida (2019) La vie la mort, Seuil, Paris.
P. Feyerabend (1975) Against Method. Tr.it. Contro il metodo, Feltrinelli, Milano, 2013.
F. Jacob (1970) La logique du vivant : Une histoire de l’hérédité, Gallimard, Paris. Tr.it. La logica del vivente. Storia dell’ereditarietà, Einaudi, Torino 1971.
J. Monod (1970) Le hasard et la nécessité. Tr.it. Il caso e la necessità, Mondadori, Milano 2001.
F. Nietzsche, La gaia scienza (1882)
T. Pievani (2013) Anatomia di una rivoluzione. La logica della scoperta scientifica di Darwin, Mimesis, Milano.
T. Pievani (2015) Leggere l’Origine delle specie di Darwin, IBIS Edizioni, Como-Pavia.
I. Prigogine & I. Stengers (1979) La nouvelle alliance, Gallimard, Paris.
Quine, WVO (1975) ‘On Empirically Equivalent Systems of the World’, Erkenntnis, vol. 9, no. 3, pp. 313–328.
L. Wittgenstein (1980) Pensieri diversi, Adelphi, Milano.
N. L. Wilson (June 1959). "Substances without Substrata", The Review of Metaphysics, 12 (4): 521–539.
-
Apocalypse now. Derrida e le retoriche della fine
Recensioni / Novembre 2020Raramente il tono con cui si parla o si scrive è stato fatto oggetto di trattazione filosofica. Come trattare del tono? Come rendere conto di un elemento riconoscibile, ma apparentemente così distante, nella sua espressione singolare, dalla pretesa di generalità universale che muove il sapere filosofico? Un discorso che ha a che fare con il vero e con l’universale, sembra non potere e non dovere avere nulla a che fare con ciò che chiamiamo tono: un tale discorso – la filosofia – sembra, anzi, al contrario, dover richiedere, come sua condizione preliminare e proprio in virtù della sua istanza di generalità, una certa neutralità del tono. La filosofia esige quella che Jacques Derrida chiama, in Di un tono apocalittico adottato di recente in filosofia (Jaca Book, 2020), la «norma atonale dell’allocuzione» (p. 35).
Se poniamo il nostro sguardo da una prospettiva filosofica, dobbiamo allora definitivamente rinunciare a trattare del tono? Dobbiamo, di conseguenza, continuare a considerare il tono come qualcosa di semplicemente esteriore alla filosofia, come un suo “fuori”? Non sembra di questo avviso Derrida. La recente riedizione del suo scritto dà la possibilità al lettore italiano di riflettere, in maniera feconda, su una questione tutt’altro che ininfluente per le sorti della filosofia.
Questo breve lavoro – la nuova edizione con testo originale a fronte conta poco più di un centinaio di pagine – è la trascrizione di un intervento che il filosofo francese pronunciò a Cerisy-La-Salle nel 1980, in occasione di una conferenza dedicata proprio al suo pensiero e a cui gli organizzatori diedero il titolo di Fins de l’homme (Fini dell’uomo), eco dell’omonimo saggio di Derrida contenuto nella sua opera del 1971 Margini della filosofia.
La prima cosa che ci dice il titolo è che l’autore si occuperà di un certo tono, non tanto del tono in generale, ma del tono che assumono quei «discorsi della fine» (p. 69), così in voga al tempo, che annunciano, con rintocco di morte, «la fine della storia, la fine della lotta delle classi, la fine della filosofia, la morte di Dio, la fine delle religioni, la fine del cristianesimo e della morale, […] la fine del soggetto, la fine dell’uomo, la fine dell’Occidente, la fine di Edipo, la fine della terra, Apolcalypse now». (p. 69).
Il titolo, inoltre, suggerisce un esplicito richiamo, «secondo la citazione» (p. 33), ma anche nello stile della trasformazione e della parodia, al famoso testo di Kant, D’un tono da signori assunto di recente in filosofia (in Scritti sul criticismo, Laterza, 1991). In questo opuscolo del 1796, Kant se la prende con quelli che chiama «mistagoghi» (p. 266), portatori di un pensiero oracolare che trova nell’intuizione intellettuale, nell’illuminazione mistica e nell’esaltazione fantastica, le armi improprie con cui giungere alla verità e che conduce – sono le parole di Kant – alla «morte della filosofia» (p. 265). I mistagoghi confondono la voce immateriale della ragione, una voce che parla a tutti in un linguaggio universale e infinitamente trasmissibile, con la voce misteriosa e carica di immagini sensibili dell’oracolo. Così facendo, affidando a una solo e alla sua visione privata, il beneficio della conoscenza della verità e l’onere di trasmetterla, i mistagoghi si fanno portatori di una visione elitaria della filosofia che ha come diretta conseguenza una concezione della politica ristretta e settaria. Niente di più lontano dell’idea kantiana di una filosofia infinitamente aperta al progresso e di una politica profondamente egualitaria e democratica.
Ciò che è decisivo per Kant, e per Derrida che lo commenta, è il fatto che il tono che i mistagoghi assumono, il «tono gran-signore» (p. 51), non soltanto si fa portatore di una cattiva concezione della filosofia, ma la conduce di fronte al suo limite estremo. Il tono gran-signore dei mistagoghi, proprio come il tono assunto dai fautori dei discorsi della fine, è un tono apocalittico che annuncia la morte della filosofia.
Che cosa accomuna questi due toni: il tono gran-signore con cui se la prende Kant, al tono dei «discorsi della fine» a cui Derrida fa riferimento al tempo del suo discorso? Nel rispondere a questa domanda, Derrida comincia a prendere le distanze da Kant. Non lo fa opponendo una sua propria tesi a quelle del filosofo tedesco. (Kant e Derrida, entrambi con spirito illuminista, potremmo dire, da demistificatori, combattono dallo stesso lato della barricata contro i mistagoghi). Ma lo fa mostrando, com’è nel suo instancabile stile di scrittura, che le opposizioni concettuali messe in campo, in questo caso per difendere la filosofia dai suoi aguzzini, non sono poi, a ben vedere, così nette e inequivocabili.
Dopo averne tessuto l’elogio, Derrida, dunque, mostra anche limiti e criticità della trattazione kantiana. Proprio il limite – tra filosofia e il suo altro – costituisce il punto più problematico. Pur avendo avuto il coraggio di trattare da una prospettiva filosofica del tono, o quantomeno di un certo tono, Kant, opponendo al carattere mistificatorio e sensibile del tono, la purezza diafana, ideale della voce della ragione, non ha fatto altro che ripetere quell’operazione di esclusione del gesto, della scrittura, del corpo, che Derrida, nelle sue opere maggiori degli anni ’60 (La voce e il fenomeno, Della grammatologia, La scrittura e la differenza) e ’70 (La disseminazione, Margini della filosofia, Glas,) ci ha insegnato a riconoscere essere quella fondamentale della metafisica occidentale, ovvero di quella struttura in cui le coppie concettuali oppositive e gerarchizzate si organizzano in un tutto organico con al centro la verità.
In apertura del suo libello polemico, Kant parla di smarrimento del «significato originario» della filosofia intesa come «saggezza di vita perseguita con metodo». A causa di ciò – continua Kant – «il nome di filosofia venne ben presto rivendicato a titolo di ornamento dell'intelletto di pensatori fuor del comune, per i quali rappresentò una sorta di rivelazione d'un mistero» (p. 245). Soltanto in seguito a tale smarrimento, si sono create le condizioni favorevoli all’alzata di tono del mistagogo che, come il sofista, pretende di detenere in privato, in segreto, per se stesso e i suoi adepti, la verità. Il filosofo, da parte sua, per tenersi in vita, per tracciare il suo proprio spazio di azione nella polis, deve poter riconoscere il proprio altro e nettamente distinguersi da esso. Questo, problema classico della filosofia da Platone in poi, è l’obiettivo, il fine di Kant: differenziarsi da colui che usurpa il luogo della verità.
Ma siamo sicuri – invita a chiedere Derrida – che lo sviamento, lo smarrimento, la stonatura che può portare alla morte della filosofia di cui parla Kant, avvenga soltanto dopo rispetto a un prima originario in cui la filosofia sarebbe stata al riparo da ogni contaminazione? Siamo sicuri che il tono, e in particolare il tono apocalittico, sia del tutto estraneo all’essenza della voce, all’orizzonte “proprio” del filosofico? Prima di rispondere, va anzitutto chiarito un aspetto. A rigore, non si potrebbe parlare di tono al singolare. Il tono resiste alla chiusura della domanda ontologica che cos’è? Ciò che permette di alzare il tono – la stonatura, la Verstimmung, ovvero quel «turbamento delle menti inclinanti all’esaltazione fantastica» (Kant 1991, p. 265), e che comporta l’allontanamento dalla neutralità del discorso filosofico, non è un processo unitario. Più che di tono, dovremmo parlare di differenziazione dei toni, di alternanza dei toni (il Wechsel der Töne hölderliniano che ossessiona La cartolina), di «vibrazione differenziale» (Derrida 2020, p. 77) come ciò che permette a un tempo un tono e l’altro tono. Se il tono non può che essere plurale, rivolto all’altro e dell’altro, non può nemmeno mai essere neutro, come vorrebbe, invece, la norma atonale dell’allocuzione filosofica. La Verstimmung, la stonatura, «moltiplica le voci e fa saltare i toni. […] La Verstimmung generalizzata è la possibilità per l’altro tono, o il tono di un altro, di venire a interrompere in qualunque momento una musica familiare» (pp. 75-77).
Nonostante si guardi bene dal cedere alla tentazione di essenzializzare, di ontologizzare la stonatura generalizzata che apre la strada al tono apocalittico – essa è infatti precisamente ciò che impedisce di chiudere, di portare a termine ogni tentativo di questo tipo – Derrida non rinuncia, dopo aver preso le dovute precauzioni, a immaginare, potremmo dire per ragioni strategiche, una scena fondamentale. «Cediamo per poco alla tentazione di una finzione e immaginiamo questa scena fondamentale. Immaginiamo che vi sia un tono apocalittico, una unità del tono apocalittico» (p. 75).
A quale fine mira la strategia di Derrida? È questa domanda sul fine che, anzitutto, dobbiamo porci quando trattiamo con il tono dei discorsi della fine. È la stessa di Kant e di Derrida: a quale fine mirano i mistagoghi di tutti i tempi quando annunciano, con tono apocalittico, la morte della filosofia? Essi vogliono svelare la verità sulla fine che soltanto loro detengono in segreto e, mediante questa, attirare, far venire, sedurre. «Svelamento o verità, apofantica dell’imminenza della fine, di qualunque cosa che riguardi alla fine, la fine del mondo. Non soltanto la verità come verità rivelata di un segreto sulla fine o del segreto della fine. La verità stessa è la fine, la destinazione, e che la verità si sveli è l’avvenimento della fine» (p. 77). Ma, alla fine, la verità non è lo stesso fine a cui aspira anche Kant? Ecco allora che la verità, con la sua struttura apocalittica, non soltanto tiene insieme, in una scena fondamentale, tutti i discorsi sulla fine, ma rivela un accordo, un «potente programma» (p. 69) in cui escatologia e teleologia trovano, al di là della loro dichiarata opposizione, un segreto accordo. La voce della ragione e il tono apocalittico non sono affatto così nettamente opposti come vorrebbe Kant. La stonatura generalizzata, la Verstimmung è ciò permette a un tempo l’alterazione dei toni, la distinzione tra un tono e l’altro tono e la differenziazione tra tono e voce. Se è così, essa non può essere espunta dalla scena come se fosse venuta dopo nella forma dello sviamento da un significato originale puro, incontaminato e neutro. La stonatura, la venuta dell’altro, la fine, è già da sempre venuta. Il tono, e in particolare il tono apocalittico, abita già da sempre, e lo fa fino alla fine, la voce della ragione.
«La Verstimmung, – scrive Derrida –se si nomina così ormai il deragliamento, il cambio di tono come si direbbe il cambio di umore, è il disordine o il delirio della destinazione ma anche la possibilità di ogni emissione» (p. 77). In tale disordine o delirio dobbiamo certo riconoscere un rischio catastrofico che dobbiamo arginare, – la morte della filosofia – ma anche la chance, forse l’unica, che qualcosa come un invio, un senso, un desiderio, una politica, un’etica, inizi a circolare.
C’è un luogo della tradizione in cui immaginare una scena fondamentale del tono apocalittico: è l’Apocalisse di Giovanni. Qui il tono apocalittico si fa, o meglio, si rivela, testo. Ogni testo apocalittico annuncia che «il tempo è vicino», che la fine è imminente. Ciò che interessa a Derrida del testo, non è tanto il contenuto rivelato, la fine, ma la sua struttura, «la verità della rivelazione invece che la verità rivelata» (p. 85). La moltiplicazione delle voci, degli invii che circolano, all’inizio dell’Apocalisse, negli scambi di messaggi rivelatori tra Gesù, l’angelo e Giovanni che scrive, è la stonatura generalizzata come «condizione trascendentale di ogni discorso, persino di ogni esperienza, di ogni marca o di ogni traccia. […] Se l’apocalisse rivela, essa è innanzitutto rivelazione dell’apocalisse, auto-presentazione della struttura apocalittica del linguaggio, della scrittura, dell’esperienza della presenza, ossia del testo o della marca in generale: cioè dell’invio divisibile per il quale non c’è auto-presentazione né destinazione assicurata» (p. 85).
Di tutti i motivi che si intrecciano nella polifonia del testo, Derrida si occupa del «Vieni», di quel «Vieni» che apre la sequenza dei sette sigilli e dei Cavalieri dell’Apocalisse. Dicevamo, la fine è già sempre venuta. Qui il participio passato non va letto come se indicasse un’azione compiuta, un contenuto rivelato: esso marca, piuttosto, il venire, l’infinito di un «Vieni». Infatti, precisa Derrida, «l’avvenimento del vieni precede e chiama l’avvenimento» (p. 97). Il vieni non può mai ridursi a un oggetto, a un tema, a una rappresentazione, perché è esso ad aprire la scena, a rendere possibile, come condizione trascendentale, ogni domanda.
Il vieni è già sempre venuto ed è sempre a-venire. È in questa strana formulazione che si può esprimere l’annuncio di quella che Derrida chiama «apocalisse senza apocalisse» (p. 99) e in cui dobbiamo riconoscere il fine senza fine, la «strategia senza finalità» (Derrida 1997, p. 33), il «compito» (Derrida 2020, p. 27) a cui mira il discorso derridiano. In «tono affermativo» (p. 97), il «Vieni», che è il «gesto nella parola, […] annuncia qui, promessa o minaccia, un’apocalisse senza apocalisse, un’apocalisse senza visione, senza verità, senza rivelazione, degli invii (perché il «vieni» è plurale in sé), degli indirizzi senza messaggio e senza destinazione, senza destinatore o destinatario decidibile, senza giudizio finale, senza altra escatologia che il tono del «Vieni», la sua stessa differaenza, un’apocalisse al di là del bene e del male» (p. 101).
Il tono è al di là dell’opposizione tra sensibilità e idealità, al di là dell’opposizione tra voce della ragione e voce oracolare, «al di là dell’essere» (p. 99). Esso annuncia, «alla vigilia della filosofia e al di là di essa» (Derrida 1997, p. 33), qui e ora, apocalypse now, la chance, forse l’unica, di un pensiero aperto all’altro, aperto all’a-venire.
In queste poche, ma densissime pagine, Derrida, nell’affrontare la questione del tono, raccoglie molti dei temi e dei motivi che lo hanno interessato fino a quel momento (ruolo e rilevanza della voce, rapporto tra nome e cosa, differenza e scrittura) e anticipa alcuni di quelli che, strettamente intersecati ai precedenti, lo impegneranno nella sua riflessione successiva (pensiero dell’a-venire, invenzione dell’altro). Per questo motivo, per la sua straordinaria capacità di condensazione, Di un tono apocalittico adottato di recente in filosofia risulta un testo chiave per avere accesso a uno dei laboratori di pensiero più fervidi di tutto il Novecento, un pensiero che con la forza del suo «Vieni» ci chiama ancora, in questi giorni apocalittici, a rispondere al suo annuncio.
Saremo in grado di accoglierlo?
di Gian Marco Galasso
-
PK#13 \ Il tempo e il continuo
Rivista / Settembre 2020Nonostante lo sviluppo di una definizione matematica e rigorosa del continuo attraverso i lavori di Georg Cantor e lo sviluppo teoria degli insiemi a fine ‘800, la continuità del tempo rimane un problema per la filosofia contemporanea. Questo vale soprattutto per quelle teorie che accentuano la natura dinamica del tempo e del cambiamento, come la teoria A del tempo e in particolare il presentismo. Come è possibile pensare il tempo come continuo e perciò come esteso, se esso è, in quanto dinamico, in eterno divenire? Come possiamo concepire la continuità del tempo in contrapposizione alla continuità dello spazio? Attraverso un analisi di diverse concezioni del continuo nella storia della filosofia così, il presente volume intende esplorare diverse risposte a tali domande.
Despite the development of a rigorous mathematical definition of continuity through the development of set theory at the end of the 19th century, the continuity of time still remains a problem for the contemporary philosophy of time. This holds especially for those theories that accentuate the dynamic nature of time and change, such as the A-theory and in particular presentism. For, how can we conceive time as something continuous and extended, if this is dynamic and hence in eternal becoming? How should we understand the dynamical continuity of time in opposition to the static continuity of space? Through an analysis of different conceptions of the continuum in the history of philosophy, the present issue intends to explore different answers to this question.
A cura di Cord Friebe e Marcello Garibbo
Scarica PDF
English version
DOI: https://doi.org/10.13135/2385-1945/13.2020
Pubblicato: settembre 2020
Indice
INTRODUZIONE
M. Garibbo - Time and the Continuum. An Introduction to the Problem(s) [PDF En]
ELEMENTI STORICI
M. C. Ortiz de Landázuri - Aristotle and Bergson on Time [PDF En]
C. Tarditi - Reassessing Husserl’s Account of the Time‑continuum after the Debate on Presentism and Eternalism [PDF En]
Time, Mind and Aristotle. An Interview with Thomas Crowther [PDF En]
FILOSOFIA DEL TEMPO CONTEMPORANEA
C. Friebe - Nothing Comes Next [PDF En]
S. Yechimovitz - The Growing Block and the Problem of the Continuum [PDF En]
F. Orilia - Presentism and the Micro-Structure of Time [PDF En]
E. Marques - What is Moving Right Now? [PDF En]
F. Fischer - Limit Deciding Dispositions. A Metaphysical Symmetry-Breaker for the Limit Decision Problem [PDF En]
ESPLORAZIONI
R. Codermatz - Rivivere l’incubo di Zenone. Due evidenze cliniche [PDF It]
-
«Una natura che si fa incessantemente attraverso i suoi incrementi; una natura che si conosce, appunto, solamente accrescendola e accrescendosi […] Se presa sul serio, infatti, la struttura di un anti-paradosso suppone una ‘coerenza’ della parte con il tutto che non si deve temere di definire per quel che è: cosmologica». Si legge in queste dense righe, tratte dall’introduzione del curatore Daniele Poccia all’antologia La superficie assoluta (Textus, L’Aquila 2018), la grande importanza e insieme il nucleo più intimo della filosofia di Raymond Ruyer, decisivo e poliedrico pensatore francese del secolo scorso – semisconosciuto in Italia, e non solo –, cui il volume è dedicato.
È in effetti a una riscoperta della cosmologia, quale antica e nobilissima disciplina filosofica, che ci indirizza Ruyer, a quasi due secoli di distanza dalla fatale interdizione impostale da Kant: i paradossi e le aporie cui l’idea di mondo, se affrontata da un punto di vista filosofico, dovrebbe condurre, si rovesciano nel punto di partenza per un pensiero della natura che si vuole rinnovato e capace di inglobare in sé le rivoluzioni scientifiche avvenute tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento: «Non sono mai stato appassionato da Immanuel Kant o da Auguste Comte. I filosofi critici ispirati dalla scienza newtoniana non possono avere troppa autorità nell’epoca della fisica quantistica» (pp. 68-69).
Ruyer parte da una semplice (ma non banale) constatazione, che lo accompagna dai suoi esordi, sotto il segno di uno strutturalismo meccanicista, e fino alla sua maturità filosofica, originalmente vitalista: nessun essere può vedersi vedere. Non esiste, infatti, un terzo occhio che veda il soggetto osservare il proprio campo visivo, come non esiste un orecchio dell’orecchio o un cervello del cervello, pena la ricaduta in un inarrestabile regresso all’infinito (p. 91). Ciò significa che il soggetto dovrebbe rinunciare alla pretesa di cogliere la realtà così com’è, cedendo a una debole e indefinita ermeneutica? O che, con metodo fenomenologico (o financo gestaltista), la certezza del nostro (seppur limitato) rapporto con la realtà possa essere felicemente sintetizzata nella dinamica intenzionale? Niente affatto, e sta qui il coup de théâtre cui assistiamo nel corso del volume: l’insuperabilità del campo di coscienza impone al contrario, secondo Ruyer, un nuovo approccio, ossia un realismo diretto (p. 19), non così distante – ma molto più metafisicamente fondato – dalla pletora dei realismi che stanno attraversando il dibattito filosofico contemporaneo.
Lo «spettacolo senza spettatore» (p. 186) di cui la visione, per fare un esempio particolarmente calzante, dà conto non oscilla infatti per nulla tra un soggetto che guarda e un oggetto osservato, non è affatto un ‘sguardo su’ o una direzione intenzionale, ma è la realtà stessa, i cui effetti diverranno in seguito soggettivi o oggettivi a seconda del punto di vista che possiamo di volta in volta adottare, ma che il reale, a rigore, in sé non ha e non può avere. L’abitudine tutta umana alla «messa in scena della percezione» (p. 81), centrata a partire da una mitica prospettiva da fuori (tra i portati, non a caso, dell’arte umanista, rinascimentale e proto-cartesiana), censura quanto accade in ogni atto percettivo, ovvero quel «sorvolo senza distanza» (p. 187) che costituisce il campo di coscienza nel suo complesso. Trova qui la sua genesi la più fortunata e influente delle nozioni di Ruyer, ovvero quella di «superficie assoluta» (o «dominio di auto-sorvolo»): l’intento dell’antologia, che raccoglie testi di varia natura – articoli, capitoli di libri, compresa un’eccentrica autobiografia, corredati da un’introduzione completa e originale –, in un arco temporale che va dal 1932 al 1963, è proprio quello di ricostruirne accuratamente l’origine e lo sviluppo. Per dirla molto brevemente, si tratta di uno spazio più topologico che geometrico-euclideo, inevitabilmente bidimensionale, privo di direzione, il quale coincide scricto sensu con la coscienza e, di conseguenza, con l’essere (p. 60). C’è superficie assoluta quando c’è coscienza (p. 188), ovvero quando si costituisce un dominio, un’unità all’interno della massa molare dei fenomeni fisici ‘di folla’; la prospettiva ruyeriana destituisce (e naturalizza) così qualsiasi tipo di antropocentrismo e, il che è più importante, di spiritualismo, allargando la nozione di coscienza alle più differenti esplicazioni della natura.
Impossibile in questa sede elencare le numerosissime implicazioni di una tesi così radicale e, per certi versi, parallela (ma ovviamente non riducibile) ad alcune tra le più recenti intuizioni ‘esternaliste’ avanzate dalle neuroscienze, nonché vicina a certe posizioni maturate nei contesti della cibernetica e dell’epistemologia della complessità (in particolare in relazione alla nozione-chiave di causalità); più utile è forse mostrare come la posizione di Ruyer risulti consonante con una ‘linea di pensiero’ che ha attraversato lateralmente il pensiero filosofico novecentesco, inaugurata intorno alla fine dell’Ottocento dal pensiero bergsoniano (Montebello 2015a; Ronchi 2017). A questo proposito, non si può non notare l’insistenza con cui Ruyer evoca nelle pagine del volume – ancorché spesso in senso critico – proprio Bergson: egli sarebbe infatti al tempo stesso «l’Einstein» del mind-body problem (p. 88), l’anticipatore, da un punto di vista squisitamente temporale, proprio della superficie assoluta (p. 138), un importante studioso della genesi della memoria (p. 261), nonché un capace conciliatore della prospettiva filosofica con quella scientifica (p. 74). Certo, molte delle soluzioni bergsoniane appaiono a Ruyer inadeguate – in primis la presunta svalutazione dell’estensione fisica – ma è un fatto che il punto di partenza della sua indagine affronti problemi posti per la prima volta nella contemporaneità dal filosofo della durée. Meno evidente, ma altrettanto presente (e cronologicamente attendibile) è poi il rapporto del pensiero ruyeriano con Gilbert Simondon e la sua filosofia dell’individuazione, nata negli stessi anni e con intenti in fondo simili (riavvicinamento del perdurante split tra ambito inorganico, organico, psichico e sociale; studio ‘organologico’ della tecnica; analisi della percezione come invenzione di forme potenziali o metastabili): detto con brutale sintesi, la filosofia ‘psicobiologica’ ruyeriana manifesta la medesima esigenza, presente in Simondon, di ripensare e rendere porosi i rapporti tra materia e vita, seguendo in fondo una comune e documentabile radice canguilhemiana (p. 28). Evidenza testuale presentano inoltre i riferimenti alla filosofia dell’organismo di Alfred N. Whitehead, impegnato, una trentina di anni prima, nel ripensare lo iato che la contemporaneità sembrava aver inevitabilmente sancito tra indagine scientifico-quantitativa e analisi filosofico-qualitativa: nella critica whiteheadiana alla «localizzazione semplice» dei fenomeni fisici (p. 84; Whitehead 2018) e, più in generale, nel tentativo di reintegrare la scienza nel pensiero filosofico senza ricadere in uno sterile fisicalismo, Ruyer riconosce un grande alleato. Non deve infine stupire come la nozione di superficie assoluta costituisca – insieme a quella bergsoniana di immagine – la più importante fonte filosofica per la genesi di quel piano di immanenza (o consistenza) cui Deleuze approda, con Guattari, in Millepiani (Deleuze & Guattari 2010, p. 313)e poi, più compiutamente, in Che cos’è la filosofia? (Deleuze & Guattari 1996, pp. 25-49): per Ruyer la superficie assoluta è infatti un «campo di gravitazione iperfisico» in cui siamo immersi (p. 249), un piano che connette l’essere umano al resto della realtà, così come, in Deleuze, questo si costituirà come una superficie sul cui bordo germinano e si intersecano le più differenti singolarità.
I paralleli itinerari filosofici di Ruyer, Bergson, Whitehead, Simondon e Deleuze (ma – si potrebbe aggiungere – anche di altre due figure eterodosse come quelle di William James e Samuel Alexander) si intersecano ovviamente in modi ben più complessi di quanto non sia stato possibile mostrare qui; limitiamoci però in questa sede a evidenziare le principali caratteristiche di questa linea di pensiero, al di là di tutte le pur evidenti differenze:
-
Potenziale. Si nota innanzitutto un poderoso utilizzo di termini che partecipano di una medesima semantica: «metastabile» (Simondon), «potenziale» (Ruyer), «virtuale» (Deleuze), «processuale» (Whitehead). Il vivo – e genuinamente filosofico – interesse manifestato da Ruyer nei confronti dell’embriologia sperimentale come vettore per cogliere la genesi dell’individuo ci dimostra come egli tenti di riflettere sugli aspetti «mnemici» (p. 66) della realtà senza presupporli come semplicemente attuali. Detto in altri termini, la memoria – o, se si vuole, l’informazione – di un individuo non è né può costituirsi, come già sostenevano pionieristicamente Bergson e Whitehead, alla stregua di una riserva statica e spaziale, ma coincide con l’ingresso di una dimensione potenziale – o «tematica» (p. 64) – all’interno della realtà. L’insufficienza delle psicologie di orientamento esistenzialistico e fenomenologico risiede proprio, per Ruyer, nell’inadeguato spazio riservato alle nozioni di potenziale e di molteplicità, proprie della coscienza (p. 263). Tale potenziale non coincide, come ci ha ricordato a più riprese Bergson, con una semplice possibilità (dynamis) di esplicazione (o di non esplicazione) della realtà, ma si presenta come una dimensione pienamente reale, incistata nell’atto stesso del vivente: sarà non a caso Deleuze a vedere in Bergson e Ruyer i due più grandi studiosi della nozione di virtuale (Deleuze 1997, pp. 279-280).
-
Vita. In secondo luogo, ma non certo secondariamente, un tale tournant filosofico accorda innegabile preminenza alla dimensione del vivente, svalutando o perlomeno riconsiderando notevolmente la portata dirimente del fenomeno della morte. Dove per larga parte della filosofia continentale novecentesca – si pensi in questo contesto tanto alla filosofia heideggeriana quanto alla decostruzione derridiana o all’esistenzialismo – la morte diventa l’orizzonte (tutto umano!) a partire dal quale (ri)pensare la vita, secondo Ruyer è il vivente, costituito dai differenti domini di auto-sorvolo, a offrire il paradigma adeguato per pensare tanto la consistenza dell’essere quanto l’impossibilità di una morte ‘totale’: a partire da questa prospettiva si può sostenere senza contraddizioni che «‘io non sono ancora mai morto, dal cominciamento del mondo’» poiché «le due cellule germinali da cui ‘io’ provengo si sono fuse insieme senza annientarsi […] L’individualità donde emerge il mio ‘io’ risale senza rotture, di generazione in generazione, alle cellule viventi più primitive, e queste cellule alle molecole previtali, alle individualità fisiche» (p. 42). Di fronte a questa ricomprensione del vivente, il negativo non pare poter trovare spazio di asilo, se non in forma strettamente logica: la domanda che ha inquietato gran parte della storia della filosofia – perché qualcosa piuttosto che il nulla? – appare a Ruyer, per il quale l’essere non ha contrario (p. 183), come sostanzialmente priva di senso.
-
Scienza-filosofia. Tanto Ruyer quanto Bergson, Whitehead, Simondon e Deleuze paiono poi condividere, con tonalità differenti, un ambizioso progetto di sintesi tra scienza e filosofia: «la corrente centrale della filosofia si è sempre volontariamente mescolata, se non confusa con la corrente della scienza» (p. 75). In fondo, se il meccanicismo aveva costituito la visione del mondo dei moderni, ovvero una cosmologia in grado di dare conto a un tempo della trionfale avanzata della scienza moderna e della conseguente esperienza (non solo scientifica) del mondo, si avverte tra le pagine di questi autori – e in molti punti decisivi della loro opera – il tentativo di rilanciare una metafisica della scienza. È in particolare la «biforcazione della natura» (Whitehead 2018) in qualità primarie-oggettive e secondarie-soggettive a essere criticata prima da Whitehead e poi da Ruyer: se, con gesto democriteo, Galilei aveva saputo liberare una visione scientifica nuova, controllabile intersoggettivamente e finalmente libera dagli antichi finalismi, ciò aveva però al contempo sancito un immediato impoverimento della natura, ridotta alle proprie quantità misurabili e privata dei tratti qualitativi che da quel momento in avanti sarebbero stati di pertinenza esclusivamente soggettiva. Al contrario, secondo Ruyer, le dinamiche della visione o dell’audizione, nel presentarsi come spettacoli senza spettatore (o audizioni senza uditore), danno conto di qualità sensibili che appaiono incastonate nella realtà, presenti lì dove vengono percepite, e che restano invece una misteriosa emergenza per la scienza classica (pp. 197-199). Per dirlo con le parole di Whitehead, l’obiettivo deve essere quello di riunire l’immagine del mondo emersa dalle rivoluzioni scientifiche degli ultimi due secoli con le nostre esperienze etiche ed estetiche (Whitehead 2015).
-
Cosmologia. Ciò verso cui Ruyer e i suoi ‘colleghi’ sembrano condurci è in definitiva – ci sembra – un cosmological turn, una svolta cosmologica che doppi e accompagni quell’ontological turn che ha saputo scuotere, recentemente, i fondamenti epistemologici dell’antropologia (Viveiros de Castro 2017). Assistiamo, leggendo le pagine di questi autori, a un vero e proprio ritorno del cosmo quale luogo di speculazione. La critica ruyeriana dello schema duale soggetto-oggetto tramite il dispositivo della superficie assoluta permette infatti di naturalizzare il soggetto, rimettendolo nel mondo: con modalità decisamente più radicali rispetto all’essere-nel-mondo heideggeriano (o merleau-pontyano), Ruyer ci invita a pensare l’essere-mondodi ogni entità esistente, a partire dai suoi più elementari atti percettivi. Ciò che l’ascolto, la visione – in una parola la percezione – ci mostrano è così un’esperienza estetica (in senso etimologico) che è insieme anche cosmologica, una «forza legante» (p. 226) che unisce i domini di autosorvolo, incrementandoli indefinitamente e imprevedibilmente (da qui il parallelo con l’improvvisazione musicale rilevata finemente dal curatore nell’introduzione).
In questi quattro punti abbiamo tentato di riassumere brutalmente la posta in gioco di una linea di pensiero che ci pare oggi particolarmente attuale; rigiocata in contesti ‘costruzionisti’ – si pensi ai lavori di Isabelle Stengers (1996-1997; 2015), Didier Debaise (2015), Bruno Latour (2012), Pierre Montebello (2015b) e altri – essa pone le basi per una nuova filosofia della natura in grado di farsi carico di alcune delle più pressanti problematiche della contemporaneità (in primisecologiche). La superficie assoluta di Ruyer – così come la nozione bergsoniana di campo di immagini (Bergson 1996, pp. 13-61), l’ontogenesi preindividuale di Gilbert Simondon, la «prensione» whiteheadiana (Whitehead 2018) e il piano di immanenza di Deleuze – è una nozione che, neutralizzando ogni mediazione (ogni presunto ‘accesso’ al mondo), ci porta direttamente dentro il pianeta che abitiamo, facendocene misurare i problemi nell’orizzonte della consistenza, più che a partire da un punto di vista soltanto umano o, peggio, meramente esteriore.
A parere di chi scrive, non si tratta allora, come sembra mostrare un recente articolo apparso su Not, di opporre al presunto ritorno dei sofisticati biofascismi che infestano il dibattito culturale, un rizomatico canto pluralista del caos. Se l’articolo ha l’indubbio merito di puntare l’attenzione su alcune posizioni estremamente interessanti e originali (in fondo vicine a quelle qui trattate), la dicotomia che avanza non pare presentare una prospettiva davvero inedita. Al contrario, ciò che in modi pur diversi Ruyer, Bergson, Whitehead, Simondon e Deleuze – nonché i loro intercessori contemporanei – ci mostrano non è affatto l’innalzamento di un caos produttivo, quanto una nuova metafisica della consistenza, una cosmologia che riallaccia i singoli esseri (Tsing 2017, Coccia 2018) che abitano il pianeta, nelle loro più profonde differenze, a una radice univoca (secondo la nota formula deleuziana del pluralismo come monismo). Si tratta di una filosofia genuinamente costruzionista che intende le connessioni inter-essere come una realizzazione, uno scopo, un progetto.
Alla luce di questi brevi spunti, l’uscita di un volume antologico dedicato alla filosofia di Ruyer non può dunque che apparirci come una bella notizia: oltre a presentare in modo intelligente al pubblico italiano la riflessione di un importante autore del secolo scorso, esso ha il merito di portare l’attenzione su una nozione, quella di superficie assoluta, dal grande potenziale euristico: in quel sorvolo senza distanza che la caratterizza ci pare di poter vedere la natura nel suo svolgersi, quella natura per cui è sempre più necessario costruire un piano.
di Giulio Piatti
Bibliografia
Bergson H. (1896), Materia e memoria, Laterza, Roma-Bari 1996.
Coccia E (2016), La vita delle piante. Una metafisica della mescolanza, Il Mulino, Bologna 2018.
Debaise D., L’appât des possibles. Reprise de Whitehead, Les presse du réel, Dijon 2015.
Debaise D., Stengers I, (a cura di), Gestes speculatifs, Les presses du réel, Dijon 2015.
Deleuze, G. (1968), Differenza e ripetizione, Raffaello cortina editore, Milano 1997.
Deleuze G, Guattari F. (1980), Mille piani. Capitalismo e schizofrenia, Castelvecchi, Roma 2010.
Id. (1991), Che cos’è la filosofia?, Einaudi, Torino 1996.
Latour, B., Enquêtes sur les modes d’existence. Une antropologie des modernes, La découverte, Paris 2012.
Montebello P. (2003), L’autre métaphysique, Les presses du réel, Dijon 2015.
Id., Métaphysiques cosmomorphes. La fin du monde humaine, Les presses du réel, Dijon 2015.
Ronchi R., Il canone minore. Verso una filosofia della natura, Feltrinelli, Milano 2017.
Simondon G. (2005), L’individuazione alla luce delle nozioni di forma e d’informazione, 2 vol., Mimesis, Milano 2011.
Stengers, I. Cosmopolitiques, 7 voll., La découverte, Paris 1996-1997.
Tsing A. L., The Mushroom at the End of the World. On the Possibility of Life in Capitalist Ruins, Princeton University Press, Princeton 2017.
Viveiros de Castro E. (2009), Metafisiche cannibali. Elementi di antropologia post-strutturale, Ombre corte, Verona 2017.
Whitehead A. N. (1929). Processo e realtà. Saggio di cosmologia, Bompiani, Milano 2018.
-
-
A lungo trascurato in patria, grazie al grande successo internazionale Giorgio Agamben è oggi oggetto anche in Italia di una serie di recenti studi e pubblicazioni. L’ultimo esempio ne è il libro di Ermanno Castanò Agamben e l’animale (Novalogos, 2018), che segue di pochi mesi quelli di Riccardo Panattoni (Giorgio Agamben, Feltrinelli, 2018) e Flavio Luzi (Quodlibet. Il problema della presupposizione nell’ontologia politica di Giorgio Agamben, Stamen, 2017), e di un paio d’anni il volume collettaneo curato da Antonio Lucci e Luca Viglialoro (La vita delle forme, Il nuovo melangolo, 2016). Tutti questi studi scelgono un angolo particolare da cui leggere e analizzare la produzione agambeniana, e quello scelto da Castanò è la questione dell’animale, o, meglio, dell’essere umano come “animale politico”. E tuttavia questa non è semplicemente una delle tante possibili prospettive di analisi, perché Castanò mostra bene come la questione dell’animalità (umana) non sia solo un “problema di fondo della nostra cultura” (pag. 7), ma anche uno dei cardini – se non quello principale – attorno a cui ruota l’intera opera di Agamben, da L’uomo senza contenuto del 1970 fino alla conclusione della serie “Homo sacer” nel 2014 e agli ultimi libri. Quindi leggere Agamben alla luce della questione dell’animale significa ripercorrere tutta la sua vasta produzione svelandone e illuminandone l’intenzione unitaria che ne tiene insieme le varie fasi, che è quella di pensare l’essere umano al di là della frattura metafisica che lo separa dalla (propria) animalità.
Il metodo adottato da Castanò è semplicemente quello di analizzare, prima cronologicamente e poi strutturalmente (nel caso della serie “Homo sacer”) tutte le varie opere del filosofo romano per mostrare come questa questione ne strutturi sempre, ancorché in modi diversi e assai spesso in tono minore, l’interrogazione filosofica. Il risultato è un corposo studio che, per quanto esplicitamente non si voglia come “un’ennesima introduzione” (pag. 10), in pratica è senza dubbio a oggi la più completa e dettagliata introduzione in italiano alla filosofia di Agamben, in quanto ne analizza a fondo e in dettaglio tutte le opere principali (e molte di quelle meno lette e analizzate), le intenzioni e le influenze filosofiche, e le problematiche fondamentali. L’intenzione primaria di ricondurre il pensiero di Agamben alla questione dell’animale non risulta affatto una forzatura, perché è innegabile che fin dai suoi primi scritti alla fine degli anni Sessanta – senza dubbio sulla scorta di Heidegger – la domanda che guida Agamben è quella sulla relazione, nelle definizioni aristoteliche dell’umano, tra zoon e logos, tra animalità e razionalità/linguaggio, che è inscindibile da quella tra l’animale umano e la sua politicità. Inoltre, l’animalità che interessa ad Agamben è (per lo più) quella umana, e la questione stessa in fondo rimane, anche nello studio di Castanò, assai spesso in secondo piano e quasi in filigrana: è una sorta di corrente sotterranea che sostiene le varie analisi dell’estetica, della storia, e della politica, tutte comunque riconducibili alla grande questione della metafisica e del suo superamento.
Castanò mette bene in evidenza come la struttura portante della metafisica sia per Agamben quella di una cesura, di una separazione tra un sostrato inconoscibile e innominabile che va a fondo (di volta in volta la voce animale, la physis, la natura, la vita naturale, l’animalità, ecc.), per sostenere in questo modo l’emergere di una “sostanza” conoscibile e nominabile (il logos, il nomos, la cultura, la vita “politica”, l’umanità…). E questa struttura presupponente sostiene, più o meno chiaramente, tutte le analisi svolte già fin da L’uomo senza contenuto. Quindi anche quando, come in tutta la prima fase del suo pensiero (almeno fino a La comunità che viene, 1990), Agamben si concentra principalmente sulla questione del “linguaggio”, lo fa analizzandolo nella sua contrapposizione al sostrato materiale e innominabile della vita e della “voce” animale. È innegabile che Agamben appartenga a una tradizione fortemente antropocentrica, ed è facile isolare l’eccezionalismo umano nelle sue tante (e tradizionali) contrapposizioni tra l’animale e l’umano (“a differenza degli altri animali, l’uomo è l’unico che…”). Ma è anche indubbio che nel suo pensiero – e questo fin dall’inizio – la questione del logocentrismo (e sul linguaggio Agamben metterà sempre una grande enfasi) non è tanto un presupposto quanto precisamente il problema da analizzare e affrontare, e che il superamento della metafisica da lui sempre auspicato comporta il superamento di questa frattura e di questa contrapposizione.
La questione dell’animale acquista ovviamente più centralità con il progetto “Homo sacer”, la cui protagonista è proprio la vita nella sua contrapposizione alla sovranità o al potere. La scissione metafisica strutturale qui si incarna nello sdoppiamento semantico originario tra zoè e bios, che ricalca in ultima istanza la frattura tra animalità e umanità. Uno dei grandi meriti di Castanò è di mostrare che la famigerata “nuda vita” è proprio il prodotto di questa frattura in tutte le sue varie manifestazioni (mentre molte interpretazioni la confondono ancora con la zoè), e che l’eccezione che caratterizza la sovranità e il potere non è che l’esplicitazione della struttura metafisica che informa ogni aspetto della tradizione occidentale. Dopo una lunga analisi di tutte le opere che lo precedono (cronologicamente e poi logicamente), Castanò arriva allo snodo fondamentale del suo libro, che è anche il suo contributo più originale e incisivo: l’analisi e la rivalutazione di Quel che resta di Auschwitz (1998), il volume III del progetto “Homo sacer” e il libro più criticato e frainteso di tutta la serie – e dell’intera produzione di Agamben. Probabilmente questa lettura è divenuta possibile solo dopo la conclusione dell’intero progetto, ma dalla nostra prospettiva ex post la rilettura dell’opera diventa necessaria e centrale: la funzione di questo libro, che fa da “soglia” tra la pars destruens dei volumi I e II e quella construens del volume IV, è quella di mostrare il funzionamento della “macchina antropologica” in tutta la sua mortifera purezza, e cioè nel tentativo di separare e purificare, nel campo nazista, l’uno dall’altro i due termini della frattura metafisica originaria, l’umano e il non-umano. Auschwitz è il culmine della metafisica, e qui la sua struttura emerge in modo paradigmatico – da qui la centralità di questo libro.
Nel 2002 Agamben pubblica poi un pendant al libro su Auschwitz, che insieme a esso dev’essere letto: L’aperto. L’uomo e l’animale, l’unico esplicitamente dedicato alla questione dell’animale. Castanò mostra bene come questo libro, che non fa ufficialmente parte della serie “Homo sacer” e, a differenza di altre opere di Agamben, non ha suscitato grande interesse o grandi dibattiti (con eccezione degli animal studies), non è una “trascurabile divagazione da un percorso che si muove altrove” (pag. 197), ma fornisce anzi un’importante chiave di lettura per interpretare tutta la filosofia agambeniana: se la frattura fra l’umano e l’animale costituisce la chiave di volta dell’intera metafisica occidentale, allora interrogarsi su questa questione – questa è la tesi portante de L’aperto, e quindi anche del libro di Castanò – è più urgente che prendere posizione sulle grandi questioni della politica, dell’etica, della storia. L’aperto fornisce anche un ponte per passare alla pars construens del volume IV, ribadendo (giacché questo è da sempre uno dei cardini della filosofia di Agamben) che il superamento della metafisica con la sua frattura presupponente consiste in un “arresto” della macchina, in una deposizione o dèsoeuvrement dei suoi dispositivi, che li aprirà a un nuovo “uso”.
Tutta la teorizzazione della “forma-di-vita” nel volume IV di “Homo sacer” è quindi un ripensamento della frattura metafisica originaria e della questione dell’animalità. Una precisazione importante emerge, a questo proposito, dalla lettura di Castanò: la caratteristica portante della “forma-di-vita” per Agamben è la potenzialità, essa è cioè un “essere di potenza”, che sfugge a qualsiasi destino storico o biologico; questa struttura sembrerebbe ricalcare la tradizionale frattura tra l’animale e l’umano, dove quest’ultimo, a differenza del primo, è “senza rango” (nelle parole di Pico della Mirandola), è cioè libero dalle costrizioni meccanicistiche che imprigionano invece l’animalità. Potrebbe sembrare, così, che alla fine la proposta soteriologica di Agamben non riesca a sfuggire al tradizionale eccezionalismo umano della metafisica occidentale; e tuttavia la potenzialità della forma-di-vita consiste proprio nella disattivazione di questa struttura e di questa frattura, che imprigiona sia l’umanità che l’animalità in un perenne e mortifero “stato di eccezione”. Il pensiero della forma-di-vita è quindi volto non solo a una ridefinizione dell’umanità, ma anche dell’animalità, o meglio della relazione (e non separazione) tra le due.
Agamben ha, non tanto concluso quanto piuttosto (nelle sue parole) “abbandonato” il progetto “Homo sacer”, affinché questo possa essere forse continuato da altri e in altri modi. Il volume di Castanò è un primo passo, sistematico e introduttivo, che pone le basi per questa possibile continuazione; esso mostra, a partire da Agamben, che la filosofia che viene dovrà essere una filosofia dell’animalità.
di Carlo Salzani
-
La problematizzazione dell’antropocentrismo è ormai uno dei topoi più frequentati della letteratura filosofica (come culturale, sociologica, ecologica, ecc.) contemporanea, al punto che – facendo il verso al noto Linguistic Turn del Novecento – si è recentemente preso a parlare in modo esplicito di un Non-Human Turn (R. Grusin). Non è questa l’occasione per discutere portata e natura di una simile “svolta”, né tantomeno per valutare il modo in cui è stata tradotta e soprattutto gli slogan che appare avere generato: bisogna comunque notare che, di fatto, si è giunti a una situazione in cui l’anti-antropocentrismo si è declinato pressoché univocamente in una forma di zoocentrismo, o – se si preferisce – in un vitalismo pensato a partire dall’equazione “vita = organismo (animale)”.
Sotto questo riguardo, il libro di Coccia (La vie des plantes. Une métaphysique du mélange, Payot & Rivages, Paris 2016) ha un innegabile merito: mettere in discussione questo più o meno esplicito slittamento dal “non umano” all’“animale”, e non certo per riaffermare la preminenza dell’uomo o dell’organismo umano, bensì per indicare la possibilità di una genuina metafisica o filosofia della natura. Con ciò, Coccia non si limita a sostenere le ragioni di quel Plant Turn che pur richiama (p. 155), ossia a reclamare spazio per quelli che sono già stati prontamente battezzati come Critical Plant Studies (H. Stark), che fanno anche diventare a pieno titolo le piante protagoniste di una “storia naturale” – a partire dalla loro origine, il seme (J. Silvertown).
Infatti, la posta in palio è filosofica ad ampio raggio: è possibile trovare un accesso al problema della vita, ossia della natura e del cosmo, che non sia inficiato da una forma di «snobismo metafisico» (p. 15) per cui si finisce per assumere come superiore e privilegiato il punto di vista supposto essere più “complesso”? La risposta di Coccia è radicale: è possibile se si dismette l’abito zoocentrico che ha rivestito quello antropocentrico, ossia se si comprende che l’antispecismo non ha fatto altro che estendere il narcisismo umano al regno animale (p. 16).
L’esito è a questo punto conseguenziale (senza dubbio problematico, come indicherò): andare ancora più a fondo e “riabilitare” quello che è stato da sempre ritenuto il grado più basso della vita, ai limiti della sua assenza, ossia la “vita vegetativa”, il regno vegetale. In questo modo, si potrà riconoscere che ogni punto di vista (point de vue) non è altro che un punto di vita (point de vie): non qualcosa di distaccato e separato, ma quanto esprime una modalità di immersione e commercio.
Per Coccia, c’è una ragione ben precisa a rendere praticabile questa riabilitazione: la vita vegetale si presenta come la vita nella sua esposizione integrale, in continuità assoluta e in comunione globale con l’ambiente. Le piante sono esseri di pura superficie, che aderiscono costitutivamente al mondo: la loro assenza di movimento fa tutt’uno con la loro adesione integrale a ciò che arriva a loro e al loro ambiente. Le piante sono insomma inseparabili (fisicamente come metafisicamente: il passaggio filosofico avanzato da Coccia sta tutto qui) dal mondo che le accoglie: rappresentano la forma più intensa, radicale e paradigmatica dell’essere al mondo, perché intrattengono il legame più stretto ed elementare con il mondo, quasi una forma di assorbimento contemplativo privo di dissociazioni, una fusione e una coincidenza prive di separazioni (pp. 17-18).
Troviamo in opera – esplicitato – un importante presupposto di fondo: il pensiero si fa filosofico nel momento in cui si confronta con la natura del mondo, ossia con la natura, vale a dire che la filosofia sorge nel mondo naturale e dal confronto col mondo naturale, inteso come nascitura, come ciò che permette a tutto di nascere e divenire, esprimendosi in tutto ciò che è. Il mondo, la natura, è insomma una forza, non un insieme di cose o una totalità astratta di esseri: la natura è un processo in atto, e la filosofia è tale soltanto in quanto è filosofia della natura, solo nel momento in cui smette di essere «fisiocida» per cogliere la natura nella sua veste dinamico-processuale. L’unica forma di filosofia che può essere considerata legittima è insomma la cosmologia (pp. 31-36).
L’idea di Coccia è semplice (nonché nuovamente problematica, lo vedremo), come tutte le idee fondamentali: vivere significa vivere della vita d’altri, o – persino – esigere la relazione con ciò che precede e rende possibili gli organismi stessi (pietre, acqua, aria, luce), e le piante sono paradossalmente il luogo in cui questo fatto – il fatto della vita – si manifesta eminentemente. Se la natura è un campo aperto di relazioni trasformative, il metabolismo e il trofismo delle piante presentano esattamente l’emblema della capacità di fare di elementi dispersi e disparati un’occasione di consistenza e tenuta: le piante sono cosmogonia in atto (p. 22).
La pianta diventa così il “modello” per un generale ripensamento dell’essere al mondo e così della cosmologia, articolato in tre principali momenti.
1) La foglia consente di mettere a fuoco l’atmosfera come fluidità cosmica o luogo metafisico di mescolanza radicale in cui tutto comunica e si tocca. L’atmosfera è il soffio o respiro che tutti condividiamo, inteso quale movimento ritmato che precede le distinzioni e però le rende possibili, essendo il principio di circolazione, trasmissione e traduzione: tutto è dentro tutto e tutto comunica con tutto; ogni cosa è immanente a ogni altra; non c’è azione senza retroazione. La cosmologia è una pneumatologia (pp. 37-96).
2) Le radici permettono di ribaltare il modo in cui intendiamo il fondamento: non il ritrovamento di ciò che vi è di essenziale e originario (di fondamentale, di radicale, appunto), ma la fecondità di un processo di networking. Siamo insomma abituati a pensare al radicamento come all’emblema del riferimento saldo, dell’ergersi a partire da un principio dato e ben fermo, dell’edificarsi al di sopra di una base solida, di un suolo sicuro, mentre in realtà le radici ci presentano un dinamismo ambiguo, ibrido, anfibio e doppio. Si tratta di quello della ramificazione, che mette in comunicazione “il basso” e “l’alto”, il “più profondo” e il “più superficiale”, la notte e il giorno, la Terra e il Sole. È allora in gioco una prospettiva più eliocentrica che geocentrica, che fa spazio alle ragioni della contingenza, dell’imprevisto, dell’irregolarità e dell’inabitabilità. La cosmologia è un’astrologia, l’ecologia è un’uranologia (pp. 97-122).
3) I fiori fanno comprendere la natura puramente espressiva e dimostrativa (sessuale) degli attrattori, ossia di ciò che non definisce una natura o comunica un’essenza, bensì apre uno spazio di congiunzione e mescolamento, di moltiplicazione e variazione di forme – di alterazione. La logica dell’organismo individuale si rovescia: ci si trova nel pieno dell’esposizione alle possibilità della mutazione, del cambiamento (come della morte), nel pieno dell’espropriazione. La razionalità si converte nella ragione seminale, che si presenta come luogo di indifferenza e transizione tra “psichico” e “materiale” (come tra biologico e culturale, intensivo ed estensivo). In questo modo, la ragione diventa una forza moltiplicativa che “ripete” la stessa dinamica trasfiguratrice del cosmo: non restituisce un esistente a se stesso, attestandone l’identità, non riconduce a unità; piuttosto, apre al rinnovamento dei possibili, potenzia le connessioni, moltiplica e differenzia gli elementi, si sforza di mescolare gli incomparabili e gli incompossibili. La ragione è sessuale nella misura in cui fa tutt’uno con il processo attraverso il quale avviene un prolungamento e un rinnovamento delle sue istanze mediante un’invenzione di nuove forme di mescolamento: pensare significa rivolgersi alla sfera delle apparenze, non per rivelarne l’interiorità o per dirne l’essenza, bensì per metterle in comunicazione nella loro eterogeneità. La cosmologia è una cosmetica (pp. 123-138).
Come si sarà colto da questo rapido affresco, in chiave concettuale abbiamo a che fare con una generale problematizzazione del nesso tra forza e relazione, o tra dinamismo effettivo e pura soglia. Troviamo infatti discusso in generale il superamento di una gerarchia topologica che distingue tra luoghi in base a interiorità ed esteriorità, che pone posizioni fisse e non riesce così a cogliere – per esempio – le compenetrazioni e proiezioni reciproche, la reversibilità, le transizioni, l’immersione senza resti, la fluidità cosmica, la permeabilità, l’inclusione di tutto dentro tutto, l’amalgama perfetto, l’immediatezza della metamorfosi, l’intimità assoluta, i mediatori produttivi, la circolazione universale, l’identità formale tra passività e attività e tra essere e fare, l’esistenza come atto cosmogonico, le interpenetrazioni e influenze diffuse.
Un simile tentativo metafisico, com’è naturale, non solo non nasconde, ma fa anzi presto affiorare in superficie i propri tratti problematici (e non: le proprie contraddizioni), che mi sembrano essere principalmente due.
Il primo si potrebbe ribattezzare il rischio di “vegetocentrismo” o “plantocentrismo”, che di per sé è abbastanza chiaro: perché le piante offrirebbero l’accesso privilegiato al cosmo rispetto agli uomini e agli animali, e non potrebbero a quel punto farlo i sassi, o i batteri, e così via? O, detta altrimenti, siamo davvero sicuri che sia possibile prendere il fenomeno della vita come fenomeno per eccellenza cosmologico o cosmogonico? Insomma, fino a che punto la natura coincide con la vita (sappiamo infatti che non è così)? Queste questioni possono sembrare oziose, e il punto forse ancora più dirimente sta altrove: non è che le piante, più che essere la forma paradigmatica dell’essere al mondo, sono la forma paradigmatica di un determinato modo di essere al mondo? In particolare, qualcuno potrebbe notare, la totale aderenza, la completa immersione, la spiccata fluidità. la piena indistinzione tra “sé” e “mondo” che contraddistinguerebbero le piante, sembrano rappresentare l’affermazione di un orizzonte in cui non ci si può distinguere dal proprio ambiente e non si può modificarlo, ossia di una vita vegetativa nel senso (deleterio) comune del termine. Ancor più, qualcuno direbbe che si tratta dell’ipostatizzazione della forma di vita neoliberale o neocapitalistica o capitalista tout court, incentrata sull’esigenza di un adeguamento assoluto agli imperativi della flessibilità, della mobilità, della relazionalità, della deindividualizzazione, e via discorrendo.
Sotto questo punto di vista, l’uranologia di Coccia, nel suo sforzo di emanciparsi dalla subordinazione alla logica terrestre, mostra in effetti un fianco debole. Di per sé, si potrebbe anche sostenere che in realtà la condizione contemporanea (al di là dell’etichetta con cui si sceglie di connotarla) non fa altro che (finalmente) rivelare dei tratti che da sempre hanno fatto parte della realtà umana o naturale, liberandosi di una postura demistificatrice rispetto ai processi in atto. Ma, allora, bisogna proprio per questo anche evitare di assumere acriticamente come posizioni metafisiche “pure” ciò che altro non è che il tentativo di rendere concepibile un dato orizzonte, ossia di “trasporlo” in concetti adeguati a comprenderlo o figurarlo. Altrimenti, il rischio è di presentare idee e concetti filosofici come se piovessero dal cielo, mentre essi sono davvero un fatto relazionale, che concerne il nostro rapporto con il mondo. Detta diversamente, non si tratta tanto di imputare a Coccia di aver terminato per offrire una lettura apologetica dell’esistente, bensì – al limite – di evidenziare che non si è ancora spinto fino in fondo nel riconoscere la ramificazione (a valle come a monte) dei concetti e problemi a partire da cui articola la propria prospettiva.
Il secondo tratto problematico è correlato: riguarda il modo in cui intendere e praticare la conoscenza in generale e la filosofia in particolare. Coccia assume una posizione ben delineata in merito (pp. 141-151): il regionalismo specialistico è animato da intenti “morali” (ossia organizzativi, istituzionali, ordinativi, disciplinari, corporativi, ecc.) più che gnoseologici, e produce di fatto una limitazione della volontà di sapere, una messa a freno degli eccessi della curiosità. In questo modo, si perderebbe di vista il fatto che cose e idee sono molto meno disciplinate degli uomini: si mescolano di continuo, in modo eterogeneo, disparato e imprevedibile. Di conseguenza, la filosofia dovrebbe rapportarsi a esse senza mediazioni disciplinari e canoni normalizzanti, senza procedure, protocolli e metodi prestabiliti, senza lo scopo di ricondurle a un’unità superiore, alla comunanza di una forma, una natura o un ordine. La filosofia cercherebbe di cogliere e restituire quell’unità senza fusione sostanziale che è il clima, l’atmosfera, ossia il mondo, nel quale niente è ontologicamente separato dal resto – anzi, dovrebbe creare tale unità: la filosofia dovrebbe con ciò svolgere un’operazione di autotrofia speculativa, per cui anziché trarre nutrimento sempre ed esclusivamente da idee e verità che hanno già ricevuto il sigillo ufficiale di una qualche disciplina, anziché costruirsi a partire da elementi cognitivi già strutturati e ordinati, si devono invece trasformare in idee materie, oggetti o eventi di qualsiasi tipo. Proprio come fanno le piante, capaci di trasformare in vita qualsiasi frammento di terra, aria e luce: «una cosmologia proteiforme e liminare, indifferente ai luoghi, alle forme, alle maniere in cui viene praticata» (p. 147).
Ora, questa concezione “meteologica” o “atmosferica” della filosofia, per la quale essa è una sorta di condizione atmosferica che può sorgere all’improvviso in ogni luogo e momento, ha senza dubbio un elemento di rilevanza: suggerire che la filosofia dovrebbe essere considerata non come la costruzione di un campo di conoscenza specifico superiore che si “sovrimpone” su altri campi, ma come un costante movimento di sorvolo, ogni volta attento a tutto ciò che sta accadendo e mutando nel campo della ragione e della conoscenza, per giungere a modificare il modo in cui idee e conoscenze si concatenano e i saperi sono attraversati. Insomma, Coccia ha – a mio parere – il merito di ricordare che la filosofia deve essere coraggiosa, e accettare di essere impegnata nell’attraversamento concettuale del mondo, non nel commento di libri, nella discussione di soggetti astratti, nella ripresa di argomenti tradizionali, facenti perlopiù parte di un canone riconosciuto come “propriamente filosofico”. Ed è persino brillante quando osserva che la filosofia non potrà mai essere una disciplina per la semplice ragione che è ciò che diventa il sapere una volta che si è riconosciuto che non c’è nessuna disciplina – morale come epistemologica – possibile, nessuna dottrina scolastica da sancire.
Né, va aggiunto, ci si deve lasciare distrarre dai toni del discorso e dalle sfumature retoriche per connotarla come una posizione “irrazionalista” o “letteraria”, perché si tratta di una visione che anche un filosofo strettamente analitico come R. Casati ha presentato (lasciando ora da parte le evidenti diversità tra i due approcci): la filosofia come pratica “artistica” diffusa ovunque e pronta ad affiorare nel momento in cui occorre e viene sollecitata una qualche forma di negoziazione concettuale che permetta di attraversare diversi punti di vista o pratiche o discipline.
Ciononostante, resta sempre vero – cosa che l’esposizione di Coccia sembra lasciare troppo sullo sfondo – che non può esservi tale «autotrofia speculativa» senza un lavoro faticoso e certosino di rifinitura concettuale, rischiaramento tematico, affinamento problematico e articolazione sistematica, pena il pericolo di esaurire l’elaborazione in prese di posizione accorate ma euforiche, convinte ma entusiastiche, originali ma fideistiche.
In definitiva, questo lavoro di Coccia, al di là di un certo – si può letteralmente dire – afflato “pantemistico” (una sorta di mistica a sfondo panteista, per intenderci), pone delle questioni filosofiche che non possono essere ignorate, e le pone portandole ai loro esiti più estremi, forse proprio per questo esprimibili prevalentemente in termini più evocativi e in senso lato poetici – soprattutto se pensiamo alle circostanze biografiche e personali che hanno mosso l’autore (gli studi in un liceo agricolo e la scomparsa del fratello gemello nel pieno della giovinezza).
Ma, appunto, ciò non toglie che siano temi che hanno una notevole portata filosofica. Prendiamo per esempio il fatto decisamente banale della presenza del mio corpo nel mondo: esso segna i miei confini rispetto al mondo, mi individua, fa sì che sia proprio “io” a essere nel “mondo”. Eppure, da un certo punto di vista (lo notava già Whitehead), dove cominciano i confini del “mio” corpo, in realtà sta cominciando la natura in me, il mondo in me, sta cioè cominciando il mio essere del mondo (che il corpo sia “naturale” significa semplicemente questo). Il lavoro di Coccia consente di esplicitare molto bene l’insieme di aspetti connessi a una simile condizione: ormai è persino scontato riconoscere che non si può separare l’uomo dalla natura, come la mente dal corpo, ma una simile affermazione quanto può essere presa alla lettera? Che cosa davvero può significare? Essere in rapporto significa che non c’è distinzione? Detta sinteticamente, lo snodo filosofico che si profila è affermare il legame di tutto con tutto e insieme lo slancio della forza differenziatrice: le cose effettivamente si separano, ma lo fanno soltanto perché sono in rapporto.
Si potranno dunque imputare al lavoro di Coccia i limiti sopra riscontrati, ma un testo filosofico – alla fine – merita tanta più considerazione quanto più rende possibile l’articolazione di problemi al contempo genuini e difficili: sotto questo prospetto, questo libro dunque va decisamente tenuto in conto e preso come termine di confronto.
di Giacomo Pezzano
-
David Lapoujade – Les existences moindres
Recensioni / Ottobre 2017Nel panorama filosofico contemporaneo, David Lapoujade è noto per l’attenzione che ha dedicato all’opera di Deleuze, in qualità di curatore e studioso, oltre che per alcune penetranti ricerche sull’empirismo e il pragmatismo, soprattutto rispetto al tema dell’esperienza pura. In quest’ultimo suo agile libro, egli si concentra invece su Étienne Souriau (1892-1979), autore centrale nella filosofia francese del Novecento, per quanto oggi dimenticato, anche in Italia (ma è imminente la traduzione del suo rilevante Les différents modes d’existence). L’Autore non si limita a una presentazione o a una sintesi del percorso intellettuale di Souriau, ma riesce – nei sei capitoletti che compongono il testo – nell’impresa di fare emergere l’insieme del problema che quest’ultimo sollevava e poneva. In questo modo, Souriau si trova direttamente a essere collocato a pieno titolo nel dibattito filosofico contemporaneo, in particolare rispetto alla possibilità di articolare un’ontologia pluralista. Lapoujade spiega che con Souriau «l’estetica cessa di giocare un ruolo secondario», in quanto essa viene a sovrapporsi con la questione ontologica dell’arte dell’instaurazione, ossia con «l’arte dell’Essere» intesa quale «varietà infinita delle sue maniere d’essere o dei modi d’esistenza» (p. 12). Si afferma così un «pluralismo esistenziale» per il quale da un lato «tutti esistono, ma ciascuno alla propria maniera», e dall’altro lato «un essere non è condannato a un solo modo d’esistenza, ma può esistere secondo svariati modi» ossia «appartenere a diversi piani d’esistenza» (p. 13). Il modo non è però semplicemente ciò che caratterizza l’esistenza di qualcosa di dato, bensì la maniera di far esistere un essere su questo o quel piano, ossia «è un gesto», di natura instaurativa, che non ha preesistenza né si imprime esteriormente ma è «immanente all’esistenza stessa» (p. 14) e si produce «nel corso del processo» (p. 71).
Un altro tratto decisivo nell’itinerario speculativo di Souriau – evidenzia l’Autore – è il gusto per la sistematicità e la struttura, comunque sempre sganciato da ogni pretesa di esaustività o definitività. Ne segue così il tentativo di articolare un catalogo dei modi di esistenza, comprendente i fenomeni, le cose, gli immaginari e i virtuali, tutti espressione di una maniera di esistere peculiare e irriducibile ad altro (pp. 23-35). Inoltre, prende forma l’individuazione di alcune «invarianti» o «leggi» fondamentali nella formazione delle strutture, che presentano una definizione formale innanzitutto della filosofia (pp. 68-69), ma che a ben vedere mostrano anche una più generale rilevanza per la comprensione della logica dell’instaurazione. Esse sono: la legge di «determinazione o decisione» (il taglio problematico di un punto di vista); la legge di «opposizione significativa» (l’ordinamento secondo una polarità centrale); la legge di «mediazione» (l’articolazione dinamica dello spazio tra i poli); la legge di «evasione dinamica o terminazione» (la torsione che apre a un prolungamento su altro piano, al “proprio estraneo”); la legge di «distruzione» (la destituzione delle costellazioni precedenti).
Scorrendo l’insieme di temi e concetti che vengono toccati nell’opera (come instaurazione, pluralità, prospettivismo, modalità, novità, avere, virtuale, consistenza, immanenza, intensificazione o diritto, tra gli altri), si intuisce facilmente il motivo per cui per un filosofo tanto vicino a Deleuze, com’è appunto Lapoujade, il pensiero di Souriau possa offrire un’importante sponda. In ogni caso, l’Autore – pur richiamando in più di una circostanza il lavoro di Deleuze e Guattari – non mette mai in opera un tentativo di “riconduzione a Deleuze” delle istanze di Souriau, né inscena un mero confronto tra opzioni teoriche più o meno rivali (evitando, giusto per fare un esempio, di comparare la struttura dell’instaurazione per Souriau e quella della creazione per Deleuze). È proprio così che Lapoujade riesce da ultimo a esibire “silenziosamente” il possibile generale contributo di Souriau alla costruzione di una metafisica del processo genuinamente empirista.
Mi limito a presentare un esempio in tal senso: il concetto di purezza. L’Autore insiste sul fatto che, quando i virtuali fanno ingresso nel catalogo delle esistenze, per Souriau tutto cambia: la realtà rivela il proprio intimo carattere di incompiutezza, da intendere in senso non negativo bensì positivo ossia differenziante, in quanto il “gesto” proprio dei virtuali «è di suscitare altri gesti» (p. 32). A partire dalla presa in considerazione dei virtuali nell’inventario dei modi d’esistenza, «non ci sono più esseri, non ci sono che processi»: le sole entità che si profilano sono «degli atti, cambiamenti, trasformazioni, metamorfosi che affettano gli esseri e li fanno esistere altrimenti» (p. 51). I virtuali aprono insomma a un mondo sinaptico di eventi, un mondo di verbi e coniugazioni di verbi anziché di cose e sostantivi, un mondo attraversato dalla peculiare forza ontologica delle “pretese” o “esigenze”. Queste sono sì deboli, evanescenti, precarie e labili nella misura in cui non sono solidificate, ma restano nondimeno in grado di far valere la forza del problematico, che introduce l’incertezza nella distribuzione della realtà, “costringendo” così ad assumere una postura sperimentale che sappia rispondervi in modo appropriato (pp. 52-64). In rapporto a tale statuto, i virtuali formano una sorta di «nebulosa dove ogni decisione diventa affare di presentimento, divinazione o intuizione» (p. 34), ponendo il problema di come poter percepire e valutare l’importanza di queste forze insieme flebili e stringenti, ossia di come vedere e fare vedere, posto che qui l’atto “percettivo” fa tutt’uno con quello “creativo”, o – più precisamente – instaurativo. Come si dà insomma un punto di vista interiore o partecipativo rispetto a ciò che “traspare”? In che modo si dà non tanto una prospettiva sul mondo, ma un mondo che fa entrare in una delle sue prospettive? Per cercare una risposta a simili questioni, si profila un metodo di «riduzione», inteso in generale come quell’operazione che «instaura un piano che rende possibile la percezione di nuove entità» (p. 41), ossia che, mentre comincia a intravedere, fa vedere. Si tratta di un’operazione di «pulizia» o “purificazione”, non perché fa riferimento o riporta a ciò che vi è di più essenziale, alla sostanza o natura delle cose, alle essenze nascoste o all’identità recondita di qualcosa, all’interiorità profonda del reale, ai costituenti ultimi delle cose in senso atomistico. Piuttosto, ci si (ri)colloca al «grado zero dell’esperienza», nel «punto di conversione» dove l’esperienza stessa si costituisce, facendo valere «una certa innocenza» per la quale ci si trova senza presupposti, «aperti a tutte le potenzialità dell’esperienza pura» (pp. 40-47). Si tratta di un passaggio tanto banale da rischiare di restare impercettibile: dalla purezza delle essenze alla purezza dell’apertura; dalla purezza dell’incontaminato alla purezza di ciò che essendo “sul nascere” risulta anzi sovraesposto a un intreccio di possibili contaminazioni. È in gioco un modo di concepire il “puro” molto vicino alla maniera in cui tendiamo a rappresentare l’infanzia (perlomeno oggi, non essendo sempre stato così): uno stato di innocenza e “totipotenzialità”, di semplicità intesa quale apertura ancora non-determinata – dunque uno stato piuttosto di com-plessità. È esattamente una condizione – in poche parole – di virtualità (come peraltro voleva anche Deleuze). È l’eterogeneità a contraddistinguere la posizione di squilibrio “sperimentale” dell’essere-aperti (non a caso anche comunemente associamo il fare esperienza a situazioni in cui “ci apriamo”), di modo che purezza e impurità vengono a sovrapporsi: è infatti una maniera di essere puri per la quale si è «capaci di tutte le metamorfosi, di sovrapporre svariate prospettive e di circolare attraverso esse» (p. 44); «quando il limite diventa concreto, non ha più per funzione di separare, al contrario fa comunicare […] con elementi estranei alla supposta essenza» (p. 90).
Questa concezione del puro è centrale per comprendere appieno la portata di un’ontologia o metafisica empirista, che di per sé potrebbe apparire come un controsenso (analogamente a espressioni quali empirismo trascendentale o empirismo superiore). Infatti, se è vero – in un senso molto ampio – che una filosofia può dirsi metafisica o sistematica nella misura in cui articola un piano astratto della realtà, ci troviamo qui di fronte al tentativo di concepire astrattamente il processo stesso di concrezione delle cose, evitando dunque di contrapporre l’astratto al concreto: «l’astrazione cessa d’essere un limite ultimo per divenire percettibile» (p. 89). Proprio in tal senso, qui il trascendentale puro non è quello indipendente dall’esperienza, ma è l’esperienza stessa; la metafisica pura non è quella dei cieli ideali o dei fondamenti profondi, ma quella delle superfici “pregnanti” che vanno facendosi. Questa metafisica afferma che «non si tratta più di essere tali o quali», bensì di «conquistare delle nuove maniere d’essere» (p. 49), e «non si diventa reali che rendendo più reali altre esistenze» (p. 76), ossia facendosi «intensificatori» (p. 21), «testimoni» (pp. 74-75), «avvocati» o «porta-esistenza» delle esistenze «ancora incompiute»: «noi portiamo le loro esistenze come esse portano la nostra. Noi facciamo causa comune con esse, a condizione di intendere la natura delle loro rivendicazioni, come se esse reclamassero di essere amplificate, ingrandite, in breve rese più reali» (p. 72). Da ultimo, quindi, Souriau ci invita a «entrare in un mondo dove la solidità dei corpi, la nettezza dei contorni, la fissità delle immagini si dissipano, a profitto dei verbi che affettano tutti i modi di esistenza: apparire, scomparire, ricomparire» (p. 92), un mondo nel quale a scomparire «non è il mondo, ma l’idea di un mondo comune», sostituita da quella di «una molteplicità di maniere o di gesti» (p. 48) che non sono mai già dati, ma richiedono incessantemente processi di instaurazione.
di Giacomo Pezzano
-
Che questo bel libro di Federico Leoni si ponga al crocevia di discussioni vitali nel moderno dibattito filosofico lo si intuisce già dal titolo, Jacques Lacan. L’economia dell’assoluto (Orthotes, 2016); e nondimeno si rimane sorpresi alla conclusione della lettura dalla quantità di spunti che esso offre. Se ci si aspetta d’altronde un’opera lineare e saggistica nel senso classico della parola, si rimarrà delusi. Ma proprio qui sta l’interesse di questo libro, difficile, che tratta questioni difficili. Anche perché la filosofia contemporanea ci ha dimostrato, attivamente o passivamente, come la semplicità e la linearità corrano spesso il pericolo di risultare noiose e poco produttive, oltre che fuorvianti. Da buon ed esperto interprete Leoni non ci trascina infatti, né trascina se stesso, nel tentativo di ricostruire ciò che Lacan avesse intenzione di dire con precisione filologica; l’autore si chiede piuttosto cosa abbia Lacan da dire, a noi odierni, che forse non hanno fatto tesoro della lezione dello psicanalista-filosofo. Il motivo è che non vi abbiamo prestato orecchio; o forse, sembra suggerire Leoni, che ve ne abbiamo prestato troppo. Ma vediamo di chiarire cosa ciò voglia dire.
Già dall’introduzione l’autore dichiara il fine di rintracciare in Lacan la fase del «pensiero dell’Uno». La riflessione del nostro, spiega difatti Leoni, ha conosciuto uno sviluppo da una fase centrale «dialettica e riflessiva», fino all’approdo finale ad una “riflessione dell’immanenza”, che Leoni tenterà di descrivere più come un approdo piuttosto che una ripresa. In che senso intendere tale ripresa, e l’Uno stesso intorno a cui ruota, è il fil rouge dell’intero libro. Leoni rintraccia in Lacan il ripresentarsi di una scissione del pensiero che risale già a Platone. Ma per presentarci tale scissione, l’autore ricorre inizialmente all’analisi dell’opera aristotelica e alle distinzioni introdotte dallo stagirita tra potenza e atto. La distinzione non passa tuttavia tra pensiero in divenire e pensiero divenuto. Piuttosto il pensiero cosiddetto divenuto, cioè quell’atto in atto che sembrerebbe essere immobile nella propria impassibilità, sembrerebbe essere la sovrascrizione di una scissione più profonda che già nel Parmenide Platone aveva messo in luce. Se infatti si pensa il pensiero, non lo si può che immobilizzare nella sua rappresentazione, poiché è appunto illogico il pensiero dell’istante, del divenire. Lo è, certo, secondo la logica tradizionale delle proprietà e dei predicati. Ma, ci chiede Leoni sulla scorta di Lacan, è produttiva questa maniera si pensare? Anche la terribilità che Platone riconosceva al divenire, andrebbe quindi ad essere riletta come abissalità di quest’atto di pensiero che non può essere che praticato, sfuggendo costitutivamente al dirsi.
L’abbondanza di temi che nel corso dell’opera vengono affrontati o anche solo sfiorati non permette naturalmente una loro elencazione esaustiva. Né questa è l’intenzione o la sede. Piuttosto, il dualismo cui si è accennato, e che ha per Leoni i propri capisaldi in Platone e Aristotele, autore che verrà visto da Leoni stesso come lo sfondo teorico costante del Seminario XX, percorre costantemente le analisi del libro e ne costituisce il ritornante, sotto, potremmo dire, diverse e mentite spoglie. Filosofia e psicanalisi, soggetto e oggetto, immanenza e trascendenza, pensiero dell’uno e pensiero del tutto, vita e morte, interno ed esterno: tutti questi termini che si avvicendano nei vari capitoli costituiscono i molteplici scenari in cui si gioca una dualità più profonda, che l’autore evidenzia nelle primissime pagine, cioè quella tra un’etica del desiderio e un’etica del godimento. Se quest’ultimo si svolge nell’istante, nel momento, cioè, in cui il pensiero è immediatamente e semplicemente già sempre presso se stesso, il desiderio ha per contro bisogno di una distanza, di una separazione; si potrebbe dire di una differenza. Ma non è la differenza pura, libera, quella di cui necessita per mettere in moto la propria macchina: è piuttosto la differenza subordinata all’identico, la differenza tra parti, quella differenza che è la declinazione stessa della negatività, del non-essere. Chi in queste righe abbia sentito l’eco dei discorsi strutturalisti o post-strutturalisti non si è di certo ingannato. Sono molteplici i punti in cui Leoni vi si confronta. Ed è anche per questo che nel libro si sente risuonare l’Hegel kojeviano sotto le molteplici declinazioni del pensiero del rispecchiamento e della relazione.
Del resto è la stessa struttura del libro, oltre all’argomentazione condotta, a mettere in luce un sottofondo psicotico-ossessivo della relazione e del relativo, racchiuso com’è, il libro, tra due soglie – come le definisce l’autore – e diviso in due parti, all’interno delle quali il ritornare dell’uno, due e tre, ripetuti nella prima e nella seconda parte, ricordano sia le nenie di certi giochi infantili, sia il triangolo edipico, che il pensiero contemporaneo così fortemente cerca di esorcizzare, ma anche quello stesso gioco a tre che si è venuto abbozzando tra Lacan, Aristotele e Platone, in cui lo stesso Leoni sarebbe il quarto incomodo. Gioco che, per la sua costitutiva dissimmetria, non si può appagare di se stesso. Ma appunto è anche da questo che si evince come Leoni scacci qualsiasi ermeneuticità.
Si cadrebbe in inganno, però, se si leggesse tale struttura alla luce di quella «nuova grammatica della matematica» che inscriverebbe l’intero parcellizzato tra due limiti; o all’interno di un ripresentarsi di un unico limite. La terzità va letta, come si evince dalle argomentazioni del libro, sicuramente non come alterità, non come incommensurabilità (che nuovamente implicherebbe una misura, un nomos), ma come assolutezza. È il pensiero nel suo farsi cui tende Leoni – sulla scorta di Lacan. Ed esso non può essere che divenire. Divenire come pratica. Ecco anche il punto di innesto tra filosofia e psicanalisi. Ecco la vera obiezione che Leoni si sente di muovere all’economia finanziarizzata, come si vedrà. È anche, dunque, una immagine di Lacan molto meno conservatrice di quanto vorrebbe la vulgata, quella che si ottiene dalla lettura di quest’opera. Se è vero che Lacan ebbe a dichiarare che non vi è fuori, Leoni ci suggerisce che non è appunto nel fuori che si cela il problema. Il pensiero dell’Uno alla cui luce, o ombra che dir si voglia, si svolge tutta l’ultima riflessione di Lacan, è testimonianza del suo cruccio, anche doloroso – come dimostrano le testimonianze riportate – riguardo all’insistenza di un tema così cruciale come quello della topologia e della ricerca di una via al di là del tutto, in direzione dell’immanenza. Anche questo è ben trattato nel libro di Leoni, dal momento che egli non si occupa solo della riflessione metafisica di Platone e Aristotele, ma anche della loro, conseguente, politica.
Vi è, quindi, un paradosso, che giace nelle viscere stesse di tutta questa operazione. Leoni ritorna più volte, e sembra che ciò costituisca appunto l’impalcatura profonda dell’opera, sulla questione del dire e del linguaggio. Egli pone infatti, a ragione, alla base di tutta la metafisica occidentale, quella scissione tra soggetto e oggetto che rende possibile la stessa metafisica in quanto dire sul dire, e prima ancora, dire ciò che non può essere più detto una volta scisso, cioè l’Uno. Scissione che si opera nel e col linguaggio. La questione del poter dire ciò che si dice, e del dire financo se stessi, è legata a doppio filo con tutto ciò. Ma allora si potrebbe chiedere: quale operazione sta compiendo Leoni? Non una ermeneutica in senso classico, come si è già scritto. Ma quale è il suo ruolo? Non sta egli facendo di Lacan lettera morta? Non sta forse compiendo un altro passo su quella linea di regresso all’infinito che si origina dal pensiero riflessivo?
Innanzitutto, è bene dire che Leoni non tenta maldestramente di sciogliere questo nodo, e dunque non cade nel tranello stesso che le possibilità del linguaggio tendono. Non si parla, insomma, come di tanto in tanto si vede accadere, addosso. In secondo luogo è lui stesso a suggerirci, beninteso nella forma del non-detto, una via. A proposito dei nodi, luogo topologico eccellente, in cui Lacan stesso si immerse nei suoi ultimi seminari, intento com’era a farne e disfarne, Leoni descrive il nastro di Moebius, «genesi adialettica dei contrari» come lo chiama (p. 67). E così, quasi gli sfugga dalla penna, scrive come il nastro non vada osservato, ma piuttosto percorso. E neanche va percorso, ma, aggiunge, bisogna fabbricarlo. Ora, a parte la pregnanza di questa dichiarazione, è significativo proprio come a una dialettica della materia e della forma come quella aristotelica, si contrapponga qualcosa che «è dell’ordine del dispiegamento» (p. 68). Di fronte ad esso il linguaggio non può che fare silenzio, proprio perché è al di là di esso che tale dispiegamento avviene. Possiamo allora accostare il libro di Leoni alla famosa scala di cui parlava Wittgenstein?
Come egli stesso descrive l’operazione wittgensteiniana è un tradimento. Ma Leoni, a differenza di Wittgenstein, non tenta di dire il vero sul vero, si tira fuori da questa sfida, poiché, come argomenta esaurientemente, essa non può essere che persa.
È proprio al vero sul vero che sono dedicate alcune bellissime pagine di questo saggio. Si viene introdotti nel vivo del tema da un resoconto che fa lo stesso Lacan di un sogno di qualcuno che desiderava ardentemente, anche nella dimensione onirica, udire dallo psicanalista il vero sul vero, appunto. La riflessione su tale tema porta Leoni ad accostare l’operazione introduttiva svolta dalle cornici dei dialoghi platonici alle cornici di opere quali il Decameron e Le Mille e una notte. In questi tre casi assistiamo, ci dice, alla spinta del linguaggio fino alle proprie ultime possibilità, alla messa in atto di uno stratagemma teatrale che, invece di introdurre nel vivo della narrazione, sembra piuttosto sortire l’effetto di distrarci ulteriormente da essa, di alienarci. «Non c’è metalinguaggio», scrive Leoni sulla scorta di Lacan (p. 83). È per questo che il rimando alle dottrine non scritte platoniche non è casuale. Esse, avanza l’ipotesi l’autore, non sono tali poiché tramandate oralmente. Esse sono non scritte poiché non si tratta più di atti linguistici, ma propriamente di esercizio. Ciò che la cornice mette in moto è lo spirito di separatezza del lettore dall’opera, e l’incolmabilità di tale spazio, poiché colmarlo significherebbe tradirlo. I metafisici, infatti, che vogliono dire il vero sul vero, di quest’ultimo mantengono ben poco. La cornice è la messa in luce di quell’occhio sempre celato al campo visivo e che Wittgenstein, ecco dove sta il passo falso, ha cercato di mostrare, chiudendo il cerchio. «Dire la verità sulla verità non significa sigillare il cerchio, ma mostrare il punto in cui il cerchio non tiene, o non tiene proprio perché tiene o vorrebbe tenere» (p. 90). E ancora, scrive risolutivamente Leoni, poiché non ha senso voler dire il vero sulla cornice del vero, in quanto esso si pone al di là delle determinazioni di verità e falsità, «si tratta di abitare il paradosso sul piano della sua enunciazione» (p. 94). Il limite, la soglia, la morte, come la si voglia chiamare, è il temporeggiare all’interno di tale cornice, che coincide con il temporeggiare stesso del linguaggio che taglia un dentro e un fuori, un vuoto e un pieno, una traccia, una brocca, in seno all’Uno. E si è già detto troppo.
Tornando perciò a ciò che si scriveva sulla topologia e il nastro, è questo il punto nodale, nel senso letterale del termine, quello in cui si vede come l’insufficienza della metafisica aristotelica si esponga pienamente. Non è tuttavia una mancanza, ci dice Leoni attraverso Platone. Se infatti Aristotele cade vittima, egli sì, delle insidie del linguaggio, è forse per eccessivo ottimismo. È perché egli, tramite la sua categorizzazione, aspira all’esaustività, quando invece il residuale, il rimosso, sono la controparte necessaria e non rimuovibile di tale operazione. È di nuovo Platone, colui che nel Parmenide si fermava inorridito, immobilizzato, nel momento stesso in cui gettava lo sguardo nell’abisso, a dimostrare come l’irrazionale non sia in alcun modo rapportabile alla grammaticalità dell’ente o dello stesso essere, non parmenideo, beninteso. Perciò Lacan partorirà alla fine un mostro linguistico come «yad’lun». Non si può significare l’Uno, non si può dire. Ma non perché il linguaggio vede limitate le proprie possibilità; la questione non è la possibilità, come ribadisce Leoni a più riprese. Il linguaggio si consuma nella e con la rinuncia all’Uno. Con la sua rimozione. Con la sua Urverdrängung.
E tutto ciò viene ricondotto da Leoni nel solco di quella distinzione che già in apertura egli aveva tracciato tra etica del desiderio ed etica del godimento. Distinzione che si gioca in seno allo stesso itinerario lacaniano, e che vede i suoi estremi indicati, rispettivamente, nei seminari settimo e ventesimo. Nella comparazione di questi si assiste infatti al delinearsi di due etiche, una cristiana, del differimento e dell’infinitezza di un debito non saldabile (e naturalmente si riconosce a Nietzsche il merito di aver posto in essere tale problema, con e prima di Freud); dall’altro lato sta invece l’etica antica della divinizzazione, del dio aristotelico, dell’atto in atto. Antichità che, come si è visto, viene trattata con la dovuta problematicità.
Ma se noi oggi possiamo mettere in opera tale problematicità è perché nel frattempo abbiamo assistito all’entrata in campo di nuovi dispositivi e strumenti. In primo luogo naturalmente quello del soggetto, perno di una certa riflessione contemporanea, che si riflette anche negli scritti di Lacan, come mostra bene Leoni, nell’analizzare le implicazioni che i passi su linguaggio, vita ed economia hanno su di esso. Dall’altra la nascita di nuove scienze, quali biologia ed ecologia che, loro malgrado, ci mostrano la separatezza della vita da se stessa e in che senso la nascita della vita (o del linguaggio, potremmo dire) sia parimenti nascita della morte. Sono anche questi, temi su cui l’autore si sofferma a più riprese nel corso della trattazione. Se da un lato Leoni rintraccia in Lacan il persistere, in un primo tempo, di una visione ancora “cristianizzata” della soggettività, che vedrebbe in Shylock il proprio antesignano, in cui l’essere soggetto sarebbe legato a doppio filo a una legge che sancisce e garantisce la scambiabilità, la relazione, in subordinazione alla quale il soggetto stesso si costituirebbe (come mancanza, poiché in dipendenza dall’Altro); tuttavia il discorso sull’Uno porta con sé il tentativo di scavalcare il ricorso a tale mancanza costitutiva, e rintracciare l’attualità del pensiero nella forma del taglio. È così che Leoni scrive come il discorso di Lacan che confluisce nel Seminario VII, «Della creatione ex nihilo», sia in diretto contrasto, ancora una volta, con la metafisica aristotelica: «la materia è l’après coup della forma, e la forma è l’après coup del taglio» (p. 43).
Come si accennato, Leoni si confronta anche con le implicazioni politiche dei discorsi che porta avanti, e forse la distinzione tra politica e psicanalisi non ha più neanche senso di essere mantenuta, alla luce della lettura del libro, che tratta della dimensione istituzionale della psicanalisi stessa prendendo ad esempio una pratica tanto controversa quale quella della passe.
Basti dire, e ciò serva a stimolare la curiosità verso un libro che merita la lettura, come la politica che Leoni abbozza, in contrapposizione ad un restaurazionismo sempre in agguato, così come ad un progressismo vuoto di ogni significato, venga da questi caratterizzata come «politica dei divenire». Non resta che seguire l’autore nel suo itinerario.
di Dario Barone
-
Il rompicapo della realtà. Metafisica, ontologia e filosofia della mente in E. J. Lowe (Mimesis, Milano 2015) di Timothy Tambassi è la prima monografia dedicata interamente al pensiero di Lowe, il quale ha contribuito a impreziosirla seguendone la stesura passo per passo fino alla versione definitiva (la tesi di dottorato dell’autore) senza tuttavia potere assistere alla pubblicazione del volume, avvenuta a poco più di un anno dalla morte dello stesso Lowe. Il sottotitolo rivela il contenuto vero e proprio del libro: non ogni aspetto della ricerca di Lowe, ma quelli considerati più aderenti al suo nucleo teoretico, ossia la metafisica, l’ontologia e la filosofia della mente, a cui corrispondono i tre capitoli del libro. Più in particolare, Tambassi mira a mostrare la stretta connessione sussistente fra questi aspetti della proposta loweiana, la loro costitutiva apertura ai risultati delle scienze e, più in generale, ad altre forme di indagine della realtà. Secondo Lowe, infatti, la riflessione metafisica – focalizzata sui tre concetti cardine di realtà, di sostanza e di risorse esplicative – costituisce lo sfondo concettuale imprescindibile dell’ontologia e della filosofia della mente e conseguentemente, attraverso queste ultime, di ogni altra forma di indagine della realtà. Come vedremo, però, la scelta di presentare una sintesi coerente solo del nucleo essenziale della proposta loweiana, se da un lato abbrevia certamente la via per l’acquisizione di una certa dimestichezza col suo pensiero, dall’altro, però, rischia di contrarre nella pura dimensione dell’implicito la ricchezza di temi e questioni che pure hanno caratterizzato il lavoro filosofico di Lowe e che intrattengono un ruolo di continuo scambio col suo nucleo – e non semplicemente di mera applicazione o conseguenza.
Il primo capitolo del testo di Tambassi è dedicato alla metafisica di Lowe, definita come una disciplina razionale che studia sistematicamente le strutture fondamentali della realtà, intesa a sua volta come unitaria e indipendente dal nostro modo di osservarla, e fa ciò interamente a priori, cercando quindi di chiarire alcuni concetti universalmente applicabili (pp. 19-20). Essa definisce ciò che è possibile, sia specificando la natura stessa della possibilità sia determinando quali siano le entità possibili e che caratteristiche abbiano. Stando a questa definizione, allora, la possibilità metafisica viene qualificata come una possibilità de re, ossia una possibilità reale, che riguarda la natura stessa delle cose di cui è predicata e ciò a prescindere dal modo in cui tali cose vengono concretamente descritte. Il criterio minimale per la possibilità reale, allora, è che tra le proposizioni utilizzate per descrivere le cose sia assente la contraddizione. In questo senso, nella concezione di Lowe la possibilità logica e l’ambito della metafisica risultano coestensivi: ciò che è possibile è, cioè, vero in ogni mondo in cui valgano le leggi della logica. L’orizzonte della pura possibilità logica acquisisce poi una più compiuta determinazione per mezzo delle nozioni trascendentali – quali, per esempio, le nozioni di sostanza, proprietà e stato di cose –, che è compito proprio della metafisica approfondire e che sono alla base dell’articolazione della nostra stessa esperienza della realtà attuale (pp. 25-26). In proposito, il senso del trascendentale loweiano – a differenza di quello kantiano – riguarda sia la realtà in se stessa sia il nostro modo di pensarla. E questo proprio perché, per Lowe, se da un lato non si dà realtà al di fuori dell’esperienza possibile, dall’altro la nostra esperienza e il nostro pensiero sono una parte costitutiva della realtà stessa, e ciò che riguarda essenzialmente il nostro pensiero della realtà riguarda con ciò stesso anche la realtà in quanto tale. Il fatto che Lowe sottolinei l’indipendenza della descrizione della realtà dal nostro modo di pensarla non risulta, però, in contraddizione con quanto appena sottolineato, poiché questa indipendenza è intesa tale non tanto nei confronti del pensiero in generale, quanto piuttosto nei confronti delle particolari prospettive dei soggetti.
Fra le nozioni trascendentali la centralità assoluta spetta alla nozione di sostanza (1.3), in virtù della sua indipendenza ontologica, che comporta la sua priorità ontologica rispetto a ogni altro tipo di entità (p. 28). È qui che il discorso metafisico entra pienamente nel vivo, coinvolgendo infatti le condizioni d’esistenza e d’identità delle sostanze, che a loro volta comportano – come vedremo più avanti – l’approfondimento della natura del tempo. Una certa entità è, allora, ontologicamente indipendente – ossia è una sostanza – se e solo se non dipende per la sua identità da qualche altra entità. Da tale condizione discende anche quella relativa all’esistenza: se una certa entità dipende da un’altra per la sua identità, ne dipende anche per la sua esistenza, ossia esiste solo se esiste anche la seconda. La sostanza è indipendente in entrambi i sensi – e in ciò consiste propriamente la sua indipendenza ontologica: «Così concepita, la sostanza è un particolare (concreto) che non dipende per la sua esistenza da nient’altro oltre che da se stesso, dove la dipendenza esistenziale coinvolta è intesa in termini di dipendenza rispetto all’identità» (pp. 29-30). L’insieme delle condizioni d’identità di una sostanza – ciò che determina l’identità e l’unità di essa – è allora la sua forma, ossia il suo costituirsi come istanza di un certo genere (o tipo). In virtù di questo aspetto fondamentale della forma Lowe ammette poi l’esistenza di sostanze immateriali – quali per esempio i sé (oggetto della filosofia della mente) e le particelle ultime (che sarebbero quindi fisiche e immateriali al tempo stesso; cfr. p. 32) – accanto a quelle materiali, intendendo qui ‘materiale’ nel senso della materia prossima, ossia ciò di cui una cosa risulta immediatamente costituita.
Sempre dalla forma discende poi anche la più importante distinzione relativa alle sostanze: quella fra sostanze composte – tra le quali si annoverano le cose concrete del mondo macroscopico – e sostanze semplici (o prime) – per esempio i sé e alcune particelle subatomiche la cui immaterialità, naturalmente, consegue dalla loro semplicità – che costituiscono il fondamento ultimo dell’esistenza del reale (pp. 33-34). Una sostanza è allora composta, se possiede delle parti – dalle quali non dipende però per la propria identità – ed è invece semplice, se è priva di parti costituenti. A sua volta, la differenza fra i due tipi di sostanze si fonda su una differenza fra criteri d’identità ed è qui che il tempo gioca un ruolo decisivo: se infatti ogni sostanza materiale e ogni sostanza fisica sono necessariamente collocate in modo determinato nello spazio e nel tempo, le sostanze mentali (i sé) esistono necessariamente nel tempo ma solo contingentemente nello spazio – ossia solo nella misura in cui sono legate a sostanze fisiche quali i loro corpi: poiché per Lowe il tempo è reale per ogni tipo di sostanza, esso risulta un riferimento privilegiato. Più in particolare, è in relazione al tempo che emerge una differenza fondamentale nei criteri d’identità delle sostanze: contrariamente a quelle semplici, infatti, le sostanze composte sono dotate di un criterio d’identità diacronica (1.6), che «è fondata a partire dalle relazioni di equivalenza definite sulle loro componenti attuali o possibili […] e consiste nella conservazione di tali relazioni fra le parti costituenti possedute dalle sostanze attraverso il tempo» (pp. 36-37). La sostanza complessa, in somma, è ciò che permane attraverso il mutare delle relazioni, in cui il tempo propriamente consiste. È per questo motivo che l’esistenza stessa del tempo dipende in ultima istanza da quella delle sostanze semplici, «che persistono attraverso il tempo come “continuanti” […] e la cui persistenza è necessariamente primitiva» (p. 40).
Al culmine di queste considerazioni, Tambassi inserisce un’accurata analisi della concezione loweiana del tempo e del contesto in cui si colloca (1.7). Se il dibattito contemporaneo sulla natura del tempo è diviso fra le teorie tensionali (dall’inglese ‘tense’) e quelle atensionali – le prime ritengono essenziali le nozioni di passato, presente e futuro, le seconde si limitando a considerare le nozioni di prima, dopo e simultaneità –, Lowe assume la prima posizione, legandola essenzialmente a una concezione della persistenza (di una sostanza nel tempo) di tipo endurantista, secondo la quale una sostanza è sempre completamente presente in ogni momento in cui esiste – posizione contrapposta a quella perdurantista, secondo cui a differenti momenti dell’esistenza di una sostanza complessa corrispondono differenti parti temporali di essa.
Il secondo capitolo del libro è dedicato all’ontologia, che Tambassi rileva come «la parte più innovativa e originale» (p. 45) degli scritti di Lowe, anche perché giunta alla sua veste definitiva solo con la pubblicazione nel 2006 di The Four-Category Ontology. Dopo una ricostruzione storico-contestuale dell’ontologia analitica e del dibattito contemporaneo (2.1), Tambassi delinea la posizione loweiana sull’ontologia: «quella parte della metafisica che studia nello specifico l’essere in tre sensi fondamentali: esistenza, entità ed essenza» (p. 50). Essa ha il compito di stabilire che cosa esiste (esistenza), di determinare le categorie fondamentali dell’essere nonché le loro interrelazioni (entità) e, infine, di indagare quali siano le caratteristiche necessarie e quali le caratteristiche contingenti di una determinata entità (essenza). L’ontologia si divide inoltre in una parte a priori – quella specifica dell’elaborazione categoriale – e una empirica, che si confronta coi risultati delle altre scienze. In sintesi, allora, se la metafisica si occupa della pura possibilità, l’ontologia si occupa di ciò che esiste e coesiste. In quanto scienza dell’essere, come già osservato, essa è secondo Lowe indissolubilmente connessa alle descrizioni della realtà che emergono dal lavoro di ogni disciplina scientifica, il cui obiettivo è una descrizione vera della porzione di realtà che costituisce il suo specifico oggetto di ricerca, descrizione su cui si innesta conseguentemente anche la capacità di una scienza di fornire adeguati modelli di previsione per i fenomeni coinvolti nel suo oggetto. «L’ontologia ha l’obiettivo di unificare le diverse descrizioni […], in modo da fornire una descrizione unitaria» (p. 50), essendo il suo oggetto la realtà in se stessa e in quanto tale. Tambassi prosegue collocando la posizione di Lowe nel panorama contemporaneo relativo alle categorie ontologiche (2.2), che Lowe definisce come i tipi più generali di cose (categorie dotate di maggiore generalità) che forniscono i criteri d’identità per specifiche classi di oggetti (p. 53). Partendo dalla categoria ontologica di entità – la massima per generalità –, si arriva quindi finalmente al sistema ontologico quadri-categoriale (2.3), ottenuto combinando le suddivisioni di entità in universali/particolari e sostanziali/non sostanziali. Le quattro categorie (cfr. p. 55) sono quelle dei generi (universali sostanziali), degli attributi (universali non sostanziali), degli oggetti (particolari sostanziali, ossia le sostanze di cui si è discusso nel primo capitolo) e dei modi (particolari non sostanziali). Tutto ciò che esiste è incluso in una di queste categorie, il cui studio avviene interamente a priori. Fra le quattro categorie fondamentali, inoltre, sussistono due relazioni metafisiche fondamentali: l’istanziazione (generi e attributi istanziati rispettivamente da oggetti e modi) e la caratterizzazione (generi e oggetti caratterizzati rispettivamente da attributi e modi). A queste due prime relazioni metafisiche Lowe aggiunge poi la relazione di esemplificazione (attributi esemplificati da oggetti). A ognuna delle quattro categorie ontologiche loweiane, che categorizzano entità esistenti (anche nel caso degli universali, come vedremo), Tambassi dedica poi un’analisi specifica (2.4).
Il punto di partenza è ancora la nozione di sostanza, che nel sistema quadri-categoriale è rappresentata dalla categoria degli oggetti (2.4.1): com’era emerso nel capitolo dedicato alla metafisica, questa è la categoria delle entità che per la loro indipendenza e priorità ontologiche sono il fondamento della realtà. Così, relativamente al rapporto fra gli oggetti e i modi che li caratterizzano (proprietà e relazioni degli oggetti), Lowe pone due importanti distinzioni: la prima è che gli oggetti non sono meri sostrati privi di proprietà in se stessi (bare particulars) con la funzione di sostenere proprietà che avrebbero così un ruolo ontologicamente prioritario nelle condizioni d’identità dell’oggetto stesso. Piuttosto, invece, «gli oggetti non dipendono né per la loro esistenza né per la loro identità dai modi che li caratterizzano» (p. 61) trattandosi di due entità differenti, le prime ontologicamente indipendenti, le seconde dipendenti. La seconda distinzione importante, è quella fra oggetti e quasi-oggetti. Questi ultimi sono entità particolari e numerabili, che tuttavia sono costitutivamente privi di condizioni d’identità determinate che ne permettano l’individuazione (tali sono per esempio le particelle atomiche oggetto della meccanica quantistica): «L’indeterminatezza della loro identità è di tipo ontologico e non dipende in alcun modo dal nostro modo di conoscere le entità in questione» (p. 63). Procedendo con le altre categorie, Tambassi considera poi i modi – che si dividono in proprietà particolari (modi monadici) e relazioni particolari (modi poliadici) – e il loro rapporto con la nostra esperienza empirica (2.4.2), rapporto a proposito del quale Lowe considera la differenza fra le nostre percezioni e i fatti stessi (a loro volta distinti in eventi e processi, intesi come cambiamenti e sequenze di cambiamenti nei modi di un oggetto; cfr. p. 67). Che i modi siano delle entità particolari, inoltre, comporta l’unicità di ognuno di essi, mentre la loro dipendenza dagli oggetti implica che nessun modo può dipendere al tempo stesso da oggetti differenti; i modi, inoltre, non possono nemmeno essere considerati alla stregua di parti di un oggetto: queste sono infatti particolari sostanziali, che possono a loro volta possedere degli altri modi, ma non ridurvisi. Dalle considerazioni sui modi, Tambassi prosegue a discutere la concezione loweiana degli attributi (2.4.3.), intesi come il modo di due o più oggetti, o come un’entità portata dal genere che ne viene così caratterizzato (cfr. p. 71; per esempio, si dice che l’attributo della “trasparenza” caratterizza il genere “vetro”, che è un portatore della trasparenza; il vetro particolare (sostanza) della finestra che ho accanto e la sua particolare trasparenza (modo), sono allora rispettivamente istanze del genere “vetro” e dell’attributo “trasparenza”). Comincia qui a profilarsi il particolare realismo “immanente” sugli universali di Lowe, secondo il quale gli universali inclusi nell’inventario dell’esistente sono sia quelli istanziati attualmente sia quelli che hanno avuto istanze e che non sono però più attuali, ma non quelli di cui non si abbiano istanze (p. 70). Tambassi conclude poi il secondo capitolo con la discussione dei generi (2.4.4.) – universali sostanziali –, a cui Lowe «attribuisce un ruolo fondamentale nella descrizione dello statuto ontologico delle leggi naturali» (p. 74). Alle leggi naturali corrispondono i generi naturali da esse necessariamente caratterizzati e, in questo senso, le leggi naturali «determinano tendenze fra i particolari […] a cui si applicano, ma non i loro comportamento attuale […] che è invece il risultato di molteplici interazioni implicanti una molteplicità di leggi» (p. 77).
Infine, il terzo e ultimo capitolo prende in considerazione la filosofia della mente, definita come «la disciplina che si occupa di studiare e analizzare, da un punto di vista filosofico, i soggetti di esperienza, […] di chiarire cosa siano e se e come possano esistere» (p. 83). Con “soggetto di esperienza” s’intende ogni possibile portatore di proprietà mentali (per esempio persone, altri animali, robot e spiriti senza corpo). In gran parte, la filosofia della mente di Lowe mi sembra essere una coerente conseguenza di idee sviluppate su un piano strettamente ontologico e metafisico. Così, Lowe può tradurre il problema del rapporto mente-corpo nella questione del rapporto fra due differenti generi naturali di oggetti, l’uno rispondendo a leggi biologiche – il corpo – l'altro a leggi psicologiche – il sé. La peculiare soluzione di Lowe, chiamata anche dualismo delle sostanze non cartesiano (3.4), afferma infatti che a corpo e mente corrispondono rispettivamente una sostanza complessa e una semplice (il sé, che Tambassi presenta assieme al cosiddetto unity argument (3.5)) senza però che tali sostanze siano necessariamente separabili l’una dall’altra (per questo il dualismo è qui “non cartesiano”) e soprattutto senza che ci sia un rapporto di subalternità fra leggi biologiche e leggi psicologiche, dato che Lowe rivendica per queste ultime «uno specifico ruolo causale ed esplicativo» (p. 102) capace anche di determinare in una certa misura, amplificata dai contesti sociali, la stessa storia evolutiva biologica.
Su questo tema il testo si chiude ed è proprio a questi ultimi argomenti che si rivolge l’unica mia critica al volume. Si tratta di una critica metodologica, e non contenutistica, nei confronti di Tambassi: a mio modo di vedere, l’unica debolezza de Il rompicapo della realtà – debolezza, per altro, conseguente a una consapevole scelta di Tambassi – consiste nell’aver deliberatamente escluso tutti gli studi di Lowe che non riguardino direttamente il tema metafisico. Mi riferisco a quegli studi su Locke che hanno occupato una parte certamente non marginale del lavoro di Lowe e che potrebbero integrare in modo significativo la presentazione della metafisica loweiana proposta da Tambassi fornendo al lettore da un lato interessanti informazioni sul percorso d’indagine che Lowe ha seguito, dall’altro una visione più ampia della genesi della metafisica loweiana: la nozione loweiana di sostanza risente, infatti, del confronto con Locke e, attraverso quest’ultimo, è ampiamente debitrice della cosiddetta Early Modern Philosophy. Anzi, si potrebbe osservare che la concezione loweiana della sostanza sembra a tratti quasi sovrapponibile a quella lockiana, a esclusione di un aspetto decisivo: per Lowe, infatti, la nozione di sostanza non ha affatto una natura ipotetica, ma marcatamente reale – le sostanze, infatti, sono le autentiche componenti della realtà esistente. Questa soluzione parrebbe indirizzare Lowe verso un paradigma leibniziano, tuttvia l’autore smentisce questa apparenza sostenendo che per lui esistono sia le sostanze immateriali (com’erano le monadi leibniziane) sia le sostanze materiali (impensabili nel sistema leibniziano maturo, nel quale materia ha un carattere derivato), e ammette persino l’esistenza di entità numerabili ma non discernibili come i quasi-oggetti (anche questo aspetto è assolutamente escluso dal Leibniz maturo). Un ennesimo elemento indica quanto Lowe sia profondamente legato a Locke: Lowe non esita a definire Le categorie di Aristotele come il testo più importante nella storia dell’ontologia1, rimarcandone al contempo l’influenza sul suo pensiero, ma si discosta poi nettamente dall’idea aristotelica di sostanza prima riconvergendo verso una posizione lockiana.
Da queste rapide osservazioni conclusive – che hanno più la natura di spunti, che di critiche – mi sembra si possa guadagnare una piena prospettiva sulla fecondità di questa monografia: il nucleo teoretico del pensiero di Lowe è tutto qui, esposto in modo chiaro e sintetico. E tuttavia, così come possedere un passepartout non equivale a varcare tutte le soglie che esso ci può aprire, la ricchezza del pensiero di Lowe attende ancora importanti esplorazioni.
1Cfr. E. J. Lowe, The Four-Category Ontology, Oxford University Press, Oxford 2006, p. 58.
di Lorenzo Vitale
-
Après Bergson. Portrait de groupe avec philosophe di Giuseppe Bianco (PUF, 2016) si presenta come un’appassionante narrazione “fantasmatica”: il protagonista del libro, infatti, non appare mai sulla scena, ma si manifesta attraverso i suoi effetti, come un’immagine – o, per meglio dire, un insieme di immagini ‒ che non ha mai smesso di inquietare il novecento filosofico francese. Se l’obiettivo esplicito dell’analisi di Bianco concerne la ricostruzione della stratificata e tortuosa ricezione della filosofia bergsoniana in Francia, il libro non risulta ipso facto etichettabile come un erudito volume di storia della filosofia, per almeno due ragioni, strettamente collegate: 1) lo stile narrativo che pervade il libro e che alleggerisce notevolmente il carico di informazioni, contribuendo a costruire una vera e propria narrazione corale, potremmo dire à la Altman, nella quale, a contare, più che le azioni dei singoli personaggi, è innanzitutto e perlopiù il contesto che li muove; 2) l’affascinante impronta sociologica dell’analisi, che considera la disciplina filosofica, nel suo concreto svolgersi, prima di tutto come una pratica relazionale, che vede impegnati uomini e donne, con il loro bagaglio di mitologie, convinzioni, simpatie e antipatie.
Bianco, prima di far partire la narrazione, pone una serie di indicazioni metodologiche (pp. 1-23) che incrociano parametri, variabili e paradigmi, con l’obiettivo esplicito di rendere intellegibili i percorsi che, unendosi, andranno a costituire un’autentica eredità culturale. Saranno proprio le variabili sintetizzate nelle due tabelle presenti nell’introduzione a essere concretamente mobilitate nel corso dello studio. Fare una vera e propria sociologia della filosofia significa allora evitare di dare la precedenza a una pretesa purezza nella circolazione delle idee, ma calare le posizioni teoriche degli attori all’interno di un contesto, come quello del primo novecento francese, in piena evoluzione. Non si comprenderebbe per esempio nulla della fama di Bergson, per lo meno nei primi trent’anni del novecento, se non si confrontasse la sua traiettoria intellettuale con la progressiva professionalizzazione del “mestiere di pensare” che modificherà in modo radicale il rapporto tra filosofi e grande pubblico o con l’irriducibile dialettica includente/escludente tra centro (Parigi) e periferia che ha da sempre orientato i destini della filosofia d’oltralpe.
Comprendiamo così che occuparsi dell’eredità di Bergson significa innanzitutto confrontarsi con una serie di immagini elaborate da contemporanei e successori, e in seguito assorbite o filtrate dalle operazioni degli allievi. I ritratti di Bergson occupano così uno spettro vastissimo, apparentemente auto-contraddittorio: da filosofo della scienza a anti-positivista, da umanista cattolico a filosofo dell’impersonale, da ideologo della borghesia a emancipatore. Bianco, attraverso un’imponente mole di dati, impreziosita da una ricca (e in parte divertente) aneddotica, ricostruisce le altalenanti ondate della ricezione bergsoniana, incrociandole con l’affermarsi progressivo delle tonalità dominanti del discorso filosofico francese (“spirito”, “esistenza” e “struttura”). Sempre presente nel dibattito, ma mai al suo centro, il bergsonismo scorre così sottotraccia per tutto il novecento, modificando progressivamente la propria identità. Molto schematicamente, si potrebbero isolarne tre immagini:
1) L’immagine, in fondo condivisa da entusiasti e detrattori, di una filosofia dell’interiorità, impegnata a sondare la temporalità della coscienza in opposizione a qualsiasi forma di positivismo o intellettualismo. Da un lato, infatti, la vulgata bergsoniana, vera e propria moda di inizio secolo, penetrerà nell’arte, nella letteratura, nella psicologia, sino a diventare vero e proprio sentire comune; dall’altro, come reazione a questo successo indiscriminato, emergeranno fin da subito una serie di posizioni critiche da parte dei principali concorrenti di Bergson, in primis Alain (al secolo Émile-Auguste Chartier) e Brunschvicg, che, a diverso titolo, faranno valere le ragioni di una tradizione filosofica francese e tedesca sostanzialmente alternativa ai sofismi bergsoniani (p. 61) e alle sue “pillole rosa” (p. 78). Non è difficile vedere come una tale immagine, unita alla progressiva canonizzazione del pensiero bergsoniano, sia in fondo quella ancora dominante, perlomeno nelle ricostruzioni manualistiche, che spesso inseriscono la riflessione bergsoniana nell’alveo dello spiritualismo francese.
2) L’immagine, emersa in particolare a partire dal primo dopoguerra, di un filosofo dell’inazione, compromesso e incapace di cogliere le contraddizioni della contemporaneità. La partecipazione di Bergson alla propaganda nazionalista in favore del conflitto mondiale segnerà una vera e propria condanna da parte della nuova generazione filosofica, attiva dagli anni ’20 del novecento e profondamente influenzata dall’ideologia marxista: Bergson diventerà il pensatore borghese per eccellenza. Prolungando l’onda delle critiche di Alain e Brunschvicg, pensatori come Bachelard e Canguilhem si impegneranno nello smantellamento delle nozioni di durata, slancio e intuizione. Sarà però soprattutto Georges Politzer, nel velenoso La fin d’une parade philosophique: le bergsonisme (1929), a tenere insieme tutte le critiche pre e postbelliche, liquidando Bergson ormai come un pensatore non soltanto astratto, “senza storia” e sorpassato, ma persino pericoloso da un punto di vista etico-politico.
3) L’immagine di un pensiero “anticipatore”, capace di porsi in relazione con la fenomenologia, l’esistenzialismo, ma anche con la scienza e, in particolare, con la biologia. Dalle seminali operazioni di Wahl (Verso il concreto) e Jankélévitch (Henri Bergson) al bergsonismo inconsapevole di Sartre, passando per la riscoperta di molte intuizioni bergsoniane da parte di Ruyer, Canguilhem e Merleau-Ponty e per le più recenti operazioni di Stengers e Prigogine, il pensiero di Bergson, nonostante i numerosi tentativi di sbarramento, non è mai uscito completamente di scena, ma ha continuato a inserirsi nei più disparati dibattiti filosofici.
È proprio a partire da questo complesso e stratificato orizzonte, caratterizzante i decenni centrali del novecento, che Gilles Deleuze, protagonista della parte finale del testo, “riceve” il pensiero bergsoniano. Come Bianco sottolinea più volte, il bergsonismo di Deleuze sarebbe impensabile senza tutta quella serie di operazioni che, tra gli anni ’30 e ’60 del novecento, ha impresso un’immagine ben precisa al pensiero bergsoniano: si tratta in particolare della questione del campo trascendentale impersonale che, a partire dal primo capitolo di Materia e memoria, percorre la filosofia di Sartre, Merleau-Ponty, Hyppolite e Simondon, prima di giungere, in una forma inedita nella riflessione deleuziana sul piano di immanenza. Nella ricostruzione dei debiti bergsoniani di Deleuze, si nota nel testo una certa verve teorica: l’influsso di Bergson su Deleuze non risulta infatti riconducibile, secondo Bianco, a una presunta comunità di intenti tra i due filosofi, ma è tutto interno all’esigenza deleuziana di indagare “una condizione genetica del reale che non gli rassomigli, sebbene gli sia immanente” (p. 340). È questa esigenza, prima ancora dell’evidente presenza, in Deleuze, di ulteriori influenze (Nietzsche, Spinoza, Leibniz, gli Stoici, etc.), a impedire uno spericolato appiattimento delle due figure in nome di un unico pensiero del divenire. Certo, Deleuze si richiamerà a Bergson nel corso di tutta la sua opera e, certo, l’idea di una logica immanente del senso manifesta un evidente debito nei confronti del bergsonismo: ciò non toglie, tuttavia, che i problemi a cui le due filosofie rispondono risultano eterogenei (p. 355). Deleuze, in particolare, rileva gli aspetti più ontologici della riflessione bergsoniana (il passato in sé, la virtualità, il concetto di differenza pura), trasformando di fatto Bergson in un filosofo postkantiano e impostando così, sulla scia dell’opera di Hyppolite, un implicito confronto con la dialettica hegeliana (pp. 281-305).
Al di là della presunta fedeltà al dettato bergsoniano, la traiettoria di Gilles Deleuze, unico della sua generazione a utilizzare in modo così sistematico il pensiero di Bergson, ha avuto il merito di riattivare l’interesse verso un pensatore che, ormai glorificato e insieme decomposto, sembrava avviarsi verso una tranquillizzante neutralizzazione storiografica. Deleuze ha così riaperto un varco nella ricezione bergsoniana, contribuendo inoltre, inconsapevolmente, al consolidamento di una narrazione di cui Bianco ricostruisce la filiazione, ovvero la percezione di una filosofia francese divisa in due metà, da un lato “cartesiana” e impegnata nella fondazione del sapere attraverso la razionalità del concetto, dall’altro mistico-vitalista e legata all’esperienza, alla sensibilità e al soggetto (p. 325-333). Se questo “grande racconto” interno alla filosofia francese ha proliferato, con differenti sfumature, nelle riflessioni di Hyppolite, Foucault, Derrida e Badiou, l’indagine di Bianco ci ricorda quanto questa bipartizione risulti schematica e non renda in fondo ragione dei sostanziali e costitutivi sfondamenti di campo (l’impossibilità di sistemare l’opera di Canguilhem all’interno di questa dicotomia risulterebbe qui emblematica).
Après Bergson ci fa insomma penetrare in un secolo di interpretazioni del pensiero di Bergson, mostrandoci l’eredità della sua opera attraverso un’invidiabile cura per i dettagli (tra i vari strumenti di lavoro, è presente un utile grafico delle relazioni tra i filosofi citati, nonché la lista degli anni in cui Bergson era presente nel programma dell’agrégation). Più defilato rispetto ad altre tradizioni pensiero, quali la fenomenologia, l’esistenzialismo o lo strutturalismo, il bergsonismo emerge dal testo come filosofia “carsica”, tanto plastica da fornire intuizioni in campi di riflessioni tra loro anche molto distanti. Come le infinite biforcazioni dello slancio vitale, l’influenza di Bergson si è ripartita su un intero secolo: ecco perché, allora, il prisma bergsoniano analizzato da Bianco riflette indirettamente l’atmosfera di un’epoca.
di Giulio Piatti
-
Differenti ripetizioni. Pensare con Deleuze (Kaiak Edizioni, 2015), titolo dal sapore ossimorico con cui Fabio Treppedi ci inizia al suo atletismo filosofico, è – letteralmente – quel pre-testo avant coup con cui l'autore anticipa il movimento, a suo dire dialettico, del filosofo nell'immagine del pensiero e, qui più nello specifico, nell'immagine del pensiero di Gilles Deleuze. Da una parte, in qualità di studioso di Deleuze, Treppiedi, insieme ai suoi colleghi “nativi deleuziani” – come li definisce in prefazione Paolo Vignola[1] - si trova specchiato in un'immagine di Deleuze che non può che essere infarcita di cliché, significata e pregiudicata dalle molteplici interpretazioni che, a partire dall'attività in vita del filosofo francese sino agli studi contemporanei sulla sua proposta filosofica, sono andate (pre)confezionandola; dall'altra parte, lo sforzo filosofico di Treppiedi, consapevole del potere di attrazione-aderenza esercitato dall'immagine – non meno da quella di un Deleuze-feticcio acriticamente idolatrabile – , consiste nel considerare l'“immagine-Deleuze” par Spinoza, ossia come una potenza o, in altri termini, come un modo di fare filosofia che, lungi dal sacrificare la storia della filosofia, la fa deragliare nel suo fuori (quello che nell'inquadratura cinematografica è il fuori campo come impensato nel pensiero, secondo il Deleuze studioso di cinema). Si tratterebbe, dunque, di esaminare cosa può l'“immagine-Deleuze” all'interno della filosofia contemporanea (anche verso e versus Deleuze), partendo dall'analisi di cosa può l'immagine del pensiero tout court – operazione, quest'ultima, che Treppiedi compie nel primo capitolo del libro (L'immagine del pensiero, pp. 35-46).
Seguendo Treppiedi, secondo il quale l'immagine del pensiero è per Deleuze il problema della filosofia, quell'istanza paradossale su cui essa si (fa) sistema (cfr. pp. 36-37), forse si potrebbe inquadrare Differenti ripetizioni mettendo a fuoco il suo fuori campo; in altre parole, si potrebbe problematizzare il testo di Treppiedi (peraltro composto “per piani”, e non piuttosto “ad albero” genealogico, nella misura in cui vi confluiscono interventi preparati per occasioni a se stanti) facendolo deragliare nel suo fuori: vale a dire, la prefazione di Vignola (Lo specchio di Deleuze, pp. 9-25), e l'appendice, posta solo apparentemente in chiusura, che contiene Una conversazione con Silverio Zanobetti (pp. 89-99).
Concatenando gli interventi dei “nativi”, Zanobetti incluso, si ottiene una panoramica del Deleuze “di nuova generazione”, che rientra pienamente nella terza delle tre fasi descritte da Treppiedi in cui si suddivide la ricezione italiana del filosofo di Logica del senso. Tale fase, che Vignola ritiene operante secondo tre tendenze – trasduttiva, disparativa e adottiva – sembrano coesistere nel pensiero di Treppiedi, di cui Zanobetti mette in evidenza una formazione da storico della filosofia in ragione della quale egli interpreta lo stesso Deleuze come un vero e proprio “classico”.
Se Differenti ripetizioni può essere sentito come «un sintomo dello stato dell'arte relativo agli studi deleuziani» (p. 13), è proprio perché sulla base dei suoi studi storico-filosofici, il suo autore ha comunque saputo abbandonare la tentazione dell’interpretazione “purista”, aprendosi alle altre tre attività: a quella trasduttiva, per la quale l'armamentario concettuale deleuziano viene deterritorializzato dall'ambito della filosofia in senso stretto e riterritorializzato altrove (si colloca qui il secondo capitolo del libro, Il gesto del filosofo [pp. 45-54], che gioca sul divenire Deleuze-Bene, contaminando filosofia e teatro); a quella disparativa, tale per cui la filosofia di Deleuze viene approfondita alla luce delle discipline e degli autori a lui contemporanei (nel quarto capitolo, Desiderio e potere [pp. 63-74], Treppiedi allea Deleuze, Guattari e Foucault in una strategica biopolitica dell'inconscio, mostrando la possibilità di un inconscio immanente che, in momenti di estrema tensione, sfugge al controllo della società che lo ri-teneva impossibile); a quella adottiva, in cui l'autore presenta un Deleuze inaudito, avanzando ipotesi interpretative perlopiù stranianti, volte a dinamizzare e ri-discutere il suo stesso pensiero. E' forse questa la disposizione dell'autore più incisiva, che innerva l'intero testo; essa si individua più precisamente nel primo capitolo, in cui viene sostenuta la tesi della vocazione dialettica di Deleuze, avente i suoi germi teorici nel terzo capitolo di Differenza e ripetizione, espressa da quell'eterno ritornare dal problema al concetto e dal concetto al problema: una vocazione in ultima analisi pura, perché si inscrive nella metafisica deleuziana, che nel terzo capitolo (Empirismo trascendentale, pp. 55-62) viene «intesa come un iper-razionalismo, radicato nei problemi dell'esperienza, della materia e dell'immanenza» (p. 55).
Si fluisce, così, nel quinto capitolo, Un puro metafisico (pp. 75-85), dove viene riportata l'affermazione di Deleuze “je me sens pur métaphysicien” (schizoanaliticamente: “Sento che divengo metafisico puro”), sviluppata, attraverso l'empirismo superiore di Bergson, come una metafisica critica, capace di operare metodicamente con un bisturi di precisione intuitiva sulle cose stesse, sui dati in cui il soggetto si costruisce, e capace di cucire ad hoc, di volta in volta, un concetto che faccia da vera e propria cassa di risonanza dell'intensità del sentiendum che ci fa segno nell'incontro immediato con l'esperienza reale.
L'eredità deleuziana, il suo lascito anorganico che può fare da preindividuale alle nuove generazioni, è, sembra dirci Treppiedi, l'idea di una “filosofia del gesto”, nell'approccio sia alla filosofia stessa, sia a quella dei filosofi classici. Il gesto del filosofo, che Treppiedi via Carmelo Bene declina come “gesto Lorenzaccio”, è al contempo rispettoso e spergiuro (rispettoso nella misura in cui è spergiuro): è, quindi, il gesto dell'apprendista, figura che ricorre nel terzo capitolo di Differenza e ripetizione. Proprio come il Lorenzaccio del racconto omonimo, o come il (non)attore protagonista di Nostra Signora dei Turchi, sono consapevoli che per venir meno alla rappresentazione (ripetizione) del personaggio è necessario sottoporsi a una “ginnastica ritmica della deficienza”[2], analogamente il filosofo, eterno apprendista, per evitare di ripetere a pappagallo il personaggio (il “grande” filosofo di turno) sa che può prenderlo a maggior ragione sul serio de-pensandolo, facendogli sperimentare un divenire-minoritario contro l'immagine maggioritaria che lo fotografa nei manuali (a “gesto Lorenzaccio” come pars destruens segue pertanto un “gesto Mercuzio” come pars costruens)[3]. Come a dire: dall'immagine del pensiero non si esce se non problematizzandola al suo interno, se non in una certa misura falsificandone la buona volontà che, da cliché platonico, “da sempre” la indirizza al Vero come dogma indiscutibile.
Se, quindi, la filosofia fa coppia con Thanatos, essendo inseparabile da una tendenza criticamente distruttrice, lo fa positivamente, al fine di affermare la ripetizione, che è la ripetizione del cominciamento del pensiero. Ben venga, allora, la coazione a ripetere, a patto di concepirla come il frutto involontario di un incontro intempestivo, “spiacevole” e “negativo” solo in quanto disturba la piroette armoniosa delle facoltà – sulla quale, del resto, ben si ricalca l'immagine nella filosofia come circolo – orchestrate dal quadruplice senso comune kantiano.
Contro una certa aderenza accademica dello storico della filosofia che, nello spiegare i filosofi, intende porre l'accento sul vero della loro filosofia nel rispettivo contesto storico di ognuno, le Differenti ripetizioni di Treppiedi possono fungere da pharmakon per una nuova generazione de-genere (ripetendo Carmelo Bene), di cui sono il sintomo.
[1]Il riferimento è all'idea di Vignola di «tentare di proseguire, nei confronti di Deleuze, quello che lo stesso filosofo si era proposto, ossia far dire a un autore quello che non aveva detto. Perché, allora, non poter immaginare un Deleuze calvo (Foucault)? Oppure franco-algerino (Derrida)?» (cit. p. 12), sulla scia di Deleuze che in Differenza e ripetizione proponeva «un Hegel filosoficamente barbuto, un Marx filosoficamente glabro così come si pensa a una Gioconda baffuta» (cfr. Differenza e ripetizione, Raffaello Cortina, Milano 1997, p. 4. Citazione dell'autore). Risponde, del resto, ai medesimi intenti il rimando di Treppiedi alle “mostruosità” fatte partorire dai filosofi dietro la “spinta” di Deleuze, che nella Lettera a un critico severo ammette: «il mio modo di cavarmela, a quell'epoca, consisteva soprattutto, almeno credo, nel fatto di concepire la storia della filosofia come una specie di inculata o, che è lo stesso, di immacolata concezione. Mi immaginavo di arrivare alle spalle di un autore e di fargli fare un figlio, che fosse suo e tuttavia fosse mostruoso» (cfr. G. Deleuze, Pourparler, trad. it. di S. Verdicchio, Quodlibet, Macerata 2000, p. 14).
[2]C. Bene, Nostra Signora dei Turchi, in Opere, Bompiani, Milano 2008, p. 54.
[3]Rimandiamo all'analisi condotta da Deleuze sul Romeo e Giulietta di Carmelo Bene in Un manifesto di meno (trad. it. di J-P. Manganaro), in C. Bene - G. Deleuze, Sovrapposizioni, Quodlibet, Macerata 2002, pp. 85-86.
di Giulia Gottardo