Nel tempo delle catastrofi. Resistere alla barbarie a venire di Isabelle Stengers è un testo scritto nel 2008, recentemente uscito in traduzione italiana per Rosenberg & Sellier (2021). Si tratta, nelle parole del curatore Nicola Manghi, di un “pamphlet politico” (p. 7), scritto con l’intenzione, da parte dell’autrice, di “prendere parola” (p. 43), ossia di intervenire nel dibattito intorno al riscaldamento globale. A corredo del testo troviamo una ricca introduzione firmata dal curatore, insieme a un’intervista all’autrice tenuta nell’agosto del 2020: la prima ha il doppio merito di presentare al lettore da un lato la traiettoria e lo sviluppo del pensiero stengersiano (dall’interesse, pur eccentrico, per l’epistemologia sino alle più mature posizioni cosmologiche) e dall’altro di chiarire alcune questioni culturali (ma anche teoriche) che la voluta brevità del testo rende spesso poco più che implicite – per esempio il riferimento alle cosiddette Science wars, lo stretto rapporto intrattenuto dall’autrice con l’etnopsichiatria, la questione delle pratiche e dei praticiens; la seconda ci permette invece di misurare le intuizioni di Stengers alla luce degli sviluppi posteriori delle questioni connesse all’ecologia, come quella costruitasi attorno al termine passepartout “antropocene”.
È proprio a partire dalla lettura dell’intervista che emerge uno degli aspetti più impressionanti del testo, ovvero la sua capacità di anticipare molte questioni che sembrano effettivamente all’ordine del giorno: pur prendendo le mosse dall’onda lunga dell’altromondismo, degli scontri di Seattle e del dibattito sugli OGM, Stengers sa vedere lontano, ponendosi in una prospettiva deliberatamente “globale”, legata ai cambiamenti climatici e al destino del pianeta Terra, e intende al contempo ricalibrare le lotte che hanno caratterizzato la seconda metà del XX secolo, perlomeno dal ’68 in avanti, in una dimensione esplicitamente intersezionale (p. 50; p. 161). D’altra parte, l’asfittico scenario che Stengers vede squadernarsi all’orizzonte pare proprio richiedere un impegno di natura globale: si è infatti ormai triangolata un’alleanza «decisiva tra la razionalità scientifica, madre del progresso di tutti i saperi, uno Stato liberato dalle fonti di legittimità arcaiche che impedivano a una tale razionalità di svilupparsi, e lo sforzo industriale che le consente di tradursi in principio d’azione finalmente efficace» (p. 85). “Stato”, “Scienza” e “Impresa”, facendo progressivamente scomparire ogni “commons”, sembrano così perseguire unicamente la logica inflessibile della crescita, muta a qualsiasi riflessione rispetto alle conseguenze cui questa potrà in futuro condurre.
Eppure è proprio questo fosco scenario ad aver fatto germogliare condizioni che possono portare a una riapertura della questione o, per dir meglio, alla presa di consapevolezza della catastrofe imminente cui l’imperativo della crescita sembra ineluttabilmente condurre: si tratta dell’intrusione di “Gaia”, figura o quasi-essere (p. 66) in cui Stengers condensa la situazione propria della contemporaneità, così come l’estrema possibilità di pensare alternative rispetto allo stato di cose presente. Non si tratta tanto di quella “Gaia” ipotizzata dallo scienziato James Lovelock negli anni ‘60, sviluppata dalla biologa Lynn Margulis, e ripresa in tempi più recenti da Bruno Latour (p. 157), ossia di un essere senziente, corrispondente con la Terra e in grado di autoregolarsi, stabilizzando instancabilmente le proprie componenti; la Gaia nominata da Stengers è piuttosto un essere che, pur dotato di una sua propria «tenuta» (p. 66) e capace dunque di porre interrogativi concreti, risulta insensibile rispetto alle risposte da lei stimolate. Con accenti quasi leopardiani (p. 68), Stengers insiste sull’impassibilità di questo essere, pura trascendenza indifferente che non chiede nulla, ma che fa problema, che forza a pensare. È proprio la sua perentoria intrusione, cui dobbiamo dunque apprendere a renderci sensibili, a costituire una sfida decisiva e globale per il mondo contemporaneo.
Il testo – riassunto qui brutalmente – poggia nella sua interezza su un architrave speculativo significativo, che vorrei provare a dissezionare, ponendomi così in dialogo con alcune intuizioni presenti nell’introduzione del curatore (p. 9). Stengers convoca costantemente sulla scena due orientamenti ontologici “forti” che, tradizionalmente, si sono posizionati agli antipodi del pensiero occidentale, ovverosia il costruzionismo e il realismo. Da un lato, infatti, il testo è puntellato dal constante riferimento a una semantica della costruzione, della finzione e della composizione: Stengers ripete a più riprese che si tratta di «comporre con Gaia» (p. 75), di creare e inventare gli artifici (p. 142) e le condizioni per nuove lotte e pratiche che non siano il semplice prolungamento di quelle realizzate in passato. È infatti proprio la capacità di invenzione – che Stengers ha evidentemente mutuato dai propri studi epistemologici – ad aver fatto sviluppare la scienza moderna e l’intero mondo ad essa connesso, dal caso Galilei (p. 88) in avanti. Allo stesso tempo, però, il riferimento a Gaia come a una “intrusione” nel mondo contemporaneo conduce il discorso stengersiano nei pressi di un deciso realismo: Gaia è infatti un ostacolo reale, un essere che, seppur non direttamente interessato alle nostre risposte, pone delle domande cui dobbiamo provare a corrispondere, per evitare la catastrofe. Più in generale, è la contingenza del reale, per Stengers, a poter stimolare la capacità del pensiero di attivarsi, di uscire cioè dall’impasse della “stupidità”: qui il riferimento esplicito sono ovviamente le riflessioni che Gilles Deleuze (e prima di lui Antonin Artaud) ha dedicato al tema della genesi del pensiero (pp. 124-125), intesa come attività che si realizza solo “da fuori” a partire da uno stimolo dotato di forza vincolante. Costruzionismo e realismo trovano così, nel testo di Stengers, ma più in generale nella sua opera, un produttivo punto di indistinzione: ciò che si deve poter inventare (un nuovo “possibile”, inteso come creazione irriducibile a ogni suo precedente o condizione) coincide con ciò che siamo costretti e forzati a costruire a partire da una contingenza che ci viene incontro (l’intrusione di Gaia).
Isabelle Stengers a Nantes durante il festival "Tous terriens", 10 giugno 2016 (Wikimedia)
Ecco allora che, una volta perimetrato l’orizzonte entro cui muoversi, con altrettanta chiarezza a emergere saranno gli antagonisti, rispettivamente o eccessivamente realisti o esclusivamente costruzionisti. A venir criticate sono innanzitutto le posizioni relativiste, cui spesso il pensiero di Stengers è stato associato con intento denigratorio (p. 27): l’insistenza sulla natura “costruita” delle teorie scientifiche e sulle domande di senso che non preesistono e devono dunque essere “fabbricate” a partire dall’intrusione di Gaia non implicano ipso facto una logica di tipo relativistico. La capacità di corrispondere alla contingenza non ha nulla di relativo, poiché impegna chi cerca a trovare la soluzione che abbia la migliore “efficacia” possibile. Detto in altri termini, è la contingenza a richiedere una serie di pratiche concrete e che siano in grado di funzionare adeguatamente, le quali si sganceranno così inevitabilmente da qualsiasi riferimento ad astratte e/o pacificate posizioni relativistiche. Il trattamento più ostico è però riservato a quanti si richiamano oggi acriticamente alla stagione illuminista e al pensiero di Marx: invece che rinvigorirne l’eredità, neoilluministi e marxisti si sono progressivamente trasformati in rentier (p. 125), tramutando nel privilegio di un realismo testardo ma inefficace l’originaria potenza creativa propria di questi due movimenti culturali. Con raffinatezza teorica, Stengers raccoglie sotto una stessa categoria quanti oggi si contrappongono frontalmente alle politiche economico-sociali, vagheggiando sterili pretese utopistiche a coloro che, animati da una passione triste per l’oggettività della Verità, si impegnano nel continuo smascheramento dell’irrazionalità propria di ciarlatanerie, imposture e inganni (p. 126). Ad accomunare queste due posizioni è una stessa storia, quella della nascita della modernità, tesa su un asse che produce da un lato il racconto «epico» (p. 143) dell’uomo che illumina il mondo con i raggi della propria ragione neutra e universale e, dall’altro, con uno stesso gesto, esclude e disprezza inesorabilmente il suo “altro”, d’ora in avanti liquidato come irrazionale. Si direbbe così che dove il relativismo esprime l’inventiva di costruzionismo poco incline alla contingenza del concreto, la tradizione illuminista e marxista commette l’errore opposto, incagliandosi nell’angusto spazio di un realismo “critico” che, senza l’ausilio di una matrice creativa, si rovescia in definitiva in uno sterile «canto di morte» (p. 121)
Si potrebbe dire, allora, che Stengers propone una via autonoma, tesa a trovare un equilibrio tra la componente di critica nei confronti dell’ipertrofia del capitalismo (p. 73) e il tentativo di non farsi catturare da una contrapposizione frontale che denuncerebbe un frettoloso tentativo di fornire risposte certe senza aver adeguatamente formulato il problema da cui partire (p. 59). Si tratta di una posizione la cui ambiguità Stengers non intende celare e che viene anzi definita come intimamente «preziosa» (p. 101). Non si può tuttavia negare, in questo contesto, una serie di debolezze cui la proposta dell’autrice va inevitabilmente incontro: in primo luogo con il riferimento un poco vago alla capacità di «fare attenzione» (p. 81) e la conseguente «arte del pharmakon» (p. 111), la capacità cioè di saper calibrare in giusta proporzione veleni e rimedi nei differenti tentativi di rispondere a Gaia; in secondo luogo nel riportare alla stregua di casi emblematici – esperienze certo interessanti ma forse non così pregnanti – le giurie di cittadini “sorveglianti” che tentano di monitorare il lavoro (spesso economicamente interessato) dei cosiddetti “esperti”. Più in generale, si ha talvolta l’impressione, leggendo Nel tempo delle catastrofi, che all’appello alla concretezza delle pratiche – che dividerebbero le scienze e le pratiche “viventi” dalla Scienza, dallo Stato e dell’Impresa capitalisticamente orientati – corrisponda spesso un lessico che tradisce una certa evanescenza e una natura gergale, chiusa nei suoi riferimenti e dunque poco intellegibile per chi non abbia dimestichezza con gli autori e i dibattiti al cui interno si inserisce la prospettiva stengersiana.
Ciononostante Nel tempo delle catastrofi è un saggio certamente significativo poiché prova a concettualizzare in modi innovativi la maniera in cui rispondere ai problemi posti dalla contemporaneità senza richiamare in causa la grande narrazione dell’uomo emancipatore – come nel caso della modernità illuministica che si nasconde ancora oggi dietro il dibattito sull’antropocene – e senza, al contempo, ricadere in sterili e regressive forme di preservazionismo ecologico. Per fare ciò, Stengers ha in fondo scritto un testo squisitamente filosofico, per tre ragioni essenziali: in primo luogo perché «saggia» (p. 52) il modo in cui tenere insieme concettualmente creazione e resistenza, percepito e percipiente (p. 35); in secondo luogo perché ci mostra come alla base di ogni trasformazione del mondo non debba risiedere la veemenza con cui si intende imporre una risposta certa quanto prima di tutto la capacità di saper porre la giusta domanda alla realtà (p. 51); infine, perché collega l’esperienza tutta politica della sperimentazione a quella «gioia-evento» (p. 152) che già Spinoza aveva rinvenuto quale motore per la “produzione-scoperta” (anche qui, costruzionismo-realismo) del proprio adeguato modo di vita.
Esiste un elemento in comune tra una passeggiata, un viaggio in treno o una visita al museo: il paesaggio. Guardato, rappresentato, vissuto, il paesaggio, come da definizione, restituisce e precisa tanto una porzione di territorio quanto un’immagine. Ma dov’è allora la differenza – e quale la sua natura - tra un paesaggio dipinto da Cézanne e un paesaggio che si erge all’orizzonte e si percorre con i sensi durante un’escursione? Questo il primo quesito con cui si apre il libro di Justine Balibar, dottoressa e professoressa di filosofia, Qu’est-ce qu’un paysage?, edito da Vrin nel 2021.
Il termine paesaggio è intendibile in due sensi: uno realista, l’altro iconico. La differenza sostanziale, specifica nelle prime pagine Balibar, è data dalla « situazione spaziale del soggetto percettore in relazione allo spazio percepito » (trad., p.8). Nel caso del paesaggio rappresentato, il soggetto si posiziona in uno spazio distinto rispetto a quello che percepisce; una fotografia, un quadro e, più generalmente un’immagine, racchiudono uno spazio a due dimensioni – delimitato da un’eventuale cornice o bordo – sottolineandone la lontananza e l’inaccessibilità fisica e ontologica; « noli me tangere » sarà l’ordine costitutivo del paesaggio rappresentato. Al contrario, il paesaggio reale circonda il soggetto che si situa e si muove all’interno dello spazio percepito, trovandosi in una relazione di continuità con esso. Ne consegue dunque, seguendo il ragionamento di Balibar, che il paesaggio rappresentato e quello reale rilevano due spazialità distinte da cui dipendono due esperienze estetiche differenti: « da una parte, spiega la filosofa, l’esperienza contemplativa della percezione di uno spazio separato dal nostro, uno spazio al di fuori del quale siamo situati, dall’altro l’esperienza immersiva o integrativa della percezione di uno spazio in continuità con il nostro, uno spazio in cui siamo situati.» (trad., p.11). Inoltre, rispetto al paesaggio rappresentato, quello reale mette in gioco non soltanto un’esperienza estetica della percezione – dall’aisthésis greca, esperienza fondata sulla percezione sensibile – ma anche da un’esperienza pratica del movimento, dell’attività fisica del corpo nello spazio.
Poste queste prime differenze, quali rapporti intrattengono il paesaggio reale e quello rappresentato? Si possono pensare a dei legami di interdipendenza tra questi due paesaggi? Per rispondere a queste domande, Justine Balibar ripercorre la storiaetimologica della parola ‘‘paesaggio’’ cercando di contestualizzarne l’uso lessicale e di comprendere l’origine della confusione contemporanea tra i sensi, realista e iconista, del termine. Per una curiosa inversione del rapporto che vorremmo spontaneamente instaurare tra la realtà e la sua rappresentazione, ai nostri giorni, osserva Balibar, l’idea di paesaggio, inteso nel suo senso realista, è stato contaminato dall’idea della rappresentazione « come se il paesaggio reale dovesse essere sempre compreso e percepito in termini di paesaggio rappresentato, o addirittura come se, alla fine, esistesse solo un paesaggio rappresentato » (trad., p.12). L’origine? Il topos iconista, secondo cui il paesaggio rappresentato eserciterebbe un’ascendenza sul paesaggio reale. Complici di questo pensiero sono la teoria settecentesca del pittoresco e, nell’età contemporanea, i teorici del paesaggio come Augustin Berque (1995), Anne Cauquelin (2004) e Alain Roger (1978 ; 1997). Questo primato tradizionalmente attribuito al paesaggio rappresentato rispetto al paesaggio reale è inteso nel senso di una precedenza cronologica e logica. Secondo Alain Roger l’esistenza di rappresentazioni paesaggistiche, nella sua prima formulazione rinascimentale, avrebbe permesso la costituzione di un metodo di percezione e apprezzamento dei paesaggi reali in natura; un fenomeno che l’autore chiama “artialisation”, sottolineando il ruolo cruciale dell’arte nella formazione del nostro modo di osservare e considerare il paesaggio. Sulla stessa linea di pensiero, la teoria di Anne Cauquelin sostiene che il Rinascimento ha visto l’avvento di un nuovo genere pittorico - la pittura di paesaggio - che avrebbe sviluppato il nostro senso e la nostra cultura del paesaggio, determinando così la nostra capacità a percepirli e apprezzarli. Un po’ provocatoriamente, si potrebbe ribattere, con Justine Balibar, che prima della comparsa della pittura di paesaggio, non ci sarebbe stato alcun paesaggio nel mondo reale; detto altrimenti, non saremmo stati in grado di sperimentare i paesaggi nel mondo fisico né tantomeno di apprezzarne la bellezza.
Per discutere e confutare la teoria del primato del paesaggio rappresentato su quello reale, Balibar inizia con il criticare la teoria dell’anteriorità cronologica del paesaggio rappresentato rispetto al paesaggio reale. A difesa della teoria viene spesso avanzata un’argomentazione di natura lessicale, che relaziona l’origine del paesaggio con l’origine della parola “paesaggio”, nata durante il periodo rinascimentale nel gergo pittorico, per designare innanzitutto una rappresentazione del territorio prima del suo aspetto reale. Una prova argomentativa di duplice debolezza : in primo luogo, afferma l’autrice, questa teoria semplifica eccessivamente il complesso sviluppo etimologico della parola “paesaggio” e, in secondo luogo, ne riduce il concetto al suo corrispettivo terminologico.
Per rispondere a questa argomentazione, Justine Balibar si sofferma, per diverse pagine, a seguire la storia etimologica, complessa e intricata, del termine “paesaggio”, comparandolo ai suoi equivalenti europei, occupandosi poi di distinguere il livello lessicale da quello concettuale. Esistono, infatti, altre parole oltre a ‘‘paesaggio’’ che traducono il concetto, sia in francese che in altre lingue europee: l’inglese ‘‘prospect’’, il francese ‘‘contrée’’, l’italiano ‘‘contrada’’, tutti termini che designano inequivocabilmente il territorio così come si dispiega davanti a noi e si offre alla nostra vista. Non c’è bisogno, quindi, della parola ‘‘paesaggio’’ per esprimerne il concetto e neanche di parole o espressioni legate ad un contesto pittorico : né ‘‘prospettiva’’, né ‘‘contrée’’ o ‘‘contrada’’, né ‘‘facies locorum’’ o ‘‘forma regionis’’ provengono originariamente dal registro della rappresentazione pittorica. Inoltre, il ricorso all’argomento lessicale tende a nascondere tutto ciò che è paradossale nell’affermazione di un’anteriorità cronologica del paesaggio rappresentato rispetto a quello reale. Questa affermazione sembra controintuitiva perché contravviene al rapporto che siamo spontaneamente tentati di stabilire tra realtà e rappresentazione, tra modello e copia; non dovremmo essere in grado di percepire e apprezzare i paesaggi nel mondo reale, prima di poterli rappresentare su una tela? Si chiede Balibar. E ancora, un paesaggio non dovrebbe esistere realmente prima di poterlo fotografare?
Riprendendo gli esempi descritti da Philippe Joutard (1986), Balibar ricorda l’abbaglio di Dürer, durante il viaggio a Venezia del 1494, davanti alle forme e ai contrasti delle Alpi, che gli fornirono numerosi soggetti per disegni e dipinti. Allo stesso modo Brueghel, al tempo del suo viaggio in Italia del 1551, si soffermò tra i paesaggi alpini che ispirarono la valle montana ne Cacciatori nella neve. E lo stesso Leonardo da Vinci, con la sua profonda conoscenza del paesaggio dell’Italia settentrionale, dalla campagna agricola della pianura padana alle montagne lombarde, evoca nei suoi scritti le contemplazioni paesaggistiche.
Di fronte a questi esempi, si potrebbe certamente obiettare che se Dürer, Brueghel o Leonardo si dimostrano capaci di vedere e apprezzare paesaggi reali, è proprio perché li vedono con ‘‘l’occhio del pittore’’. Sembrerebbe non esserci una via d’uscita: chiedersi se viene prima il paesaggio reale o il paesaggio rappresentato, è il paradosso dell’uovo e della gallina. Per risolvere la questione, Balibar si discosta da una prospettiva unicamente cronologica e storica, interrogando in modo approfondito la natura del concetto di paesaggio. Porre la questione in termini genealogici, scrive la filosofa, « porta a un vicolo cieco, perché la questione è insolubile a meno che non si difenda una posizione ingenua - i pittori devono aver percepito i paesaggi reali prima di rappresentarli nei loro dipinti - o paradossale - nessun paesaggio reale prima del Rinascimento e dello sviluppo della pittura di paesaggio » (trad., p.23).
La seconda parte del riflessione di Balibar, inizia riproponendo la distinzione con cui esordiva il suo testo: il paesaggio rappresentato è un’immagine, il paesaggio reale è un ambiente fisico. Considerazione che permette di evitare di cadere nell’illusione iconista e confondere il paesaggio reale con le sue rappresentazioni, « la chose avec l’image de la chose » (p.30). A questo proposito, l’estetica ambientale che si è sviluppata nel mondo anglosassone a partire dagli anni Sessanta con autori come Ronald Hepburn (1966), John Baird Callicott (1983; 1994), Allen Carlson (1979; 1981), Emily Brady (1998; 2003), Arnold Berleant (1992) e Noël Carroll (1993), offre preziose risorse teoriche per pensare al paesaggio come ambiente e al tipo di esperienza estetica a cui si presta. Il gesto decisivo dell’estetica ambientale consiste nel difendere una definizione naturalistica dell’ambiente, riconoscendolo come uno spazio fisico polisensoriale e tridimensionale, radicalmente distinto da un’immagine. Tuttavia l’estetica ambientale non è un’estetica del paesaggio: « Per comodità, spiega Balibar, i filosofi dell’estetica ambientale, preferiscono parlare di ‘‘ambiente’’, di ‘‘natura’’ o di ‘‘territorio’’ piuttosto che di ‘‘paesaggio’’, il quale possiede ancora connotazioni artistiche o iconistiche, marcate » (trad., p.35). La nozione di paesaggio reale non si sovrappone a quella di ambiente, ma vi è inclusa. Il paesaggio è infatti un tipo di ambiente con determinate caratteristiche proprie che lo distinguono da altri tipi di ambienti.
Se i teorici dell’estetica ambientale non si sono interessati alla specificità degli ambienti paesaggistici in relazione ad altri tipi di ambienti, altri autori, provenienti da diverse tradizioni teoriche, hanno preso in considerazione questa questione. È il caso del filosofo italiano Rosario Assunto, che definisce i paesaggi reali come ambienti la cui caratteristica principale è l’apertura spaziale : gli ambienti paesaggistici sono ambienti aperti, in contrapposizione ad ambienti chiusi e confinati come un giardino o un sottobosco. Al contempo, l’apertura si oppone all’illimitatezza o a tutto ciò che, per immensità, supera le capacità di sintesi percettiva di un soggetto umano: l’Universo, la Terra, un Paese intero o persino un’immensa regione sono ambienti troppo vasti per essere percepiti nel loro insieme, ossia per poter costituire un paesaggio in sé. L’apertura che caratterizza in modo specifico l’ambiente paesaggistico lo colloca in una posizione intermedia tra gli ambienti chiusi e confinati e gli ambienti sproporzionati o illimitati. Continuando l’analisi di Assunto, possiamo dire che l’apertura non è la semplice dimensione spaziale. Affinché uno spazio sia aperto quest’ultimo deve estendersi tra due punti: tra il vicino e il lontano, tra il punto di vista a cui è ancorato il soggetto che percepisce e il punto di fuga fino al quale la sua percezione può spingersi. Il paesaggio si apre fino al punto in cui lo si può attraversare (visivamente o fisicamente), ma anche dal punto in cui ci si colloca nello spazio e lo si percepisce.
Date queste condizioni, il paesaggio, come ambiente aperto, presuppone un tipo particolare di esperienza, sia dal punto di vista del funzionamento percettivo che dell’articolazione della percezione rispetto al movimento. Il corpo è coinvolto interamente nella misura in cui è in grado di muoversi e percepire il paesaggio attraverso una pluralità di sensazioni, non solo visive, ma anche tattili, cinestesiche, olfattive e uditive, persino gustative. Nel momento in cui il corpo del soggetto che percepisce è in movimento nello spazio che contempla, la visione del paesaggio non è più autonoma: il movimento rende possibile una variazione costante degli angoli di visuale e, di conseguenza, una moltiplicazione indefinita delle vedute del paesaggio. I punti di vista si susseguono fondendosi l’uno nell’altro senza determinazione di un punto di vista privilegiato; il paesaggio reale, basandosi su una percezione in movimento, non è una vista o una serie di viste discontinue come il paesaggio rappresentato, ma è un continuum visivo. Il movimento è quindi una condizione specifica della visibilità del paesaggio reale e della sua leggibilità per lo sguardo del soggetto che percepisce. Per riassumere, citando la filosofa Balibar : « L’esperienza dei paesaggi reali lascia una grande libertà estetica al soggetto, a differenza del paesaggio rappresentato, che impone una cornice e un atteggiamento. Spetta al soggetto comporre la propria esperienza, nella molteplicità delle possibilità che gli vengono offerte. Tuttavia, una maggiore attenzione permette di determinare modalità di movimento e di sperimentazione più appropriate di altre, a seconda della tipologia di paesaggio - camminare o arrampicarsi in alta montagna, utilizzare l’automobile nei grandi spazi delle Badlands americane » (trad., p.57).
Come ogni esperienza, anche quella del paesaggio reale è condizionata da un certo contesto culturale, non esclusivamente di natura artistica. La cultura che guida e modella la nostra comprensione dei paesaggi reali non è fatta solo di immagini di paesaggi, ma comprende anche un’intera gamma di altre pratiche non artistiche e non rappresentative, a partire dalle tecniche e dalle pratiche fisiche che ci permettono di muoverci all’interno dei paesaggi, fino alle conoscenze teoriche che ci permettono di capire e interpretare le percezioni di un paesaggio. Le rappresentazioni del paesaggio sono quindi solo un aspetto di una cultura del paesaggio più ampia ed eterogenea, e sembra difficile in queste circostanze concludere che i paesaggi rappresentati abbiano una precedenza assoluta sui paesaggi reali.
Per concludere la sua riflessione sulle differenti declinazioni del concetto di paesaggio, Justine Balibar si allarga a delle problematiche che trascendono quelle puramente estetiche. A questo proposito intraprende un’analisi del ciclo di affreschi di Ambrogio Lorenzetti Allegoria ed effetti del buono e del cattivo governo (1338) considerato da taluni come il primo paesaggio dell’arte occidentale, esempio della circolazione tra reale e rappresentazione, che caratterizza l’estetica paesaggistica occidentale, e interessante in quanto introduce un’altra dimensione fondamentale e costitutiva del concetto di paesaggio: la sua dimensione socio-politica.
Situato in un luogo pubblico e politico, al Palazzo Pubblico di Siena, seggio del governo della commune, l’affresco è di chiara vocazione politica e non meramente estetica. L’affresco, richiesto a Lorenzetti dalla governo dei Nove in un momento di grande instabilità politica e sociale, rende pubblico e accessibile a tutta la popolazione un messaggio politico complesso sulla questione del bene comune. Con il suo affresco, sottolinea Balibar, Lorenzetti presenta il paesaggio come « l’incarnazione territoriale di una politica, di un governo, di un vivere insieme » (trad., p.67). Il paesaggio diviene cosi non solo uno spazio particolare da percepire, ma soprattutto uno spazio particolare da vivere, abitare e modificare all’interno di una comunità attiva. La cultura del paesaggio è infatti cultura del façonnement (Jackson, 2003; Besse, 2009): il paesaggio si modifica attraverso tutte le attività che costituiscono la nostra cultura e, molto spesso, sono il risultato di scelte politiche. Le trasformazioni del paesaggio dipendono da decisioni politiche di una collettività più o meno grande, tanto sul piano sociale che sul piano economico o ambientale.
Da questo punto di vista allora, specifica Balibar, il paesaggio rappresenta una necessaria articolazione tra la contemplazione estetica e l’interesse pratico. La filosofa conclude la sua riflessione con una citazione di Rosario Assunto : « “il paesaggio è una realtà estetica che contempliamo mentre viviamo in esso”. Perdere questa dimensione d’attività vitale e pratica all’interno del paesaggio, vorrebbe dire prendere il rischio di impoverire considerabilmente l’esperienza estetica del paesaggio » (trad., p.69). Dovremmo forse considerare nelle attuali politiche ambientali e nel nostro modo di concepire il paesaggio, la suggestione del Lorenzetti e del suo “buon governo”.
In appendice, Balibar inserisce e commenta due testi che risultano essenziali per comprendere meglio il significato, per la cultura occidentale, del concetto di paesaggio, e le tensioni tra quello reale e rappresentato, offrendo due modelli esemplificativi presi da due contesti storici molto lontani tra loro. Il primo è “La Promenade Vernet” Ruines et paysages. Salon de 1767 di Diderot, un testo che, per riassumere, lontano dal ridurre il paesaggio all’arte del paesaggio secondo un’ottica “artialisante”, propone un’estetica pittoresca, stabilendo un rapporto di reciprocità tra pittura e realtà, « un passaggio poetico dall’uno all’altro e viceversa, poiché si può passare dal modello pittorico alla visione della realtà e da quest’ultima al disegno» (trad., p.100).
Il secondo testo, invece, è tratto dal primo capitolo del volume di Rosario Assunto, Il paesaggio e l’estetica (2005), in cui il filosofo definisce il concetto di ‘‘metaspazialità paesaggistica’’, riassumibile in tre caratteristiche: da un punto di vista puramente spaziale, il paesaggio è uno spazio contemporaneamente limitato e aperto; questo spazio è iscritto in una temporalità naturale e non storica e la sua percezione estetica coincide con quella ecologica (inteso in senso largo), nella misura in cui il soggetto è tanto attore quanto spettatore del paesaggio in cui vive. L’idea che sviluppa Assunto sotto il termine di metaspazialità è, secondo Balibar “essenziale e inevitabile”, per tutta l’estetica dei paesaggi reali : il paesaggio è un ambiente con qualità estetiche che si rivolgono alla nostra sensibilità, ma è soprattutto realtà nel quale e grazie al quale viviamo. Ed è in questa intersezione che la posizione estetica ed ecologica si raggiungono: « la realtà da contemplare è anche realtà vitale, da preservare » (trad., p.124). In conclusione alla sua riflessione filosofica, Justine Balibar sottolinea quanto la critica del paesaggio contenga le possibilità di sviluppare un’attitudine etica orientata alla salvaguardia dei paesaggi. Fare allora della critica paesaggistica una militanza in favore del paesaggio o, per utilizzare un’espression di Brunon (2002), proporre una «critica in azione» (trad., p.124).
La pubblicazione di Philosophie du végétal. Botanique, épistémologie, ontologie. Textes réunis par Q. Hiernaux conferma le attese suscitate dalla dicitura della collana che la casa editrice Vrin (Parigi) propone per la collocazione del volume: trattasi davvero di un testo chiave di filosofia del vegetale. E lo è almeno per due semplici motivi. Primo, l’antologia – questa è la natura del volume – mette a disposizione in traduzione per un pubblico francofono brani di undici opere di filosofia vegetale e di botanica filosofica: opere che possono ritenersi rilevanti o perché storicamente influenti per lo sviluppo degli studi botanici, o perché significative per le posizioni e le prospettive sugli studi in oggetto, o perché corroboranti alle linee di ricerca in corso. Secondo, l’operazione di cernita e raccolta dei brani operata da Quentin Hiernaux rappresenta un tentativo organico e ragionato di messa a punto dello stato dell’arte di un ordine di saperi, se non si vuole osare con ‘disciplina’, attualmente molto operosi che, oltre a offrire un numero crescente di pubblicazioni, sembrano cercare una propria definizione (filosofia vegetale, filosofia della biologia vegetale, botanica filosofica ecc.) e una loro costituzione disciplinare (si pensi all’ormai nemmeno troppo recente manifesto, scritto nei primissimi anni Duemila, per inaugurare la cosiddetta Neurobiologia vegetale), fornendo così il doppio servizio d’evidenziare le radici storico-teoriche dei dibatti attuali (p.e. l’intelligenza vegetale o la domanda sui diritti per le piante) e di dare consistenza storica, teorica ed epistemologica ai dibattiti stessi.
Per il fatto che il curatore sembra avere sotto gli occhi sia la totalità del quadro filosofico e scientifico entro cui le ricerche sul vegetale si sono, nel corso dei secoli, talvolta manifestate o talaltra inabissate, sia la posizione da cui, oggi, i sostenitori e i detrattori prendono parola, destinare il volume ai soli specialisti o aspiranti tali è un’operazione editoriale comprensibile, per non dire scientificamente necessitata dalla “proliferazione” di nuovi settori all’interno della classificazione deweyana, ma decisamente riduttiva. Decidere su quale scaffale della biblioteca collocare un libro, con la titubanza o la risolutezza che si dà di caso in caso, è l’ultimo (oppure il primo?) momento delle fasi di realizzazione del libro stesso, e non è mai un’operazione neutra: incide sui percorsi di ricerca e decide il destino di una disciplina, comprese le relazioni che essa intrattiene con le altre. Ora, il fatto che una lettura attenta del volume faccia pensare che la dicitura “filosofia vegetale”, pur necessitata come ho detto, non renda del tutto merito alle varie ratio che si possono rintracciare percorrendo i diversi piani di lettura (cui a breve accennerò) dice forse qualcosa sui contorni e sull’autonomia dell’insieme di questi saperi, e interroga, al di là delle contingenti divisioni in settori disciplinari, sulla bontà del farne una disciplina a parte, a discapito della conoscenza nel suo complesso. Philosophie du végétal è sì un’antologia di filosofia vegetale, ma è anche e variamente, soprattutto in base alle competenze e alla provenienza di chi la legge, un’antologia di storia del pensiero scientifico (in filigrana: l’istituirsi della botanica vs la medicina, la farmacologia e lo studio delle piante medicinali, l’intermediazione araba nella conservazione e nello sviluppo delle scienze, lo sviluppo del metodo scientifico moderno e la storia dei metodi di classificazione delle specie), un’antologia di filosofia della scienza (p.e. ci sono cenni al dibattito sull’anima e sul calore come principio vitale, alla nascita della biologia moderna, allo sviluppo del pensiero trasformista ed evoluzionista) e, percorso ancora più interessante, un’antologia di storia della filosofia (un esempio su tutti: la ricezione pervasiva dell’aristotelismo) – soltanto per limitare la restituzione all’esperienza del lettore che io incarno. Perché, allora, verrebbe da chiedere, dedicare a un (s)oggetto escluso una disciplina a parte se l’intento di partenza è quello di toglierlo dallo sfondo e dargli spessore, invece di procedere a una riscrittura dall’interno delle discipline? Perché il bordo, e non la piega?
Il lettore si trova tra le mani un volume compatto di oltre quattrocento pagine che rappresenta uno degli esiti della ricerca di Hiernaux, sapientemente istruttivo nei confronti del lettore anche meno avvezzo e teoreticamente generoso verso l’intero dibattito. Infatti, l’“Introduzione generale” e le “Introduzioni” specifiche alle singole sezioni, così come la ricca “Bibliografia”, pur corredando il volume come vere e proprie mappe a uso e consumo di tutti, affinché ciascuno possa attraversare il testo con il proprio passo – l’antologia si presenta così come uno strumento fruibile più volte e secondo le diverse intenzioni –, sono anche dei saggi a sé stanti, delle opere dentro l’opera, in grado di far intravedere, per quanto discretamente, la postura filosofica del curatore. Postura la cui cifra potrebbe essere restituita sotto la forma del tentativo teorico attento e delicato, al limite dell’equilibrismo, di non agire alcuna cattura del fenomeno, ma di lasciarlo proliferare: per paradosso, stare fermi per lasciare che sia il vegetale a venirci incontro, lasciare che sia lui, “senza volto e senza sguardo” (p. 7), a guardarci. Un simile equilibrismo è tutt’altro che una fascinazione che lascia il tempo che trova: è piuttosto e innanzitutto la manifestazione di un’etica ecologica rispetto ai rapporti che intratteniamo con altre specie e altri regni, cioè con altri modi di fare mondo. Ancora di più, è l’indice di un’ecologia epistemologica che riguarda il rapporto tra soggetto di conoscenza e oggetto conosciuto, e il riconoscimento dei limiti, intesi anche come vie di uscita, dati dal fatto di trovarsi irrimediabilmente in una posizione di partenza che insieme ci condanna e ci salva, se si è disposti a lasciarsi catturare. Accostandoci, infatti, alle sempre più numerose pubblicazioni che si annoverano nell’elenco della filosofia del vegetale, per usare la dicitura di Vrin, viene spesso da chiedersi che cosa rappresenti, nell’economia del discorso, il vegetale: se il reale tentativo, per quanto possibile, di mettere scientemente a tema una forma di vita altra o il rinnovarsi del discorso sull’umano che, normalizzando le altre forme di vita, non fa che trovare nelle differenze di grado le ragioni della propria ratio, eludendo così la differenza di naturapalesata dall’altro e il problema da essa posto. Se è vero che la filosofia ha sovente indagato il rapporto costitutivo di attività e passività, tema che è anche della filosofia del vegetale, quanto è a suo agio quando tale rapporto riguarda prima di tutto sé stessa e la propria costituzione? A intendere che, forse, un contributo filosofico sugli studi clorofilliani potrebbe arrivare solo dopo un momento di esposizione alla passività, solo dopo che i suoi capisaldi mereologici e assiologici si sono fatti attraversare.
Fotografia di Igor Orizzonte
Hiernaux sceglie di ripercorrere l’intera storia delle nostre conoscenze filosofico-scientifiche: dal III sec. a.C. agli ultimi decenni degli anni Duemila, e si serve di rappresentanti proveniente da botanica, biologia e filosofia, di diverse regioni dell’“Occidente”, confermando così l’operazione critica di stabilizzazione della disciplina vegetale proprio all’interno di quel paradigma scientifico ed epistemologico che lo ha escluso, il nostro, e che – aggiungo – si è costituito anche in virtù di questa esclusione. Si tratta, va detto, di un’operazione ben consapevole, come dimostra il fatto che, qui (p.e. p. 258) e in altri luoghi (penso a Du comportement végétal à l’intelligence des plantes ?, Quæ 2000), la più ampia ricerca di Hiernaux restituisce notizia di altri paradigmi di cui, per esempio, l’antropologia ci dà conto e che la nostra filosofia non dovrebbe più trascurare, in cui il vegetale non ha mai avuto il ruolo di sfondo, come Bruta Natura, e nei quali la separazione con l’umano, per non parlare della sua subalternità, non è stata nemmeno lontanamente contemplata.
I brani presentati sono suddivisi in tre sezioni: 1. Storia filosofica della botanica e statuto della pianta; 2. Epistemologia delle scienze vegetali; 3. Ontologia ed etica del vegetale. L’obiettivo della sezione 1 è di «riscrivere la problematica della trattazione delle piante nella sua dimensione storica» «raggruppando i testi dedicati alla storia filosofica della botanica e allo statuto della pianta», con il corollario non secondario di «mostrare il potenziale filosofico della botanica» (p. 9, trad. mia). Interpellate le voci del coro composto da Teofrasto (371-288 a. C.), Andrea Cesalpino (1519-1603), Julien Offray de la Mettrie (1709-1751) e Agnes Arber (1979-1960), veniamo a conoscenza delle ricezioni e dei commenti alle opere di Aristotele, Cartesio, Goethe – per citare i più noti. Ciò che lega i primi quattro capitoli della HistoriaPlantarum diTeofrasto, ritenuto il fondatore della Botanica nella sua prefigurazione di scienza sperimentale, giacché le sue ricerche «s’ispirano all’esigenza di tener conto dei fatti e di limitare la trascendenza» (cfr. nota introduttiva di J. Tricot all’edizione de La Métaphysique, Vrin 1948, p. 534, trad. mia), il divin parlatore come lo ebbe a soprannominare il maestro Aristotele, di cui Teofrasto coniuga l’approccio naturalista alle influenze filosofiche del pitagorico Menestore di Sibari e dei fisiologi greci, Anassagora, Empedocle e Democrito; i primi cinque capitoli del De PlantisLIBRI XVI di Cesalpino, botanico, medico, anatomista e filosofo, allievo di Luigi Ghini e suo successore alla cattedra di botanica e al ruolo di prefetto dell’orto botanico dell’Università di Pisa (cfr. C. Colombero, Il pensiero filosofico di Andrea Cisalpino, «Rivista Critica di Storia della Filosofia», 32 (3), p. 270), perfetto rappresentante della tensione tra la tradizione dei saperi compilativi medievali sulle piante e la botanica teorica moderna su base fisiologica, cui si deve il contributo per la fondazione teorica della scienza botanica emancipata da medicina e farmacologia, pur nel solco della ricezione di Aristotele e Teofrasto; il breve testo del botanico, medico e filosofo de la Mettrie, Homme-Plante, esempio di riaffermazione della gerarchia del vivente di stampo aristotelico entro la cornice del meccanicismo cartesiano, espresso fedelmente dall’accostamento della pianta alla macchina; il capitolo quinto di The Natural Philosophy of the Plant Form della botanica Arber, allieva della botanica Ethel Sargant, traduttrice di Versuch die Metamorphose der Pflanzen di Goethe, prima donna botanica a essere accolta dalla Royal Society e prima donna insignita con la medaglia d’oro dalla Linnean Society of London per i suoi studi in anatomia e morfologia vegetale, che prendono posto accanto ai suoi studi di storia della botanica e di filosofia botanica, influenzati da Aristotele e Cisalpino, come pure da Spinoza, Bacone e de Condolle (cfr. per approfondire la figura di Arber, il saggio premessa di L. Tongiorgi Tomasi in A. Arber, Erbari. Origine ed evoluzione 1470-1670, Aboca 2019): è il tema dell’“ordinamento generale del mondo” o della continuità tra i regni, o per meglio dire delle forme di vita, a partire dalle determinazioni comuni che, da una parte, hanno accostato le forme di vita mostrandone la similitudine (fino ad arrivare all’idea trasformista delle variazioni individuali in seno a una norma o a un tipo specifico) ma che, dall’altra, hanno generato gerarchie pregiudizievoli circa la positività di cui ciascuna forma si fa portatrice. Se l’impronta zoomorfica che ha connotato, fin dal battesimo aristotelico, gli studi naturalistici (non solo quelli sulle piante!) sembrerebbe inevitabile, oltre che metodologicamente giustificata dal bisogno di spiegare ciò che è meno noto per mezzo di ciò che è più noto, è quantomeno opportuno considerare il rischio di distorsione che comporta prendere il modello animale come riferimento per gli studi dedicati ad altre forme di vita e per la conoscenza del vivente in generale (p.e. p. 25). «Fino alla fine del XIX secolo, la botanica si è presentata come scienza dei viventi non-animali, raggruppando indifferentemente lo studio delle piante e delle alghe, quello dei funghi, dei licheni, e anche dei coralli o dei batteri. Questi esseri, al di là o più tradizionalmente “al di qua” dell’animale che non sono, possono anche essere avvicinati in maniera non gerarchica e positiva, cioè secondo le loro specificità e i modi di vita propri» (p. 11, trad. mia). Dei tentativi erano stati fatti: già da Teofrasto si rintraccerebbe l’esercizio di studiare le piante “per sé stesse”: non secondo la caratterizzazione difettiva, secondo mancanza, rispetto al modello delle forme animali, ma per la positività che caratterizza specificamente la forma di vita vegetale, ovvero la capacità di variazione e l’elevata plasticità. «Quindi, che cosa significa, per la pianta, avere un corpo?» (p. 11, trad. mia; la formulazione fa venire in mente l’articolo: P. Calvo, What is it like to be a plant?, «Journal of Consciousness Studies», 24, 2017, 205–227). Quello che unisce «il pensiero naturalista della tradizione, almeno dopo Teofrasto, passando per la botanica moderna, per arrivare alla morfologia goethiana di Agnes Arber [è che] il corpo della pianta mette sottosopra l’organizzazione animale del tutto e della parte» (p. 12l, trad. mia). Sembra essere già percezione aristotelica che la differenza tra forme di vita animali e forme di vita vegetali stia nel fatto che le prime sono di tipo gerarchico e finalista, le seconde sono, per dirla à la Mancuso, organizzazioni orizzontali, poiché la loro crescita iterattiva e indefinita rende difficoltosa, se non impossibile, la delimitazione delle loro parti. Da una simile differenza di organizzazione, che altro non è che un differente rapporto organo/organi-organismo, segue un diverso senso della totalità: indivisibile per le forme animali, divisibile per le forme vegetali; un diverso senso dell’autonomia o dell’individualità, cioè dell’uno.
Fotografia di Igor Orizzonte
La sezione 2, su epistemologia e filosofia della biologia vegetale, è attraversata da due domande: «quale posto il vegetale occupa nello sviluppo della biologia del XX secolo?», «su quali principi e metodi si basa l’approccio scientifico del vegetale?» (p. 12, trad. mia). Per districarsi, Hiernaux seleziona due temi conduttori: il comportamento e l’individualità. «Dal XVIII secolo, i progressi sperimentali delle scienze naturali danno l’impressione che il concetto di anima possa essere abbandonato a profitto di un meccanismo per comprendere la vita delle piante. Dalla fine del XIX secolo, la concezione del vivente basata sull’anima fa progressivamente spazio alla biologia contemporanea. Poco a poco, s’impone il paradigma evoluzionista. La fisiologia inaugura importanti scoperte sperimentali sul funzionamento delle piante che rivoluzionano la botanica. Questa nuova disciplina di laboratorio, con protocolli e strumenti propri, si diffonde per tutta l’Europa. […] Gli sviluppi della fisiologia vegetale cambiano il rapporto verso la sensibilità delle piante. […] L’esclusività del registro delle spiegazioni causali e meccanicistiche non può essere ormai considerato legittimo» (pp. 127-128, trad. mia). Si affina così un’attenzione sempre maggiore verso la possibilità di rintracciare un ordine psichico o cognitivo anche nelle forme vegetali. Autrici e autori principali di questa sezione sono Léo Errera (1858-1905), Anthony Trewavas (1939), Fatima Cvrčková – Helena Lipavská – Viktor Zársky, Ellen Clarke; con loro si offre l’occasione di richiamare anche la scuola tedesca di J. von Sachs e W. Pfeffer, il lavoro di R. Francé, gli studi di Linneo e di Darwin, ma anche Porfirio, Duns Scoto, Leibniz, financo Simondon. Attraverso la proposta del dattiloscritto della conferenza del 1900 Les Plantes ont-elles une âme? di Errera, professore di botanica con formazione filosofica, fervente evoluzionista, istitutore del primo laboratorio belga di anatomia e fisiologia vegetale presso l’Université Libre de Bruxelles, già attento alle ricerche sui fenomeni di variazione elettrica rintracciabili nei vegetali tanto quanto nei fenomeni nervosi, che andrebbero a sostenere, in un quadro darwiniano, la continuità tra forme di vita oltre le fratture ontologiche tra regni, ricerche al centro dei dibattiti contemporanei; del capitolo nono di Plant Behaviour and Intelligence di Trewavas, fisiologo vegetale impegnato nel campo della segnalazione chimica delle piante, esponente della Neurobiologia vegetale, sostenitore dell’irriducibilità della spiegazione dei comportamenti a un ordine esclusivamente genetico o chimico aprendo così alla possibilità di una comparazione etologica con gli animali più semplici, osservatore e teorizzatore della comunicazione elettrica nelle forme vegetali spiegata in termini di “cognizione minima”; dell’articolo Plant Intelligence Why, why not or where? dei biologi praghesi Cvrčkovà, Lipavská e Zársky, che introducono il lettore alla domanda sull’intelligenza vegetale, contribuendo a fare ordine in vista della costruzione di una discussione scientifica sul tema: si delinea come il dibattito sul comportamento vegetale sia vincolato ad altri due aspetti che, nel corso dei secoli, sia in filosofia sia nelle scienze sperimentali, hanno pregiudicato la stessa ricerca fisiologica vegetale: 1) la mancanza negli organismi clorofilliani di un sistema nervoso, 2) la difficoltà di circoscrivere in essi l’individuo. Quello che preme sottolineare, per mostrare il dialogo tra le due sezioni del volume, è che la disquisizione tra sostenitori e detrattori del comportamento vegetale intelligente – ci sia perdonata la ridondanza – si gioca all’interno e nel confronto con un paradigma, il nostro, figlio, da una parte, della vulgata della tradizione aristotelica dell’anima (si noti il passaggio e l’evoluzione storica del concetto di “anima”, attraverso quello di “calore”, fino a quello di “comportamento”) e, dall’altra, della tradizione cartesiana del dualismo mente-corpo. Com’è possibile attribuire un’intenzionalità a un essere privo di mente? E anche, come circoscrivere e attribuire comportamenti a una soggettività che non è un individuo? Gli studi sul comportamento vegetale, allora, rappresenterebbero il viatico per proporre un altro paradigma metafisico (e un’altra assiologia) alternativo a quello di matrice zoocentrica. Sulle difficoltà, e i paradossi che ne conseguono, di far combaciare l’organismo verde e il concetto d’individuo delle scienze biologiche, ricade la scelta dell’articolo Plant individuality: a solution to the demographer’s dilemma di Clarke, filosofa ed epistemologa della biologia che «trae le conclusioni biologiche del problema della grande plasticità e della variabilità delle piante, [lasciato irrisolto] da Teofrasto e da Aristotele» (p. 137, trad. mia). Dalla lettura del contributo di Clarke si evince il circolo vizioso in cui ci si trova se non si possiede un concetto chiaro di individuo vegetale in seno alla teoria evoluzionistica.
La sezione 3 è dedicata interamente all’ontologia e all’etica, che si palesano, nel quadro del volume, indiscernibili. «La riflessione ontologica sul vegetale consiste da una parte nell’interessarsi ai suoi modi di esistenza […], dall’altra ci conduce a ripensare il modo di avvicinare il mondo, l’anima, il divenire ecc. nella loro relazione con le piante»; «l’etica, invece, s’interessa al modo in cui diamo valore a certe entità o azioni nel quadro dei nostri diritti, responsabilità e doveri verso le piante» (p. 247, trad. mia). L’articolo Plant-Soul: The Elusive Meanings of Vegetative Life di Michael Marder, filosofo dell’Università dei Paesi Baschi Vitoria-Gasteiz, che, all’incrocio tra fenomenologia, ecologia e pensiero politico, attribuisce al vegetale un’intenzionalità originaria non cosciente, tentando di sottrarlo sia alla definizione di essere mancante (tipica della svalutazione metafisica) sia a quella di essere indicibile (della feticizzazione pagana); e il prologo al libro La vie de plantes. Une métaphysique du mélange di Emanuele Coccia, filosofo italiano, formatosi anche sulle pagine della filosofia medievale, da cui egli deriva l’attenzione per la riflessione sulle diverse concezioni di “mondo”, lavorano entrambi per la formulazione di un paradigma maggiormente ecologico rintracciabile nel cosiddetto biocentrismo, rispetto al quale il contributo specifico del pensiero sul vegetale risiede nell’invito a ristrutturare ancora più marcatamente l’ontologia nei termini di “processo”, a detrazione di quelli di “sostanza”. Verrebbe da pensare che i concetti di “condivisione” di Marder e di “mescolanza”di Coccia vadano nella stessa direzione: mettono l’accento sulla continuità piuttosto che sulla frattura tra ordini del reale e sottolineano come il reale sia composto da intricate relazioni, se non vere e proprie relazioni di dipendenza, che riguardano anche l’umano rispetto al vegetale. “Le piante sono il mondo”, scrive Coccia, che in altri scritti arriva a radicalizzare fino al paradosso l’immagine delle piante giardinieri del giardino che siamo noi. In virtù del ripensamento delle relazioni tra mondo umano e mondo vegetale, chiude l’articolo Beyond “Second Animals”: Making Sense of Plant Ethics di Sylvie Pouteau, biologa vegetale, attiva nel dibattito sull’etica delle piante, diritti compresi. Con Pouteau, l’invito è di rivalutare il modo in cui letteralmente ci serviamo delle piante, giustificati da una visione gerarchica del mondo, alimentata a sua volta dall’ordine delle scienze naturali, per immaginarealtri rapporti possibili in cui l’utilità non sia l’unico e il solo. E, tuttavia, giunti alla fine del volume, come sollevati da una rivoluzione finalmente pensata, una frase scritta nell’“Introduzione” alla terza sezione rimette in gioco quelle che sembrano le nuove conclusioni cui siamo arrivati, e invita a ripercorrere il volume da capo, come un’ultima mano di carte sul tavolo riapre la partita: «Porsi la questione dell’autonomia della pianta verso il suo ambiente ha senso solo nella misura in cui siamo prigionieri dei nostri dualismi. Le piante, che sia per la loro cognizione senza cervello o per il loro metabolismo aperto sull’ambiente, rimescolano le carte dell’ontologia [ancora fin troppo, NdR] classica» (pp. 253-254, trad. mia).
Fotografia di Igor Orizzonte
Indizio per frequentare le pagine, sembrerebbe che l’obiettivo minimo dell’autore sia che, una volta chiuso il libro, il lettore trattenga che il vegetale sia più di una cosa inerte e meno di una cosa a disposizione (p. 19). Il che significa riconoscere al vegetale una propria agentività, financo una propria soggettività, secondo la logica per cui liberare dall’eteronomia implica riconoscere l’autonomia. Tuttavia, si tratta di un obiettivo troppo modesto alla luce dell’accuratezza con cui Hiernaux, che dà prova di essere un abile dissezionatore, taglia e ricompone i nessi alla base delle nostre conoscenze (e della nostra identità). Allora, altrove, a mio avviso, si rintraccia la vera domanda che dà l’avvio all’immaginazione di quest’antologia, declinata per la filosofia ma valida anche per gli altri saperi: «Si tratta di domandarsi non più come la filosofia ci permetta di comprendere le piante, ma come la comprensione delle piante possa trasformare la filosofia» (pp. 16-17, trad. mia). Che cosa succederebbe se un esile cirro iniziasse ad arrampicarsi su secoli e secoli di storia, pratiche e biblioteche, e con i suoi rami e germogli iniziasse a crescere e a scriverci sopra: saremmo in grado di reggere all’immagine di quella proliferazione clorofilliana o finiremmo per assomigliare di più a un edificio abbandonato?
Era il Maggio 1942, esattamente ottant’anni fa. A New York si tenne il seminario “Cerebral Inhibition”. Organizzato da Frank Fremont-Smith, allora direttore medico della Josiah Macy Jr. Foundation, il seminario vide tra i partecipanti svariati ricercatori provenienti da diversi ambiti del sapere: oltre agli antropologi Margaret Mead e Gregory Bateson, vi presero parte lo psicanalista Lawrence Kubie, lo scienziato sociale Lawrence K. Frank e due neurofisiologi: Warren McCulloch – che un anno dopo avrebbe pubblicato, insieme a Walter Pitts, un testo pioneristico sulle reti neurali artificiali – e Arturo Rosenblueth. Quest’ultimo, per l’occasione, presentò la ricerca, condotta insieme a Norbert Wiener e Julien Bigelow, che portò alla stesura del celebre articolo Behavior, Purpose and Teleology (1943), nel quale si mostrava l’equivalenza funzionale tra il comportamento finalizzato del vivente e quello esibito dalle macchine auto-regolate tramite retroazione.
Fu da questo nucleo di ricercatori che, finita la Seconda Guerra Mondiale, sotto l’egida della Macy Foundation, prese vita un ciclo di conferenze interdisciplinari con cadenza semestrale, che si tennero dal 1946 al 1953. Dapprima intitolate “Feedback Mechanisms and Circular Causal Systems in Biology and the Social Sciences”, dopo il 1948, con l’uscita di Cybernetics, or the Control and Communication in the Animal and in the Machine di Wiener, le conferenze presero il nome di “Cybernetics: Circular Causal, and Feedback Mechanisms in Biological and Social Systems”. Tra i partecipanti, vi furono matematici, psicologi sperimentali e gestaltisti, fisici, ingegneri, sociologi, ecologi, antropologi, biologi e linguisti.
Come ebbe modo di ribadire Fremont-Smith in occasione del sesto incontro, l’obiettivo delle conferenze era quello di fondare un ambiente di ricerca interdisciplinare in cui, a partire dalla costruzione di un linguaggio comune, si potessero affrontare problemi che, sebbene sorgessero in contesti disciplinari differenti, presentavano degli isomorfismi tali da renderli trattabili tramite modelli operativi condivisi. In estrema sintesi, i cibernetici perseguivano un ideale di unificazione delle scienze facendo leva su fenomeni e processi trasversali ai vari saperi. La storia delle conferenze di cibernetica fu, in buona sostanza, una ricerca incessante di mediazioni. Non a caso, le nozioni che si affermarono in quel contesto, e intorno alle quali ruotò buona parte delle conferenze, fungevano da mediatori: 1) l’informazione, concepita come entropia negativa, prometteva di mediare tra processi fisici, biologici, psichici e sociali; 2) i meccanismi circolari, fondamentali per comprendere tutti quei processi nei quali l’interazione tra sistemi o sottosistemi produce una dinamica omeostatica, promettevano di mediare tra l’ambito ingegneristico, quello fisiologico e quello sociologico; 3) il calcolatore elettronico – allora allo stato embrionale – prometteva di mediare tra processi mentali – ragionamento logico, comprensione degli universali, ecc. – e processi materiali – trasmissione di segnali elettrici in un circuito.
«Ce n’est plus d’une libération universalisante que l’homme a besoin, mais d’une médiation», scriverà Gilbert Simondon (1958, 103) a proposito dell’ideale enciclopedico della cibernetica, cogliendone appieno lo spirito. Questo ideale enciclopedico si accompagnava a una dichiarata volontà di rinnovamento delle categorie filosofiche e di superamento di molte dicotomie metafisiche. Nel primo capitolo di Cybernetics, intitolato “Newtonian and Bergsonian Time”, Wiener sosteneva che grazie alla cibernetica «the whole mechanist-vitalist controversy has been relegated to the limbo of badly posed questions» (Wiener 2019, 63). McCulloch e Pitts affermavano che la loro rete neurale era, di fatto, una risoluzione del mind-body problem: «[…] both the formal and the final aspects of that activity which we are wont to call mental are rigorously deducible from present neurophysiology […]. “Mind” no longer “goes more ghostly than a ghost”» (McCulloch 1988, 38). La macchina astratta di William Ross Ashby, come ebbe modo di notare Mauro Nasti nella presentazione della traduzione italiana di Introduzione alla cibernetica, sconvolgeva «tutta un’impostazione filosofica tradizionale […] con cui si contrapponeva irriducibilmente il mondo “materiale”, fisico, delle macchine a quello “immateriale” e “libero” della mente» (Nasti 1970, xvii-xviii).
L’ultima conferenza di cibernetica (tenutasi nel 1953), lungi dal coincidere con il dissolvimento dello spirito cibernetico, sancì di fatto la sua diffusione pressoché illimitata. Non vi fu campo del sapere in cui le idee cibernetiche non penetrarono, a volte accolte con entusiasmo, altre con riserva, altre ancora apertamente criticate. Dalla filosofia (Ruyer 1954, Jonas 1953) all’economia (Lange 1963); dalla fisica (de Broglie 1951) all’ecologia (Odum 1963); dalla politologia (Deutsch 1963) alla biologia (Monod 1970, Atlan 1972); dalla cosmologia (Ducrocq 1964) alla gestione aziendale (Beer 1964); dalla letteratura (Calvino 1967) al diritto (Knapp 1963); dall’architettura (Alexander 1964) all’etologia (Hassenstein 1966). La cibernetica trasformò il linguaggio dei saperi in cui penetrò, contribuendo alla nascita di nuovi ambiti di ricerca.
Nel contesto delle scienze della cognizione, nel 1968 Marvin Minsky ratificava che la cibernetica si era differenziata in tre programmi di ricerca oramai pienamente autonomi: 1) la teoria dei sistemi auto-organizzati, basata sulla simulazione di processi evolutivi e adattativi; 2) la simulazione del comportamento umano tramite modelli computazionali; 3) l’Intelligenza Artificiale propriamente detta, cioè la progettazione di macchine intelligenti non finalizzata alla simulazione di processi biologici e cognitivi.
Se gli ultimi due programmi si concepivano come corpi maturi e completamente emancipati dal loro passato cibernetico, il primo programma non smise di rivendicarne le radici, che trovarono nel Biological Computer Laboratory dell’Università dell’Illinois, diretto da Heinz von Foerster, un terreno fecondo in cui attecchire. È in questo contesto che poté nascere un’epistemologia cibernetica – la cibernetica di second’ordine, o cibernetica dell’osservazione dei sistemi che osservano – che favorì l’emergere della teoria dei sistemi autopoietici (Maturana & Varela 1980), della neurofenomenologia (Varela, Thompson, Rosch 1991), della teoria generale della società (Luhmann 1984), dell’elaborazione delle logiche polivalenti e delle ontologie trans-classiche (Günther 1962), della pragmatica della comunicazione (Watzlawick, Bavelas, Jackson 1967), del costruttivismo radicale (Glasersfeld 1974), ecc.
Con la chiusura del Biological Computer Laboratory nel 1974, la cibernetica entrò in una fase diasporica, che dura tutt’oggi. Una diaspora che, a differenza della prolificità della prima disseminazione, ha assunto le forme di un graduale dissolvimento. La cibernetica appare oggi come un’entità fantasma infestante una moltitudine di discorsi, le cui tracce possono essere scorte un po’ ovunque, spesso e volentieri non riconosciute come tali.
Tuttavia, a dispetto – o forse in virtù – del suo carattere fantasmatico, l’ultimo ventennio ha visto intensificarsi un interesse storiografico per la cibernetica, con la produzione di lavori che hanno ricostruito la storia della cibernetica americana (Kline 2015), britannica (Husbands & Holland 2008), francese (Le Roux 2018), italiana (Cordeschi & Numerico 2013), sovietica (Gerovicht 2002) e cinese (Liu 2019).
Parallelamente al crescente interesse per la sua storia, si è intensificato anche quello per le sue implicazioni teoretiche e politiche – a testimonianza del fatto che non si è smesso di pensare col suo spettro. Un interesse che ha riguardato, tra le altre cose, il rapporto tra la cibernetica e l’ontologia (Pickering 2010), la metafisica(Hui 2019), la filosofia politica (Guilhot 2020; Bates 2020), l’ecologia filosofica (Hörl 2013), la teoria dei media (Hansen & Mitchell 2010), il post/trans-umanesimo (Malapi-Nelson 2017), la french theory (Lafontaine 2007; Geoghegan 2020), ecc.
È il carattere spettrale e disseminato della cibernetica – il suo insistere negli interstizi dell’enciclopedia – che ci spinge a dedicarle il numero #18 di Philosophy Kitchen. L’obiettivo è quello di cartografare i luoghi del sapere in cui possono ravvisarsi le tracce lasciate dalla cibernetica, seguirne le piste, ricostruirne le trame, farne emergere i modi d’essere, interrogarne l’eredità e l’attualità.
In special modo, le linee che vorremmo esplorare sono:
- Cibernetica nella storia delle idee e nella storia della scienza
- Storia della storiografia cibernetica
- Epistemologia e ontologia della cibernetica
- Teoria generale delle macchine
- Cibernetica e scienza dei sistemi complessi
- Cibernetica nelle scienze biologiche e sociali
- Cibernetica e scienza della cognizione
- Cibernetica nella filosofia contemporanea
- Cibernetica e governamentalità
- Cibernetica, teorie della pianificazione e del progetto
Procedura: si prega di inviare, all'indirizzo redazione@philosophykitchen.com, entro il 30 aprile 2022, un abstract di massimo 6000 caratteri, indicando il titolo della proposta, le modalità in cui si intende sviluppare il tema e l'argomentazione, una bibliografia essenziale e ragionata nonché una breve biografia dell’autore o dell’autrice. Le proposte verranno valutate dai curatori e dalla redazione. Gli esiti della selezione verranno resi noti, via mail, entro il 7 maggio 2022. I contributi selezionati dovranno poi essere inviati entro il 31 ottobre 2022 e saranno sottoposti a double-blind peer review. La pubblicazione del volume è prevista per marzo 2023.
Ciò che più si avvicina all’idea di consapevolezza ecologica è un senso di intimità, piuttosto che il senso di appartenere a qualcosa di più grande: la sensazione di essere vicini, anche troppo vicini, ad altre forme di vita, di averle sottopelle. (Timothy Morton)
I saggi raccolti nella pubblicazione Ecologie complesse. Pensare l’arte oltre l’umano (Meltemi, 2021) a cura di Gabriela Galati, tracciano possibili strade per accordarsi al non-umano, offrendo spunti per un superamento della visione antropocentrica che riguarda nello specifico l’arte, la pedagogia, la musica, la pratica curatoriale e quella archivistica.
La raccolta si apre con “Il curatore animale”, testo in cui Edith Doove propone un curioso rovesciamento di prospettiva: esplorare l’attività umana della curatela di mostre come pratica animale, collocando l’essere umano a livello dell’animale e non viceversa. L’esempio citato dall’autrice è quello dell’uccello giardiniere che assembla rami per costruire pergolati, decorandoli con materiali e scarti variopinti. Diversi zoosemiotici riconoscono infatti che alcuni uccelli hanno un senso estetico, sia visivo sia musicale, che permetterebbe di rompere la presa antroposemiotica sull’arte (G. Genosko, 2002). Questo spostamento è proposto dall’autrice attraverso un’analisi della questione del linguaggio, passando per Jacques Derrida e Cary Wolfe, per approdare al concetto di infrasottile - una presenza che c’è ma sfugge -derivato da Marcel Duchamp e qui suggerito come possibile approccio all’alterità: uno strumento per “vedere artisti e curatori come uccelli”. Il concetto di infrasottile in relazione al mondo animale non-umano mi riporta agli studi sul mimetismo di Roger Caillois. Tra i comportamenti classificati dall’accademico francese, il mascheramento (differenziato dal travestimento e dall’intimidazione) è individuato come l’atteggiamento attraverso il quale l’animale giunge a confondersi con l’ambiente. Particolarmente suggestivo è il caso delle conchiglie della famiglia Xenophoridae (xénos, straniero, estraneo; phéro, portatore) la cui caratteristica è quella di inglobare altri gasteropodi, bivalvi, sassolini e detriti vari, raccolti sul fondo del mare, assumendo su di sé elementi dell’ambiente circostante. Il gasteropode Xenophora attua un comportamento mimetico le cui finalità rimangono ipotetiche, certa è invece l’intenzionalità – potremmo dire la cura - con cui l’animale unisce e dispone sul proprio corpo i materiali scelti.
Non stupisce che sia proprio la tecnica del collage a caratterizzare la ricerca artistica di Eva Kot’átková (Praga, Repubblica Ceca, 1982) citata nel saggio di Federica Fontana: l’artista assembla e ricombina materiali - frammenti di corpi, animali, elementi architettonici, oggetti, sogni – aprendo uno spazio su mondi non antropocentrici. La ricerca di Eva Kot’átková esplora le dinamiche di controllo e di istruzione, il potenziale comunicativo dei gesti e il mondo infantile, trasformando spesso forme oppressive (dispositivi contenitivi o correttivi) in espressive. La capacità di creare e diffondere conoscenza attraverso la comunicazione è da sempre considerata una facoltà esclusiva dell’uomo: l’educazione è ciò che ha distinto l’uomo dal resto del vivente. Federica Fontana suggerisce alcune strade per un decentramento antropologico al fine di sostenere una pedagogia postumanista, che richiede innanzitutto una nuova concezione di soggettività. Il saggio Per un’educazione non antropocentrica. Elementi di postumanesimo nell’arte di Eva Kot’átková ne delinea i tre aspetti fondamentali: la crisi del soggetto-persona, un’inclusione del non umano che non sia più subordinante o strumentale ma paritetica e interconnessa, e una prospettiva che tenga conto delle relazioni simboliche e materiali che l’uomo instaura con ambiente e oggetti. L’idea che sostiene tutte queste teorie è quella di un’educazione concepita come «un assemblaggio socio-materiale complesso e imprevedibile di umano e non umano che genera effetti di strutturazione e de-strutturazione della personalità» (A. Ferrante, 2013). Emblematico in questo senso è il processo di umanizzazione di utensili di uso quotidiano che Eva Kot’átková propone attraverso il lavoro Theatre of speaking objects (2013), un’installazione di oggetti in grado di comunicare con la voce.
L’idea di oggetto come entità transitoria e mutevole è parte della ricerca artistica di Pierre Huyghe (Parigi, 1962), la cui produzione espositiva è concepita come una presentificazione, un esaudirsi, di sistemi viventi: la mostra diviene un organismo pulsante su cui l’artista cessa di avere controllo, aprendo all’incidentale e all’imprevisto. Nel saggio L’esposizione oltre l’umano, coesistenza e simpoiesi nel lavoro di Pierre Huyghe, Vincenzo Di Rosa indaga quella “grammatica” dell’exhibition-making in grado di superare l’antropocentrismo e di abbracciare una forma di relazionalità pienamente postumana. L’autore definisce innanzitutto il concetto di mostra come “dispositivo” in grado di generare un vero e proprio potere espositivo, attraverso la capacità di modellare e orientare l’esperienza spettoriale. Ripercorrendo la definizione di “regime di separazione” di Dorothea Van Hantelmann, come netta opposizione tra soggetti e oggetti all’interno dello spazio-mostra, Vincenzo Di Rosa individua le premesse che hanno condotto a un modello antropocentrico dell’esposizione. Emblema di questo regime è il white-cube modernista, basato sull’esclusione del mondo esterno e sull’annullamento della relazione spazio temporale. La decostruzione del “regime di separazione” è possibile mediante un’opposizione non più gerarchizzata tra i vari elementi dell’esposizione e assegnando al soggetto-spettatore solo un posto tra gli altri (D. V. Hantelmann, 2011). Vincenzo Di Rosa individua nella produzione espositiva dell’artista francese un esempio di superamento del “regime di separazione” e di affermazione di una “scrittura ecologica”, in cui si realizza un generale principio di coesistenza tra entità. La pratica di Huyghe mi consente un breve collegamento con quella “pedagogia del non volere” (Daniel Charles, 1972) argomentata e sperimentata da John Cage attraverso il tema del lasciar-essere, sostenendo un distacco progressivo nei confronti della volontà. Nel settembre 1958 Cage avvia la stesura di un testo per un convegno a Bruxelles, che concepisce come una conferenza di soli aneddoti della sua vita (l’idea è di leggere ciascuna storia in un minuto):
«Mettendo insieme questi aneddoti in maniera non programmata, intendevo suggerire che tutte le cose, le storie, i suoni casuali dell’ambiente, e per estensione gli esseri, sono collegati, e che questa complessità è più evidente quando non è ipersemplificata da un’idea che alberga nella testa di una persona».
Questa riflessione, applicata a qualsiasi interrelazione tra entità, consente di esprime quella condizione di coesistenza su cui si edifica anche il lavoro di Pierre Huyghe, definito da Vincenzo Di Rosa come «un universo senza cose, un enorme campo di eventi a intensità variabile».
Potremmo dire che gli artisti tentano una riconfigurazione dell’esistente permettendoci di accedere a nuove possibilità di relazione con l’altro da noi. Quale ruolo assume la materia all’interno di questo processo di riconfigurazione? Alberto Micali e Nicolò Pasqualini, nel saggio Estetica Posthuman. Percezione e relazionalità, mappare il campo tramite la lente del postumanesimo critico, propongono un approccio all’ambito delle pratiche artistiche da una posizione postumanista attraverso un’analisi guidata dai concetti di relazionalità e percezione.
«Il nostro principale obiettivo è quello di proporre una narrazione, un percorso di possibilità, una mappa per un’estetica posthuman. Una mappa che sia capace di intuire le modalità chiave mediante cui, nel processo artistico-creativo, la materia non-umana trasmuti in un componente attivo e co-determinante anziché passivo e accessorio».
Citando l’indagine di Donna Haraway e di Karen Barad sulla distanza concettuale tra riflessione e diffrazione, Micali e Pasqualini enucleano quelle fondamentali differenze che permettono di non inciampare in un’estetica umanista del post-human, ovvero in un’estetica riflessiva che rifortifica la superiorità dell’animale umano evadendo una possibile contaminazione e mescolanza con l’alterità. Un atteggiamento diffrattivo, anziché rappresentazionalista e riflessivo, permette di evitare il solo apparire delle differenze tra noi e l’altro non umano al fine «di pensare le pratiche socio-culturali in modo performativo» (K. Barad, 2007). Il processo artistico, da manipolazione demiurgica, trasmuta divenendo il deposito enattivo ed emotivo dello stratificarsi, del contaminarsi e del congiungersi di molteplici alterità in rapporto fra loro; molteplicità in relazione che restituiscono una concezione postumanista dell’accoppiarsi tra homo e res (A. Micali, N. Pasqualini).
Eva Kot’átková, Diary n.2 (I-Animal), 2018 (dettaglio). Commissionata e prodotta da Pirelli HangarBicocca, Milano. Courtesy dell’artista. Foto: Agostino Osio
Massimiliano Viel, nel saggio Musica umana, ascolto postumano, pone un quesito fondamentale: cosa riconosciamo come musica che ci parla di un possibile senso del postumano musicale? Partendo da una prima ipotesi di accostamento tra postumano ed extramusicale - in quanto “irruzione della diversità, nella forma di oggetti del mondo introdotti attraverso un processo mimetico sonoro nella pratica musicale” – l’autore smonta e rimonta le possibili strade per un approccio non umanista, attraverso la citazione del lavoro di Eric Satie, Brian Eno, Murray Schafer, Oliver Messiaen, Iannis Xenakis, Karlheinz Stockhausen e uno studio dell’etnomusicologo Anthony Seeger. Ma è svincolandosi dalla definizione di musica – attraverso la pratica di John Cage - che Massimiliano Viel individua un possibile approccio in termini postumani, identificando nel processo di ascolto l’elemento caratterizzante di «tutte le pratiche musicali e di comunione con soggetti di culture lontane, bambini in età prelinguistica e animali non umani». Essendo inoltre l’ascolto un processo di riconoscimento, è intrinsecamente legato al concetto di attenzione e memoria. Ecco allora che un ascolto come eredità della musica umanista, se vuole avvicinarsi al postumano, deve evitare di adagiarsi sulle esperienze d’ascolto accumulate: si tratterà quindi di ricercare un ascolto intransitivo, in grado di riconfigurare attenzione e memoria. Come esempio di una pratica d’ascolto aperta alle tematiche del postumano viene citata la passeggiata sonora (soundwalk) in grado di stimolare nei partecipanti lo sviluppo di una sensibilità verso i suoni circostanti: qui si esaudisce ed esplora la relazione tra orecchio, il nudo orecchio, e ambiente (H. Westerkamp, 2006). Torno qui a Marcel Duchamp e al concetto di infrasottile: tra gli esempi che l’artista cita nel definire questa categoria di elementi al limite del percettibile, vi si ritrovano anche «il rumore o la musica prodotti da un pantalone di velluto a coste mentre si respira».
Il saggio L’archivio come pratica etica del vivente di Gabriela Galati, chiude la raccolta con un’argomentazione attorno al concetto di archivio come pratica che modella la vita (a life-making practice) e strumento di relazione. Il ragionamento si sviluppa attraverso una lettura dei fenomeni di estinzione e di de-estinzione, citando l’approccio femminista di Joanna Zylinska e il suo concetto di “controapocalisse”, per proporre l’archivio come un modo per comprendere la de-estinzione in chiave etica. Citando le considerazioni di Cary Wolfe e di Ashley Dawson, Gabriela Galati articola una riflessione che muove dall’impossibilità di definire il concetto di natura, identificando nella condizione di finitudine legata alla morte l’elemento che accomuna tutti gli esseri senzienti. La precarietà e l’idea di finitudine conducono al pensiero di Jacques Derrida, di cui l’autrice cita nello specifico i due articoli Freud e la scena della scrittura e Mal d’archivio. Un’impressione freudiana, associando archivio-inconscio e ripercorrendo i concetti di “domiciliazione” (che segna la possibilità di accedere all’archivio passando da privato a pubblico) e di “potere di consegna”, non nel senso di depositare ma nel senso di “consegnare riunendo segni” (ovvero di archivio come ri-unione). Il saggio si conclude con un ulteriore passaggio derridiano, volto a riflettere sull’esternalizzazione dell’archivio in termini di memoria protesica, e con un invito dell’autrice a valutare la scena di responsabilità entro cui ci muoviamo: una responsabilità verso la memoria che stiamo preservando e l’agentività dell’archivio stesso, da intendersi come strumento di modellamento della realtà passata, presente e futura.
Pierre Huyghe, Untilled, 2011–2012, veduta della mostra, Kassel, 2012. Courtesy dell’artista; Galerie Marian Goodman, New York /Paris; Esther Schipper, Berlin
Vorrei concludere con una breve riflessione che mi permetta di ricapitolare – e di rilanciare - alcune delle tematiche proposte, attraverso un campo di ricerca non espressamente trattato nella pubblicazione: la fotografia. Quale ruolo assume la riproduzione del reale, attraverso il mezzo fotografico, nel nostro relazionarci con ambiente e oggetti? Riprendendo gli studi di Elio Grazioli sulla relazione tra opera d’arte e immagine, e nello specifico il rapporto tra Duchamp e la fotografia, quest’ultima – accanto al readymade - viene indicata come quel medium capace di “interrogare lo statuto del reale stesso” (E. Grazioli, 2017). In questi termini è molto prezioso il pensiero di Jean-Christophe Bailly (2010), ripreso dallo stesso Grazioli, in merito alla fotografia, definita come «Fragile segno di esistenza, fragile segno indicante che qualcosa è esistito prima che marcasse, la fotografia (…) agisce direttamente e silenziosamente come ciò che sa o può far echeggiare l’intimo delle cose».
L’arte, la pedagogia, la musica, la pratica curatoriale e quella archivistica, la fotografia, sono campi di ricerca e attitudini discrete: come presenze “vicine” ci affiancano, partecipando al quotidiano scambio con l’alterità. Problematizzare, decostruire e ripensare queste pratiche in termini postumani, come proposto nella pubblicazione qui recensita, significa innanzitutto riposizionarsi all’interno di questi sistemi ecologici, con uno sguardo che sappia coglierne la complessità fino a restringere il campo sul piccolo, il microscopico, l’intimo, l’infrasottile.
di Roberta Perego
Bibliografia
Barad, Karen (2007), Meeting the Universe Halfway. Quantum Physics and the Entanglement of Matter and Meaning, Duke University Press, Durham-Londra
Braidotti, Rosi (2014), Il postumano. La vita oltre l’individuo, oltre la specie, oltre la morte, DeriveApprodi, Roma
Cage John (1999), Per gli uccelli. Conversazioni con Daniel Charles, Testo & Immagine, Torino
Cage John (2010), Silenzio, Shake Edizioni, Milano
Caillois Roger (2017), Il mimetismo animale, Edizioni Medusa, Milano
Dawson, Ashely (2018), “Bio-capitalism and De-extinction”, in R. Grusin (a cura di), After Extinction, University of Minnesota Press, Minneapolis
Derrida, Jacques (1996), Archive Fever: A Freudian Impression, Chicago University Press, Chicago
Derrida, Jacques (2002), La scrittura e la differenza, Giulio Enaudi Editore, Torino
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Doove, Edith (2017), Laughter, inframince and cybernetics – Exploring the Curatorial as Creative Act, Plymouth University, available at pearl.plymouth.ac.uk/handle/10026.1/10382
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Genosko, Gary (2002), A Shock to Thought – Expression after Deleuze and Guattari, ed. Brian Massumi. London/New York
Grazioli Elio (2017), Duchamp oltre la fotografia. Strategie dell’infrasottile, Johan & Levi Editore, Cremona
Haraway, Donna (2008) When Species Meet, University of Minnesota Press, Minneapolis
Haraway, Donna (2019), Sopravvivere su un pianeta infetto, Nero, Roma
Morton, Timothy (2018), Iperoggetti, Nero, Roma
Van Hantelmann, Dorothea (2011), On the Socio-Economic Role of the Art Exhibition, in J. Gaitán, N. Schafhausen, M. Szewczyk (a cura di), Cornerstones, Witte de With Center for Contemporary Art, Rotterdam
Westerkamp, Hildegard (2006), Soundwalking as Ecological Practice, in The West Meets the East in Acoustic Ecology. Proceedings for the International Conference on Acoustic Ecology, Hirosaki University, Hirosaki, Giappone
Wolfe, Cary (2003), Zoologies – The Question of the Animal. Minneapolis/London: University of Minnesota Press
Zylinska, Joanna (2009), Bioethics in the Age of New Media, MIT Press, Cambridge
Zylinska, Joanna (2018), The End of Men. A Feminist Counterapocalypse, University of Minnesota Press, Minneapolis, tr. it. Gabriela Galati (a cura di), La fine dell’uomo. Una controapocalisse femminista. Rogas, Roma, 2021
Sebbene la questione ecologica sia centrale nel dibattito filosofico e scientifico da oltre cinquant’anni – come «lo studio delle interrelazioni che intercorrono fra gli organismi e l’ambiente chi li ospita […] su tre livelli di gerarchia biologica: individui, popolazioni e comunità» (Treccani) – gli ultimi anni hanno visto una esplosione del tema, entrato a forza nelle agende politiche e soprattutto negli immaginari collettivi. In modi diversi, movimenti come FridaysForFuture ed Extinction Rebellion hanno condensato le energie attiviste di tutto il mondo, ed espanso la battaglia a un livello di tensione e complessità più elevata: dall’ambientalismo si è passati alla questione ecologica, che al momento eccede tutte le rappresentazioni che siamo in grado di darne.
Although the ecological question has been central to philosophical and scientific debate for over fifty years - as "the study of the interrelationships between organisms and their host environment […] on three levels of biological hierarchy: individuals, populations and communities" (Treccani) - recent years have seen an explosion of the topic, which has forcefully entered the political agendas and above all the collective imagination. In different ways, movements such as FridaysForFuture and Extinction Rebellion have condensed activist energies around the world, and expanded the battle to a higher level of tension and complexity: from environmentalism we have moved on to the ecological question, which currently exceeds all the representations we are able to give it.
[Pubblichiamo, su gentile concessione dell'editore Franco Angeli, l'Introduzione e la Nota del traduttore al saggio di Niklas Luhmann, Comunicazione ecologica. Può la società moderna affrontare le minacce ecologiche? recentemente ripubblicato con una nuova traduzione. Oltre all'editore ringraziamo Riccardo Prandini e Alberto Cevolini per aver messo a disposizione i loro testi.]
Non c’è davvero miglior tema di quello trattato da questo libro – che ritraduciamo per il lettore italiano – per dare il senso della Collana che lo contiene. Senza correre il rischio d’esagerare, lo indichiamo come l’iper-problema (un problema di problemi) che accompagnerà l’evoluzione socioculturale fino alla prossima catastrofe (qui intesa in termini neutrali come: insorgere subitaneo di un nuovo ordine). È il problema della società (dei suoi sottosistemi e organizzazioni) che, operando sull’ambiente (in specifico quello “esterno”: condizioni e processi fisici, chimici, biologici, ma anche psichici, etc.) mette in pericolo sé stessa, la sua autopoiesi. Questo iper-problema è ormai di moda e attira attenzione, dopo un ventennio abbondante d’incubazione intellettuale: le news ne parlano, i libri si vendono, nascono serie televisive, così come corsi di laurea e Ministeri. La tesi di Luhmann, in anticipo sui tempi (il libro è del 1986, sospinto dall’ondata dei movimenti politici “verdi” e dall’incidente nucleare di Chernobyl) è che attraverso la questione ecologica, la società non giunge tanto a conoscere meglio la “Natura” (magari per “preservarla” o per “migliorarla”: o in casi estremi “abolirla”), quanto a capire che non conosce sé stessa. La radicalità della tesi non è stata colta più di tanto (e certamente non dalla sociologia), mentre hanno guadagnato la ribalta due altri filoni di ricerca: il primo tende a spegnersi nei dibattiti scientifici specialistici e nei forum globali per élite politiche con idee generiche di bene comune e con soluzioni corrispondentemente inadeguate; il secondo, invece, tende ad accendersi nei dibattiti dell’opinione pubblica e nei “social”, per poi spegnersi senza portare a nulla.
Il primo va sotto il nome di “Sostenibilità”. L’Enciclopedia Treccani ne dà la seguente definizione: «Nelle scienze ambientali ed economiche, condizione di uno sviluppo in grado di assicurare il soddisfacimento dei bisogni della generazione presente senza compromettere la possibilità delle generazioni future di realizzare i propri». Basterebbe chiedersi chi e come, oggi, possa conoscere quali saranno i “bisogni da non compromettere” delle generazioni future, per farsi venire qualche dubbio sul senso del tema. Per rispondere, però, basta sapere che esso è stato introdotto nel 1987 con la pubblicazione del cosiddetto rapporto Brundtland dove «venne definito con chiarezza l’obiettivo dello sviluppo sostenibile che, dopo la conferenza ONU su ambiente e sviluppo del 1992, è divenuto il nuovo paradigma dello sviluppo stesso». In pratica qui a parlare e ad auto-attribuirsi capacità prognostiche è (l’auto-descrizione de) il sistema politico globalizzato (e i tecnici che gli suggeriscono cosa deve sapere) che si proclama “Centro e vertice” del tutto. Ne consegue una bibliografia infinita di ricerche, Report, Linee guida, Libri Bianchi, etc. – specialmente a trazione economico-giuridica, ma ora anche con l’inserimento delle scienze “dure” e della AI – che scelgono obiettivi e indicatori di sostenibilità, operazionalizzati in variabili e schematizzati in modelli teorici “causa/effetto”, “input/output”. Da questo profluvio di dati (diventati nel frattempo “Big”) apprendiamo, infine, che ogni causa è causata da altro (ed ha concause); così come ogni effetto ha altri effetti (previsti e imprevisti); che gli effetti retroagiscono sulle cause e che queste diventano nuovi effetti; che ogni tentativo di creare la “grande Mappa dell’ecosistema” fallisce, non solo perché gli effetti emergenti delle relazioni tra fatti lo impediscono, ma soprattutto perché ogni ecosistema deve avere un ambiente e nessuna chiusura “totalizzante” è mai possibile: l’equilibrio è una Chimera. A questo punto subentra il mantra del supercalcolo, del machine learning e della tecnologia che curerà la natura (magari sostituendola del tutto, come piano definitivo: il gemello digitale della realtà).
Il secondo filone di ricerca, più recente, prende il nome molto catching di “Antropocene”. Sempre per citare la Treccani, qui si tratta «dell’epoca geologica attuale, in cui l’ambiente terrestre, nell’insieme delle sue caratteristiche fisiche, chimiche e biologiche, viene fortemente condizionato su scala sia locale sia globale dagli effetti dell’azione umana, con particolare riferimento all’aumento delle concentrazioni di CO2 e CH4 nell’atmosfera». L’Antropocene è un tema a trazione filosofica, antropologica, climatologica, geopolitica, etc., insomma attira maggiormente gli spiriti forti perché dà la possibilità di fare prognosi sul futuro lontanissimo, previsioni che somigliano molto a visioni, finanche a proiezioni oniriche. Inoltre, permette con grande facilità di identificare il colpevole – l’uomo (in prevalenza maschio) – moralizzando la comunicazione e agevolando la richiesta di risarcimenti e/o compensazioni (in pochi, ma interessanti, casi anche di “scuse” al Creato, o a Gaia). Ma anche qui, a parte l’accordo sul colpevole, sembra che la festa sia finita. Siamo nell’Antropocene, baby! e dobbiamo o uscirne (ma come? e dopo così poco tempo? e dopo che solo alcuni ne hanno approfittato); oppure dobbiamo ridurre l’impatto delle attività (decrescendo? crescendo meglio? smettendo di pensare alla crescita?). Entrambi i filoni sono accumunati dal ridurre il rapporto tra sistema e ambiente a un grande sistema in equilibrio – il famoso eco-sistema – quindi elidendo paradossalmente un polo della distinzione. Un terzo filone sta prendendo ora piede, ed è senz’altro il più intrigante dal punto di vista dell’infotainment. Quello che vede la soluzione nel sostituire la natura con la tecnologia, così da togliere di mezzo il problema stesso: macchine che vivono tra macchine. Rimarrebbe però il duplice problema della produzione d’energia e della comunicazione sensata tra macchine (la famosa gerarchia cibernetica di Parsons!) a rovinare il sogno post-umano e quindi post-sociale. In alternativa rimane solo la retorica dell’homo viator: se siamo destinati dall’inizio a viaggiare sulla navicella “Pianeta Terra”, allora tanto vale proseguire il viaggio colonizzando altri ecosistemi marziani. Fine dell’ecologia terrestre.
Luhmann, per nostra fortuna, prende una direzione diversa. Il problema non è la “cura” del Pianeta Terra (o “della Natura” come la si voglia definire) in sé. PlanetEarth sembra cavarsela bene, auto-sostenendosi da circa 4,5 miliardi di anni (gli ominidi, per termine di paragone, datano 21 milioni di anni, sembra) e potendo continuare a farlo anche senza uomini e società, in futuro. E neppure lo è che la società degli umani possa autodistruggersi per così dire dall’interno. L’unica vera possibilità è stata data dall’uso della bomba atomica, ma questo implicherebbe una condizione di guerra globale e perdite settoriali. Perciò il vero tema è che gli effetti del rapporto con la Natura (anche umana) generati dalla società, ri-entrano nella società, cambiando in modo decisivo le sue condizioni di (im)possibilità. La società si mette in pericolo da sé, agendo sul suo ambiente. La prestazione intellettuale del sociologo tedesco è qui duplice: 1) spiegare perché solo la società Moderna si mette in pericolo da sé stessa; 2) individuare un principio di razionalità adatto al problema. Alla base della sua riflessione sta una triplice consapevolezza: che noi “i Moderni” non conosciamo la società in cui viviamo; che dobbiamo abituarci a questa socialcondition che non prevede alcuna salvezza-soluzione definitiva; che dobbiamo porci domande più sensate alla luce di una teoria sociologica adeguata al questa società.
Niklas Luhmann
In estrema sintesi Luhmann mostra come il problema ecologico dipenda solo dalla modalità di “risonanza” della società e dei suoi sottosistemi: gli eventi ambientali (qualsiasi cosa siano) entrano in risonanza con il sistema solo in base alle sue strutture che, a loro volta, dipendono dalla forma di differenziazione sociale. Da questa tesi dipende tutto il resto. Prima conseguenza. Non esiste nessun “Ecosistema” che sintetizzi la società (sistema) e la natura (ambiente), bensì solo e sempre singoli sottosistemi sociali che ricostruiscono – uno alla volta e ognuno in modo diverso – l’ambiente come loro totalità specifica. Seconda conseguenza: la società e i suoi sottosistemi risuonano solo attraverso un filtro estremamente limitato e limitante: la comunicazione. Ciò che non può essere comunicato (o, in seconda battuta, che è comunicato male, genericamente, in modo del tutto inadeguato alla attenzione di audiences sempre più disattente) non diventa “sociale” e quindi non può allarmare la società. Come nel racconto Il silenzio di Don De Lillo, se un blackout colpisse il pianeta, ce ne accorgeremmo, ma non potremmo comunicarlo attraverso i mass-media rimanendo nel silenzio o nel chiacchiericcio dell’interazione casuale. Da questo limite, la assoluta e crescente necessità (oltre che a dover disporre sempre d’energia elettrica!) di poter disporre di “allarmi” in forma di movimenti di protesta (Friday for Future), news, ricerca scientifica, talk politici, Encicliche. Terza conseguenza. A fare la differenza è la forma moderna di differenziazione sociale, in specifico quella di tipo funzionale. Essa caratterizza le strutture e le funzioni dei sottosistemi sociali, generando una società a cui “non riusciamo ad abituarci”. Strutture e processi che non comprendendo, ci impediscono di identificare le condizioni (sempre più improbabili) della nostra vita sociale. Tra queste ne segnaliamo alcune: i) ogni sottosistema (diritto, politica, sanità, formazione, economia, arte, famiglia, mass-media, etc.) può leggere gli eventi ambientali solo mediante il suo codice (diritto/torto, governo/opposizione, salute/malattia, conoscenza/ignoranza, solvenza/insolvenza, bello/brutto, amore/non amore, informazione/non informazione, etc.) senza poterne utilizzare altri (nessun valore “terzo” può intervenire a modificare questa limitazione); ii) oltre ai codici vengono predisposti programmi che servono a decidere i comportamenti sistemici adeguati e che devono, a differenza dei codici, mutare molto velocemente senza poter attendere di coordinarsi con altri programmi (in altri sottosistemi); iii) ogni sottosistema è auto-sostitutivo e nessun altro può venirgli in aiuto dall’esterno: iv) questa autonomia sistemica crea, simultaneamente, maggiore interdipendenza e integrazione (come limitazione di libertà) tra sistemi senza però generare alcuna automatica capacità di coordinarsi per il “bene comune”; v) l’aumento di performance dei sottosistemi – specialmente quello scientifico ed economico – dovuta alla loro funzionalizzazione, è anche una delle maggiori cause degli effetti ecologici negativi; vi) la tecnologia rende possibile realizzare sempre più progetti di cui conosciamo già la pericolosità e che quindi dobbiamo impossibilitare; vii) non è più possibile che alcun “centro e vertice sociale” possa governare gli altri sottosistemi; viii) ogni evento ambientale che risuona in un sottosistema in modo lieve (o pesante), può avere ripercussioni pesanti (o lievi) in un altro sottosistema cosicché si danno simultaneamente troppa o troppo poca risonanza; ix) rispetto a tutte queste comunicazioni funzionalmente codificate, si generano comunicazioni di commento, critica, giudizio che quasi sempre portano a una atmosfera di profonda delusione e pessimismo o di esaltazione e ottimismo. Luhmann, sulla base di questa iper-problematicità, aveva ipotizzato la nascita di una specifica forma comunicativa, basata sulla “paura” che avrebbe sovrascritto le altre comunicazioni, come un tempo faceva la morale. Ma come la morale porta a conflitti d’attribuzione di colpe, così la paura genera il problema della spirale della paura (fear itself) da cui è poi molto difficile uscire. In realtà sembra che questa escalation di paura sia stata evitata dalla “lontananza” del problema, dalla sua scomposizione in sotto problemi e dalla fortissima tendenza che gli attori sociali hanno di attribuire in modo divergente e non allineabile rischi e pericoli.
L’unico sapere, alla fine, evidenzia che le società possono evolvere in modo altamente inadatto al loro ambiente, almeno finché sono in grado di proseguire la loro riproduzione. Non è una buona notizia, anche perché mancano del tutto “soglie” d’allarme: almeno però si guadagna tempo, ma poi non si sa cosa farsene. Con quale forma di razionalità si possa affrontare questo pastiche, se lo si può affrontare, lo lasciamo scoprire al lettore che, tra le righe, apprenderà anche cosa significa vivere in questa società.
di Riccardo Prandini
NOTA DEL TRADUTTORE
Tradurre Luhmann, com’è noto, è difficile. Ma non impossibile. Bisogna senz’altro conoscere bene la lingua tedesca, ma soprattutto bisogna conoscere bene la teoria sociologica che Luhmann ha sviluppato con il titolo programmatico “Teoria della società”, ovvero “Teoria dei sistemi sociali”.[1] Quella che qui si presenta al lettore italiano è la seconda traduzione del libro Ökologische Kommunikation. La prima era apparsa sempre per i tipi di Franco Angeli nel 1989 (2a ediz. 1990; 3a ediz. 1992). Una nuova traduzione si è resa indispensabile essenzialmente per due motivi.
Prima di tutto, perché i diritti d’autore stavano per scadere e già da qualche tempo si era manifestato nel contesto italiano un rinnovato interesse accademico nei confronti di una pubblicazione che era stata ormai dimenticata. Una certa sensibilità “di ritorno” sul piano dell’opinione pubblica per i temi dell’ecologia – penso per esempio ai Fridays for Future o alla così detta “green economy” – hanno senza dubbio contribuito a spostare di nuovo il tema dell’ambiente nelle posizioni più alte dell’agenda dei mass media. Si potrebbe osservare che tutto questo lo si era già visto più di quarant’anni fa, che non ci sia dopo tutto granché di nuovo, e che l’opinione pubblica si lasci facilmente sedurre da atti eclatanti senza vedere i paradossi che spesso si nascondono dietro, come succede quando per raggiungere New York anziché prendere l’aereo ci si imbarca su uno yacht di ultimissima generazione, a basso impatto ambientale e ovviamente estremamente costoso, per mostrare così come si dovrebbero comportare tutti gli amanti dell’ambiente facendo, allo stesso tempo, quello che nessunopuò permettersi concretamente.[2] Ma questo è già un tema che richiede una certa preparazione sociologica, e l’idea era appunto quella di rendere di nuovo disponibile al pubblico italiano un testo che su questo ha ancora molto da dire.
Per fare in fretta, si sarebbe potuto semplicemente ristampare la versione precedente, ma un rapido esame ha reso subito evidente che la prima traduzione non poteva essere riproposta. Troppo spesso infatti il senso del testo tradotto era (non solo in confronto all’originale) un vero e proprio non senso. Qualche esempio solo per capirsi. La frase abbastanza semplice «[...] weshalb unserer Gesellschaft es trotz, und gerade wegen, ihrer zahlreichen Funktionssysteme so schwerfällt [...]» diventa in italiano «perché la nostra società lo sfidi [lo sfidi?!], e proprio a causa dei suoi molteplici sistemi funzionali, riesca così difficile [...]» anziché «perché per la nostra società sia così difficile [...] nonostante, anzi proprio a causa, dei suoi molteplici sistemi di funzione».[3] La frase «[...] wenn man den Teilnehmern Turing-Qualitäten à la “kein Bock” durchgehen lassen will» diventa in italiano «se non si vuole permettere ai partecipanti qualità di Turing», anziché «se si accetta che i partecipanti possiedano qualità previste dal test di Turing del tipo “Non ne ho voglia”». Qui, come altrove, non solo la frase viene amputata, ma il senso viene rovesciato: se si trattano gli studenti come “macchine non triviali”, bisogna ammettere come valide anche risposte del tipo: “Non mi va” (mentre da una macchina del caffè una risposta del genere sarebbe impossibile).[4]
Casi del genere si ritrovano pressoché in ogni paragrafo, quindi a dozzine in ogni capitolo, e questo in tutti i capitoli del libro. Non ci vuole molta immaginazione per capire quale effetto una tale traduzione possa aver fatto sul lettore italiano. Si potrebbe anche dire tranquillamente: un effetto contrario a quello che l’edizione originale del libro ha avuto sul pubblico tedesco. Se infatti la precedente versione di questo libro ha contribuito a diffondere in Italia l’immagine di Niklas Luhmann come di un sociologo criptico, ingarbugliato e proprio per questo piuttosto fastidioso, in Germania lo stesso libro riusciva a suscitare negli anni ’80 un ampio dibattito anche in virtù del fatto che di tutti i contributi del sociologo di Bielefeld quello presente è senza dubbio uno dei più immediatamente accessibili anche per chi non avesse molta familiarità con la teoria dei sistemi sociali.[5]
Peggio comunque di una pessima traduzione c’è solo il fatto che essa venga pubblicata. E qui bisogna ammettere che la traduttrice non ha colpe. Poiché la prima edizione italiana era introdotta da un lungo saggio di un noto (e influente) sociologo di Bologna, è plausibile ipotizzare che la traduzione fosse stata eseguita su commissione. Più che dedurre conclusioni sulle competenze della traduttrice, quindi, la traduzione consente di dedurre conclusioni su chi ha messo a disposizione del pubblico italiano una parte dell’opera di Luhmann alla fine degli anni ’80. Ciò potrebbe costituire il punto di partenza per una ricerca sulla ricezione del lavoro teorico di Luhmann in Italia che, per quanto ne so, manca ancora. Si tratterebbe, in un senso più ampio, di una ricerca sociologica sull’uso e la diffusione della teoria sociologica nella società.
L’auspicio di questa seconda traduzione – che non sarà perfetta poiché ogni traduzione è per definizione migliorabile – è che essa possa essere quanto meno più fedele al senso originario e più intelligibile per il lettore italiano. Seguire Luhmann nelle sue riflessioni, cioè osservare la società dal punto di vista di quel particolare sistema di osservazione che è la teoria dei sistemi sociali, resta un compito faticoso. Più che altro perché bisogna sforzarsi di assumere una prospettiva insolita che non asseconda il senso comune e tanto meno la morale. Mettendo a disposizione del pubblico italiano una nuova traduzione di Comunicazione ecologica, la speranza è che essa riesca a suscitare se non proprio entusiasmo, quanto meno un po’ di interesse nei confronti di quella che resta comunque una delle proposte più originali che la teoria sociologica abbia prodotto nell’ultimo secolo.
[1] Dico “programmatico” perché Luhmann ha sempre considerato il suo lavoro teorico come “provvisoriamente definitivo”. A dimostrazione di questo si veda anche solo la versione di una teoria generale della società pubblicata di recente con il titolo Systemtheorie der Gesellschaft, Berlin, 2017 che rappresenta soltanto uno dei quattro manoscritti poi maturati nell’opera monumentale Die Gesellschaft der Gesellschaft, Frankfurt a.M., 1997. Il manoscritto in questione risale ai primi anni ’70.
[3] Cito dalla 3a ediz. di Niklas Luhmann, Comunicazione ecologica. Può la società moderna adattarsi alle minacce ecologiche?, Milano, 1992, p. 94.
[4] Luhmann, Comunicazione ecologica, op. cit., p. 194.
[5] Non a caso Luhmann ha aggiunto in fondo al libro un glossario dei principali termini tecnici impiegati – un unicum nella vastissima produzione del sociologo tedesco.
Oltre natura e cultura (2005) di Philippe Descola – riproposto ora da Raffaello Cortina, a cura di Nadia Breda, dopo una prima traduzione SEID del 2014 divenuta presto irreperibile – è un libro che certo non si adopera per nascondere la portata dell’operazione cui si dedica. Ed ecco il primo merito da riconoscere a questo instant classic del pensiero antropologico contemporaneo: il candore nel confessare l’ambizione, e la consequenzialità dello sforzo messo in opera per esserne all’altezza. Le oltre quattrocento pagine (seicento, nell’edizione poche di Gallimard) lungo le quali si articola il volume fanno un uso sapiente dell’esperienza etnografica dell’autore – tra gli Achuar dell’Amazzonia ecuadoregna – così come di una vasta letteratura etnologica e di selezionati riferimenti teorici per rimetter mano a uno dei temi più classici della disciplina: il rapporto tra natura e cultura.
Si tratta di una questione d’importanza capitale per l’antropologia, il campo di una partita «narcisistica» (Viveiros de Castro 2017) in cui ne va delle fondamenta stesse – epistemologiche e politiche a un tempo – della disciplina. Nel primo capitolo de Le strutture elementari della parentela, Claude Lévi-Strauss, di cui Descola è stato discepolo ed erede al Collège de France, aveva indicato nell’incesto il luogo in cui, all’interno dell’avventura umana, la natura prende le forme sempre locali, sempre specifiche, della cultura – delle culture. La natura umana è vuota, mancante, segnata; la cultura, dunque, altro non sarebbe che la maniera in cui gli umani s’ingegnano per riempire questa natura, e così compierla, nelle forme sempre specifiche e mai concluse prodotte e riprodotte dai vari collettivi. All’epoca, si trattava di affermare l’autonomia della disciplina, e l’arbitrarietà del segno linguistico – la violenza muta della castrazione – sembrò sufficiente a garantire l’invalicabilità di una soglia al riparo della quale l’antropologia poteva dirsi scienza. Tale gesto inaugurava quello che ancor oggi va probabilmente annoverato come il momento di maggior lustro della disciplina, stagione di un fortunato contrabbando che avrebbe portato alla diffusione degli strumenti forgiati nel laboratoire d’anthropologie sociale presso psicanalisti, filosofi, storici e linguisti. Lungo le rotte di questo commercio, lo strutturalismo assumeva l’ambizione – se non la solidità – di un paradigma.
In Oltre natura e cultura, Descola si pone esplicitamente nel solco di Lévi-Strauss; e in particolare si ripromette di proseguire una pista additata eppure lasciata inesplorata da parte del maestro, che ne Il pensiero selvaggio aveva scritto:
Il marxismo – se non proprio Marx – ha ragionato troppo spesso come se le pratiche dipendessero direttamente dalla praxis. Senza mettere in causa l’incontestabile primato delle infrastrutture, noi crediamo che tra praxis e pratiche si inserisca sempre un mediatore che è lo schema concettuale per opera del quale una materia e una forma, prive entrambe di esistenza indipendente, si adempiono come strutture, ossia come esseri al tempo stesso empirici e intellegibili (Lévi-Strauss 2010, p. 146, cit. in Descola 2021, 116).
Tra la disposizione simbolica dell’umano e la varietà delle forme concrete cui essa può dar luogo, ecco stagliarsi una terra di mezzo che l’antropologia sarebbe attrezzata per conquistare, e dove potrebbe giocarsi la tenuta del proprio rinnovato progetto intellettuale. Così, Descola ritiene che «sia possibile e necessario risalire […] verso un nucleo di schemi elementari della pratica le cui differenti configurazioni permetterebbero di dar conto di tutta la gamma delle relazioni con gli esistenti, una sorta di matrice originaria dove gli habitus troverebbero la loro fonte e di cui conserverebbero una traccia percepibile in ciascuna delle loro manifestazioni storiche» (Descola 2021, p. 112).
Di questi schemi – disposizioni apprese e largamente inconsce che garantiscono la possibilità agli esseri umani di rapportarsi al mondo senza doverselo reinventare a ciascuna occasione daccapo, script generalissimi d’interazione con l’alterità capaci di darle consistenza e ricondurla ogni volta entro l’ambito del domestico e dell’abituale –, Descola distingue due prestazioni fondamentali: da un lato, essi concorrono a definire l’identità dell’alterità che popola i mondi umani, attualizzando alcune delle affordances che essa reca intrinseche in seno; dall’altro, sulla base dei tratti ascritti alle entità del mondo, determinano il campo delle possibilità interattive con tali entità, rendendo disponibili certi pattern d’interazione e impedendone invece altri. Ma oltre a distinguere i due piani, Descola postula anche una gerarchia precisa che li organizzerebbe: le identificazioni precedono le relazioni; la maniera in cui gli umani percepiscono gli esistenti influenza univocamente le pratiche tramite cui essi vi si relazioneranno.
È in questo primato delle identificazioni che risiede l’originalità della proposta descoliana nel panorama del dibattito contemporaneo. È a tal riguardo, peraltro, che Descola impiega il termine, finito al centro di tante polemiche, che più ha finito per identificare il suo lavoro: ontologia. Se nell’utilizzo fattone da Viveiros de Castro o – con più moderazione – da Stengers o Latour il concetto di ontologia funge da grimaldello anticorrelazionalista, utile a ricercare – per stessa ammissione degli autori, più a tentoni che nell’ambito di un progetto dotato di ambizioni sistematiche – un accesso al mondo e non soltanto alle sue rappresentazioni, nel caso di Descola esso va invece riconosciuto svolgere, curiosamente, un ruolo squisitamente epistemologico. In un impiego del termine in questo senso più prossimo a quello dell’informatica che a quello tradizionalmente proprio della filosofia, le ontologie descoliane sono indistinguibilmente orizzonti di senso e regimi di operabilità del mondo, abitudini cognitive coltivate dai gruppi umani e insiemi di pratiche che ricorsivamente ne rinnovano la pertinenza.
Dettando il profilo degli esistenti, le diverse ontologie limitano dunque i margini entro cui i mondi potranno essere composti e modificati: così, per esempio, se gli Indiani d’Amazzonia non hanno mai addomesticato il pecari, ciò sarebbe in virtù esclusivamente della collocazione che tale animale ha entro gli schemi concettuali che organizzano il loro accesso al mondo, la quale impedirebbe loro di applicare a questo animale un tipo di relazione che pur dimostrano, nel rapporto con altre specie, di conoscere bene. La scena, allora, è quella kantiana: da una parte il soggetto umano, dall’altra un mondo conoscibile e maneggiabile solo in virtù degli schemi che ne organizzano la percezione fenomenica. Al livello di questi schemi, per Descola, ha luogo una – beninteso, inconscia – decisione fondamentale, riguardante la collocazione degli esistenti, da parte del soggetto, su un piano di continuità o discontinuità rispetto a due dimensioni che l’autore giustifica senza troppi imbarazzi come universali della percezione umana: «interiorità» e «fisicalità». Il gioco combinatorio produce una matrice quadripartita: e allora quattro sono, per Descola, le ontologie. Noi moderni, «naturalisti», ci figuriamo in un rapporto di continuità con l’alterità del regno animale e vegetale sul piano della fisicalità (quanto meno da Darwin in poi), mentre ci riteniamo distinti su quello dell’interiorità (delle facoltà cognitive); i popoli «animisti», come gli Achuar studiati da Descola, al contrario, raccontano di un mondo originariamente tutto umano, decaduto in seguito a eventi mitologici sino ad assumere il profilo ingannevole di una fisicalità frammentata; ma la speciazione nasconde una continuità irriducibile e sempre pronta a riaffiorare, lungo il tracciato invisibile – ma non per questo impercorribile – della metamorfosi (Viveiros de Castro 2019). Agli altri due poli della matrice, i «totemisti» – per esempio i popoli aborigeni dell’Australia – riconoscono continuità tra sé e determinate entità non umane su entrambi i piani, delineando così i confini di collettivi che non possono ricercare nella differenza di regno o di specie la garanzia della loro identità; mentre l’ontologia «analogista» – di cui il pensiero cinese costituisce un esemplare prototipico –, postulando discontinuità su entrambi i piani, concepisce un «cosmo composto da immanenze particolareggiate» (Descola 2021, p. 342).
L’assunto che regge l’impianto descoliano va riconosciuto essere in netta controtendenza con buona parte dell’antropologia degli ultimi trent’anni. Dal punto di vista dell’autore, come detto, le identificazioni precedono le relazioni: la diversità delle pratiche, cioè, è da ricondurre alla varietà – ampia ma finita – dei modi in cui gli umani attribuiscono capacità di agire alle entità che compongono i loro mondi. Da una parte gli umani e le loro ontologie; dall’altra, lo schermo immacolato del mondo, sul quale gli umani continuano a prodursi in un’attività in fin dei conti proiettiva. I non umani fanno capolino nel ponderoso volume unicamente come input per la cognizione di esseri umani che, a seconda dell’abitudine, potranno ritenerli più o meno affini a sé, e li tratteranno di conseguenza; ma non hanno mai occasione di dispiegare un’agentività che possa dirsi in senso stretto loro propria. In un tempo in cui proliferano le etnografie multispecie e i tentativi di simmetrizzare la scena epistemologica, Descola porge in dono all’antropologia il campo definito di un oggetto omogeneo e nuovamente tutto umano verso il quale concentrare i propri sforzi.
Ma se è vero che l’apertura postumanista delle scienze sociali, e dell’antropologia in particolare, ha coinciso con la progressiva messa a tema della questione ecologica come affare di cui le humanities non solo avrebbero i titoli per occuparsi, ma di cui esse sole saprebbero elucidare il tenore squisitamente politico, è su questo genere d’implicazioni che conviene chiudere la nostra breve rilettura di Oltre natura e cultura. Se nel gioco combinatorio disegnato dall’autore le relazioni fanno ingresso solo in un secondo momento, quando le entità hanno già acquisito il profilo di un’identità – ovvero sono state identificate da un essere umano –, è entro quei margini che esse saranno passibili di mutamento. Nell’intento di abolire ogni orizzonte evoluzionistico per la classificazione delle tecnologie umane, è la tecnica stessa a finire per sfumare sino a scomparire in uno sfondo nel quale saranno sempre le inferenze di carattere identificatorio a determinare le disponibilità del mondo a essere trattato altrimenti. Al fondo, si potrebbe dire che il mondo – così come l’insieme dei rapporti a esso – esiste, nell’antropologia di Descola, solo come correlato delle differenti visioni che diversi gruppi umani hanno di esso. E a queste condizioni, evidentemente, la storicità si trova ancora una volta ristretta all’umano soltanto – il resto ridotto a materia grezza per le nostre identificazioni. Le ontologie, in effetti – a differenza della cultura, che biologi e antropologi si erano ormai accordati a dismettere quale fattore identificativo di una qualsivoglia singolarità dell’animale umano (cfr. Morin 1974) –, sono affare squisitamente umano; e alla facoltà ontologica spetta il compito d’individuare, come era precedentemente toccato al linguaggio o alla coscienza della propria condizione mortale, una specificità irriducibile dell’essere umano, che assegna alla nostra specie il ruolo di una innegoziabile eccezionalità entro il campo della storia naturale.
Commisurato alla rivoluzione lovelockiana proposta da Latour (2019), allora, lo sforzo di Descola assume il profilo di una restaurazione perfettamente katiano-copernicana: il soggetto umano nuovamente al centro, e attorno a esso un mondo fatto unicamente delle diverse rappresentazioni che esso ne produce. La linea tra natura e cultura che l’opera ambisce a oltrepassare, di conseguenza, si trova rimpiazzata da un’altra linea: quella – inerte, priva di storia, tracciata una volta per tutte e indisponibile a rinegoziazioni – tra l’umanità e un mondo con cui essa intratterrebbe rapporti certo variegati ma comunque unilaterali.
Bisogna concluderne che l’antropologia di Descola ricerca la propria efficacia sugli stessi terreni ove il progetto strutturalista aveva ritenuto di fondare le proprie ambizioni paradigmatiche; e così facendo, finisce per esporsi al medesimo genere di critiche che quel progetto avevano bersagliato sino a minarne le fondamenta. Ma è anche vero che l’etichetta dello strutturalismo, pur esibendo la facciata di un edificio intellettuale possente e dai confini definiti, riesce a stento a tenere assieme le traiettorie di avventure che furono dotate di propositi, ambizioni e percorsi diversissimi tra loro. E ciò implica la necessità di spingersi un passo oltre nel caratterizzare l’eredità intellettuale che Oltre natura e cultura assume e rilavora. Proponendosi di raccogliere il lascito di Lévi-Strauss, in effetti, Descola si ritrova in mano un’opera certo marcata in origine da un dualismo profondo, che vede la struttura e il mondo contrapporsi in maniera frontale, segnando la giurisdizione di due regni radicalmente eterogenei. Tale opera, tuttavia, è anche popolata di trickster, figure mediane che mentre sembrano convocate in quanto punto – arbitrario – di contatto tra i due piani, sono pronte a tradire il proprio ruolo impiegatizio, mostrandosi invece – se interpellati con la giusta malizia – essi stessi artefici della sintesi, geni della significazione. Lo sciamano, per esempio: apparentemente rentier di un privilegio strutturale nel quale risiederebbe il segreto – simbolico – dell’efficacia delle sue pratiche, e in realtà depositario di tecniche e saperi che tale ordine concorrono a fondare e manutenere, «cristo magico» (De Martino 1948) di mondi il cui stare assieme non è garantito dall’arbitrarietà di un segno linguistico che sul piano orizzontale della differenza trova la propria consistenza necessariamente logica, bensì dal lavoro materiale e speculativo che incessantemente compone forma e vita; oppure il mana polinesiano, cui Lévi-Strauss parrebbe attribuire il ruolo di architrave del sistema simbolico – «semplice forma» dal «valore simbolico zero» (Lévi-Strauss 1965, LII) –, ma che a un esame più attento si rivela traccia di un gesto originario il quale, aprendo il campo del simbolico, può solo sopravvivere come cicatrice sulla sua superficie liscia (cfr. Leoni 2019).
In quegli anfratti, l’opera di Lévi-Strauss ospita già una venatura che lo strutturalismo trascende e reimpagina, schiudendo linee di fuga «selvagge» capaci, a volerle seguire, di aprire il sistema e mostrare la struttura nella sua consistenza di gesto e di evento. Non è tuttavia questo, bisogna convenire, il versante dell’opera levistraussiana che Descola percorre e decide di proseguire; bensì quello più saldo e rassicurante del paradigma. Ma come dimostra l’importante libro di Nastassja Martin (2016), che di Descola è stata allieva, messo alla prova dell’etnografia, l’impianto di Oltre natura e cultura rende necessarie ibridazioni che finiscono per snaturare la linearità del progetto che esso propone. Che si tratti dello sguardo latouriano che Martin assume come controcanto all’impostazione del maestro, o quelli resi possibile dai lavori di Donna Haraway (2003), Anna Tsing (2021), o Isabelle Stengers (2018), che in maniera simile potrebbero svolgere un ruolo analogo, le voci della cosiddetta “svolta ontologica” trovano nel testo di Descola l’opportunità per un dialogo capace di esplicitare sino in fondo la radicalità del sommovimento politico-teoretico che interessa l’antropologia da ormai trent’anni.
Alla luce di quanto detto, diviene lecito domandarsi quanto il volume riesca, a conti fatti, negli intenti da cui prende le mosse; in quale misura cioè si mostri capace di dotare l’antropologia della concettualità nuova che le aveva promesso, in grado di addomesticare le terre selvagge che si schiudono varcata la linea che distingue e istituisce gli ambiti speculari di natura e cultura. Come notato anche dalla curatrice nella sua densa postfazione, tuttavia, si tratta di bilanci che sarebbe probabilmente prematuro fare ora, se è vero che nel corso di quest’anno è attesa la pubblicazione del libro dedicato al tema della figurazione cui Descola ha consacrato i suoi sforzi negli oltre quindici anni trascorsi dalla pubblicazione originale di Par-delà. E in ogni caso, considerazioni di una tale portata non possono spettare a questo scritto, che aveva la ben più modesta ambizione di additare il percorso teoretico imbastito da Descola e dettagliare la frizione che esso provoca nel contesto del dibattito antropologico contemporaneo.
È con un auspicio, allora, che conviene chiudere queste note fugaci. Nell’inaugurare un capitolo italiano nella Wirkungsgeschichte del volume, e in attesa dell’uscita del nuovo libro, questa traduzione offre l’occasione perché, anche nel nostro paese, l’antropologia muova passi decisivi verso quel ruolo di primo piano che altrove essa è riconosciuta occupare nelle discussioni sull’ecologia politica. La questione ecologica e il relativo dibattito, in Italia, s’intrecciano infatti alle traversie di un mondo culturale nel quale all’antropologia ancora tocca in sorte una posizione largamente subalterna. Se il testo – accompagnato dalle voci che già vivaci hanno cominciato ad accoglierlo – saprà propiziare movimenti in tale direzione, un passo oltre la linea di natura e cultura sarà effettivamente stato intrapreso.
di Nicola Manghi
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Bibliografia
De Martino, Ernesto (1948), Il mondo magico. Prolegomeni a una storia del magismo, Einaudi, Torino
Descola, Philippe (2021), Oltre natura e cultura, Raffaello Cortina, Milano
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Latour, Bruno (2019), Essere di questa terra. Guerra e pace al tempo dei conflitti ecologici, Rosenberg & Sellier, Torino
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Viveiros de Castro, Eduardo (2017), Metafisiche cannibali. Elementi di antropologia post-strutturale, Ombre Corte, Verona
Viveiros de Castro, Eduardo (2019), Prospettivismo cosmologico in Amazzonia e altrove, Quodlibet, Macerata
Utilizzando come attivatore di ogni capitolo una “specie harawaiana”, Federica Timeto nel suo Bestiario Haraway (Mimesis 2020) analizza e mette a sistema il pensiero di Donna Haraway a partire da una serie di figure zoo-tecnomorfe che hanno accompagnato e inquadrato il lavoro dell’autrice americana in maniera organica nella sua costante mutazione.
Il volume offre una prima sezione introduttiva in cui si presentano le illustrazioni a ogni capitolo di Silvia Giambrone (p. 17); il capitolo 1, “Animali che significano: Note introduttive a un bestiario naturalculturale” (p. 21), è una introduzione generale all’approccio teorico di Haraway, alla sua concezione “dell’animale”. Il libro prosegue poi con “Nella danza del pensare-sentire. Una conversazione con Donna Haraway” (p. 29), una intervista inedita alla teorica americana. Di seguito, ogni capitolo è dedicato a una delle specie significative nella teoria di Haraway, ivi compresi il cyborg (p. 105) e i microorganismi (p.189). Questi capitoli del Bestiario sono strutturati in una breve prima parte in cui Timeto ricostruisce da un punto di vista storico, simbolico, culturale, e della storia della scienza come ognuno di questi animali è stato percepito, classificato, concettualizzato storicamente e filosoficamente per poi entrare in maniera più dettagliata nelle idee ed elaborazioni al riguardo della stessa Haraway.
Nel primo capitolo, Timeto parte dal pensiero “per ecologie” tripartite: tra viventi umani, non umani e tecnologie. È da qui che scaturisce il pensiero antispecista (e non tanto “animalista”) di Haraway che implica un vivere-con l’alterità. Questo pensiero si appoggia su una profonda critica al rappresentazionalismo per quanto questo implica una scissione in soggetto-oggetto che oscura qualsiasi possibilità di ibridazione trans-specie (p. 22). In questo contesto, l’animale diventa sempre «una macchina speculare dell’umano» (p. 22) che lo “riflette” come uno specchio. Ma poiché, come indica Derrida, “l’Animale in generale” non esiste, in realtà il vivente non umano finisce per funzionare come un ventriloquo attraverso il quale «a parlare resta sempre l’umano» (p. 22).
Per contro, nell’approccio harawaiano, gli animali non funzionano come specchi dell’umano, questo sì capace di rappresentazione, ma sono opachi, e bisogna «lasciar rispondere gli animali, dunque, piuttosto che dar loro (la nostra) voce» (p. 24).
Timeto fa poi un percorso “archeologico” in senso foucaultiano e analizza le diverse accezioni del termine bestiario lungo la storia, in rapporto alle quali emerge il concetto di specie compagne definite da Haraway come «un bestiario di agentività, modalità di relazione» (p. 27).
Successivamente, nel secondo capitolo, l’intervista funziona non solo come un mezzo per chiarire i concetti principali delle teorie dell’autrice come introdotti nei suoi libri, ma anche come un aggiornamento di questi agli eventi attuali. Timeto e Haraway discutono quindi della categoria di specie, di estinzione e della difesa dei diritti degli animali (p. 31), un punto questo ultimo abbastanza problematico della visione di Haraway per la maggior parte degli animalisti. Haraway afferma: «Non sono pro-life, non condivido la feticizzazione della nozione di vita proprio perché credo che escluda la considerazione delle specifiche relazioni. Ho un profondo rispetto per gli attivisti animalisti radicali che dicono “Stop, basta uccidere vite animali”. Li rispetto perché sono assolutamente convinta che viviamo in un regime in cui si abusa delle uccisioni di animali non umani per scopi (umani) ingiustificati. […] Viviamo in circostanze complesse, posso uccidere o supportare l’uccisione di un embrione umano, uccidere o supportare l’uccisione degli animali da laboratorio in situazioni che, non definirei inevitabili, ma...il punto è che non possiamo agire innocentemente» (p.35).
E ancora «Non esiste decisione che non implichi una qualche forma di violenza. Ed è una violenza di cui siamo responsabili: potremmo sempre esserci sbagliati, dunque dobbiamo essere pronti a riconsiderare ogni volta le nostre azioni. Comprendere che non era la cosa giusta da fare» (p.35). Questo passaggio permette di identificare una posizione molto simile a quelle di Jacques Derrida: non ci si deve mai adagiare “dalla parte della verità”, ma ci si deve interrogare ogni volta su ogni decisione, su ogni posizione presa (Derrida 2006, p. 182). Questo approccio, che potrebbe essere chiamato un “metodo”, serve a impedire di cadere in un dogmatismo irriflessivo, e assicura, per così dire, una posizione critica; tuttavia occlude, come indica Cary Wolfe (2020) nella sua analisi del pensiero di Derrida, la possibilità di una etica, più o meno universale. Ed è quindi difficile non assecondare Haraway nella sua concezione di adottare posizioni “non innocenti”: perché nessuno è mai innocente, ogni decisione presa implicherà un danno per qualcuno, e come indica ancora Derrida, non c’è bisogno di mangiare la carne per essere carnefici.
Haraway di conseguenza è dichiaratamente contraria agli allevamenti intesivi a prescindere, ma non è contraria alle pratiche, per esempio, dei popoli indigeni di cacciare e mangiare la carne, e delle cerimonie di alimentazione dei nativi che le accompagnano (p. 36).
Timeto sceglie di presentare questa posizione come problematica, così come quella di Derrida citata sopra, in rapporto all’oncotopo e le sperimentazioni e modificazioni genetiche di animali: «Appare certamente problematico confrontare la logica, pur conseguenziale, di questo ragionamento con le odierne pratiche in cui la vita animale è annientata prima ancora di poter essere considerata o lasciata libera di diventare significativa e significante, ovvero di godere delle condizioni per entrare in relazioni effettivamente simmetriche con gli altri umani» (p. 102).
Così come è anche fondamentale, sia per capire il pensiero di Haraway, sia come contributo alle discussioni in corso negli animal studies, la domanda di Timeto riguardo alla concezione di ecologia tripartita menzionata sopra (umani, non umani, macchine) sul fatto che di solito l’accento viene messo sul rapporto umani-macchine o umani-non umani e quasi mai sulle possibilità di ibridazione dei non umani con le macchine in modi che non implichino un abuso o sfruttamento, bensì una qualche possibilità di collaborazione, o in termini harawaiani un divenire-con (p. 37). Questo tema viene ulteriormente approfondito nel capitolo sul cyborg. Segnalando che quando si parla di cyborg si pensa sempre all’intreccio tra umano in macchinino, in una dettagliata analisi Timeto traccia la l’asimmetria nei rapporti tra animali non umani e macchine, e sottolinea come «L’accento posto da Haraway sull’artefattualismo dei collettivi sociali e sulla loro composizione cyborg ha certamente lo scopo di liberare gli animali dallo status di oggetti (materiale passivo, strumenti, origine) cui sono stati relegati dal pensiero e dalle pratiche della tradizione occidentale, mostrando come essi non abitino ‘né la natura (come oggetto) né la cultura (come surrogato umano) ma “un posto chiamato altrove’» (p. 107).
Nel capitolo VI, intitolato “CANE”, Timeto analizza il concetto di specie compagne che Haraway avanza nel suo The Companion Species Manifesto (2003), un concetto che più che segnalare la svolta animalista nel pensiero dell’autrice americana contiene la sua critica della categoria stessa di “specie”. Questa critica si concentra sul fatto che la idea stessa di “specie” tende a semplificare a una unicità la complessità della molteplicità che essa stessa dovrebbe implicare (p. 132). Sia le specie compagne sia il cyborg mettono in evidenza, e si potrebbe dire persino celebrano, le contaminazioni e ibridazioni tra le specie. Il making kin - tradotto con “creare rapporti di parentela” - implica un divenire-con, una respons-abilità condivisa che evita qualsiasi pretesa di innocenza, «nella quale i legami di parentela non dipendono da una medesima genealogia, genetica o ematica, ma emergono piuttosto da storie condivise e dai nodi che si concretizzano nel vissuto in comune» (p. 132).
Sono anche degni di nota nel libro le scelte di traduzione più precise da parte dell’autrice, come per esempio la scelta di tradurre companion species come “specie compagne”, e non seguendo la traduzione originale del 2003 di Roberto Marchesini “compagni di specie”, come anche le precise note a piè di pagina che arricchiscono sia il Bestiario sia la comprensione del pensiero di Haraway, non sempre lineare.
In sintesi, Timeto fa emergere in maniera sottile e quasi impercettibile non solo la sua lettura dei principali concetti dell’opera di Donna Haraway, ma anche la propria posizione rispetto a essi. In effetti, forse uno dei concetti più interessanti tra quelli spiegati nel Bestiario, è la simpoiesi - concetto mutuato dalla Haraway a partire dal lavoro di una sua studentessa, Beth Dempster, che lo ha coniato negli anni 90: la concezione che i sistemi viventi non siano autosufficienti, o autopoietici, ma che il vivente, l’inorganico, la natura e la cultura coevolvano in constante intra-azione (p. 189-90). Come indica Timeto, la simpoiesi implica una respons-abilità condivisa, un divenire-con, ed è quello che in questo caso sembra emergere nel dialogo tra due pensieri.
Per chi voglia avvicinarsi agli ultimi sviluppi delle scienze sociali e della filosofia, la lettura di Bruno Latour è una tappa cruciale da molti anni ormai. Testi come Non siamo mai stati moderni (elèuthera, Milano 1995) o Politiche della Natura(Raffaello Cortina, Milano 2000) sono presenze fondamentali nelle bibliografie di chi si muove, per esempio, nelle environmental humanities o nel campo del postumano. Sarebbe però riduttivo limitare l’influenza di Latour a questi settori disciplinari, non solo per la difficoltà di assegnare i suoi scritti a una regione del sapere chiara e distinta. Attorno alle opere di Latour si sono affollati artisti, curatori, designer, architetti ed esponenti delle scienze dure. La grande fortuna di Latour mostra la dismisura della nostra fame di saperi ibridi, bastardi, capaci di attraversare più ambiti disciplinari. Gli scritti di Latour sono animati da un doppio movimento: da un lato, lo sguardo si posa fedele su alcuni grandi autori del canone filosofico occidentale come Heidegger e Schmitt, con un approccio che talvolta rasenta la filologia – o addirittura l’esegetica biblica, il primo ambito di specializzazione accademica scelto da Latour; dall’altro, le mani sono indaffarate in una pratica di pensiero tutta contemporanea, impegnate a lambiccare in un laboratorio entro il quale i concetti e i problemi più impellenti del pianeta vengono trattati come reagenti instabili.
Essere di questa terra. Guerra e pace al tempo dei conflitti ecologici (Rosenberg & Sellier, Torino 2019) costituisce un eccellente punto di ingresso in questo antro alchemico, questa zona di sperimentazione. Il calderone di Latour si versa qui in 5 articoli che illustrano lo sviluppo del suo pensiero dal 1995 al 2013: a Modernizzare o ecologizzare. Alla ricerca della settima città (1995) seguono Perché la critica ha finito il carburante. Dalle matters of fact alle matters of concern (2004), L’Antropocene e la distruzione dell’immagine del globo (2013) e infine Guerra e pace al tempo dei conflitti ecologici (2013). La brillante introduzione di Nicola Manghi mette a fuoco il criterio con cui questi materiali sono stati raccolti in un’unica antologia. Il fil rouge di queste indagini di Latour consiste nel «rapporto di forte continuità che gli studi di ecologia politica hanno con le ricerche di sociologia della scienza e "antropologia dei Moderni" precedentemente condotte» (p. 7). La ricostruzione storica proposta prende le mosse dagli studi sulla costruzione della competenza condotti da Latour ad Abidjan, la capitale della Costa d’Avorio, mostrando come essi conducano all’etnografia della vita di laboratorio che farà di Latour uno degli autori cardine dell’antropologia del pensiero scientifico. Tuttavia, nella produzione recente di Latour i riferimenti cambiano. I nuovi protagonisti sono due personaggi concettuali, Gaia e l’Antropocene, alternativi a concetti quali Natura e Modernità. Da un lato, nella concettualizzazione inventata da James Lovelock, Gaia è quel complesso mosaico di entità in costante e imprevedibile negoziato fra loro che materializzano su scala planetaria gli effetti dell’evoluzione della vita sulla Terra. Questo tempo evolutivo profondo si solidifica in un’opera di costruzione collettiva di mondi a cui hanno preso e prendono parte tutte le specie viventi; dall’altro, l’Antropocene trasforma la portata dell’agency umana depositandola in tracce geostoriche, prodotte come eccesso involontario dei sogni moderni di un perfetto controllo dell’ambiente da parte della specie umana.
Gaia e l’Antropocene danno nuovo alimento a una delle missioni principali di Latour, la riconcettualizzazione dei rapporti fra scienza e società, fra natura e politica. Secondo Latour, la Modernità pensava di poter descrivere queste dicotomie concettuali considerando i loro termini reciprocamente autonomi, purificando tutte quelle entità ibride situate sulle frontiere fra i due domini. Latour propone piuttosto di ricondurre naturale e sociale a quell’ampia zona di indistinzione metamorfica in cui essi risiedono prima di essere depurati in una serie di binomi. Entro questa riconfigurazione dei rapporti costituzionali fra gli agenti, anche le scienze assumono un volto ben diverso. Ben lungi dal disincantamento weberiano, i saperi scientifici sono piuttosto pratiche di avventurosa moltiplicazione degli attori che compongono i nostri mondi. Pensare le scienze come operazioni di riduzione o meccanizzazione degli enti è un’allucinazione che appartiene solo alle autodescrizioni dei Moderni e che descrive male la natura pratica del lavoro scientifico. Se gli si rivolge uno sguardo etnografico, le scienze diventano processi di esplorazione di mondi brulicanti di agenti, sistemi per tracciare cartografie di reti cosmologiche. Agli occhi di Latour la conoscenza scientifica è dunque un’attività di continua costruzione dei fatti, ma questa pratica inventiva non è appannaggio esclusivo degli umani. Gli agenti della costruzione dei fatti scientifici vanno ben oltre alla concettualizzazione Moderna della “società”. Gli scienziati non sono i soli soggetti attivi nelle loro ricerche. I loro laboratori non sono luoghi in cui gli enti sono oggetti passivi, messi a completa disposizione, ma spazi di incontro fra umani e cose, mediatori indocili e mai del tutto controllabili, capaci di sgusciare dalle procedure di controllo per intraprendere corsi di azione imprevedibili.
L’articolo che inaugura l’antologia – Modernizzare o ecologizzare? – è un accesso insolito a Latour, ma chiarisce molti degli approcci e dei temi trattati negli anni successivi. Una domanda fondamentale lo guida: data la difficoltà con cui i partiti ecologisti si muovono nell’arena democratica, l’ecologia può essere sciolta in altre sfere del politico? In altre parole, i problemi e i conflitti che sorgono dalla natura possono essere ridotti a questioni di carattere amministrativo o economico? Latour riformula il problema. Il quesito è mal posto perché si richiama a una concezione dell’ecologia relativa a una natura staccata dal corpo sociale, universale ma passiva. In questo senso, l’ecologia si riduce a una serie di contenuti discreti che hanno a che vedere con le difficoltà che talvolta sorgono da un mondo senza umani, che si tratterebbe di tutelare, amministrare o utilizzare come risorsa. Latour propone invece di concettualizzare l’ecologia non come contenuto, ma come processo trasversale che attraversa in modo diffuso tutto l’ambito del politico. Compiuta questa riconcettualizzazione, ecologizzare il politico non significherà quindi tinteggiare di verde gli stendardi lasciando inalterati i corsi d’azione politici, ma «creare le procedure che permettano di seguire un insieme di quasi-oggetti i cui legami di subordinazione rimangono incerti e che obbligano dunque a un’attività politica di tipo nuovo che sia adatta a monitorarli» (p. 61).
Latour propone un aggiornamento concettuale analogo anche in Perché la critica ha finito il carburante? Secondo Latour la pur fondamentale eredità dello sguardo critico rischia di aggravare un già irrespirabile clima di sfiducia generalizzata. I maestri del sospetto sono diventati maestri della paranoia, complottisti sofisticati che dietro a ogni fenomeno vedono agitarsi le ombre titaniche di una serie di antagonisti dalle iniziali in maiuscolo: il Capitalismo, la Tecnoscienza, e così via. Latour conosce bene lo scenario che dipinge perché è stato ascritto alle fila dei suoi agitatori. Entro le science wars – animate fra gli altri da Alain Sokal – la sua antropologia delle scienze era stata considerata l’ennesimo colpo di maglio inferto alla struttura pericolante della fiducia pubblica nel discorso scientifico. Agli occhi dei critici di Latour, dire che i fatti scientifici sono costruiti implica che le scienze mentano, che inventino in modo arbitrario la realtà. Latour va in tutt’altra direzione. La missione di Latour è cosmopolitica, per dirla con Isabelle Stengers. Per Latour, «il critico non è colui che smaschera, ma colui che assembla» (p. 90), che intraprende un faticoso lavoro di composizione di un mondo comune. Non si tratta dunque di demolire i saperi, ma di rallentare la velocità con cui essi costruiscono le proprie unità di senso per risalire ai reticolati e alle assemblee di agenti che li rendono possibili.
Questo lavoro di montaggio e manutenzione di mondi tuttavia comporta dei rischi. Gli ultimi tre articoli si concentrano sugli scossoni epistemologici ed esistenziali assestati da Gaia e dall’Antropocene. La diagnosi di Latour è chiara: in un’epoca di catastrofi quotidiane, di ordinaria sommossa geostorica, gli strumenti offerti dalla Modernità sono ormai ferrivecchi quasi inservibili. «Nel modernismo, le persone non sono equipaggiate con un repertorio mentale ed emozionale adeguato ad affrontare eventi di una simile scala» (pp. 97-98). Non si tratta solo di conoscere meglio: i saperi affrontano inedite sfide di carattere affettivo, entro le quali la posta in gioco è anche l’elaborazione di nuove storie capaci di fornire alla specie umana delle tecniche della presenza, degli scafandri in grado di reggere l’insostenibile pressione ambientale odierna e a venire. Latour lo afferma con James Lovelock e Peter Sloterdijk: il compito è immunologico. Dobbiamo costruire membrane in grado di proteggerci dai capricci di una Gaia irritata e vendicativa. La natura meccanomorfa e indifferente dei Moderni è impraticabile, Gaia e l’Antropocene ci costringono ad assumere una forma di pur debole animismo, a pensare i viventi nonumani e le cose come vivi e attivi: «uno dei principali enigmi della storia dell’Occidente non è tanto che ‘vi siano popoli che ancora credono nell’animismo’, quanto la credenza, piuttosto ingenua, che molti continuano tuttavia a coltivare, in un mondo disanimato fatto di mera materia – e questo proprio nel momento in cui sono essi stessi a moltiplicare le agency, con le quali si trovano ogni giorno più intrecciati. Più ci addentriamo nella geostoria, e più questa credenza sembra difficile da capire» (p. 105).
Gaia, a differenza della Natura a cui eravamo abituati, non può essere dominata perché non può essere osservata dall’esterno, nel sorvolo offerto da una posizione trascendente e disincarnata. Gaia non è una figura di unificazione, non è un ambito di sintesi, un magnete capace di attrarre a nuovo consenso tutti i popoli della terra. Gaia è il nome di un processo in atto, non di un fondamento; con Gaia ci manca la terra sotto ai piedi. Gaia non è neppure raffigurabile come una sfera, un globo, una totalità intera; la sua immagine è piuttosto l’intrico di un grande numero di anelli e di onde d’azione che agiscono e retroagiscono diffondendo i propri effetti in maniera imprevedibile. Interagire con Gaia significa quindi muoversi a tentoni, provando a intercettarla e seguirla con il maggior numero di strumenti possibili. Fra questi strumenti ci sono anche le epistemologie, le storie che i saperi raccontano.
Di quali storie e immagini ha bisogno questo spaesamento generalizzato? Per Latour occorrono narrazioni ed esperienze che consentano di sviluppare «una fusione lenta e progressiva di virtù cognitive, emozionali ed estetiche, ottenuta grazie a mezzi tramite cui gli anelli si fanno sempre più visibili – strumenti e forme d’arte di ogni sorta. A ogni anello, diventiamo più sensibili e più reattivi ai fragili involucri che abitiamo» (p. 143). Questo addestramento a nuove arti dell’immaginazione e dell’attenzione è forse uno dei compiti più preziosi di chi voglia impegnarsi, oggi, a rovistare fra le rovine dei discorsi e delle pratiche che abbiamo ereditato, per sperimentare nuovi bricolage e per provare a inventare tesori costruiti con rottami.
Il libro di Manlio Iofrida, Per un paradigma del corpo: una rifondazione filosofica dell’ecologia, uscito per Quodlibet alla fine del 2019, si presenta come uno snodo ricco e importante per un approccio teoretico, etico e critico all’attuale questione ecologica. In questo senso, il libro s’inserisce nel cuore stesso del dibattito – non solo italiano – incrociando tematiche come il corpo, il concetto di Natura, lo statuto filosofico del vivente e della sua relazione con la tecnica (a questi temi si aggiungano la critica della cultura, la storia dell’arte, il dialogo tra filosofia e altri campi del sapere, i rapporti tra la cultura Europea e i suoi grandi altri ecc.).
Il libro assume quella che potremmo definire un’ottica cosmopolitica e si presenta come il crocevia d’intuizioni, idee e riflessioni che animano il gruppo di ricerca Officine Filosofiche(il gruppo gestisce anche un’omonima collana editoriale), fondato e diretto dallo stesso Iofrida assieme a Ubaldo Fadini. Molti argomenti sviluppati nel libro intrecciano le principali linee di lavoro del gruppo, contribuendo così a fare dell’ecologia filosofica uno dei campi di ricerca più innovativi e stimolanti dell’attuale panorama filosofico italiano.
Si può dunque comprendere, sin da queste prime considerazioni, che riportare in maniera analitica o anche solo accidentale tutti gli impliciti teorici – nonché la profonda erudizione dell’autore che conferisce all’ecologia un ampio spessore culturale – è compito improbo per una recensione e, probabilmente, anche inutile. Quel che ci proponiamo di fare in questa sede è di attraversare il testo in maniera “libera” tentando di esplicitare alcuni aspetti che sembrano restituire, nella parzialità della nostra lettura, alcune delle intenzioni di base dell’autore.
Non si può non partire dalla centralità teorica del tema del corpo che, non nuova nel lavoro di Iofrida, si richiama esplicitamente all’opera complessiva di Merleau-Ponty e all’attualità del suo concetto di Natura (pp. 19-31) «come limite che la cultura non può sorpassare» (p. 30). Sotto tale aspetto, questo studio si riallaccia (pp. 9-16), pur con oltre dieci anni di distanza, al precedente lavoro dell’autore Per una storia della filosofia francese contemporanea: da Jacques Derrida a Maurice Merleau-Ponty. Dire che questo sia un libro “merleau-pontyano” è senza dubbio corretto e tuttavia rischierebbe di schiacciarne la profondità su un “arroccamento” teorico, una semplice riproposizione ermeneutica. Devono essere menzionati, infatti, almeno altri due autori classici presenti come linee di basso nell’architettura del testo: Schelling ritorna diffusamente nel testo, utilizzato in chiave anti fichtiana-attualista (pp. 38, 141) o hegeliano-sintetico (anche se Hegel resta comunque un autore importante nell’impostazione ecologica iofridiana, pp. 138-140); ma è soprattutto il Kant della Critica della facoltà di giudizio a fornire un’impalcatura teorica di primo piano (vanno, poi, almeno ricordati i nomi di Goethe, Schiller e Adorno, per completare la batteria tedesca di riferimento, cfr. pp. 47-52). Ci sia concesso dunque di entrare nel vivo del libro approcciandolo alla lontana, così da poter restituire, se non altro, il profumo della complessa architettonica di Iofrida.
In siffatta architettonica, l’ecologia non si presenta tanto, né solo, come una disciplina scientifica (pp. 45-47) ma, potremmo dire, si tratta di una questione di gusto, di istituire un paradigma del gustoecologico. Come si può intuire, molto lessico di Iofrida è intriso di una semantica post-kantiana. Il gusto, permettendoci l’ardire di parafrasare Kant, è quella strana facoltà di giudicare secondo sentimento (leggendo in questa chiave il giudizio riflettente).
Sappiamo anche che il sentimento è un vero e proprio mondo intermedio che si situa tra la facoltà di conoscere e quella di desiderare, ossia tra l’intelletto e la ragione, tra la “necessità naturale” e la “libertà umana” (che Iofrida definisce prometeica, cfr. pp. 59-61). Dire, dunque, che l’ecologia è questione di gusto significa affermare che essa si situa nel mezzo di un’ardita relazione tra la Natura e la Cultura – dualismo principale di molte riflessioni ecologiche. Ma, altresì, ci dà delle informazioni sugli aspetti “filosofici” dell’ecologia: il gusto, sappiamo dal §40 sul senso comune della Terza Critica, va educato. L’ecologia, secondo Iofrida, non consiste né nella descrizione di uno stato di cose oggettive (ci sia concessa la banalizzazione: filosoficamente, l’ecologia non può essere ridotta a una disciplina naturalistica) né, occorre fare attenzione, nella prescrizione di massime della ragione (che si limiterebbe a un greenwashing della Ragion Pura Pratica): l’ecologia è filosoficamente fondata nella misura in cui è capace di una vera e propria educazione sentimentale. Così, l’ecologia filosofica non è né scientifica (occorre «declinare l’ecologia come critica anti-intellettualista», p. 54) né morale («non si pone come sussunzione dominante», p. 119), ma è intimamente etica (l’ecologia, ci ricorda l’autore, è un pensiero della finitezza, pp. 52-56). È a partire da una esigenza etica (e, con Merleau-Ponty, connesso a un certo spinozismo schellinghiano, da un’esigenza anche ontologica) che va letta la proposta di un paradigma del corpo. Non si tratta, così, di fondare un principio di rappresentazione, o massime pratiche, ma di sviluppare delle ipotesi etiche, per dir così, da un punto di vista pragmatico.
Maurice Merleau-Ponty
Fatta questa premessa, possiamo addentrarci in alcuni aspetti concettuali. Uno dei concetti chiave per leggere la proposta iofridiana è quello di inerenza (pp. 29-31). Di matrice fenomenologica, l’inerenza è un fenomeno corporeo e rimanda a una «ontologia relazionale» (p. 41) che si pone in antitesi tanto con le ontologie costruttiviste del pensiero debole (p. 43) quanto con le ontologie realiste di certi modi di intendere il materialismo (pp. 60-61). L’inerenza è il concetto cardine di un’ecologia che si propone di lavorare in chiave ontologica sulla «nostra relazione coi milieux» (p. 41) – i riferimenti sono alla «geografia […] fenomenologica» (p. 39) di A. Berque: la relazione degli “individui” con gli ambienti (o paesaggi) «non è quella della sostanza pensante con la sostanza estesa; […] piuttosto c’è uno sconfinamento, un’interpenetrazione» (p. 41). L’inerenza ci offre una cifra filosofica importante: essa è la relazione chiasmatica – è evidente nel lessico iofridiano l’influenza di Merleau-Ponty – del vivente con i suoi dintorni, le sue Umwelten, il co-appartenersi di individuo e ambiente. Intreccio, potremmo dire, della parte con il tutto.
In quanto etica ontologicamente orientata, l’ecologia si interessa non alle partizioni sostanziali – che comportano, sul piano etico, la costruzione di un’impalcatura morale – bensì agli assunti relazionali (ci sia concessa un’assonanza col lavoro di Giuseppe Semerari 2009) che solo centrando l’analisi filosofica sulle potenze corporee possono essere messi in risalto. Questa inerenza, che è una mediazione senza soggetto – e che anzi produce soggettività – non è pensabile come Aufhebung, bensì come un’unità senza concetto (p. 115) attuata per il tramite del corpo «e la sua apprensione orizzontale del mondo» (p. 25). L’esigenza di un paradigma del corpo è dunque insito nella tematica stessa della relazione ecologica, così che, per Iofrida, ogni ecologia, sul piano etico, non può non passare – anche implicitamente, come traspare mediante la critica alla smaterializzazione postmoderna (pp. 67-68) – per il tramite di un paradigma del corpo.
Il problema del corpo è però l’altra faccia di un ulteriore assunto di Iofrida, ovvero l’idea complementare che la Natura non sia un oggetto (p. 45) e che il vivente non sia meccanizzabile (p. 30). Il rischio di interpretare in chiave puramente valoriale, facendo di tali assunti delle massime della Ragione, è grosso. Occorre dunque tentare di essere chiari, ancora una volta, sul lessico dell’autore. Siamo pur sempre, lo si è detto, sul piano del giudizio riflettente. I riferimenti sono ancora all’opera di Merleau-Ponty e, tramite lui, Schelling e Kant. In ultima istanza, l’orizzonte concettuale ci appare ancora di matrice kantiana. L’idea che il vivente non sia meccanizzabile vuol dire che lo specifico fenomeno di inerenza dell’umano agli altri viventi (che compongono i suoi dintorni) non è un rapporto conoscitivo, o intellettuale, né tuttavia un rapporto pratico. Non è conoscitivo perché, in quanto soggetti empirici, non tutti gli umani sono “scienziati”, e questo non pone particolari problemi. Ma non è neppure un rapporto pratico, perché non è possibile estrapolare una massima categorica da questa idea: non tutti i viventi possono agire conformemente a scopi (tralasciamo i motivi di tale impossibilità). L’idea che il vivente non sia meccanizzabile non è un enunciato che riguardi il regno della libertà. Concessa la formula, quella tra viventi non è una relazione tra esseri (radicalmente) liberi, situandosi, invece, nel regno intermedio tra la necessità dell’oggetto naturale e la libertà radicale del soggetto trascendentale (Merleau-Ponty 1996, 312-313).
Il problema del vivente – che possiamo anche chiamare, se ci è concesso, il problema della finalità senza scopo – è un problema sentimentale e affettivo. È ancora un paradigma del corpo che permette di comprenderlo: un corpo è il medium non solo, e non tanto, della natura e della libertà, bensì della inerenza al mondo e agli altri viventi. È mediante il corpo – un’utilità non strumentale – che si è costitutivamente aperti ad altre modalità dell’esistere e del vivere. Una mediazione senza soggetto che si fa nel mezzo delle relazioni inter-individuali: l’inerenza come vero e proprio fenomeno trans-individuale, contatti molteplici e variegati tra corporeità (cfr. Merleau-Ponty 1996, 254-261). Appare, in queste considerazioni, un altro dei concetti cardine della proposta di Iofrida, concetto che crea un ponte col suo lavoro precedente: si tratta della nozione di libertà strutturale. Una concezione strutturale – o ecologica – della libertà comporta che essa non sia la radicale assenza di limiti, bensì che trovi la propria potenza esistenziale ed espressiva nella composizione delle relazioni, nella ricchezza e varietà degli affetti e degli incontri corporei.
Pino Pascali, Balena, 1965-66
È una libertà che non è competenza di una filosofia della prassi, ma di un’etica, come accennato, dal punto di vista pragmatico. Un’ecologia della libertà richiede pratica e attenzione [Aufmerksamkeit] (p. 146), un’educazione sentimentale finalizzata a un uso ragionevole degli affetti. Insomma, la libertà, in una prospettiva ecologicamente orientata, presuppone una capacità tecnica. È in quest’ottica che leggiamo, infatti, la proposta di Iofrida di una tecnica ecologica (pp. 84-90). Si tratta di una formula ambigua, ma le ambiguità spariscono se non usciamo dalla semantica nella quale ci stiamo muovendo. Un tale epiteto, infatti, è lontano da un greenwashing delle attuali configurazioni tecnico-tecnologiche del tardo capitalismo: insomma, non si prospetta la necessità di una Green Economy. Si tratta, invece, di una concezione ecologica della tecnica che tenga conto del portato affettivo – cioè esistenziale e vitale – della tecnica.
In questo senso, una tecnica ecologica è di segno contrario rispetto alle attuali configurazioni produttive (si tratta di uscire dal dualismo manicheo «produzione o libertà», p. 60; andare al di là dell’alleanza demoniaca di capitalismo e schizofrenia, cfr. Pignarre & Stengers 2016) configurandosi invece come rivolta alla convivialità – tra umani e tra umani e non umani – incastonata nella complessità variegata degli ambienti di vita (fondamentale in quest’ottica il capitolo dedicato alla teoria dei sistemi, pp. 121-140). È ancora una semantica del giudizio: la tecnica rimanda all’arte, cioè una tecnica ecologica diventa una vera e propria arte dello stare in vita da parte dei viventi – ecologicamente, vi è tecnica ovunque vi sia fragilità e ostinazione della vita: occorre «concepire l’arte come un nuovo modo di rapportarsi al mondo […] poiché, già in se stessa, tale prassi priva di finalità è un’altra e superiore modalità di azione del nostro corpo vivente rispetto a quella meramente utilitaria, essa può essere punto di partenza di una prassi concreta […] e punto di arrivo di una costruzione dal basso, partecipata, intersoggettiva» (p. 152).
Senza dubbio si tratta di una concezione ottimistica della tecnica: nessuna caduta da un eden ormai perduto, né solo nichilistica distruzione della vita da accettare passivamente come un destino. Si tratta, invece, di un’arte pericolosa, quella dello stare in vita, proprio perché la vita – un vivente – è insieme ostinazione e fragilità: l’educazione sentimentale serve a saper «reggere delle crisi, saper gestire il rischio […], anche se rischio significa appunto che la crisi non è mai del tutto esclusa e che il disordine può avere sempre il sopravvento» (p. 123). È una concezione ecologica e ottimistica della tecnica, sì, ma non è il frutto di una anima bella (ecco comparire una certa ispirazione hegeliana). Rifacendosi al lavoro di Kurt Goldstein (2016), neurologo tedesco del secolo scorso, tra le fonti di Merleau-Ponty, Iofrida ci ricorda che «un organismo vivente, e l’uomo in particolare, è teso ad accrescere continuamente la propria complessità […]; esso cerca dunque la relazione e anche il conflitto, in un mondo in cui l’ordine è sempre un momento precario all’interno di una lotta di forze eterogenee che genera un perenne dinamismo» (p. 127).
Educazione sentimentale, teoria degli affetti e concezione tecnica del vivente: i tre capisaldi che istituiscono la fondazione filosofica dell’ecologia proposta attraverso un paradigma del corpo. Tale paradigma fa sì che un’ecologia filosofica si trovi a proprio agio non nel contemplare un’astratta e fondativa Natura Naturante, un’origine ormai perduta o distrutta dalla cattiveria dell’Uomo, bensì nel concepire modi possibili del vivere in comune, forme collettive di esistenza con i più ampi margini di gioco transindividuali, vincoli che non obbligano capaci di aumentare le potenze esistenziali e le capacità creative dei viventi umani e non (è questo il principale rimando al concetto di natura di Merleau-Ponty). Si tratta di una concezione minoritaria della storia, del divenire minoritario dell’umano, dei suoi affetti, delle sue ibridazioni, delle sue contaminazioni (cfr. Deleuze & Guattari 2015, 349-357). Una storia minore che non ha la Natura come Grande Altro, bensì che è caratterizzata dalla sua inerenza all’elemento naturale, alla sua imprevedibilità, alle sue complessità ontologiche (ma anche epistemologiche, dato che, ecologicamente, l’ontologia è inscindibile da un’epistemologia): si tratta di una storia universale della contingenza (Deleuze & Guattari 2002, 86).
L’ecologia filosofica proposta da un paradigma del corpo è così una filosofia artistica, un’arte, pericolosa e sublime a un tempo, del vivere insieme, del condividere la Terra con altri viventi (l’Autore parla di «un materialismo della Terra», p. 44). Un’arte, per chiudere restituendo il ruolo di Michel Foucault nel nuovo paradigma ecologico (pp. 205-211), che sia una «estetizzazione della vita come progetto condiviso di una comunità di eguali che dialogano e, esercitando la socievolezza, istituiscono con il mondo e gli altri una relazione che non è quella della ragione strumentale, brutalmente utilitaria, ma che può a tutti gli effetti definirsi ecologica: non è il bello quella dimensione sempre mobile di limite in cui ci apriamo al mondo e agli altri non in funzione di un dominio, ma per essere passivi quanto attivi, copresenti in una relazione con l’alterità che può definirsi col termine, anch’esso fenomenologico, di attenzione?» (p. 211).
Bibliografia minima
Deleuze, G. & Guattari, F. (2002; ed or. 1991). Che cos’è la filosofia?. Torino: Einaudi.
Deleuze, G. & Guattari, F. (2015; ed. or. 1980). Mille piani. Capitalismo e schizofrenia 2. Tr. it. G. Passerone. Roma: Castelvecchi.
Goldstein, K. (2016; ed. or. 1934). L’organismo. Un approccio olistico alla biologia derivato dai dati patologici nell’uomo. Tr. it. L. Corsi. Roma: Fioriti.
Merleau-Ponty, M. (1996; ed. or. 1995). La natura. A cura di M. Carbone. Milano: Cortina.
Pignarre, P. & Stengers, I. (2016; ed. or. 2005). Stregoneria capitalista. Pratiche di uscita dal sortilegio. Tr. it. di S. Consigliere e A. Solerio. Milano: IPOC.
Semerari, G. (2009; ed. or. 1961). La filosofia come relazione. Milano: Guerini.
Un antico canto degli Indiani d’America recita: “I vecchi dicono che solo la terra dura. Diceste la verità. Avete ragione”. In effetti, mentre gli Indiani se ne stanno nelle loro Riserve, la terra del continente nordamaricano – che fu la loro – se ne sta ancora lì, con i suoi canyons, le sue praterie e le sue foreste. E questo vale per l’intero pianeta: un po’ malconcio, sommerso di rifiuti, esso se ne sta ancora lì. Anzi: come ci suggerisce Leopardi nel Frammento apocrifo di Stratone di Lampsaco, magari questo mondo passerà, ma poi ne verranno altri: «venuti meno i pianeti, la terra, il sole e le stelle, ma non la materia loro, si formeranno di questa nuove creature, distinte in nuovi generi e nuove specie, e nasceranno per le forze eterne della materia nuovi ordini delle cose ed un nuovo mondo». E magari ben prima dell’apocatastasi che porterà alla sparizione di questo mondo per dar poi vita a un altro noi saremo ben che scomparsi per via di un nuovo virus, più potente e micidiale del coronavirus che tanta paura di morire sta inducendo a molti nostri conspecifici. Dobbiamo mettere per questo da parte ogni preoccupazione per la salute del pianeta e assumere un atteggiamento distaccato e disincantato, tale per cui ci diciamo che in fondo il mondo – e gli infiniti cicli cosmici – non ha bisogno di noi, che noi siamo solo abitatori provvisori del pianeta, e che dunque possiamo tranquillamente starcene qui a guardarci l’ombelico meditando sulla caducità nostra e di tutte le cose? Un simile atteggiamento – per altro rispettabile e sensato – dimentica però una cosa, ovvero che festeggiare la terra non significa contemplare gli enti non umani che ci circondano per ricavarne un qualche piacere estetico nel caso siano belli e armoniosi, né significa meditare sulla nostra caducità, il pensiero della quale affiora immediato proprio dalla visione malinconica della bellezza di campi fioriti e uccellini svolazzanti (come ci viene ricordato da Freud in un suo breve ma intenso saggio intitolato appunto Caducità). Festeggiare la terra significa ricordare che essa è la nostra nicchia ecologica, e che dunque siamo toccati direttamente dal suo stato di salute (se mi passate questa metafora impropria: è ovvio in realtà che la salute del pianeta non cambia poi di molto se si verifica un riscaldamento globale di qualche grado).
Ambrogio Lorenzetti, Allegoria del buon governo, Palazzo pubblico di Siena 1338-1339
Il romanticismo, insomma, aiuta poco se è in ballo una associazione di qualche tipo tra la terra e noi che la abitiamo. Posto che questa duri anche senza di noi, è di noi in quanto suoi abitatori che dovremmo insomma preoccuparci. E questo proprio in vista di una possibile e auspicabile diffusione di una maggiore coscienza ecologica. Perché mai gli umani dovrebbero oggi preoccuparsi di quanto sarà duro abitare domani un pianeta con un clima peggiore di quello attuale, con meno acqua, magari devastato da guerre causate dal riscaldamento globale? Aspettarsi dagli umani – sia individualmente che collettivamente – una qualche capacità di far fronte a rischi futuri è profondamente erroneo. La pandemia in corso – tanto per fare un esempio – era stata ampiamente prevista, ma tutti sapevano che essa avrebbe colto tutti i paesi del mondo impreparati.
Parrebbe allora meglio far leva su un argomento molto semplice e banale, che comunque aiuta a non troppo indirettamente a dare corpo a una coscienza ecologica più matura. È nel nostro interesse che il pianeta se la passi bene: se vogliamo continuare a godere dei beni di cui godiamo, almeno per un tempo che è in fondo quello di una generazione (un tempo quindi afferrabile intuitivamente), continuare a sfruttare le risorse del pianeta come se fossero inesauribili potrebbe rivelarsi una scelta assai poco razionale.
L’argomento, sulle prime attraente, fa però acqua da tutte le parti. Presuppone sia che gli umani si comportino in modo razionale, sia che sappiano qual è il proprio bene. Così non è quasi mai – o, più chiaramente, quasi mai le due cose coincidono. Di conseguenza, alla festa della terra si dovrebbe arrivare non muniti delle migliori intenzioni (che sappiamo dove portano) ma con un dono che piove dal cielo, una sorta di deus ex machina: la Giustizia. Essa sola fa del bene sia alla città che alla campagna, per così dire, ovvero sia al bisogno di produrre e consumare, sia al bisogno di godere di quei beni comuni che non possono appartenere a nessuno e che hanno lo scopo di permettere agli umani di stare bene sulla terra – come si vede nell’affresco di Ambrogio Lorenzetti nella Sala dei Nove del Palazzo Pubblico di Siena raffigurante l’Allegoria del buon governo, un’opera che per certi versi potremmo definire “ecologica” ante litteram. Senza un governo dei collettivi che sappia coniugare la libertà di intraprendere e di fare profitti con la giustizia, senza insomma un nuovo modello di sviluppo – sarà ormai banale dirlo, lo si ripete da decenni, ma il punto è sempre questo – una qualche forma di convivenza “ecologica” nella nicchia che abitiamo resterà sempre un pio desiderio. Oppure, come ci suggerisce Luhmann, un argomento di cui parlare all’infinito, o almeno a ogni 22 aprile, in attesa che la catastrofe ecologica faccia il suo corso.
Donna Haraway continua a popolare di mostri il mercato editoriale italiano. Dopo la nuova edizione Feltrinelli del Manifesto Cyborg e la recente traduzione di Cthulucene per NERO Editions, DeriveApprodi ha tradotto e pubblicato Le promesse dei mostri. Il testo originale del 1992, apparso sulla rivista Cultural Studies, è accompagnato da un’introduzione di Angela Balzano, la curatrice e traduttrice del volume, e da una postfazione di Antonia Anna Ferrante. In che modo un testo del 1992 può continuare a interpellare il nostro presente? Anzitutto, il testo contribuisce a una generale riconfigurazione nel campo delle scienze umane e sociali: entrano con lentezza nel dibattito alcuni snodi concettuali cruciali nel nascente ambito disciplinare delle environmental humanities; basti pensare a Essere di questa terra, una recente curatela di articoli di Bruno Latour, le cui tesi sono ampiamente discusse in Le promesse dei mostri. Spostandoci dall’editoria italiana al dibattito internazionale, è evidente che l’elaborazione di nuovi paradigmi ecologici stia dando un impulso rilevante alle ricerche sul concetto di natura nelle scienze umane e sociali, che si dimostrano capaci di siglare alleanze transdisciplinari feconde con le scienze dure. Questo rinnovato interesse per la natura reagisce insieme a dei mutamenti epistemologici - ecocriticismo, studi su scienza e tecnologia, epistemologia femminista, nuovo materialismo, etnografia multispecie, studi biopolitici su razza e genere - e a tempi di catastrofi quotidiane, che colpiscono comunità e territori a velocità variabili. È in questo paesaggio teoretico che va collocato questo testo della Haraway.
Le promesse dei mostri abbozza una mappa geografica e mentale di conflitti locali e globali relativi alla natura, cercando di «rendere più ibridi i Science and Technologies Studies, contaminandoli con i Cultural, i Gender e i Postcolonial Studies» (p. 24). Questo tentativo di contaminazione si nutre della convinzione che sia necessario scandagliare i contesti culturali e sociali di sviluppo delle scienze, e le relazioni di potere alle quali saperi e pratiche scientifiche hanno partecipato: in altre parole, si tratta di porre in evidenza la politicità di qualsiasi epistemologia. Cultura, genere, razza e colonialità offrono quindi la possibilità di interrogare le scienze come prodotti sociali che emergono dalla storia della modernità, con il suo portato criminale e traumatico, ma anche con le sue possibilità di ricomposizione. Questa cartografia viene suddivisa in quattro quadranti che insieme compongono un “Quadrato Cyborg”, ispirato al quadrato semiotico di Greimas: A. Spazio Reale: Terra; B: L’Altro Spazio o l’Extraterrestre; Non-B: Lo spazio interno: il corpo biomedico; e infine Non-A: Lo Spazio Virtuale: Fantascienza.
Questo schema può fornire ancora oggi alcuni riferimenti chiave nel modo in cui le scienze umane e sociali possono parlare di natura secondo almeno tre prospettive: una ontologica, una epistemologica e una politica. Tuttavia, questi tre sguardi non possono essere separati: la Haraway li snoda e annoda costantemente esplorandone le geometrie di rapporto, proprio come nel gioco del ripiglino, una delle figure-guida Cthulucene. Il nome con cui la Haraway chiama il proprio approccio, cioè l’artefattualismo dinamico, ci fornisce alcune note essenziali rispetto a questo groviglio di traiettorie. Secondo l’artefattualismo dinamico, sia le posizioni realiste sia le tesi postmoderne sul mondo naturale dicono qualcosa di vero ma parziale: la natura non sarebbe solo un insieme di dati bruti e di oggetti che risiedono “fuori da noi”, ma neppure un mero avvicendarsi di labirinti di segni senza via d’uscita verso la realtà, di trompe l’oeil semiotici nei quali gli enti sono simbolicamente sublimati senza rimedio. La Haraway è certamente disposta a sostenere sia che gli agenti naturali resistano e non si riducano alle sole pratiche di rappresentazione umane, sia che la natura sia costruita. Occorre però domandarsi chi costruisca la natura, quell’oggetto concettuale impossibile, femminile, coloniale, passivo che tuttavia, secondo la Haraway, non possiamo non desiderare. È nella nozione di sympoiesi che gli sguardi si possono annodare: se il limite del realismo moderno – nel senso in cui Bruno Latour intende la modernità – è di scommettere eccessivamente sulla capacità scopica di un osservatore disincarnato, di un occhio assoluto capace di elevarsi al di sopra del mondo, e se il postmoderno radicalizza questo atteggiamento scomponendo l’oggetto scientifico in una infinita mise en abyme di rimandi sui quali lo sguardo non può mai soggiornare stabilmente, allora l’artefattualismo dinamico tempera entrambe le posizioni, sostenendo che la natura è co-costruita: gli enti naturali e gli oggetti scientifici sono fatti e costruiti discorsivamente da un groviglio di attori umani e non-umani, che collaborano alla costruzione della natura come luogo comune. In altre parole, attrici e attori non si esauriscono in "noi" (p. 46).
Una simile prospettiva sulla natura richiede dunque un nuovo modo di concepire le scienze. In La nuova alleanza, Ilya Prigogine e Isabelle Stengers sostenevano che la scienza fosse un dialogo sperimentale fra l’uomo e la natura, e non – come Koyrè – il monologo che gli umani recitano usando la natura come palcoscenico. Per la Haraway entrambe le metafore sono insufficienti. Oltre il monologo e il dialogo, Le promesse dei mostri propone una scienza materialmente compromessa con il mondo che studia, appassionata partecipante a un chiassoso consesso di agenti umani e non-umani. Ogni scienziato ha dunque a che fare con dei collettivi ibridi, che solo una complessa operazione di purificazione consente di stabilizzare come modelli e dati. Queste considerazioni sono debitrici della lezione di Bruno Latour: citandolo in La vita delle piante Emanuele Coccia ci rammenta che le macchine usate da scienziate e scienziati sono “protesi cosmiche” della sua stessa sensibilità. Esse intensificano e amplificano la capacità di percepire consentendo la costruzione di nuovi modi di relazione con gli attori che popolano il mondo. Natura e Società sono dunque risultati storici del movimento degli attanti, schiume prodotte da onde di azione. Tuttavia, nella tesi di Latour, le coppie oppositive – natura-cultura, soggetto-oggetto, ambiente-tecnica – e i binarismi non scompaiono, ma sono presi in un pozzo gravitazionale che ne fa evaporare i tratti trascendentali. Non ci sono punti di osservazione assicurati una volta per tutte, ma attanti imprevisti e favolosi, nuove storie e relazioni effettuali che fanno e disfano mondi – dato che, come ci ricorda Katie King, le epistemologie sono storie che i saperi raccontano.
Sulle specifiche delle relazioni che gli scienziati intessono con i non-umani vanno però fatte delle importanti precisazioni, che pongono in attrito le tesi della Haraway e di Latour. Se Latour reputa che gli attanti che costellano le sue reti siano anzitutto frutto di un’operazione semiotica, e che dunque agiscano in quanto sono rappresentati, la Haraway invece sostiene che la natura non sia solo un network simbolico, per almeno due ragioni: in primo luogo, gli agenti non-umani non lo sono solo in senso semiotico ma anche in senso pienamente materiale e dinamico; in secondo luogo, Latour sembra voler parlamentarizzare e testualizzare quella che in fondo è un’assemblea disordinata senza principi di ordine netti e dati una volta per tutte: l’azione dei non-umani è invece “negativa”, imprevedibile, ferina, selvatica. Pone in questione obiettività, controllo, disposizioni, ordini e gerarchie. Queste critiche potrebbero essere compresse in un mutamento di lessico: se Latour insiste sulla rappresentazione, la Haraway preme sull’articolazione. Secondo la Haraway «la rappresentazione si fonda sul possesso di una risorsa passiva, l’oggetto silenzioso, l’attante ridotto all’osso» (p. 91): guardare le scienze considerando solo la prospettiva rappresentativa significa esporsi al rischio di confondere nomi e cose, di ripetere l’antropocentrismo adamitico della nominazione originaria, per cui l’ambiente acquisterebbe senso solo al tocco dell’uomo. Inoltre, per lo sguardo che rappresenta la distanza dall’oggetto rappresentato è una virtù: l’altro non è mai ingaggiato nella sua presenza viva, ma è tutelato infinitamente, testualizzato, trattato come un «docile elettore» (p. 91) di cui sono sufficienti le tracce registrate da chi lo guarda. Le relazioni in questo caso sono asettiche, si danno solo sotto la vigenza di una separazione sterile. L’articolazione invece scommette sulla capacità generativa ed energetica degli attori, sui loro movimenti: gli agenti sono tali in quanto scaturigini di azioni, senso e perché formano collettivi. Inoltre, una volta posta la natura semiotica degli attori fra altre caratteristiche, viene a cadere anche la messa in sicurezza della rappresentazione. Ogni articolazione è quindi al contrario sempre precaria, fallibile, e pertanto richiede attaccamenti forti, cura, manutenzione e coinvolgimenti appassionati. In conclusione, una scienza mostruosa non può porsi come osservatrice trascendentale disincarnata al di sopra della mischia, ma come fonte di responsabilità concreta nei confronti del mondo con il quale scienziate e scienziati hanno a che fare.
Lynn M. Randolph e Donna J. Haraway Cyborg
Non c’è quindi più spazio né per la modernità né per la post-modernità: i cyborg e i mostri della Haraway sono figure amoderne, che stanno nel mondo in senso critico ma senza oltrepassarlo verso un esterno che le metta al riparo: di qui, il grande interesse della Haraway per alcune lotte chiamate in causa in Le promesse dei mostri. Nel testo si può richiamare in particolare l’esempio dei Kayapo (p. 94), un gruppo indigeno brasiliano. Messi in pericolo da deforestazione e attività minerarie, i Kayapo fecero un uso massiccio dei mass-media per salvaguardare le proprie terre e per guadagnare potere politico, richiamando l’attenzione della comunità internazionale. L’immagine di Paulinho Paiakan di fronte alle telecamere potrebbe far leggere in senso paradossale la scena, come un cozzo fra un registro estetico “primitivo” – i vestiti tradizionali Kayapo, il richiamo alla tutela di un modo di vivere “autentico” legato indissolubilmente alla foresta pluviale – oppure, secondo la proposta della Haraway, come l’effetto di una nuova articolazione: il collettivo in cui i Kayapo si sono mossi ha avuto l’effetto di una nuova produzione di mondo, fatta di indigeni, scienziati, videocamere, foreste, animali, pubblici vicini e lontani. Si potrebbe leggere questo esempio insieme ad altri testi recenti che approfondiscono le cosmopolitiche amazzoniche, come La caduta del cielo di Davi Kopenawa e Bruce Albert; Esiste un mondo a venire? di Eduardo Viveiros de Castro e Deborah Danowski; o Earth Beings di Marisol de la Cadena.
Sembra ovvio che un testo che si muove di figura in figura si concluda con un’immagine: Cyborg, il dipinto realizzato da Lynn Randolph in collaborazione con la Haraway. Una donna indigena è circondata da un paesaggio cosmico, accompagnata da uno spirito animale, con le dita poggiate alla tastiera di un computer. Questa figura chiude il libro materializzando l’implosione dei registri tecnici, testuali, organici, mitici e politici «nel pozzo gravitazionale della scienza in azione» (p. 57) di cui la Haraway non cessa di parlare. Cyborg e mostri dunque promettono alle scienze umane e sociali nuovo alimento, richiedendo però in cambio lo sviluppo di nuove arti dell’attenzione, laddove la cura per gli oggetti di studio diventa un atto politico verso i collettivi in cui si è coinvolti. I mostri della Haraway ci esortano: ibridate i saperi, riannodate il nesso fra scienza e società, tenete i binarismi sotto costante minaccia. In uno slogan, “cyborgs for earthly survival!”.
Nota di lettura di P. Amoroso, Pensiero terrestre e spazio di gioco, Mimesis, 2019.
Il libro di Prisca Amoroso, Pensiero terrestre e spazio di gioco. L’orizzonte ecologico dell’esperienza a partire da Merleau-Ponty, edito per Mimesis, è un testo che si presta ad almeno due piani di lettura possibili. Per un lato, si tratta di una monografia attenta ad alcuni sviluppi del pensiero di M. Merleau-Ponty che, ad oggi, restano per lo più ai margini dalla critica esegetica (sia detto a titolo indicativo: la centralità dei corsi dedicati all’apprendimento nel bambino, gli influssi di alcuni inediti husserliani, i rapporti laterali con la psicoanalisi di Winnicott, etc.). D’altro lato, ci troviamo di fronte al tentativo di dare consistenza ad un percorso di pensiero originale. Si tratta quindi, tanto di un libro su, quanto di un cammino con Merleau-Ponty. Vorremmo partire da questo particolare intreccio di esegesi critica e costruzione concettuale per restituire alcuni aspetti che ci sembrano maggiormente rilevanti nel tentativo di inserire questo lavoro in contatto con alcuni dibattiti attuali, come quelli dell’ecologia filosofica e del problema della vita (Cfr. Iofrida 2012; Barbaras 2008). A tal fine, vorremmo prendere l’avvio dal capitolo intitolato Vincoli e improvvisazione (pp. 131 - 135), che si situa nel cuore dell’argomentazione dell’autrice. Questi concetti ci offrono uno spaccato interessante del lavoro svolto nel libro e restituiscono alcune cifre della posta in gioco del tentativo di Amoroso. Il particolare interesse di questo capitolo è dato da una sorta di case study, se è lecito esprimersi in questi termini, riportato dall’autrice e citato dal Merleau-Ponty (2010: 46) de La struttura del comportamento: si tratta degli studi del neurologo tedesco Kurt Goldstein(2010, 198 - 199) sullo scarabeo stercoraro. L’interesse per questo case study deriva dal fatto che tanto Goldstein, quanto Merleau-Ponty - e, con loro, Amoroso - considerano questo animaletto come un esempio di adattamento che potremmo definire contingente. Andiamo con ordine.
L’obiettivo - del capitolo come delle sue fonti - è quello di criticare le concezioni meccanicistiche del vivente, dell’animale e del corpo. Secondo Amoroso, in linea con lo spirito merleau-pontyano, in tali modi di pensare al vivente «non c’è spazio per l’improvvisazione» (p. 131). A partire da questa constatazione, Amoroso sottolinea che l’animale non è assimilabile ad una macchina meccanica in quanto, a differenza di quest’ultima, «non possiede un dispositivo prestabilito» (p. 131) di gestualità e azioni, cioè di forme a priori di comportamento. L’animale non è un oggetto (ma potremmo dire, altresì, che non è un noema), piuttosto è espressione di una variegata capacità d’azione in riferimento ad una serie di contesti. «In altri termini, la vita è caratterizzata da una certa forma di ambiguità, di apertura di fronte allo stimolo, dunque di capacità di improvvisare di fronte al domandare, continuamente rinnovato, del reale» (p. 131).
Vediamo emergere, in questi passaggi, una relazione ambientale che restituisce, almeno in parte, la cifra ecologica di queste analisi. Ma emerge altresì una presa di posizione specifica in merito alla questione del vivente. La vita, ma come vedremo è più consono dire l’atto del vivere, è qualcosa che si situa nell’intermondo (cfr. Merleau-Ponty 2008, 147-148) tra le istanze problematiche sollevate dall’ambiente e le capacità di risposta del vivente, capacità che sono sempre aperte e allo stesso tempo vincolate da una specifica topologia, ad una situazione. Vivere consiste nell’essere situati in questo spazio di gioco, mondo intermedio (Iacono 2010, 67-87) tra le urgenze dell’ambiente e le capacità (o plasticità) del vivente.
Ora, è in questa doppia cattura, in questo chiasma per riprendere la concettualità di Merleau-Ponty, che si pone la questione della vita, ed è qui che diviene centrale il lavoro di Goldstein. Amoroso mutua dal neurologo tedesco una peculiare nozione di adattamento: «[q]uesta idea è tematizzata da Goldstein come venire a patti (coming to terms) del soggetto con la situazione: l’organismo riorganizza continuamente se stesso e il proprio mondo in funzione delle proprie possibilità e necessità» (p. 133). Questo modo di concepire l’adattamento esprime l’idea che tra l’ambiente (il quale, in riferimento a von Uexküll, viene declinatodall’autrice nei termini di Umwelt) e l’individuo non si diano mai relazioni univoche e che nessuno dei due termini possa avere un privilegio ontologico sull’altro. In quest’ottica, l’idea di adattamento è interpretata in chiave non riduzionistica. Riprendendo alcuni aspetti del pensiero francese novecentesco (ma non solo: molti i richiami nel libro a Huizinga, Winnicott, etc.), Amoroso vuol evidenziare che l’adattamento e il chiasma tra individuo e ambiente mette in risalto che è la relazione ad aver valore d’essere, la quale è irriducibile ad uno solo dei due poli: nessuna priorità ontologica dell’ambiente sull’individuo, né dell’individuo sull’ambiente.
Per un verso, infatti, «l’organismo contrae il mondo per adattarlo alla propria condizione» - nel duplice senso del termine contrarre: ridurlo ai dintorni, ma anche assumerlo come abitudine -, mentre per un altro, «il vivente si adatta esso stesso al proprio ambiente, si riorganizza nel proprio rapporto con esso» (p. 134). Per evidenziare questo chiasma tra attività e passività (dell’organismo come dell’ambiente), Amoroso si richiama allo scarabeo analizzato da Goldstein, il quale «deambula, quando è sano, sempre con un’andatura ambiale, e, nel caso di amputazione di una o più falangi, usa alternativamente l’ambio e il trotto, a seconda dell’ambiente in cui si trova» (p. 135). L’esempio è utilizzato, come detto, anche da Merleau-Ponty (2010, p. 46) il quale sottolinea che tale capacità «non si verifica che sotto la pressione delle condizioni esteriori».
Questo doppio vincolo, questa relazione di continui feedback tra individuo e ambiente, è espressione della capacità dell’organismo «di far valere la propria libertà rispetto ad un limite […]. Rispetto ad un problema cui non era destinato dalla propria natura, l’animale dimostra una capacità quasi inventiva, di riassestarsi. Un vivente così pensato non è macchina almeno quanto esso non si costituisce come libertà assoluta» (p. 135).
Torneremo a breve su quest’ultimo passaggio. Per il momento è opportuno sottolineare che la capacità inventiva del vivente è espressione di un processo di adattamento basato su una negoziazione continua tra il dentro e il fuori, tra l’individuo e l’ambiente. Insomma, in primissima istanza vivere è una relazione che si basa sul venire a patti con l’ambiente, con un continuo risolvere problemi o, per dirla con Merleau-Ponty (2003, 293-318), rispondere alle avversità dell’esistenza.
In un’ottica di tal fatta viene a cadere l’idea di un ambiente come Natura Originaria, ovvero come principio Naturante (si tratta dunque di una posizione ecologica e non naturalistica, in quanto predilige le relazioni alle cose [Sachen]). Ma viene meno anche l’idea di un individuo isolato, dato che esso è sempre determinato dai processi di individuazione. Quella tra individuo e ambiente, così, è una relazione ambigua e avversativa che mette in atto processi di individuazione vivente.
Trattandosi di una posizione non naturalistica, la relazione vitale non è qualcosa di naturale, ma va sempre giocata e istituita: essa non è data ma è sempre da farsi. Vivere si presenta così come una prassi e non come l’oggetto di un sapere particolare o un noema: più che al Bìos, vivere rimanda ad un piano agonale, a qualcosa da fare piuttosto che a una mera cosa [Blosse Sache]. La vita, insomma, va praticata.
Con quest’ultima considerazione ci spostiamo su un altro riferimento centrale del libro di Amoroso: il biologo olandese Frederik J. Buytendijk, anch’egli tra le fonti di Merleau-Ponty. L’autrice mutua dallo scienziato l’espressione scandalo biologico dell’allegrezza, che dà il titolo ad un capitolo di poco successivo al primo commentato (pp. 151 - 155). Questa formula esprime l’idea che se il vivere è una prassi - attiva quanto passiva - e non un dispositivo prestabilito comportamentale, allora l’atto del vivere si presenta come una molteplice e variegata ricchezza di espressioni vitali, spesso anche del tutto inattese (mostruose, fuori natura e finanche pericolose per il vivente stesso). Proprio in questa multiforme varietàinattesa consiste lo scandalo della vita: essa non è riducibile ad un meccanismo, ma, mediante la doppia cattura, non è neppure uno slancio vitale, pura libertà assoluta, come abbiamo avuto modo di accennare.
Nell’ottica di uno slancio vitale, infatti, la vita non avrebbe altro senso se non se stessa, riproponendo nuovamente un dualismo tra qualcosa che ha un fine in sé e qualcosa che ha un fine fuori di sé. Si tratta di una prospettiva nella quale la vita ha un valore in sé, come un nuovo imperativo categorico e non ci sarebbe spazio per i singoli viventi poiché avrebbero il fine fuori di sé e dunque sarebbero solo mezzi attraverso i quali la vita esprimerebbe se stessa.
Lo scandalo del vivere, al contrario, è che vi sia la possibilità, nonostante tutto, di una vita. Lo scandalo consiste nel fatto che vivere non è che un continuo processo di indeterminazione e individuazione e che non ci si possa rapportare a questo vivere se non, per riprendere il lessico di Mille piani di Deleuze e Guattari (2015, 51), nella modalità della sottrazione, dell’ N-1. Ecco lo scandalo del vivere: si deve sempre strappare una vita dalle avversità, dalle contingenze, dalle istanze problematiche, perché vivere non è qualcosa che è esente dal fare dei singoli viventi. Vi sono infinite vite possibili e non una Vita Infinita: molteplici viventi infinitamente variegati, affetti in infiniti modi.
Un vivente, una vita è situata sempre nel mezzo dell’attivo e del passivo, dell’azione e della passione, è sempre aperta ai rischi e a forme di resistenza che ne ostacolano lo sviluppo: una vita, un vivente è sempre un paradosso esistenziale. Contro l’imperativo categorico della Vita Infinita, Amoroso tenta di giocare la carta della finalità senza scopo del vivente (pp. 195 ss), un finalismo che determina la dimensione contingente e paradossale di una vita. Vivere non è mai dunque un sostantivo, ma, di nuovo, un verbo, un agire, una pragmatica. Una vita non è che un continuo venire a patti con ciò che c’è, con e dentro l’esistente: un continuo attuare equilibri metastabili. Vivere, quindi, non è che creare delle resistenze nell’esistente.
Radicalizziamo ancora la tesi: vivere significa costringere l’esistenza a trasformarsi. Ciò fa sì che non si vive mai semplicemente contro la morte, vivere non è questione di mera sopravvivenza. Se vivere è un processo di adattamento continuo, questo adattamento non sarà, quanto meno in prima istanza, una lotta per la sopravvivenza (la quale presuppone, come argutamente sottolinea Amoroso, un ultimatum dell’ambiente all’organismo, p. 153), ma una lotta per trasformare l’esistente. Dal venire a patti allo scandalo dell’allegrezza, quindi: riecheggia, nel libro di Amoroso, l’idea che è solo attraverso l’allegrezza che si può vivere, ovvero trasformare l’esistenza.Sono le spinoziane passioni gioiose che aumentano lo spazio di gioco nelle avversità di una vita. Spinoziane, certamente. Ma anche profondamente merleau-pontyane (cfr. Merleau-Ponty 2008, 148 ss; 2003, 277-293): vivere non è la lotta a morte tra rivali, che condurrebbe ad una concezione competitiva della vita, ma la cooperazione tra viventi per trasformare lo stato di cose.
Ecco quindi tre concetti chiave del lavoro di Amoroso: vita, esistenza e trasformazione. Tutti e tre questi concetti necessitano di uno spazio di gioco (Amoroso mutua il termine husserliano Spielraum, pp.127-130) ove far crescere le relazioni, unico oggetto possibile dell’ontologia (la domanda ontologica, merleau-pontyanamente, non riguarda l’Essere, ma l’atto di creazione delle relazioni). Inevitabile, così, che tali riflessioni approdino al problema della soggettività e, con essa, alla critica di alcuni sviluppi della filosofia cartesiana. Con Merleau-Ponty, Amoroso tenta di delineare un’etica della contingenza (pp. 211 - 215), ovvero concepire la soggettività come potenza d’agire e non come interiorità cosciente e pensante: tentare di sostituire all’Ego Cogito, un Ich Kann, un Io posso. Un soggetto non è altrocosì da una vita che si pratica nei meandri delle avversità dell’esistenza.
Queste ultime considerazioni ci riportano al capitolo del libro di Amoroso dal quale siamo partiti, Vincoli e improvvisazione. Qui l’autrice connette la già commentata idea di Goldstein al lavoro del poeta Paul Valèry. Strana unione tra Scienza e Poesia, tra Ragione e Sentimento che ci limitiamo a segnalare e che nei lettori più avveduti non può che risuonare con il lavoro di Merleau-Ponty. In particolare, però, Amoroso rilancia l’importanza della nozione di Implexe «che esprime [la] fondamentale eventualità della vita» (p. 132). L’Implexe, infatti, è per il poeta francese «ciò per cui io sono eventuale» (p. 133). Amoroso fa giocare questa nozione contro l’idea di soggetto come cosa pensante, o, per essere più precisi, contro una concezione sostanzialistica della soggettività. L’autrice rilancia l’idea che una soggettività, in quanto qualcosa che può, non è identificabile col pensiero - non nei termini del Cogito, quanto meno - ma con l’eventualità.
Essere viventi, essere al mondo, divenire una vita significa essere sempre in relazione con qualcos’altro che c’è già, un qualcosa che ci precede e che ci supera. Essere una vita, inoltre, non è mai una condizione solipsistica: si vive sempre in una molteplicità, mai per sé. Una vita è pur sempre un’esistenza collettiva e intersoggettiva, mai meramente individuale. Ma ciò implica anche che, mentre la soggettività non è un per sé, il qualcosa non è neppure un in sé: non è un quid meramente indeterminato, ma un piano di esistenza avversativo che richiede la nostra vita, la nostra opera, la nostra incompiutezza. Essere viventi significa essere eventuali. Ma quest’ultima determinazione ci dice anche che vivere non è un pratica tra le altre. Vivere è una vera e propria ars inveniendi. In questa prospettiva si apre uno spiraglio, un cammino possibile verso una noologia di ispirazione merleau-pontyana, con cui vogliamo concludere.
Il pensiero (un pensiero terrestre, nietzscheanamente fatto di carne e nervi), svincolato dalla forma soggettiva, diviene una specie di virtù e in quanto tale occorre imparare a praticarla. Pensare, nella prospettiva di Amoroso, vuol dire apprendere e imparare a costruire insieme agli altri (umani e non) degli spazi di gioco nei quali poter sperimentare l’eventualità di una vita. Ma pensare vuol dire altresì costringere l’esistente a venire a patti con quella scandalosa allegrezza di una vita collettiva, l’unica soggettività capace di resistere alle avversità di ciò che c’è.
di Gianluca De Fazio
Bibliografia
Barbaras, R. (2008). Introduction à une phénoménologie de la vie. Paris: Vrin.
Deleuze, G. & Guttari, F. (2015). Mille piani. Roma: Castelvecchi.
Goldstein, K. (2010). L’organismo. Trad. it. Di L. Corsi. Roma: Fioriti.
Iacono, A.M. (2010). L’illusione e il sostituto, Milano: Mondadori.
Iofrida, M. (2012). Vita natura soggetto, in M. Iofrida (a cura di), Crisi. Condizione e progetto. Modena: Mucchi.
Merleau-Ponty, M. (2003). Segni. Trad. it. di G. Alfieri. Milano: Net.
Merleau-Ponty, M. (2008). Le avventure della dialettica. Trad. it. di D. Scarso. Milano-Udine: Mimesis.
Merleau-Ponty, M. (2010). La struttura del comportamento. Trad. it. di M. Ghilardi e L. Taddio. Milano-Udine: Mimesis.
La conversazione che segue si è svolta il 27 maggio 2017 a Aberdeen, al termine di una settimana di incontri della piattaforma europea Knowing from the inside, animata da attori tanto della pratica quanto della teoria attorno alla questione di una conoscenza viva e immanente. Una questione che Tim Ingold elabora da diversi anni, per lo più in maniera collettiva. All’incrocio tra arte e ricerca, questo gathering ha tentato di praticare e pensare un paradigma epistemologico e deontologico che, insieme a varie di letture dei suoi scritti, ha suscitato in noi una serie di domande relative al comune, alla democrazia e all’attenzione. Tali domande sono emerse nel corso di tale settimana dall’osservazione del percorso verso una « conoscenza dall’interno » intrapreso da Tim e da chi lo accompagnava. Ecco ricapitolati alcuni punti di riferimento preliminari affinché chi non conoscesse l’universo ingoldiano, assai singolare, possa orientarvisi.
Corrispondenze con il mondo
« Gli uomini di scienza non s’interessano semplicemente alle forme finali delle cose », scrive l’antropologo scozzese, « Essi cercano di penetrare al cuore dei processi della loro formazione ». Per cogliere la fabbricazione di un cesto, la costruzione d’un nido d’uccello, l’interpretazione di continuo rinnovata di uno spartito al violoncello, Ingold ha scelto la via dello studio della percezione incarnata dell’ambiente. A partire dal presupposto che ogni gesto emerge in corrispondenza con il mondo, che non può esser il prodotto d’una vuota astrazione impressa su una materia inerte, Ingold ha fatto di un certo paradigma ecologico la colonna vertebrale di un pensiero le cui ramificazioni raggiungono gli ambiti del fare (making), dell’educare, dell’abitare. Fare con (un mondo di materiali-in-divenire), fare lungo (delle linee), tramarsi in (un mondo-metereologico).
Attizzare l’aria immobile
La lettura di Ingold fornisce l’impressione di assistere ad un corpo a corpo ontologico: la trasmissione delle rappresentazioni contro l’educazione dell’attenzione, l’occupazione contro l’abitazione, il trasporto contro l’itineranza, l’hylemorfismo contro la morfogenesi. Nei suoi scritti l’antropologo si scaglia (non senza una certa ostinazione) contro le posizioni concettuali che tenderebbero ad alienare, ovvero a non prestare attenzione all’implicazione d’un organismo nel suo ambiente, a reificare, ovvero a non prestare attenzione al continuo divenire del mondo, a imporre, ovvero a considerare il mondo come un dato, inerte e impassibile, una « superficie di letteralità opaca, piatta e gelata». Ingold invita ad attizzare e nel contempo abbracciare il medium attraverso il quale siamo in divenire, e pensare le continuità che spezziamo piuttosto che sognare cocci da ricomporre.
Controllo e prensilità
Poiché separare gli organismi dal loro ambiente — come abbiamo separato lo spirito dal corpo per poter sovrastare il reale — non ha soltanto implicato un’illusione di controllo delle cose, ma ci ha anche trascinato in un processo opposto di perdita della presa rispetto alle cose, processo che costituisce un perquisito ad ogni ex-powerment radicale. Questa perdita prensile pare esattamente costituire una dei tormenti di Ingold: alimentati da un’interrogazione circa le possibilità e le forme del fare, dell’abitare e dell’educare, i suoi testi rappresentano degli inviti a offrire una presa, a esporsi alle forze e ai materiali che strutturano i nostri ambienti per meglio situarvisi e intesservi le nostre stesse forze e energie.
Ecologie politiche
È qui, sul terreno della percezione ecologica e incarnata dell’ambiente, che sembra prodursi il lavoro propriamente estetico-politico di Tim Ingold. Spesso implicito, poiché inscritto all’interno di scontri epistemologici, esso è divenuto la materia della conversazione che abbiamo avuto con l’antropologo. Come pensa le lotte di potere l’ecologia delle linee? Quali rapporti la poetica dell’abitazione del mondo intrattiene con il pensiero democratico così caro a Ingold? Quali sono le forme d’impegno e le possibilità d’azione dell’antropologia e delle arti in questa lotta?
Il tema dell’impersonale costituisce il fulcro di un dibattito odierno forse sfuggente ma variamente presente in assi tematiche e ambiti di ricerca assai differenti. Si tratta, molto in generale, di un tentativo di rimettere in discussione la nozione di soggettività, antropologicamente circoscritta, per giungere a teorizzare una sorta di spazio impersonale, capace di fondare e articolare le linee dell’intero piano della realtà concretamente esperibile. Si potrebbe obiettare che un simile tema mantenga un’impostazione di tipo “metafisico”, intesa in senso negativo, come fautrice di una speculazione antiquata, piattamente astratta e slegata dalla contemporaneità. A questa obiezione, che tende a schivare con forse troppa leggerezza gli ammonimenti heideggeriani e derridiani – è possibile uscire dall’epoca della metafisica? O meglio, è possibile una filosofia che non sia per ciò stesso metafisica? – corrisponde un atteggiamento oggi ben radicato, che tende a svalutare il pensiero “puro”, considerato logoro e inadatto a cogliere le linee in cui si articola il mondo di oggi.
Affrontare l’impersonale altro non significa se non riformulare la questione trascendentale della fondazione, ossia del rapporto e della connessione tra dato empirico e pensiero, concetti e realtà, ontologia e epistemologia, soggetto e oggetto, anima e corpo. Occuparsi dell’impersonale può voler dire porre una questione dal sapore evidentemente genetico, volta a indagare il sorgere stesso del reale; quel momento intensivo che ci fa transitare verso la realtà che esperiamo quotidianamente, dal piano di immanenza deleuziano alla spaziatura derridiana, passando per la questione della sintesi passiva in Husserl – per limitarsi a qualche breve esempio. D’altra parte riflettere sull’impersonale significa praticare un pensiero critico nei confronti di un’istanza, quella del soggetto, che costituisce ancora uno dei poli problematici fondamentali della riflessione filosofica. Dalla critica “biopolitica” dell’interiorità agostiniana e della nozione di “persona” al ripensamento profondo (antropologico, farmacologico, sferologico) della tecnica, passando per l’atmosferologia come decostruzione dell’introiettivismo patico, chi si interroga sull’impersonale ambisce così a demitizzare gran parte del soggettivismo che ha caratterizzato la riflessione filosofica almeno da Descartes in avanti.
Non meno importanti i contributi provenienti dal côté più strettamente biologico e vitalista, che prende le proprie mosse dalla vivace ricezione francese del bergsonismo nel secondo dopoguerra. A orientare questo filone è l’idea di un divenire organico della vita, in opposizione ai vari riduzionismi neopositivistici – fisiologia, psico-fisica, etc. - promotori di una suddivisione del vivente in semplice somma di parti meccaniche, aggregabili e quantitativamente misurabili. Figure come Raymond Ruyer, Georges Canguilhem e Gilbert Simondon, tra le altre, inaugurano così un pensiero fisico-biologico (e filosofico) che pone il proprio accento sul rapporto tra individuo e ambiente, tra virtualità preindividuale e meccanismi di attualizzazione.
La questione dell’impersonale non ha evidentemente limitazioni tematiche né frontiere ben circoscrivibili, ma si distribuisce piuttosto all’interno di una serie di incroci tra punti di vista e contesti cronologico-geografici differenti, che il seguente numero vorrebbe provare a far dialogare.
*Atti del convegno svoltosi a Torino il 28 e 29 aprile 2016, organizzato da Gaetano Chiurazzi, Carlo Molinar Min e Giulio Piatti, con il patrocinio dell’Università degli Studi di Torino e del dipartimento di Filosofia e Scienze dell’educazione, e in collaborazione con Philosophy Kitchen. Rivista di filosofia contemporanea.
Si desidera qui ringraziare il professor Roberto Salizzoni per il sostegno e i preziosi suggerimenti nel corso delle fasi di organizzazione del convegno.