Recensione a V. Jullien, Ce que peuvent les sciences, Paris, Éditions matériologiques, 2020
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Questo libro di Vincent Jullien cerca di indagare, con un esercizio impressionante di sintesi, ciò che possono le scienze. Per farlo, l’autore si interroga innanzitutto su ciò che le costituisce e per ciò stesso cerca di giustificare il metodo dell’epistemologia storica. In seguito si occupa di mettere in discussione l’esistenza di una scienza fisico-matematica e nello stesso tempo l’idea di una rottura epistemologica fondamentale tra la fisica e le altre scienze. Infine, nella terza parte, Jullien affronta più direttamente ciò che possono le scienze, esponendo le conseguenze e i progressi che possiamo aspettarci dal loro sviluppo.
L’autore comincia la sua opera instaurando una rottura netta tra i fatti puri, come, ad esempio, «un sasso cade al suolo», e i fatti scientifici, come «un sasso cade al suolo perché l’attrazione gravitazionale lo costringe al suolo». Al pari di Bachelard, si oppone così fin dall’inizio ad alcuni filosofi delle scienze, Meyerson e Carnap, che difendevano l’idea di una continuità tra gli enunciati del senso comune e gli enunciati scientifici. È solo quando questi «stessi fatti materiali […] [sono] accompagnati da un’attività razionale [che] fanno parte delle scienze e della loro storia» (p. 26). La caduta di un sasso al suolo potrà entrare nella storia delle scienze solo dal momento in cui una teoria gli sarà associata. Dalla teoria aristotelica alla teoria della relatività generale, passando per le tesi galileiane e newtoniane, diverse teorie si sono succedute attraverso i secoli per tentare di capire perché e come un sasso cade al suolo. E se le tesi aristoteliche e poi newtoniane sono state confutate, comunque appartengono alla storia delle scienze. Allo stesso modo, le misure prese oppure i principi su cui ci si deve fondare potranno costantemente essere rimessi in discussione. Infatti, se le scienze sono costituite «da ciò che risulta dalla trasformazione razionale dei fatti elementari, di idee e di immaginazioni suggestive in enunciati o attività complessi, allora, le scienze e la loro storia […] non possono che essere in conflitto» (p. 34).
Jullien si interessa poi alla definizione stessa di una teoria scientifica e questo al fine di giustificare meglio la necessità di ricorrere a un’epistemologia storica. In effetti, secondo l’autore, non si può, come avevano preteso di fare in particolare i filosofi del Circolo di Vienna, descrivere la dinamica delle scienze «come un insieme astratto e formale da cui la struttura poteva essere descritta servendosi di considerazioni logiche e formali, insiemistiche, operatorie, algoritmiche» (pp. 46-47). È precisamente in questa stessa prospettiva logico-insiemistica che Carnap escludeva dall’analisi della scienza sia le prospettive storiche che quelle sociologiche. Secondo Jullien, se si può agevolmente prescindere dalle condizioni sociologiche all’interno delle quali una teoria scientifica è stata prodotta per comprenderla, questo non è valido per la sua storia: «la sociologia ci propone il contesto della teoria e la storia ci suggerisce il testo» (p. 48). Questa tesi concorda con quella difesa da Jullien, in appendice alla sua opera, sull’esternalismo. Le ragioni ideologiche, religiose, politiche o morali sono quindi considerate dal filosofo come esterne alle teorie scientifiche, poiché non giocano un ruolo probante nei confronti del contenuto delle teorie elaborate e neanche sui loro dispositivi sperimentali.
La storia costituisce dunque per Jullien la fonte principale di analisi della scienza e questo soprattutto per tre ragioni: innanzitutto perché dei concetti come principio, anomalia oppure refutazione trovano davvero un senso e un’efficacia solo all’interno della storia delle scienze; poi perché si capisce meglio lo stato presente di una scienza e dei suoi problemi alla luce della sua storia; infine perché alcune linee di argomentazione moderne sono la ripresa di argomentazioni apparse nelle controversie scientifiche passate, come per esempio la questione dell’unificazione concettuale dello spazio e della materia. Jullien precisa poi, basandosi in particolare su Bachelard, la specificità della storia delle scienze rispetto alla storia generale: la prima, al contrario della seconda, permette di giudicare le attività umane passate, in questo caso le attività scientifiche. Questo giudizio dello storico sarebbe possibile grazie all’idea di un palese progresso delle scienze attraverso la storia: «è solamente se si pensa che il progresso esiste nelle scienze che l’epistemologia può ”giudicare”» (p. 70). Non solo capiamo meglio lo stato attuale di una scienza alla luce delle sue problematiche passate, ma la conoscenza dello stato presente di essa sembra anche uno strumento indispensabile alla comprensione dei suoi stati anteriori. La teoria della relatività generale permette anche di capire meglio l’interesse della tesi cartesiana della materia estesa, che identificava già la materia e lo spazio. Jullien non difende peraltro una concezione whiggista della storia della scienza che consisterebbe soprattutto nel fare la storia dei vincitori. Questo però non deve neanche farci cadere nell’«illusione “storicista” che ci farebbe credere che possiamo pensare oggi le controversie nelle condizioni in cui si produssero» (p. 83).
La seconda parte dell’opera consiste nel dimostrare che, nonostante l’associazione molto stretta che unisce la matematica e la fisica, non si può realizzare la fusione di questi due domini in un’unica scienza, facendo sparire per ciò stesso la loro natura distinta. Proprio come ciò che chiamiamo tecnoscienza non può eliminare la distinzione essenziale tra tecnica e scienza, come spiega Jullien in appendice al suo libro. Questa seconda parte sembra costituire una parentesi, in quanto la terza parte pare rispondere e prolungare l’impresa iniziata nella prima. In realtà essa è imprescindibile, perché il mantenimento della distinzione essenziale tra gli oggetti e le procedure della fisica e della matematica permette di giustificare un approccio epistemologico comune per la totalità delle scienze della natura, senza negare l’intensità particolare del legame tra fisica e matematica.
Jullien comincia con l’esame dei rapporti che la fisica e la matematica hanno intrattenuto a partire dall’Antichità. Fino al XVII secolo, «lo studio del mondo sensibile, la filosofia naturale, è debolmente stimolata o animata dalla matematica» (p. 116). Dopo di che «con Galileo, ma anche con Keplero, Cartesio, […] la matematica occupa […] un posto chiaramente più grande nella costituzione delle teorie e delle attività fisiche.» (p. 123). Questa matematizzazione delle scienze dei corpi materiali inanimati è accompagnata da una duratura separazione dalle scienze biologiche. Tuttavia, benché questa associazione tra la fisica e la matematica sia maggiore, la distinzione tra loro non cessa di esistere. Infatti, secondo Jullien, non si deve confondere un’articolazione forte tra questi due domini – come nella legge della caduta dei gravi enunciata da Galileo – con una fusione di questi due domini che condurrebbe all’esistenza di oggetti e di procedure fisico-matematiche.
Se secondo Cartesio la matematica ha chiaramente solo un ruolo metodologico per la filosofia e la fisica, in quanto abitua lo spirito a riconoscere la verità così come a ragionare rigorosamente, la matematica occupa, nei Principia di Newton, un posto molto più centrale potendo lasciar supporre una fusione dei due domini. Tuttavia, ancora una volta, articolazione non è fusione e «la natura dei diversi piani della teoria fisica newtoniana è chiaramente distinta» (p. 136) poiché il livello superiore e inferiore della teoria sono fisici mentre i concatenamenti e gli sviluppi dipendono della matematica. Per Leibniz, la barriera che separa la matematica dalla fisica sembra molto più netta. La prima costituisce un vasto campo di possibilità da cui la fisica può attingere, al contrario di Newton che «costringe le forme matematiche utilizzate ad essere, fin da principio, delle espressioni delle cose fisiche» (p. 144). Dunque, una divisione del lavoro tra fisica e matematica è stata stabilita e la grande efficacia di questo nuovo metodo non deve farci credere in una dissoluzione di questa distinzione. Rispetto alla sua nascita nell’Antichità, è solo da tre o quattro secoli, in sostanza, che la fisica utilizza come strumento principale del suo sviluppo la matematica.
Quanto alla matematizzazione delle scienze biologiche, rifiutate da Buffon e Diderot, si dovrà aspettare la fine del XX secolo affinché si sviluppi davvero. Tuttavia, anche se «l’uso della matematica è diventata un’evidenza per la biologia nel corso del XX secolo», ciò non toglie che la matematica, come fa con la fisica, possa unicamente costituire un mezzo che permette un progresso più ampio delle scienze biologiche. Pertanto, «ciò che separa la fisica dalle altre scienze della natura è di minor rispetto a ciò per cui si assomigliano» (p. 190). Un grande numero di punti comuni permettono un avvicinamento tra l’epistemologia delle scienze biologiche e quella dei corpi inanimati: la costituzione dei fatti scientifici, il ruolo delle anomalie, l’elaborazione delle ipotesi e delle teorie, le attività di laboratorio, ecc.
La terza parte del libro ha come obiettivo principale quello di mostrare, questa volta direttamente, ciò che possono le scienze, sia biologiche sia fisiche. Le teorie scientifiche ci hanno permesso innanzitutto di ottenere una grande quantità di conoscenze, come per esempio l’età della Terra, il suo diametro o anche l’evoluzione delle specie. Tuttavia, dobbiamo notare che queste conoscenze sono valide indipendentemente dalle teorie che ci hanno permesso di scoprirle. È per questo che «se è pertinente convalidare il progresso delle conoscenze grazie alle scienze, lo stesso non può dirsi per le teorie scientifiche stesse. Il loro progresso è infinitamente più delicato da afferrare e soggetto a contestazione.» (p. 197). Diversi schemi esistono per descrivere il progresso delle teorie scientifiche: «il progresso per accumulazione, per inclusione o incastro, per perfezionamento o per sviluppo; può anche essere pensato come ciclico o asintotico» (p. 197). Lo schema dell’incastro, che è difeso dal positivismo logico, consiste nel fatto che teorie più potenti vengono a superare e includere le precedenti. Sia Kuhn che Popper o anche Bachelard si sono opposti, ognuno a suo modo, al modello dell’incastro. Se Jullien condivide, con questi tre autori, l’idea di un progresso delle teorie scientifiche attraverso le rivoluzioni, egli difende, allo scopo tuttavia di escludere il relativismo scientifico, l’idea che una nuova teoria può sostituirne un’altra solo se è più potente. Questo è il motivo per cui, e su questo punto Jullien diverge da Kuhn, si può instaurare una commensurabilità possibile tra le teorie.
Partendo da ciò, Jullien difende insieme il carattere provvisorio e confutabile delle teorie, che per ciò stesso non sono mai vere, e il progresso delle conoscenze e teorie scientifiche. Come però si possono sostenere insieme il progresso delle conoscenze e teorie scientifiche e nello stesso tempo il fatto che queste ultime non siano mai vere? La risoluzione di questo paradosso, centrale nell’opera, si basa sull’idea, difesa anche da Kuhn, che man mano che la scienza progredisce, lungi dal farci avvicinare a una verità della natura, accresce solo la nostra ignoranza di essa. Quando l’esistenza della volta celeste che comprende il mondo fu confutata, questo permise certo un incremento delle nostre conoscenze dell’Universo, ma ciò che c’era al di là delle stelle visibili diventò una fonte notevole di ignoranza. Le scienze non hanno quindi il potere di scoprire né di dirigersi verso la verità della natura, ma forse permettono di «migliorare senza fine la qualità del dialogo che la nostra ragione intrattiene con essa» (p. 17).
Jullien approfitta del capitolo seguente per affrontare il metodo induttivo. Per Darwin, le collezioni dei minerali come quelle dei fossili vegetali e animali accumulate dai naturalisti non costituiscono per niente una scienza geologica o degli esseri viventi: «i fatti puri, non importa quanti siano, rimangono in silenzio e non forniscono teorie, spiegazione, intelligibilità.» (p. 228). Anche la scoperta di Fleming della penicillina non costituisce un elemento probante a favore del metodo induttivo. Infatti, da decenni prima di questa scoperta, i batteriologi cercavano un anticorpo che impedisse la proliferazione dei batteri e «secondo Popper, non era la prima volta che si osservava l’impianto accidentale di una muffa battericida in una coltura microbica […]. Il lampo geniale di Fleming fu di congetturare che la penicillina aveva questo ruolo» (p. 241). È solo nella misura in cui sappiamo prima ciò che i fatti bruti possono insegnarci che essi possono acquisire un senso nello sviluppo delle scienze. Inoltre, la storia delle scienze ci mostra che «gli sviluppi scientifici non sono avvenuti sul modello dell’induzione» (p. 246).
Le scienze possono, infine, essere esplicative, cioè – nel senso di Cartesio – indicare le cause dei fenomeni. La storia delle scienze però mostra «delle belle e potenti teorie che rimangono debolmente o molto debolmente esplicative» (p. 257). Così, la debole capacità esplicativa della dottrina newtoniana non fu un ostacolo alla sua ricezione e al suo successo. Così come anche la funzione, per esempio il fatto di spiegare l’esistenza dell’occhio grazie alla necessità della vista, «non è in grado di proporci un orizzonte, un limite verso il quale tenderebbero le nostre conquiste scientifiche» (p. 267), non più del principio di economia.
Questo libro termina con alcune considerazioni sulla pandemia di Covid-19. Secondo l’autore, «lo schema di sviluppo […] di questo episodio scientifico ha alcune possibilità di rimanere valido e darci alcune idee di ciò che possono e di ciò che non possono le scienze» (p. 297). La matematizzazione delle scienze, attraverso in particolare l’epidemiologia, è qui notevolmente all’opera; un grande numero di piste di trattamenti o di vaccini ha potuto mostrare il ruolo centrale dell’immaginazione dei ricercatori. Inoltre, la velocità molto più grande con cui il virus ha potuto essere sequenziato attesta i progressi spettacolari delle conoscenze scientifiche. Progressi che, anche in questo caso, non si sono sviluppati senza un incremento dell’ignoranza.
Ciò che possono le scienze è un’opera che, grazie al suo sforzo di esaustività e alla sua ambizione, è decisamente stimolante. Jullien prova infatti ad interessarsi sia alla fisica sia alla chimica, alla geologia o alla biologia, ossia alla totalità delle scienze considerate come scienze della natura. Tuttavia questa esaustività non si spinge fino alla comprensione delle scienze umane e sociali – naturalmente c’è sempre una forma di ingiustizia nel rimproverare a un libro una mancanza di esaustività. Come afferma Jullien, «l’idea di scienza esige qualche informazione che risponde, seppure incompletamente, al perché o al come della cosa di cui si tratta» (p. 23). La storia, la sociologia ma anche l’economia non cercano anche loro di fornire delle informazioni che rispondono al perché o al come dell’oggetto in questione? Non cercano anche loro di spiegare i fenomeni quand’anche questi fossero i risultati delle azioni umane? Questa domanda ci sembra tanto più legittima considerato che una parte di queste scienze ricorre sempre di più allo strumento matematico. L’autore stesso si serve di un esempio proveniente dalle scienze economiche per mostrare i limiti dell’approccio induttivo nei Big Data: «così abbiamo visto le previsioni economiche di natura (IA, BD) incapaci di vedere arrivare le grandi crisi finanziarie degli anni 2008-2009, mentre i teorici le annunciavano» (p. 269). Ciononostante, sembra che sia possibile trovare un inizio di risposta alla fine del primo capitolo. In effetti, come ricorda Jullien, benché la storia delle scienze sia caratterizzata dalle sue controversie, dei vasti quadri teoretici finiscono sempre per essere accettati, anche provvisoriamente: «è anche, secondo me, una caratteristica di ciò che possiamo chiamare scienza, cioè questa facoltà che hanno le teorie scientifiche e le controversie all’interno delle quali si sviluppano, di offrire delle vaste sintesi (ciò che Kuhn chiama la scienza normale). A contrario, disponiamo probabilmente di un buon criterio per individuare le false scienze, questi domini dove non si impone mai un punto di vista consensuale e che non conoscono mai un ritmo “normale”» (p. 41). Questo significherebbe che le scienze umane e sociali sarebbero delle false scienze in cui non si impone mai un punto di vista consensuale? Bisognerebbe dedurre una differenza tra ciò che possono le scienze della natura e ciò che possono le scienze umane e sociali? Sfortunatamente, l’autore non risponde a queste domande.
Un commento al seminario "La vita la morte" di Jacques Derrida
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“È importante, per me, nel filosofare, mutar sempre posizione, non stare troppo a lungo su una gamba sola, per non irrigidirmi.”
Wittgenstein (1980, p. 61)
Il titolo di questo seminario di Derrida (2019) del 1975-6 dice perspicuamente più che il suo oggetto, il nodo attorno a cui si avvolge (difficile dire se per scioglierlo o al contrario per annodarlo): la vita la morte.
Non “la vita, la morte” né “la vita e la morte” dunque, dove la virgola o l’et sancirebbero una separazione tra le due, premessa e promessa di una loro prevedibile opposizione. E nemmeno “la vita è la morte” né “la morte è la vita”, che avrebbe il valore di un’eguaglianza, come risultato della soluzione di un’equazione: questa identità tra la vita e la morte non è qualcosa che Derrida trova, come risultato di un processo argomentativo, ma qualcosa che pone sin dall’inizio, sfida e scommessa di tutto questo seminario.
Notiamo però che Derrida scrive sempre “la vita la morte” (o lavitalamorte) mettendo in precedenza la vita. Il precedere cronologico della vita sulla morte appare ovvio, ma per Derrida l’anteriorità empirica non implica assolutamente una precedenza logica. Perché allora questa antecedenza sintagmatica della vita sulla morte?
Per un filosofo tradizionale questa scelta grafica di Derrida non avrebbe alcuna importanza. Ma sappiamo che invece per Derrida le scelte di scrittura – anche mettere una parola prima di un’altra – sono importanti tracce filosofiche, hanno la densità di una concettualità inconscia. È proprio sulla traccia del pensiero di Derrida che quindi poniamo questa questione di traccia: ‘vita morte’ e ‘morte vita’ non sono equivalenti.
Ora, il perno attorno a cui sembra girare il seminario è una sentenza di Nietzsche:
“Evitiamo di dire che la morte sarebbe opposta alla vita. Il vivente è solo un genere di ciò che è morto, un genere molto raro[1].”
Cosa voleva dire Nietzsche?
Da un punto di vista razionale, si tratta di un assurdo. Perché diamo per scontata una gerarchia logica tra vita e morte: non ci sarebbe morte se non ci fosse vita. D’altro canto, sappiamo dalla biologia (anche se qui Derrida contesta questo sapere, come vedremo) che ci sono vite senza morte, quelle che si riproducono agameticamente. Insomma, la morte implica la vita, non viceversa. E invece Nietzsche rovescia la gerarchia, facendo della vita un sotto-genere della morte.
Chiama egli “morto” semplicemente ciò che non è vivente? Ma dare a morto il senso di non-vivente significa proprio far prevaricare la dimensione della vita sull’ente in generale. Nello stesso momento in cui Nietzsche dice che la vita è un sotto-insieme della morte, ipso facto mette la vita, il vitale di cui la morte è fattore, in una posizione direi egemonica: apparendo come morto, il non-vivente viene riportato così alla logica della vita, alle opposizioni vitali. Dire che ciò che non è mai vissuto è morto, è dare in realtà alla nozione di vita una portata che va ben al di là della vita biologica – insomma, Nietzsche enuncerebbe qui il suo vitalismo (quindi, lo sforzo di Derrida, nel corso di questo stesso seminario, di contestare l’etichetta di “vitalista” attribuita solitamente a Nietzsche non è del tutto convincente).
Abbiamo detto prevaricazione: è un punto essenziale su cui torneremo. In effetti, qui Nietzsche, proprio dicendo che la vita è un genere del morto, fa prevaricare la categoria della vita sull’ente in generale.
Eppure, malgrado il rovesciamento di Nietzsche, Derrida dà la precedenza grafica alla vita. Nell’identificazione vita-morte, resta la traccia di una non-identificazione, su cui – derridianamente – dovremmo interrogarci.
Potremmo dire che in questo seminario Derrida si interroga sul “biologico”, nella misura in cui questo è anche interrogarsi sul “tanatologico”.
Derrida slitta da una lettura all’altra. Grosso modo, in questo seminario abbiamo quattro “stasimi” del suo confronto con testi che tematizzano questo bio-tanatologico: un primo in cui si confronta con Ecce Homo di Nietzsche; un secondo in cui articola un confronto serrato con il libro di François Jacob (1970) La logica del vivente, pubblicato cinque anni prima; un terzo sulla lettura heideggeriana del cosiddetto “vitalismo” di Nietzsche; e un quarto in cui si confronta con Al di là del principio di piacere di Freud. Qui mi limiterò a commentare il commento di Derrida al libro di Jacob.
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1.
In questa parte del seminario Derrida si confronta con il testo, in senso lato divulgativo, di Jacob. Con un testo più storico, di storia della biologia, che biologico, come enuncia il suo sottotitolo: Storia dell’ereditarietà. Derrida lo prende però come fosse un testo filosofico, lo analizza come tale, e ovviamente da questa lettura emergono cedimenti metafisici nel testo del biologo o storico della biologia. Wittgenstein, che disprezzava la divulgazione scientifica, disse “Le opere di divulgazione scientifica non sono l’espressione del duro lavoro dei nostri uomini di scienza, bensì del loro riposarsi sugli allori” (Wittgenstein 1980, p. 86). Derrida in Jacob vede insomma gli allori, anche se, tengo a dirlo, il riposarsi di Jacob è a tutt’oggi esemplare.
In certi punti, Derrida sembra promuoversi miglior biologo di Jacob (il quale vinse il premio Nobel in medicina). Ad esempio, quando confuta l’idea (di Jacob? della biologia moderna? del modo che ha la biologia di raccontarsi?) secondo cui la riproduzione dei batteri è asessuata. Jacob fa notare che la sessualità e la morte sono un’”invenzione” (così scrive) che la vita fa a un certo punto della propria storia, sottolineando che la sessualità e la morte si implicano: è veramente mortale solo il vivente sessuato. (Evidentemente questo guasta de facto l’assunto di partenza di tutto il seminario derridiano: il sovrapporsi logico della vita e della morte.) Ora Derrida, rifacendosi ad altri biologi, cerca di mostrare che avvengono inserimenti di materiale genetico da un batterio all’altro, il che può considerarsi una forma di riproduzione sessuata. Inoltre, solleva un’obiezione di buon senso all’idea che un batterio non muoia, dato che alcuni batteri certamente si dissolvono. Se un batterio produce dieci copie di sé e poi ne restano solo sette, come possiamo non dire che quattro batteri sono morti?
La domanda da porsi è perché Derrida ci tenga tanto a contestare l’idea che la sessualità e la morte siano prodotti successivi della vita, fino al punto da usare argomenti biologici contro un biologo nobélier. Perché tiene tanto a fare della morte qualcosa di coestensivo alla vita, e non un’”invenzione” succedanea della vita stessa? Ma prima di rispondere a questa domanda, vorrei mostrare come l’obiezione di Derrida mostra che egli non abbia colto l’essenziale dell’argomento di Jacob.
Derrida non sembra cogliere il fatto che, per la biologia, solo con la sessualità e la morte diventa pertinente il concetto di individuo – di indivisibile, che è la traduzione del greco ατομος. L’individuo o atomo è tale perché il suo genoma è del tutto diverso da quello di ciascun genitore (sessuato), ed è completamente diverso da quello di ogni altro essere vivente della stessa specie (a parte il caso dei gemelli veri). La genetica insomma ha modificato il nostro concetto originario, comune, di individuo: che non è più, prima di tutto, l’indivisibile, ma è il portatore di un assetto genetico unico. La morte quindi equivale alla scomparsa di questo unicum. Mentre la riproduzione non sessuata è produzione di cloni – all’epoca il termine “clone” non era entrato nel linguaggio comune, e difatti Derrida non lo usa mai. I cloni sono individui diversi dal punto di vista del linguaggio comune, ma non dal punto di vista biologico, perché hanno identico genoma.
Questo taglia corto alle obiezioni che Derrida solleva all’idea che un batterio, ad esempio, non muoia. Se per individuo intendiamo chi porta genomi diversi, il batterio non muore nel senso che copie di sé comunque sopravvivono. Un libro non muore se restano alcune copie di esso, anche se il manoscritto originale fosse andato perduto.
(Si dirà che uno dei due gemelli omozigoti umani può morire, mentre l’altro può sopravvivere. Se fossero lo stesso individuo, dovrebbero morire assieme. Ma consideriamo due gemelli due individui distinti perché oltre al senso genetico di “individuo” abbiamo un altro senso che ci deriva dal linguaggio comune: l’avere due cervelli e quindi due coscienze diverse. Le due coscienze diverse individualizzano, per noi, ciascun gemello. Due sensi diversi di “individuo” si sovrappongono nel nostro linguaggio. Si dà però il caso che il batterio non abbia alcun cervello né alcuna coscienza, nel caso suo, quindi, il senso genetico di individuo può prevalere.)
Inoltre, le eccezioni alla riproduzione asessuata nei batteri che Derrida evoca non inficiano la distinzione categoriale di Jacob tra vita asessuata-immortale da una parte, e vita sessuata-mortale dall’altra. Il problema vero non è stabilire quali specie rientrino nella prima categoria e se non ci siano eccezioni, ma stabilire questa distinzione, che resta valida malgrado i distinguo di Derrida.
Derrida non apprezza insomma l’interesse del senso nuovo dato al termine “individuo” (ovvero, sessuato e mortale) come impossibilità di replicarsi integralmente. Eppure questo nuovo senso dato a individuo – e quindi anche alla sua morte – è filosoficamente importante perché rompe con l’idea che Homo sapiens, ad esempio, abbia un’”essenza”, che ci sia un’essenza della specie umana. Siccome non esistono due individui geneticamente eguali, ogni individuo è portatore di una variabilità che potrebbe avere successo storico, cioè riprodursi e quindi mutare, a poco a poco, certe caratteristiche che consideriamo umane. Per la genetica, ogni individuo è un mutante. Non c’è quindi veramente un tratto comune a tutti gli esseri umani, ogni umano è un potenziale punto di fuga da un’umanità “media”. Questo è il senso della rivoluzione darwiniana: il disgregarsi del concetto di specie. Species è versione latina diείδος, la forma essenziale (termine che tradurrei oggi con struttura). Non c’è unastruttura umana. Per la biologia pre-darwiniana le specie animali erano essenze, mentre con Darwin abbiamo solo esistenze animali. Strano quindi che la vocazione anti-metafisica di Derrida non lo porti a valorizzare questo anti-essenzialismo della moderna biologia.
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2.
Certamente Derrida ha spesso ragione nel mettere in rilievo certe ingenuità concettuali di Jacob. Per esempio, Jacob dice che la biologia non si interessa alla vita – non pone il problema dell’essenzadella vita – ma ai viventi. “Oggi nei laboratori non si interroga più la vita … Ci si sforza solo di analizzare i sistemi viventi, la loro struttura, la loro funzione, la loro storia” (p. 116[2]) Qui Derrida ha buon gioco nel dire che sostituire alla vita il vivente non dispensa dalla domanda non solo filosofica, direi, ma anche biologica: che cosa fa di un vivente un vivente?
E in effetti, Jacob si contraddice de facto perché dice spesso e forte l’essenza del vivente: è qualcosa che ha la capacità di riprodursi. La riproducibilità – l’avere eredi - è ciò che fa del vivente un vivente.
La riproducibilità evoca il concetto di disegno, di progetto. Concetti che Jacob non disdegna, ma avvertendo:
“L’essere vivente rappresenta certo l’esecuzione di un disegno, ma che nessuna intelligenza ha concepito.”
Dice Derrida: se c’è un’omogeneità tra le produzioni del vivente umano (testi, calcolatrici, programmatrici, ecc.) e il funzionamento della riproduzione genetica, l’opposizione tra scienze della natura e le altre scienze perde pertinenza e rigore. È quello che lui nel fondo desidera? Questo sarà il punto essenziale – ma non detto - del commento di Derrida.
Intanto però Derrida si dedica a criticare i filosofemi, direi, del biologo. Ad esempio, scova dell’hegelismo in Jacob, e per lui Hegel “è il più metafisico di tutti i metafisici”. Jacob, facendo del vivente un impulso a riprodursi, nella vita “ritrova l’essenzialità dell’essenza, l’origine e la fine dell’essenza come dinamica ed energia d’essere” (p. 121) “La vita è l’essenza… la vita è più essenziale del non-vivente che essa integra in sé”.
“Mi applico a render chiaro il rapporto che il discorso del genetista, dello scienziato biologo moderno mantiene con la tradizione filosofica: debito e dipendenza sconosciute, diniego, semplificazione, caricatura, sottomissione ai vincoli di un codice, di un programma, appunto, di macchine calcolatrici da cui egli si crede liberato mentre invece ne riproduce i funzionamenti, ecc.” (p. 123)
Insomma, per Derrida non c’è rottura (e non è chiaro se se ne rammarichi o se ne compiaccia) tra filosofia metafisica e scienza, il che è in continuità con un certo atteggiamento del filosofo detto “continentale”, quello di una sorta di rivalsa professionale contro l’egemonia politica della scienza: “credete di esservi liberati della filosofia, e invece fate voi stessi un sacco di filosofemi!”
È vero che Jacob talvolta arrischia enunciati che è facile qualificare di rodomontate, come: “La biologia non cerca la verità. Essa costruisce la propria”. Anche qui Derrida ha buon gioco nel mostrare come in realtà la biologia, proprio nella misura in cui cerca la propria verità, presuppone una nozione generale di verità, senza la quale non sarebbe nemmeno possibile dire che cerca una propria verità. Ma qui Derrida non usa il “principio di carità” che la filosofia stessa ha promosso[3]: che occorre sforzarsi di trovare una logica ad affermazioni che a prima vista appaiono illogiche o paradossali.
L’enunciato di Jacob che Derrida deride può essere interpretato caritatevolmente come un modo di dire: “il biologo non ha bisogno, come i filosofi, di interrogarsi prima su cosa significhi verità in biologia: ne ha una nozione intuitiva che gli basta per operare”. E questo è vero per ogni scienza. Non è il mestiere dello scienziato interrogarsi sul concetto di verità, il suo lavoro consiste nell’usare questo concetto per poter dire il vero sul vivente.
L’enunciato di Jacob può essere anche inteso in senso feyerabendiano[4]: la biologia, come ogni scienza, cambia il proprio metodo scientifico a seconda delle opportunità e dei problemi che le si pongono. La biologia è opportunista, come ogni scienza. Nella sua storia essa ha cambiato spesso metodo, dandosi cioè fini e funzioni diverse. Così con Linneo e Buffon la biologia si auto-interpretava come descrizione accurata delle diverse specie animali, sulla base di una teoria preformista. Con Lamarck e Darwin, invece, si è posta il problema dell’origine delle specie, ovvero sulle ragioni della storia del prodursi e del distruggersi delle forme animali. Cambiamento che si può ravvisare nella storia di ogni scienza. È il senso stesso di “fare biologia” che è cambiato. Ma talvolta nemmeno Derrida se ne rende conto.
Per esempio, Derrida critica il concetto di “riproduzione” in Jacob:
“Il discorso di Jacob – come quello di una certa modernità – maneggia il concetto di produzione o ri-produzione come se fosse trasparente, univoco, che vada da sé, come se ci fosse anche una distinzione o un’opposizione chiara tra produrre e riprodurre, riprodurre e riprodursi. In nessun momento Jacob si chiede quel che ciò vuol dire, mai sottopone questo concetto o parole di produzione/riproduzione (di sé) alla pur minima domanda critica” (p. 135).
Anche qui, la critica di Derrida ripercorre la critica che da molto tempo – da quando la filosofia speculativa ha divorziato dalla concettualizzazione scientifica, diciamo da Kant in poi – la filosofia rivolge alla scienza: che quest’ultima è incapace di pensare i concetti che essa usa, che non si interroga sull’’essenza’ dei propri concetti. (È il rimprovero che già Socrate rivolgeva sistematicamente a qualunque “esperto” ateniese che non si ponesse interrogativi filosofici sul proprio campo di sapere.) Si rimprovera insomma alla scienza di non essere filosofica, il che implica un assunto metafisico forte, nel senso che la riflessione filosofica in qualche modo fonderebbe il discorso della scienza e delle scienze particolari. (E questo a dispetto del fatto che Derrida si sia posto sempre come filosofo non-fondazionalista.) Se la filosofia è in grado di criticare la concettualizzazione scientifica, questo vuol dire in effetti che questa concettualizzazione manca di qualcosa per essere valida, per reggersi da sé, e che questo reggersi è fornito da un altrove dalla scienza, dalla riflessione filosofica appunto. E in effetti, per molti secoli si è pensato che per fare scienza si dovesse prima capire filosoficamente quale fosse il suo oggetto e il modo corretto di procedere per renderne conto. Così Descartes, per esempio, pensava che non potesse essere un buon fisico se prima non avesse stabilito un criterio di certezza. Ma da secoli sappiamo che questo non è vero: possiamo dire che anzi il filosofo di solito arriva dopo lo scienziato, dopo che questi ha scoperto qualcosa che tutti accettiamo. Il filosofo, si dice, giunge sempre al tramonto.
È un peccato che Derrida non tenga in alcun conto l’”altra filosofia”, che poi è anch’essa per lo più continentale, nel senso che è sorta in Austria e in Germania: la filosofia della scienza moderna, il filone cha va da Mach al Circolo di Vienna, a Popper, a Kuhn, a Lakatos, a Feyerabend… Il confronto con questo filone avrebbe aiutato certamente Derrida a distinguere più perspicuamente il discorso dello scienziato da ciò che la scienza di fatto fa. Una distinzione ripresa da Feyerabend, il quale diceva: “Spesso si crede che la scienza fatta da uno scienziato non sia quella pubblicata nelle riviste specialistiche, ma quello che lo scienziato dice quando pontifica”.
Ora, per limitarci al tanto bistrattato (dalla filosofia “continentale”) Popper, bisogna convenire che due o tre cose importanti sulla scienza le ha dette. Una è che la grande scienza – quella che fornisce le visioni del mondo che poi diventano le nostre, anche di Derrida – non nasce dall’osservazione dei fatti, ma da teorie. E che queste teorie sono all’inizio delle metafisiche o dei miti. La separazione netta tra fisica (scienza) e metafisica su cui si basa il positivismo logico è storicamente fallace: le teorie scientifiche sorgono sempre da qualche metafisica. Ciò che separa man mano – col tempo, in un processo mai del tutto concluso, secondo una separazione che chiamerei asintotica – la scienza dalla metafisica è il modo in cui la scienza seleziona via via i suoi asserti (secondo Popper, attraverso tentativi ripetuti di falsificazione, ma questa è un’idea sua, confutata dai post-popperiani). Ora, quando giustamente Derrida vede il discorso di Jacob – ma di qualsiasi biologo, in fondo – intriso di presupposti metafisici (fino a vedervi un hegelismo di fondo) non fa che ri-scoprire l’ombrello: che tutti i concetti della scienza hanno un’origine metafisica, e ne portano le tracce, anche se sono stati rimodellati dal procedere corroborativo (è questo il termine di Popper, che non significa verificativo) della scienza. E questo anche in fisica. Tanti concetti fondamentali della fisica tradiscono la loro origine filosofica o metafisica: per esempio energia, che viene dall’energheia aristotelica. O i concetti di materia, potenza, atomo, forza, vuoto, continuo e discontinuo…
La moderna filosofia della scienza ha detto un’altra cosa importante: che qualche secolo fa il pensiero scientifico si separa da quello filosofico quando cessa di pensare che esso debba partire da una definizione delle cose che esso studia. La scienza non è matematica, non nasce da definizioni precise e rigorose dei propri oggetti, insomma, la scienza non si interroga sulle essenze di ciò che vuole studiare. È in questo senso, credo, che Jacob può dire “la biologia costruisce la propria verità”. La scienza nasce sempre dal linguaggio comune, che essa non interroga come invece è opportuno che faccia la filosofia. La chimica non ha scoperto la composizione dell’acqua (cosa che qualcuno potrebbe chiamare l’“essenza dell’acqua”), l’essere una certa combinazione di idrogeno e ossigeno, partendo da una definizione esaustiva e non-ambigua di acqua. I chimici si sono occupati di quello che la gente comune chiamava acqua. Perciò tutti i fondamentali concetti scientifici fanno risuonare l’eco di concetti ed esperienze comuni: la gravitazione evoca subito la mela di Newton, la forza e l’energia evocano le attività umane, la causa efficiente il tirare e spingere, azione e reazione sono atti animali, gli astri sono quelli che gli umani hanno chiamato tali guardandoli a occhio nudo, ecc.
Questo confuta o limita ciò che avevamo prima detto, che le teorie nascono sempre da ipotesi metafisiche o mitiche? No, perché gli oggetti di cui la scienza si occupa all’inizio (poi essa scopre oggetti non comuni, nuovi, come i buchi neri o i quark) sono oggetti comuni, ma il modo di spiegarne il comportamento è preso da metafisiche. La scienza coniuga linguaggio comune e concetti metafisici, e quindi bypassa l’onere di riflettere filosoficamente sul senso dei concetti.
Certamente poi il sapere scientifico rimbalza sul linguaggio comune e lo modifica. La chimica ha studiato l’acqua senza definirla prima, ma quando ha scoperto la sua struttura chimica, allora essa ha avuto un effetto di rinculo sul linguaggio comune stesso: sappiamo che possiamo chiamare legittimamente acqua solo ciò che è H2O. L’astronomia ha descritto la luna come pianeta perché così la considerava il sapere comune, poi, con la rivoluzione copernicana, ci ha detto che la luna è invece un satellite, e come tale oggi il linguaggio comune la considera. Ciò che chiamiamo sapere della nostra epoca è effetto di una lunga storia di doppio scambio a zig zag tra linguaggio comune e linguaggio scientifico.
Quindi, non so se Derrida, quando critica Jacob perché – come ogni biologo – non si interroga sull’essenza del vivente (pur fornendo a sua volta una definizione dell’essenza del vivente come ereditarietà), si renda conto di criticare in generale la scienza in quanto scienza. Tutto il ragionare di Jacob sul vivente parte dal concetto comune di vivente. Ancor prima che la biologia si sviluppasse come scienza, i nostri antenati, i greci, i romani…, hanno sempre considerato un albero o una mosca come esseri viventi, pur senza disporre di una definizione precisa (filosofi a parte). Ne avevano una definizione implicita, e il compito dei filosofi è stato di esplicitarla. Il biologo non si interroga sull’essenza del vivente se non après coup, quando scopre certe caratteristiche non evidenti (che il linguaggio comune non riconosce) del vivente (ad esempio, il suo essere espressione di un genoma). La scienza fa bene insomma a non interrogarsi sul concetto di vivente, perché è il suo operare in un certo modo sul vivente che gli fornirà poi un concetto di vivente, che sarà comunque sempre provvisorio, rivedibile.
Scrive ancora Derrida:
“[Criticare] i discorsi degli scienziati – per esempio dei biologi – i quali, quando assumono una portata filosofica o epistemologica generale, non sono abbastanza vigilanti quanto alla filosofia o all’ideologia implicita in quel che dicono, non interrogano abbastanza il sistema e la storia dei concetti operativi di cui si servono…” (p. 139)
È una critica agli scienziati solo quando fanno discorsi con “una portata filosofica o epistemologica generale” (quando “pontificano”)? O una critica agli scienziati in generale, in quanto sono scienziati? In questo secondo caso, direi che è impossibile, per chiunque faccia scienza, non usare concetti filosofici, come abbiamo visto, dato che impregnano le loro teorie sin dall’inizio. Derrida vorrebbe allora che gli scienziati facessero solo il loro lavoro?… ma dove comincia e finisce questo loro lavoro? Consiste nel descrivere dei semplici meccanismi? Ma anche quando diciamo che lo scienziato di oggi ricostruisce i meccanismi che operano nella natura, già nel dire “meccanismo” implichiamo tutta una filosofia che è fusa nel concetto stesso. È la metafisica su cui si basa tutta la scienza moderna: che gli enti si relazionano gli uni con gli altri come gli ingranaggi in un meccanismo, in una macchina. Di questa metafisica non possiamo dire che sia vera o falsa, possiamo dire solo che finora ha funzionato, perché la scienza in questi secoli ha avuto un grande sviluppo. Una macchina non funziona perché è vera, funziona perché funziona.
In effetti, la mechané di cui parlavano i greci erano solo le macchine costruite dagli umani per svolgere una certa funzione. Ai greci non sarebbe mai passato per la mente di pensare che la physis – la natura – fosse mechané! Solo in seguito, con la rivoluzione galileiana, si è sviluppata una “meccanica”, la natura viene studiata come se fosse una macchina. Ma una macchina che non serve a nulla, e che nessuno ha creato (l’ipotesi creazionista non è mai scientifica perché segna lo scacco della spiegazione scientifica). È l’atto istitutivo della scienza moderna: la natura è una immensa macchina, ma che non serve a nulla. La biologia moderna è meccanicista – su questo ha ragione il tanto spregiato (dai filosofi) Jacques Monod (1970). Ma già quando il biologo afferma di essere meccanicista emana del filosofico, perché gli si può ricordare che il modello della macchina per pensare la natura è di per sé una scelta metafisica. O meglio, una scommessa: la scienza moderna si impegna a spiegare tutto (non il Tutto) come meccanismo. Abbiamo anche qui una prevaricazione che in sostanza caratterizza ogni metafisica: la macchina, inizialmente solo una parte dell’ente, diventa l’essenziale di tutti gli enti.
Tutta la scienza moderna si basa anche su un altro assioma: la conservazione dell’energia. Non si tratta di una scoperta empirica, ma di una scommessa che identifica la ricerca in quanto scientifica. La scienza esclude a priori che ci possa essere creazione o annullamento di energia, perché sarebbero “miracoli”. Conservazione di energia perché, dopo Einstein, l’energia è equivalente della materia. La forma tradizionale di questo assioma è: “nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma”. Questo all’interno di un tutto (universo) che viene ipso facto concepito come chiuso. Fin quando un tutto è aperto, non è mai “tutto”. Può darsi che il nostro universo sia uno di altri innumerevoli universi di cui nulla sappiamo, ma anche senza saperne nulla la scienza già sa che questo tutti-gli-universi non diminuisce né si accresce. Potremmo anche dire che la materia-energia non muore mai. Si tratta evidentemente di una visione metafisica, ma sarebbe assurdo criticare le moderne teorie scientifiche – che tutte tengono conto di questo assioma – perché esse si basano su una metafisica sbagliata! Che sia sbagliata o meno nessuna filosofia ce lo può dire, ce lo potrebbe dire solo il fallimento della scienza. Se la moderna scienza fallisse, se dovesse ammettere che certe cose emergono dal nulla, allora dovremmo considerare fallace anche la metafisica su cui si regge.
Proprio perché la scienza riusa il linguaggio filosofico, può dispensarsi dal pensarlo filosoficamente.
Qualcuno potrà dire che qui Derrida non critica i filosofemi di Jacob in quanto disapprova la contaminazione di filosofia e scienza, ma li critica perché ritiene che Jacob non si renda conto di essere anche filosofo. Ma, come abbiamo visto, è inevitabile che lo scienziato debba essere anche “filosofo”, perché ogni scienza ha basi metafisiche. È essenziale allora che lo scienziato se ne renda conto, che ammetta di essere filosofo senza saperlo? Non credo che questo sia il punto.
Il filosofo ha un compito che allo scienziato viene risparmiato: quello di mettere filosoficamente in discussione i filosofemi che sono alla base di ogni paradigma scientifico, ma direi anche della maggior parte delle nostre credenze, politiche religiose artistiche, ecc. Quella che chiamiamo filosofia è la riflessione, non sempre critica, su ciò che chiamerei filosofie popolari, le visioni del mondo che ispirano le nostre vite e le nostre credenze. E la scienza ha alla base una sua “filosofia popolare”. Ma mettere in discussione questi filosofemi popolari – qui è il punto – non deve portarci (è questa la tentazione a cui molti filosofi cedono) a criticare la concettualizzazione scientifica in quanto tale! Non si critica una teoria scientifica criticandone i presupposti filosofici. Sarebbe come voler criticare un ottimo cuoco cinese perché ispira la sua arte all’opposizione taoista tra yin e yang…
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3.
Derrida critica insomma i “filosofemi” di Jacob perché non si rende conto che quel che il secondo dice ha una semplice funzione euristica (termine che Derrida usa due volte in questo seminario). Ovvero, la scienza non si fa solo con delle equazioni, o con delle previsioni calcolabili, ma elaborando anche modelli che chiamerei immaginari, una certa immagine di che cosa accada in un oggetto che serve a guidare l’immaginazione scientifica. Per esempio, il darwinismo non è in grado di prevedere assolutamente nulla sul futuro della vita (che sempre più dipende da decisioni politiche umane, ormai), ma ci offre un modello preciso grazie a cui pensare la storia della vita. È falso credere che le scienze siano sempre predittive: spesso prevedono poco o nulla, ma ci offrono una descrizione virtuale della macchina supposta.
Così, per esempio, la fisica parla di informazione. In cosmologia si dice comunemente che la luce delle stelle che giunge fino a noi “ci informa” del loro esserci. Ovviamente qui informazione ha un valore metaforico, se consideriamo essenziale in ogni informazione la volontà consapevole, animale o umana, di informare un altro animale o essere umano. Eppure usare la metafora informativa può essere euristicamente utile nella misura in cui essa piega la ricerca scientifica in un senso piuttosto che in un altro. Comunque, l’uso di figure antropomorfiche – come segnale, informazione, messaggio, codice, programma, ecc. – è la spia di qualcosa di più profondo nella scienza. Ovvero, l’uso di queste metafore è una traccia della scienza come elaborazione soggettiva. La scienza non è lo specchio della natura: è prodotto di un dialogo continuo con la natura. Una teoria scientifica è regolare un certo giococon la natura (la natura può essere considerata il partner dello scienziato nel gioco della scienza; un partner coatto, ma un partner[5]).
Si pensi ad esempio a concetti come ordine e disordine, fondamentali nella termodinamica. È evidente che ordine e disordine sono valutazioni soggettive, non oggettive. Se guardiamo una stanza, possiamo percepirla come ordinata o disordinata, ma che c’è di “oggettivo” in questo? Chiamiamo un sistema di cose più disordinato di un altro quando il primo esige una descrizione più complessa (e più lunga) del secondo. Una stanza molto disordinata ha un suo ordine, anche se molto complesso. Ma la complessità è pur sempre una valutazione soggettiva: è una reazione umana a qualcosa che deve essere capito. “Disordine” dice semplicemente il supplemento di sforzo che dobbiamo impiegare per trovarvi un suo ordine, che comunque esiste (a qualsiasi cosa possiamo trovare un ordine, una “legge” che la regoli[6]). L’entropia è la tendenza del mondo ad assumere degli ordini sempre più complessi, fino al punto che qualunque essere umano rinuncerà a trovarne uno. Quando la termodinamica dice che in un sistema chiuso ogni energia tende irreversibilmente al calore, ovvero all’energia più disordinata (ovvero più porobabile), dice che il calore è un’energia la cui descrizione è troppo complicata. Il mondo è una corsa verso la complessità, verso il caos – il quale non sarebbe all’origine del mondo, ma punto di arrivo del mondo. Come si vede, una valutazione soggettiva è incastrata nei concetti stessi, oggettivi, di “calore” e di “energia” in generale. Anche la scienza più sofisticata tradisce le proprie umili origini, il suo derivare da valutazioni umane, molto terra terra: se qualcosa è disordinata o meno, se è complicato capirla o meno, quanto tempo e quanta energia dobbiamo impiegare per descriverla, ecc.
François Jacob nel 1965
Si prenda il concetto, tuttora controverso, di probabilità. A lungo si è discusso che cosa essa sia, se abbia una base oggettiva (è più probabile ciò che è più frequente) o sia squisitamente soggettiva (ovvero, si basa sulle nostre attese). Oggi, dopo Ramsey e de Finetti, è la teoria soggettivista della probabilità a prevalere in matematica e in logica. Eppure la probabilità è nel cuore delle cose stesse, dato che per la fisica quantistica fenomeni che consideriamo oggettivi sono di fatto uno spettro di probabilità[7]. Sono quei punti critici della scienza in cui oggettivo e soggettivo si intersecano, dove la scienza deve convenire che certi fenomeni oggettivi possono essere descritti solo in relazione al nostro sapere e alle nostre attese. Da qui i paradossi ben noti, come l’indeterminazione di Heisenberg o il gatto di Schrödinger. Probabilmente questi paradossi sono una nemesi, il venir fuori di qualcosa di rimosso, il fatto cioè che la scienza inizia come un modo di valutare soggettivamente il mondo, e che tale, anche al culmine della maturità, essa resta. Che le cose sono, fondamentalmente, indistricabili dalle nostre reazioni soggettive a esse. È come se la scienza, divenuta principessa del reame del sapere, dovesse sempre re-incontrare la Cenerentola che essa era.
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4.
Ora, l’importante è che la critica, anche dura, al testo di Jacob da parte di Derrida si rovesci poi in un’accoglienza piena del modello proposto da Jacob – la riproduzione biologica come un processo testuale. Lungi dal vedere i riferimenti linguistici e testuali di Jacob come metafore pedagogiche, Derrida li prende alla lettera e conclude che il vivente ci dà l’esempio di una testualità senza messaggio e senza comprensione.
Jacob si pone il problema di fino a che punto la moderna scienza del vivente possa fare a meno di concetti “teleologici”, ovvero di concetti appartenenti all’ordine del linguaggio e della scrittura, e quindi all’ordine dei fini, dei programmi… Abbiamo detto dell’ampio uso che le scienze di oggi fanno di concetti come “informazione”, “messaggio”, “codice (genetico)”, “istruzioni”, che sembrano tutti implicare una soggettività, un Io, uno “spirito”… Jacob afferma che la descrizione dell’eredità come un programma cifrato in una sequenza di radicali chimici fa scomparire la contraddizione tra teleologia e meccanismo (diremmo: tra soggettività e oggettività). La riproduzione – per Jacob, la struttura essenziale del vivente – funziona come un testo. Come scrive in modo pungente:
“A lungo il biologo si è ritrovato davanti alla teleologia come essere accanto a una donna di cui non può fare a meno, ma con cui non vuole farsi vedere in compagnia in pubblico. Il concetto di programma dà ora uno statuto legale a questa relazione segreta.” (p. 17)
Ora, mi pare che Derrida accolga completamente questa “legalizzazione”. Assistiamo a una doppia strategia di Derrida nel suo confronto col pensiero biologico via Jacob: da una parte, abbiamo visto, critica le concettualizzazioni di Jacob, dall’altra invece ne fa uso per insinuare ciò che la sua filosofia insinua (direi anzi che la filosofia di Derrida è tutta un’insinuazione), come se cercasse nel modo in cui il biologo dice il proprio sapere dei supporti al proprio discorso. Da una parte certi concetti sono criticati, come abbiamo visto, dall’altra però essi sono utilizzati per giustificare il suo ”la vita la morte”. Può fare questo però solo forzando il senso di certi concetti biologici, piegandoli al proprio uso per così dire.
Per esempio, Derrida pensa di leggere in Jacob l’idea che la sessualità e la morte, queste “invenzioni”, siano supplementi. Che si tratti di qualcosa che si aggiunge alla vita, che la supplisce. Ma si ha allora il sospetto che Derrida non abbia capito quello che Jacob e la biologia dicono della sessualità e della morte. La sessualità non è qualcosa che supplisce o si aggiunge alla vita, non più di quanto l’”invenzione” dei mammiferi sia un supplemento dei vertebrati… La sessualità è semplicemente un modo di replicazione (modo nuovo in una certa fase di evoluzione della vita), di cui la morte dell’individuo è una conseguenza intrinseca. È un’innovazione nel modo di riproduzione, non un supplemento. Ma l’idea che la sessualità e la morte siano supplementi faceva gioco a Derrida, che ha sempre insistito sulla posizione del supplemento nei vari campi. Direi che si tratta qui di un’appropriazione indebita.
Derrida insiste d’altro canto sull’ambiguità del concetto di produzione e ri-produzione in biologia perché quel che gli interessa nel fondo è mostrare come ogni riproduzione di sé sia riproduzione di una riproduzione. Che non c’è un prodotto primo che dia inizio a un processo di riproduzione. Ogni prodotto è riprodotto. Questo è uno dei temi fondamentali del pensiero derridiano: le copie, le tracce, le rappresentazioni, non hanno un originale, un’origine da cui derivano. Derrida si gioca tutto nel rinvio all’infinito, come nella mise en abyme.
È difficile capire non il pensiero così enunciato di Derrida – lo si può leggere nei manuali di filosofia, ormai – ma la sua enunciazione, cioè, che cosa Derrida voglia in fondo dire (o meglio, cosa voglia mostrarci) con questa insistenza. Dato che non si tratta nemmeno di una teoria, quanto di una critica di ogni teoria che voglia dire l’origine di qualcosa. Dopo tutto, non ci è ancora possibile capire Derrida, perché non siamo ancora riusciti a decostruirlo. (Questo per dire che, malgrado le mie critiche qui a Derrida, in fondo sono derridiano).
Derrida riprende il paradosso ben noto “è nato prima l’uovo o la gallina?” (a cui fa riferimento anche Jacob). Questa domanda è già derridiana, in quanto si dà per scontato che a questa domanda non ci sia risposta, che gireremo in tondo sempre tra un’origine e l’altra… Ora, si dà il caso che la teoria genetica moderna ci dia invece la risposta: all’origine c’è l’uovo. L’uovo in effetti è il contenitore del genoma del pollo, e il pollo ne è il fenotipo. Il pollo di oggi esiste perché l’uovo del pre-pollo o proto-pollo ha subito una mutazione, che ha dato nascita al pollo; l’origine del mutamento può essere solo nel genoma, cioè nell’uovo, non nel fenotipo del pre-pollo o proto-pollo. Da qui il noto apoftegma: “la gallina è un taxi usato da un uovo per produrre un altro uovo”. Certo si potrebbe sempre dire: ma ci voleva comunque un proto-pollo con un proprio uovo, l’uovo del pollo non nasce spontaneamente. Certo, e così si potrebbe retrocedere, man mano, fino all’origine del vivente sulla terra. Ammesso che ogni forma vivente venga da un unico ceppo. Allora, c’è un’origine della vita, anche se non c’è un’origine delle specie, come ci ha detto Darwin?[8]
Per le scienze dell’evoluzione la vita certamente è un evento, appare a un certo punto della storia del pianeta. La geologia ci dice che la vita lascia tracce solo a partire da un certo momento della storia della terra. Ma la biologia non è in grado di dire cosa abbia prodotto questo evento, e come si è prodotto. La biologia esclude che ci sia stata creazione ex nihilo, perché questo è escluso dal gioco stesso della scienza. Perciò per la biologia ci deve essere un’origine, dobbiamo supporre un primo prodotto che non fu a sua volta un ri-prodotto. L’assunto filosofico di Derrida non può quindi essere accettato dal biologo. Per cui ci si chiede: perché comunque per Derrida è così importante affermare che comunque, della produzione e riproduzione, non c’è origine?
La verità, secondo me, è che nel fondo Derrida diffida delle scienze perché queste sono sempre ricerca di un’origine, insomma di una causa prima in senso aristotelico. Certamente la scienza rimanda sempre più all’indietro la causa prima, sia nel più antico, sia nel più elementare. Sia verso un evento da cui verrebbe fuori anche il tempo (oggi, teoria del Big Bang), sia verso qualcosa di irriducibile, di non riducibile ad altro, verso un semplice che non sia a sua volta composto (le particelle non a caso dette elementari, i quark, ecc.). Ma il filosofo sa che questo rinvio – al più arcaico e al più elementare – è un processo infinito, ovvero, sa che ogni spiegazione scientifica, ogni Erklärung, sarà sempre provvisoria e regionale. Mentre la filosofia tende (anche quando non lo sa) all’assoluto, ovvero al non-regionale, alla totalità dell’ente, a un tutto non relativo, ovvero non in relazione con altre parti… Ma dell’assoluto non si può dire nulla, perché ogni predicazione lo relativizza, ne differisce, per così dire, l’assolutezza.
Allora, la manovra di Derrida per salvare “l’assoluto” è consistita nel fare di questo differimento, di questa différance, dell’assoluto… l’assoluto stesso. Nella figura della “traccia” si inscrive, si incide, questo scacco della filosofia nel dire l’assoluto, ma facendo di questo scacco l’assoluto stesso, facendo prevaricare lo scacco dell’assoluto sull’assoluto. Altrimenti il filosofo – teme Derrida – dovrebbe rassegnarsi a dipendere dalle spiegazioni (sempre regionali e provvisorie, sempre storiche) delle scienze, insomma a costruire una metafisica realista che faccia da sgabello al confort filosofico degli scienziati (questa è la funzione di molto epistemologi oggi, e del “nuovo realismo”). La filosofia come ancilla scientiarum. Che non sia mai! Da qui la sfida “barocca” di Derrida (che citava appunto i quadri barocchi, di differimento, di David Teniers il Giovane): tutto è ri-produzione, non c’è produzione originaria.
E perché non può (o non deve?) esserci produzione originaria? Perché la produzione originaria – del cosmo ad esempio, o della vita su questo pianeta – stabilisce un inizio del gioco, ma Derrida vuole che il gioco non abbia mai inizio. In ogni caso, ci sarà sempre e comunque già gioco. La catena degli effetti lascerà béant l’ultimo o il primo degli effetti, insomma, la causa prima è sempre differita. Ma allora questo differimento della causa prima verrà eletto a “causa prima”, ad archi-traccia, a traccia che viene prima di ogni traccia e che comanda la produzione di tutte le tracce. In questo modo Derrida pensa di salvare la capra e il cavolo: salvare la sempre recidiva vocazione della filosofia all’assoluto, e allo stesso tempo denunciare l’eterna relatività di questo assoluto, rinunciare all’assoluto come a qualcosa di sempre effimero, dato che rimanda sempre… a qualche altro assoluto.
David Teniers il Giovane, “L’arciduca Leopold Wilhelm nella sua galleria a Bruxelles”[9]
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5.
Quindi, Derrida mette tanto impegno nel criticare la filosofia implicita, “ingenua”, di Jacob, perché ci tiene a impossessarsi del concetto essenziale che, secondo lui, Jacob avanza: che la vita è una forma di scrittura. In effetti nozioni come codice, produzione e riproduzione, trascrizione, programma, ecc., sono tutte nozioni legate al concetto di scrittura. Ma, come è noto, Derrida non pensa alla scrittura come a un succedaneo della parola orale, ma come a qualcosa che precede (filosoficamente, non cronologicamente) il linguaggio orale propriamente detto. Egli vuole proporre una nozione di scrittura che non la riduca a trascrizione successiva di un pensiero, che non la faccia provenire da un’intenzione soggettiva cosciente. In questo senso, gli sembra che la genetica moderna conforti, avalli direi, la sua proposta filosofica.
Derrida vorrebbe insomma estendere il concetto di testualità fino a renderlo co-estensivo al vivente.
“Questa situazione – un testo senza riferimento esterno, tutto al di fuori perché senz’altro riferimento che un testo rimarcante [remarquant[10]] un testo -, questa situazione non è in fondo quella del testo della biogenetica che si scrive su un testo di cui essa fa parte o di cui essa è il prodotto, che si scrive su un oggetto o un referente che non solo è a sua volta già un testo, ma un testo senza il quale il testo scientifico – esso stesso prodotto del vivente – non potrebbe scriversi?” (p. 159)
Ciò gli permette di avanzare una metafisica che escluda ogni forma di realismo: non solo la vita è testualità, ma possiamo rigettare ogni riferimento all’autorità, direi, di un reale, di cui la scrittura sarebbe semplice riproduzione o rappresentazione.
“Riferendo il vivente alla struttura di un testo, si compie visibilmente un progresso concettuale nella bio-genetica, un progresso nella conoscenza, se volete, del vivente, se intendiamo questo progresso della conoscenza come allo stesso tempo una trasformazione dello statuto della conoscenza che non ha più nulla a che fare […] con un reale meta-testuale, ma con del testo, e che consiste quindi a scrivere testo su testo.” (p. 160)
Non siamo in pieno idealismo, ma in qualcosa che gli rassomiglia: in pieno testualismo. Le sue obiezioni a una visione realista possono essere nel fondo alquanto simili a quelle che già a suo tempo furono articolate dall’idealismo tedesco a partire da Fichte – ovvero, che anche quando diciamo che c’è una realtà fuori del testo, possiamo dire questa realtà solo grazie a un testo, per cui “la realtà” è pur sempre un testo a cui rimanda un altro testo. Così, il suo rigetto di un originario, di un evento che sia origine di tutti gli altri, è il corollario filosofico dell’idea che non c’è un reale all’origine dei testi, che non c’è un reale prima del testo che questo testo inizialmente rappresenterebbe. Il mondo diventa una fenomenologia della testualità così come per l’idealismo il mondo era fenomenologia dello Spirito.
Hegel (“il più metafisico dei metafisici”, come dice Derrida) disse che ogni vera filosofia è idealista anche se non lo sa o lo nega. “Accusare” anche Derrida di idealismo, quindi, potrebbe essere un modo di confermare l’enunciato di Hegel. E in effetti possiamo dire che Hegel ha ragione, a suo modo. Il punto – ed è qui la divaricazione – è se il filosofo di questo proprio idealismo se ne rammarichi o meno. In questo senso ogni vera filosofia (con buona pace di Badiou) è anti-filosofica: denunciando il proprio incorreggibile idealismo, cerca di andare oltre… la filosofia.
Ma anche qui, dietro l’enunciato testualista di Derrida, quale enunciazione dobbiamo leggervi? Ovvero, in quale contesto, in quale con-testo – in che cosa intorno al testo – dobbiamo leggere il testo di Derrida? Certamente il suo testualismo, preso alla lettera, è un avatar dell’idealismo, e quindi un approccio metafisico a dispetto del fatto che Derrida voglia chiudere con la metafisica. Ma è questo ciò che egli ci mostra? L’enunciato è ciò che si dice, l’enunciazione è ciò che si mostra.
La differenza tra enunciato ed enunciazione è colta da una famosa barzelletta ebraica. Due ebrei si incontrano in treno e uno chiede all’altro dove vada, e l’altro risponde “vado a Cracovia”. Risposta che irrita il primo, il quale protesta: “Ma perché dici di andare a Cracovia per farmi credere che vai a Varsavia, mentre in realtà vai proprio a Cracovia?”
Possiamo dire che Derrida dice di andare filosoficamente a Cracovia – andare contro la metafisica della tradizione filosofica - per farci credere che vada a Varsavia, ovvero verso una metafisica testualista. Questo ci fa pensare, come pensa l’ebreo della barzelletta, che lui vada davveroa Cracovia, cioè che intenda veramente disfarsi della metafisica, compresa della propria, quella testualista. Mi pare che questa sia la lettura che fanno di lui molti derridiani. Ma se prendere Derrida au pied de la lettre fosse a sua volta un malinteso, un modo di cadere nel suo tranello? Se invece Derrida andasse davvero dove non dice di andare, ovvero verso una nuova metafisica? Perché il secondo ebreo pensa di essere ancor più acuto e scafato del primo nella misura in cui prende il primo alla lettera – e se invece questo suo essere non-dupe, il suo non lasciarsi ingannare, come dice Lacan, fosse il suo errore? Les non-dupes errent. Perché in effetti la barzelletta dei due ebrei resta aperta, non conosciamo la verità, per cui possiamo rovesciare l’enunciazione potenzialmente all’infinito. Più si cerca di essere non-dupe, più si rischia di errare.
Questa nuova (non detta) metafisica verso cui di fatto Derrida va è certamente legata a qualcosa di personale, di idiosincratico. E mi chiedo se in ogni filosofia, anche in quelle che si vogliono le più razionali, le più puramente argomentative, le più anonime, non si esprima questa opacità soggettiva del filosofo. È il tema che Derrida stesso affronterà in questo seminario parlando della biografia del filosofo, a proposito dell’uomo Nietzsche. Ovvero, al centro di ogni filosofia, per quanto rigorosamente impersonale, si annida un ombelico biografico, direi un’ossessione privata, qualcosa che gli altri non condividono originariamente, ma che finiscono con l’assumere quando entrano nel gioco di quella filosofia. Non ereditiamo solo le argomentazioni dei grandi filosofi, anche le loro ossessioni. Ora, sappiamo che Derrida era ossessionato dalla scrittura, varie testimonianze ce ne parlano. Scrivere per lui era molto più che esprimersi, era, direi, un tracciare delle forme indelebili nel marmo, o forse nella carne.
Ma questa sua ossessione personale ha avuto molto successo, soprattutto nel campo della critica e della storia letterarie, ovvero in professioni di scrittura. Un po’ come i massoni –masons, muratori – hanno creato una visione metafisica e cosmologica fondata sulla costruzione architettonica, analogamente la metafisica derridiana della traccia e della scrittura fornisce una sorta di esaltazione filosofica di quegli artigiani della scrittura che sono gli accademici nelle Humanities. Derrida è diventato l’interprete più prestigioso della confraternita di coloro che scrivono. Come nella massoneria, gli strumenti del lavoro diventano l’essenza del lavoro stesso.
Ma, al di là di questa confraternita mondiale, gran parte del pensiero moderno ha pensato di trovare nel concetto derridiano di testo la soluzione che questo pensiero da tempo cerca: qualcosa che metta finalmente fine alla divisione di vecchia data tra mondo dei segni e mondo delle cose. È la stessa ragione per cui a un certo punto, nella seconda metà del XX° secolo, il pensiero è sembrato coagularsi attorno al significante linguaggio: il linguaggio andava a pennello nel superare la divisione che da secoli tormenta il pensiero occidentale, quello appunto tra segni e cose, o tra res cogitans e res extensa, quindi tra spirito e materia, mente e mondo, ecc. Perché il linguaggio sembra una moneta che ha una faccia materiale, sensibile (i suoni, le lettere, la struttura fonologica) e una faccia mentale, intelligibile (il versante semantico, l’espressione di idee). Ma il linguaggio, il logos, dirà Derrida, è ancora troppo poco materiale, troppo poco ‘cosa’, dato che solo gli esseri umani posseggono un linguaggio. Derrida vuole andare oltre, e pensa di trovare nella nozione di traccia – in qualcosa di non sempre intenzionale, in una semplice differenza inferta a qualcosa di omogeneo – il significante giusto per dire questo superamento. Il superamento della micidiale divisione all’origine delle metafisiche, che originariamente era tra un intellegibile e un sensibile, tra είδος ed ειδωλων, di cui sarà sempre problematico l’intreccio e la reciproca congruenza.
In sostanza, Derrida partecipa a un grande sogno della cultura, non solo parigina, dell’epoca: superare la divisione tra cultura umanistica e cultura scientifica, non accettare più la barriera diltheyana tra scienze dello spirito e scienze della natura. Abbiamo visto che la nozione di testo secondo Derrida poteva permettere questa congiunzione.
Poco dopo il seminario di Derrida, Ilya Prigogine e Isabelle Stengers pubblicheranno La nuova alleanza[11], che proseguirà lo stesso progetto, lo stesso sogno: la nuova auspicata alleanza sarà esplicitamente quella tra scienze umane e scienze della natura (solo che qui il riferimento filosofico sarà Bergson).
Molta acqua da allora è passata sotto i ponti, e possiamo dire oggi che questo sogno non è mai divenuto realtà. In seguito, le Humanities e le Natural sciences si sono sempre più separate, e da entrambi i lati. La cultura filosofica continentale è slittata da allora sempre più verso forme di spiritualismo, verso l’ermeneutica, verso una ripresa del bergsonismo o della fenomenologia; mentre le scienze hanno riaffermato spavaldamente il loro riduzionismo e hanno investito lo stesso “spirituale” attraverso le neuroscienze, di cui all’epoca del seminario di Derrida non si parlava. Le neuroscienze tematizzeranno la vita mentale degli esseri umani a partire dalla struttura del cervello, a partire da un organo materiale.
Tengo a dire che anche io lavoro da tempo a un superamento delle metafisiche che oppongono spirito e mondo, scienza dello spirito e scienze della natura, nature e nurture, ecc.[12] In questo senso lo sforzo di Derrida è anche il mio. Il punto, secondo me, è il modo in cui Derrida rigetta questa opposizione. Egli fa prevalere - direi prevaricare - un concetto profondamente antropologico come quello di scrittura facendone il modello di processi naturali. Anche il concetto di traccia, se non antropocentrico, è zoocentrico: una traccia è tale solo per qualcuno che la consideri tale. La forma di un piede sulla sabbia è traccia solo per qualcuno che cerchi chi vi è passato.
Come per Nietzsche, abbiamo visto, la nozione di vita prevarica su quella di ente in generale – anche se nella forma negativa della morte - analogamente in Derrida la nozione di scrittura o di traccia prevarica sull’ente in generale.
È come se Derrida dicesse: "Non c'è divisione tra pensieri e cose, perché tutte le cose sono forme di pensieri..." Non si supera veramente un'opposizione facendo prevaricare uno dei termini di un'opposizione sull'altro. È un superamento illusorio.
La testualità è una prevaricazione metafisica nel senso che tutte le metafisiche sono sempre l’atto di una prevaricazione categoriale: una parte dell’ente prevarica la totalità dell’ente, ponendosi come essenza dell’ente in generale. E così la scrittura – o meglio la traccia – questo ente in particolare, differenziale e in differita, diventa qualcosa di essenziale della totalità dell’ente.
Malgrado tutte le sue critiche a Jacob, qui Derrida esprime la speranza che la biologia moderna possa abbandonare i presupposti meccanicisti da cui essa è partita, e da cui è partita ogni scienza moderna. Ma così non si rende conto che tutte le nozioni illustrate da Jacob, e che richiamano l’ordine dei segni e della scrittura, sono concetti, appunto, euristici - la biologia era allora, e lo sarà sempre più, meccanicista. Quando il biologo dice “codice genetico” sta usando una metafora: sa che si tratta in fin dei conti solo di processi chimici. Derrida prende metafore didattiche per la struttura stessa della cosa biologica.
Questo non significa che il mondo dello spirito e quello delle cose naturali siano necessariamente separati. Ma un punto di vista che vada oltre questa divaricazione non può essere quello della prevaricazione dei concetti di un mondo su quelli dell’altro.
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Storicamente, direi che la concettualizzazione della filosofia della scienza è andata in una direzione per certi versi opposta alla proposta di Derrida, di prendere la scrittura (quindi anche la scrittura dei biologi, i testi che essi scrivono) come modello per rappresentare il vivente. Si è affermata invece sempre più – e non dico che me ne rallegri, ma è un fatto - una visione delle teorie scientifiche, dei modelli scientifici – inclusa quindi la teoria biologica – come essi stessi organismi il cui modello è l’organismo biologico secondo il darwinismo. Ovvero, una teoria non è solo né essenzialmente un’immagine del mondo, dell’oggetto che essa vuole descrivere e spiegare, è essa stessa una sorta di organismo simil-vivente, soggetta a processi fondamentali molto simili a quelli della vita biologica.
Il darwinismo afferma che la vita ha una storia per mutazione e selezione: la mutazione è casuale, stocastica, e poi ogni mutazione è messa al vaglio dell’ambiente dell’organismo, che la premia o la elimina. Ogni organismo ha un doppio ambiente: da una parte i congeneri (per esempio, vincere contro altri maschi la competizione per accaparrarmi le femmine, ecc.), dall’altra l’ambiente extra-specifico (assicurarmi le prede, sfuggire ai predatori, far fronte a cambiamenti climatici, ecc.). L’equivalente della selezione delle teorie è anch’essa duplice: una teoria deve competere con le altre teorie rivali, e allo stesso tempo fornire spiegazioni migliori del proprio oggetto di ricerca. Conta la capacità che ha una teoria di prevedere certe cose del mondo, e anche di offrire un modello migliore, che appaia verosimile, di ciò che accade nel mondo che descrive, rispetto ad altri modelli. Ma le teorie scientifiche sono a loro volta frutto del caso, del fatto cioè che a un certo punto compaiono degli esseri umani – Galileo, Newton, Darwin, Mendel, Einstein, ecc. – che concepiscono, non importa come e non importa perché, delle idee nuove. Dawkins (1976) chiama queste idee memi, da mimesis, e i memi sono il corrispettivo culturale dei geni. Questi memi nuovi sono mutanti intellettuali – i quali vengono poi sottoposti all’esame dei fatti, ovvero della porzione di realtà che intendono descrivere, e alle critiche dei memi (teorie) rivali. Nessuna teoria spiega tutto, ma può spiegare più di un’altra, per cui finisce col prevalere nella lotta per l’esistenza memetica. Una teoria scientifica è vista sempre meno come una riproduzione fotografica del mondo, sempre più come un organismo composito che sopravvive nel mare del reale. Una teoria ci appare più vera di un’altra perché sopravvive meglio dell’altra.
Una critica puramente filosofica delle teorie nuove lascia quindi il tempo che trova: quel che conta è la capacità di ogni teoria di sopravvivere e trasmettersi (riprodursi) nelle comunità scientifiche. Per una teoria scientifica accettata le critiche filosofiche sono per lo più come le punture di zanzare per un elefante. Una teoria biologica, quindi, prodotto del vivente, tende spontaneamente a comportarsi essa stessa come una sorta di organismo vivente in relazione a quel mondo vivente che vuole descrivere.
Possiamo dire quindi che l’idea peregrina di Charles Darwin – che le specie mutano non perché trasmettono caratteri acquisiti dal fenotipo, ma per una mutazione puramente casuale del genotipo – fu essa stessa una mutazione memetica che è stata positivamente selezionata dalla ricerca successiva, nel senso che essa si è dimostrata adatta a sopravvivere nella massa di dati che le scienze dell’evoluzione hanno prodotto da allora in poi. Certo anche il darwinismo ha i suoi contro-fatti, molti tratti della vita non possono essere spiegati darwinianamente[13], eppure il darwinismo sopravvive come idea dominante perché si adatta abbastanza bene (non perfettamente) ai fatti biologici.
In questa ottica, non è più la testualità il modello della biologia moderna, ma i testi che gli umani producono trovano il loro modello nel vivente stesso.
[5] Riprendo qui la brillante descrizione di Hintikka della scienza come un gioco, assimilabile quindi a una teoria generale dei giochi. Hintikka, 1975, capp. II-III-V.
[6] È questo un presupposto fondamentale della matematica moderna: a qualsiasi insieme, per quanto in apparenza caotico, possiamo trovare un ordine, una “legge” che ne descriva la composizione.
[7] La meccanica quantistica considera il flusso o corrente di probabilità come un fluido eterogeneo (la corrente di probabilità è il tasso di flusso di questo fluido). È un vettore reale, come in una corrente elettrica. Un fluido (ente oggettivo) può essere descritto in termini probabilistici (di attese soggettive), e un calcolo probabilistico può essere descritto come un ente oggettivo.
[8] Più volte è stato notato che il titolo di “L’origine delle specie” è fuorviante, perché di fatto non dice nulla delle origini delle specie, e di fatto dissolve anche il concetto di specie.
[9] Se fosse per Derrida, fra i quadri dell’arciduca ci dovrebbe essere anche il quadro di Teniers “L’arciduca Leopold Wilhelm nella sua galleria a Bruxelles”… Avremmo quella che i francesi chiamano myse an abyme.
[10]Remarquer quindi nel doppio senso: come un testo che marca un altro testo una seconda volta, che lo ri-marca, ma anche che lo nota, lo rende rimarchevole, lo fa essere testo mentre prima, non notato, non lo era.
[12] Rimando qui a: S. Benvenuto, "Natura/ Cultura. Critica ad un paradigma culturale" in Giorgio de Finis & Riccardo Scartezzini, a cura di, Universalità & Differenza. Cosmopolitismo e relativismo nelle relazioni tra identità sociali e culture, FrancoAngeli, Milano 1996, pp. 116-142.
[13] Del resto, nemmeno Darwin era “darwiniano” fino in fondo, per fortuna. Cfr. Pievani (2013, 2015).
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Bibliografia
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T. Pievani (2013) Anatomia di una rivoluzione. La logica della scoperta scientifica di Darwin, Mimesis, Milano.
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I. Prigogine & I. Stengers (1979) La nouvelle alliance, Gallimard, Paris.
Quine, WVO (1975) ‘On Empirically Equivalent Systems of the World’, Erkenntnis, vol. 9, no. 3, pp. 313–328.
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N. L. Wilson (June 1959). "Substances without Substrata", The Review of Metaphysics, 12 (4): 521–539.
Secondo la filosofa e storica della scienza Donna Haraway, la lotta per un mondo più vivibile si combatte anche sul terreno della natura e dei suoi significati. Se tradizionalmente il pensiero femminista si è impegnato attivamente nel condannare i resoconti scientifici del mondo come sostanzialmente ideologici, impegnandosi in un lavoro di decostruzione che ne smascherasse i presupposti storico-culturali impliciti ad essi inestricabilmente connessi, per Haraway il campo della scienza è tuttavia soprattutto un campo di significati contestati e contestabili, aperti e dinamici. In esso alcune storie e metafore, lungi dal legittimare sistemi di oppressione, di sfruttamento e ordinamenti gerarchici del mondo, possono invece ampliare il nostro modo di pensare e immaginare, fungendo così da alleate nella lotta per la costruzione di un mondo più vivibile e giusto. L’ordine nascosto. La vita segreta dei funghi (Marsilio, 2020) di Merlin Sheldrake è un serbatoio di storie e metafore potenti, da questo punto di vista.
I funghi di cui ci parla Sheldrake sono, dal punto di vista concettuale, importanti strumenti in grado di mettere in crisi alcune categorie normalmente considerate auto evidenti. In particolare l’importanza teoretica e filosofica di questo saggio sta nel rimettere radicalmente in discussione la nozione classica di individuo-soggetto-uno prendendo le mosse direttamente dall’analisi delle caratteristiche costitutive di una particolare gamma di viventi. Un’operazione già sviluppata nell’ambito della microbiologia dove la nozione di individuo è stata, in vari contesti, potentemente trasfigurata fino a espandersi e trasformarsi a tal punto da divenire irriconoscibile: con essa alla biologia degli organismi viventi si è sostituita l’ecologia delle loro relazioni e interdipendenze. «Siamo ecosistemi composti – e decomposti da un’ecologia di microbi il cui significato solo da poco tempo ha cominciato a venire alla luce» (p. 28) scrive l’autore a proposito. In tal senso i funghi di Sheldrake emergono come esseri intrinsecamente relazionali, portando alla ribalta il concetto di simbiosicome categoria biologica centrale. Un ruolo importante, nel portare al centro del discorso biologico questa categoria, va attribuito alla biologa americana Lynn Margulis e alla sua teoria endosimbiotica, secondo cui la simbiosi avrebbe avuto un ruolo cruciale nell’evoluzione delle prime forme di vita: in particolare, le cellule eucariote sarebbero il risultato di un’unione poi stabilizzatasi tra organismi diversi. Se i funghi emergono dal testo di Sheldrake come organismi in grado di confondere confini netti, proprio per la natura del suo oggetto, il testo di Sheldrake deve uscire dallo specialismo e tracciare un “discorso più ampio”, che porta necessariamente l’autore a costruire relazioni di mutuo scambio accademico, a interfacciarsi con studiosi appartenenti ad altri campi disciplinari, a praticare incursioni in altri ambiti dando vita a un «movimento bidirezionale di informazioni e risorse» (p. 269) che traccia una rete complessa.
Al centro di testo di Sheldrake non ci sono soltanto i funghi in quanto specie: ma anche e soprattutto le simbiosi, le connessioni imprevedibili, gli intrecci e le reti complesse che questi possono generare. Vengono prese in considerazione le articolate reti di relazioni che il tartufo instaura con la sua comunità di microbi, con il terreno e con il clima in cui vive, da cui emerge il suo aroma caratteristico, risultato inoltre di un processo evolutivo che l’ha portato a rispecchiare i gusti animali, a farsi ritratto odoroso delle loro passioni perché questi potessero essere veicolo alla dispersione delle spore (p. 38). Un altro esempio è costituito dai licheni, secondo alcune ipotesi scientifiche risultato della simbiosi tra un’alga e un fungo, relazione frutto di un processo evolutivo che ha consentito a entrambi di adattarsi e popolare ambienti altrimenti inospitali e proibitivi. In tutti questi casi i funghi emergono soprattutto come organismi in grado di destrutturare categorie prestabilite e confini netti, come reti dinamiche di relazioni trasformative.
Ciò che viene messo fortemente in evidenza, infatti, è la complessità irriducibile delle relazioni e degli intrecci che i funghi instaurano e nei quali sono coinvolti. La stessa “dual hypotesis”, secondo cui i licheni sarebbero il risultato di una simbiosi tra un fungo e un’alga, è già stata ampiamente problematizzata da alcuni studi che hanno mostrato come gli attori coinvolti siano di più, le relazioni contestuali e fondamentalmente irriducibili a uno schema fisso (p. 114): da questo punto di vista l’identità dei licheni emerge più come una domanda che una risposta già nota, e questi si configurano come «sistemi dinamici più che un elenco di componenti che interagiscono tra loro» (p. 115). I licheni sono relazioni aperte in quanto il reticolo miceliare, ossia ciò che costituisce il “corpo” del fungo, si configura come processo più che cosa. I funghi emergono quindi come organismi viventi e dinamici, al punto che per Sheldrake si potrebbe parlare del reticolo miceliare, il corpo metamorfico e sempre provvisorio del fungo, come traccia della sua storia, del suo sviluppo continuo, sempre imprevedibile e contestuale. L’“indeterminismo comportamentale” che caratterizza il reticolo miceliare fa si che non si possano dare due reticoli identici e porta ad adottare metafore per descrivere i funghi che ci consentono di evitarne la reificazione, preservandone l’identità aperta e provvisoria. A questo proposito Sheldrake parla del micelio come di una “melodia” polifonica, irriducibilmente molteplice e plurale e delle ife, le cellule che lo costituiscono, come di flussid’incarnazione, processi in divenire senza pianificazione centralizzata da cui però emergono forme.
La stessa nozione di simbiosi viene ulteriormente trasfigurata e ampliata nel testo di Sheldrake, connessa al concetto di trasmutazione e metamorfosi. La capacità dei funghi di rendere ambigui i confini tra individui emerge in questo caso come potere di confondere i confini tra specie: Sheldrake riporta l’esempio del fungo Ophiocordyceps, capace di prendere “possesso” del corpo e della mente di una specie di formica, al fine di riprodursi diffondendo le spore. Quest’esempio particolare di simbiosi assomiglia per Sheldrake a un vero e proprio caso di possessione, in cui la formica diventa fungo, uscendo dai binari della propria storia evolutiva e cominciando a percorrere quelli dell’Ophiocordiceps (p. 134). Facendo riferimento al concetto di fenotipo esteso, coniato dal biologo Richard Dawakins, è possibile dare conto scientificamente di questa trasformazione e di questo mescolamento: con esso si fa riferimento al fatto che il genotipo non fornisce soltanto le istruzioni per costruire un organismo biologico, ma regola anche il comportamento. Attraverso quest’ultimo, proprio come un uccello costruendo il proprio nido esprime “esteriormente” i propri geni, il fungo si “travasa” nel mondo esterno, rendendo ambigui e confondendo profondamente il confine tra sé e altro. Richiedendo senza dubbio un certo sforzo immaginativo al lettore, Sheldrake propone un’analogia coraggiosa: così come la formica è manipolata dal fungo al punto da diventare fungo, da deviare dalla propria storia evolutiva per incrociare quella di quest’ultimo, è possibile considerare le esperienze stranianti e di ampliamento della coscienza prodotte sulla nostra mente dalla psilocibina, principio attivo dei funghi psichedelici, come incursioni del fungo nell’umano. È possibile pensare, con le parole dell’autore, che i funghi psilocibinici «indossino la nostra mente come l’Ophiocordiceps e la Massospora indossano il corpo degli insetti» (p. 141). Il punto di vista che ci offre l’autore pone l’accento sulla lunga storia delle relazioni tra esseri umani e funghi psilocibinici: più che considerare le loro storie evolutive come nettamente separate, l’operazione del testo consiste nell’invitarci a considerare l’intrecciarsi della storia evolutiva dei funghi con la storia culturale umana e il loro reciproco influenzarsi. Considerando la storia e la cultura legata alla psichedelia, e il modo in cui questa ha influito sulla storia evolutiva dei funghi, sul modo in cui si sono diffusi e sono stati coltivati, su come certe specie sono state preferite ad altre, siamo invitati a leggere questa come un rapporto di reciproco addomesticamento, piuttosto che una relazione a senso unico. Il ribaltamento di prospettiva che offre il testo è potente: non solo gli esseri umani hanno interferito con la storia dei funghi, coltivandoli, ma questi ultimi hanno “preso in prestito”, indossato e modificato la coscienza e la storia umana.
Non soltanto sulla storia umana i funghi hanno lasciato un’impronta e hanno interferito di più di quanto siamo soliti considerare, ma hanno avuto un ruolo importante anche nella storia evolutiva delle piante e dell’ambiente terrestre in generale. Se le piante sono riuscite a popolare la terraferma, dandole la configurazione che oggi conosciamo, ciò è avvenuto perché le loro antenate acquatiche, prive di radici, hanno stretto un’alleanza poi stabilizzatasi con i funghi. Questi ultimi hanno quindi funto da “radici” primitive, consentendo alle antenate delle piante terrestri di procurarsi acqua e nutrienti dal terreno, instaurando con queste relazioni di reciproco scambio. Una traccia di queste antiche associazioni è offerta dalle relazioni micorriziche, che ancora oggi i funghi stabiliscono con diverse specie di piante. L’importanza di queste relazioni è tutt’altro che secondaria: oggi più del novanta per cento delle specie di piante dipende dai funghi micorrizici. Le relazioni micorriziche hanno stimolato fortemente l’immaginazione di biologi e botanici, dando luogo a una vera e propria fioritura di metafore. Per descriverle, si parla di «mutualismo», ma anche di «relazione conflittuale e parassitaria mascherata» (p. 162). Altri biologi parlano di un equilibrio di potere che mantengono il fungo e la pianta all’interno della relazione, sottolineando come questa possa essere considerata alla stregua di un commercio, in cui nessuno degli attori coinvolti ha il controllo totale della relazione, ma ciascuno deve stringere compromessi e accordi. Secondo quest’ultima prospettiva, ci troviamo di nuovo di fronte a una relazione aperta: funghi e piante ereditano la capacità e la tendenza ad associarsi, ma la mettono in pratica in forme sempre nuove e rinegoziate, strategiche, imprevedibili e irriducibili a uno schema fisso. A questo proposito può essere trasferito ai funghi il termine inglese entangle, utilizzato per descrivere il nostro coinvolgimento in situazioni sociali mutevoli e complesse. Al di là delle diverse metafore con cui si è cercato di cogliere le relazioni micorriziche, risulta indubbia la centralità che i funghi hanno avuto nell’influenzare la storia passata e nel fare quella presente e futura del nostro ambiente. Secondo una logica che potremmo definire ecologica, le relazioni micorriziche hanno avuto un ruolo fondamentale nell’evoluzione di gran parte delle forme di vita terrestri (p. 166). Per descrivere queste forme di coinvolgimento profondo, alcuni biologi hanno proposto di utilizzare, al posto del termine evoluzione, che letteralmente significa “svolgere”, l’uso di involution, nel senso di coinvolgimento e partecipazione: con questa parola si riesce forse a rendere meglio il complesso intreccio di attrazione e repulsione che caratterizza le varie forme di convivenza che costruiscono gli organismi.
Se le relazioni micorriziche hanno dato un forte impulso alla produzione di metafore in biologia, ancora più potente da questo punto di vista è stata la scoperta del wood wide web: la rete sotterranea che attraverso i reticoli micorrizici crea un sistema di scambi, relazioni e condivisione tra gli alberi di una foresta. Le reti e i reticoli micorrizici condivisi hanno tutt’altro che una funzione accessoria: si possono invece paragonare a «sistemi circolatori condivisi» (p. 191) da un certo gruppo di alberi, secondo una prospettiva che invita a ripensare radicalmente gli ecosistemi forestali. Al paradigma del conflitto e della competizione come meccanismi chiave dell’evoluzione, la scoperta dei reticoli sotterranei condivisi ha consentito di sostituire metafore che enfatizzano la collaborazione e la distribuzione delle risorse all’interno di una comunità. Se l’immaginazione è stata stimolata al punto da portare a parlare, per quanto riguarda queste reti, della scoperta di “luoghi di cura”, di altruismo e cooperazione disinteressata in natura, Sheldrake ci invita a considerare invece le ambiguità che la nozione di rete porta con sé: così come internet ai suoi esordi è stata potentemente investita di fantasie romantiche e libertarie, come luogo a-gerarchico e orizzontale, per poi mostrarsi invece veicolo di relazioni di potere e di controllo, così le wood wide webs andrebbero considerate nella loro complessità e ambivalenza, come «amplificatori di interazioni»(p. 203). Ancora una volta il concetto su cui si insiste è quello di complessità: le reti di alberi costituiscono sistemi complessi adattativi, dinamici, caratterizzati da un ricambio costante e cangiante.
Se i funghi hanno avuto un ruolo centrale nel determinare il passato e il presente di numerosi ecosistemi, il loro protagonismo potrebbe addirittura crescere in futuro, soprattutto in relazione alla minaccia che i cambiamenti climatici rappresentano per la sopravvivenza di numerosi ecosistemi. Già in passato, i funghi hanno dimostrato grande capacità di sopravvivere e anzi di prosperare di fronte a mutamenti ambientali di grande portata: i funghi che decompongono il legno ebbero un ruolo importante nella transizione da un’epoca chiamata Carbonifero, in cui a causa dell’assenza di decompositori di lignina, il grande accumulo dei resti di alberi nel sottosuolo era stato causa di un importante cambiamento climatico. Proprio grazie alla loro capacità “decostruttiva” questi organismi hanno dimostrato capacità di sopravvivere alle devastazioni ambientali. Non soltanto la lignina, ma numerosi altri inquinanti possono essere digeriti e usati come fonte di sostentamento dai funghi: dai mozziconi di sigaretta ai pesticidi, a vari tipi di rifiuti agricoli, i funghi sanno trasformare vari inquinanti pericolosi per la vita umana e ripristinare ecosistemi gravemente danneggiati. Come sottolinea Sheldrake, i limiti relativi a queste pratiche di micorisanamento dipendono in larga parte dalla complessità di questi organismi: i funghi proliferano in modo irriducibilmente imprevedibile, così come il loro comportamento rispetto agli inquinanti rimane complesso. Il micorisanamento si configura come una forma di “digestione esterna”, o un’esternalizzazione di processi digestivi: un’associazione in cui organismi diversi intonano insieme una canzone metabolica che da soli non saprebbero cantare. In questa relazione, i funghi si configurano sia come tecnologie, che come partner degli esseri umani (p. 246).
Citando Donna Haraway, è importante capire «quali storie raccontano altre storie, quali pensieri pensano altri pensieri, quali sistemi sistemizzano sistemi» (fonte). Ciò che Haraway ci aiuta a mettere in evidenza, è come sia possibile rintracciare al di sotto delle diverse storie gli intrecci che le costituiscono. L’operazione al centro del testo di Sheldrake è soprattutto questa: mostrare, utilizzando resoconti scientifici del mondo, come storie che sembrano percorrere binari paralleli, come la storia evolutiva dei funghi, degli esseri umani e delle piante, siano invece un intreccio. Scavare nelle storie per disseppellire gli intrecci e le associazioni stravaganti che le hanno prodotte, fare emergere con forza, al di sotto della patina universalizzante e antropocentrica che predilige l’attore unico (l’essere umano, unico soggetto propriamente detto, e quindi unico attore e costruttore della propria storia, in un mondo di cose fondamentalmente inanimato e a sua disposizione) la pluralità degli attori coinvolti: queste sono le operazioni principali al centro del testo di Sheldrake. Molte importanti storie umane sono in realtà storie di associazioni e relazioni con i funghi, storie che portano alla ribalta attori non umani, attivi e coinvolti in una relazione bidirezionale quanto i loro partner umani. L’invenzione dell’agricoltura e i connessi processi di sedentarizzazione, potrebbero essere il frutto di una delle relazioni più intime che l’umano ha stretto con i suoi partner fungini: quella con i lieviti. È stato per i processi di fermentazione, per la produzione del pane e della birra che gli esseri umani hanno abbandonato il nomadismo: la svolta neolitica, e le trasformazioni legate all’agricoltura, possono essere considerate da questo punto di vista una risposta culturale ai lieviti, al punto che, secondo Sheldrake, in un certo senso, «siano stati i lieviti ad addomesticare noi» (p. 255). Così, come le storie umane rimandano necessariamente ad altro, le storie sui funghi ci portano altrove, a sconfinare in altri campi disciplinari per incontrare piante, alghe, ecosistemi forestali. L’effetto della narrazione del L’ordine nascosto è proprio questo: quello di farci deviare, mostrando come ogni storia rimandi in fondo a un’altra.
Alla base di qualsivoglia discorso che potremmo definire in senso lato “ecologico” vi è l’idea che vi siano buone ragioni per prendere congedo da una separazione netta tra la sfera naturale e quella abitata da enti parlanti che operano con artefatti e simboli. Resta, certo, la differenza ontologica tra specie naturali e artefatti rimane, naturalmente, ma ciò non implica che si debba continuare a pensare gli animali umani, gli altri animali e gli esseri viventi in generale attribuendo a questa differenza una funzione discriminatoria fondamentale. Si è rivelato pertanto produttivo puntare lo sguardo in direzione della struttura violenta di ogni dispositivo che, sfruttando le risorse retoriche offerte da una nozione di natura intesa come luogo dell’immutabile, intende rendere impensabile la modificazione di specifiche pratiche sociali. A ciò ha dato un contributo decisivo il pensiero femminista, il quale, mirando a decostruire la logica del dominio patriarcale, non poteva non incrociare la logica che governa tutte quelle forme di antropocentrismo che, direttamente o indirettamente, giustificano il dominio violento degli umani su animali di altre specie e, più in generale, sugli enti naturali. Non a caso, Donna Haraway, una delle pensatrici femministe più importanti, ha dato contributi teorici decisivi alla riflessione sulla questione ecologica. Se da un lato certe forme di ecofemminismo inducono alla perplessità per via dei loro tratti misticheggianti e neopagani (si pensi qui principalmente a Starhawk), resta vero che le istanze femministe non possono non costituire il punto di partenza privilegiato per iniziare a porre le basi sia filosofiche, sia etico-politiche della questione ecologica.
Agnes Denes, Wheatfield - A Confrontation: Battery Park Landfill, Downtown Manhattan (1982)
Da un punto di vista prettamente teoretico, invece, va segnalato come nello scenario filosofico contemporaneo, si sia installato – anche se non fino al punto da diventare egemone – un regime discorsivo che privilegia un’ontologia del processo, in virtù della quale l’insieme degli enti che popolano il pianeta Terra è un insieme che comprende il pianeta stesso che li ospita. Tale regime discorsivo (che volentieri ospita il riferimento ad autori come A.N. Whitehead, G. Simondon, G. Deleuze, F. Guattari, I. Stengers, B. Latour) permette di comprendere come i salti e le discontinuità tra l’inorganico e l’organico non comportino cesure nette, confini invalicabili, ma siano eventi che attestano l’accadere di osmosi e di interazioni. Tra essi va compreso anche quell’evento singolare che, in seno al collettivo degli enti che assieme formano l’ecosistema, è la comparsa della cognizione: evento singolare tra altri, quest’ultima si configura solo più come un sottoinsieme di atti, che solitamente definiamo “mentali”, i quali permettono a ciò che un tempo si chiamava “natura” di riflettersi, di coimplicarsi in un gioco di rimandi tra processi dotati ciascuno di una propria durata e di una propria consistenza. Da qui il quesito seguente: come concepire un’ontologia dei processi che descriva come le singolarità e gli eventi coesistano disseminandosi in seno a tali processi, senza mai trascenderli?
Si enuncia, a partire da qui, un’ulteriore implicazione del pensiero ecologico: l’unità che marca la consistenza ontologica di un individuo emerge come un simulacro, se non come una comoda scorciatoia concettuale, per essere sostituita da apparati descrittivi che, nel nominare un ente, intendono annetterlo al resto con cui esso si intreccia simbioticamente. Entro tale prospettiva, i viventi si configurano come olobionti (questo il felice neologismo coniato da L. Margulis): associazioni, composizioni o assemblaggi di un ospite e dei membri di altre specie che vivono al suo interno o attorno ad esso, e che insieme formano un’unità ecologica. È di questa unità sistemica che ha senso occuparsi, e non degli individui che la compongono (nel solco di autori come D. Haraway e I.E. Wallin). La simbiosi è una delle cause per spiegare la comparsa della novità evolutiva e l’origine di nuove specie nel mondo, completando così il quadro delle teorie evolutive tra stasi e salti. Acquistano, in tale contesto, tutta la loro importanza altre forme di vita, come virus, batteri o vegetali (che un pensiero incapace di abbracciare davvero la rivoluzione introdotta dal postumanesimo relegava in un secondo piano), i quali hanno un’organizzazione decentrata, che ben corrisponde al modello della rete. Ciò li induce a integrare le informazioni provenienti dall’ambiente conformemente a una processualità lungo la quale i confini tra un individuo e l’altro sfumano in modo significativo. E allora siamo portati a chiederci: come una teoria dei simbionti, o degli olobionti, può fornire un contributo a radicalizzare quella trasformazione delle scienze del vivente in atto ormai da parecchio tempo secondo la quale il rapporto tra l’individuo e la nicchia che lo ospita va compreso utilizzando dispositivi concettuali che superino la distinzione classica tutto/parti?
Ad ontologie del processo e della simbiosi si affiancano epistemologie che mettono in primo piano il pensiero della complessità sistemica (si fa qui riferimento ad autori come G. Bateson, R. Ashby, H. von Foerster, H. Atlan, N. Luhmann). Qui la riflessione teorica sull’intreccio tra i viventi e le nicchie che li ospitano diventa la via maestra per affrontare ciò che più comunemente viene in mente quando si evoca il termine ecologia, ovvero il suo presentarsi principalmente nella forma di problema, di richiesta di soluzioni a fronte di una situazione avvertita come critica in senso globale. Ora, è pressoché impossibile andare oltre questa generalissima affermazione senza incontrare infiniti punti di vista, descrizioni, strategie, pratiche e provvedimenti diversissimi tra loro e in alcuni casi in profonda contraddizione l’uno con l’altro. Emerge così che la domanda su come risolvere la crisi ecologica è in realtà una domanda su noi stessi, in quanto enti coimplicati nel sistema che si vorrebbe preservare dalla catastrofe. In senso epistemologico, l’ecologia può essere vista come una nozione autologica, o meglio come la forma attraverso la quale il paradosso della fondazione ultima si dà nel reticolo di saperi della contemporaneità. Come una sorta di interrogazione di livello superiore rispetto a quelle dei diversi sistemi specializzati, un’osservazione che ha per oggetto un campo problematico nel quale l’osservatore (l’interrogante) è sempre incluso. Questo significa che la domanda ecologica sfida i differenti sistemi specializzati della società contemporanea – le diverse discipline che si prefiggono di conoscere il mondo “fissando” in esso i loro oggetti e costruendo programmi applicativi per essi – mettendoli di fronte non ad un oggetto che rientra nel campo di osservazione che li caratterizza ma al contrario a quell’oggetto costitutivamente esterno a loro e tuttavia decisivo per la loro coerenza e stabilità interna. La domanda ecologica tematizza così il comune di tutti i sistemi specializzati della società, senza tuttavia renderlo disponibile, se non nella forma della “complessità indeterminabile”. Possiamo allora domandarci: quali effetti epistemici produce il concetto di “ecologia” sul discorso scientifico e sociale? Come si riarticolano, in tale contesto, i rapporti tra epistemologia e ontologia in vista di una nuova forma di stabilità di stati ed eventi postcatastrofica?
Tra tutti i sistemi che, sia globalmente che localmente, hanno un interesse privilegiato a confrontarsi con il deterioramento delle condizioni di vita sul pianeta vi sono i sistemi politici e quelli giuridici, strettamente intrecciati tra loro. È ragionevole supporre che, se continuano a darsi nella forma dell’ordinamento post-westfalico, le istanze chiamate a prendere decisioni vincolanti per tutti non faranno altro – e ciò ben al di là dell’occidente europeo – che gestire la tragedia dei beni comuni acuendo le ineguaglianze e le ingiustizie, garantendo ad alcuni e negando ad altri l’accesso a risorse che diverranno sempre più scarse e preziose. Nato per proteggere la proprietà, il diritto, anche nelle sue articolazioni istituzionali internazionali, non sembra capace di garantire a tutti l’accesso a risorse vitali divenute più scarse, né di porre limiti all’azione di coloro che, con il loro operato, producono, seppur indirettamente, danni rilevanti all’ecosistema. Se il diritto serve a generare libertà, in primis la libertà d’impresa, il costo che si dovrebbe pagare per accettare una limitazione all’agire ecologicamente dannoso coinciderebbe con una significativa riduzione della libertà (lo mostrò bene R. Coase nel suo saggio sul problema dei costi sociali). D’altra parte, gli stati che volessero farsi carico, attraverso specifiche misure giuridiche, della salvaguardia dei beni comuni potrebbero salvare il pianeta se ad agire in tale direzione fossero in pochi? La risposta ovviamente è no. Alcuni potrebbero allora ritenere auspicabile che sorga un nuovo Leviatano globale, dotato del potere di imporre a tutti gli attori il rispetto di quelle norme che avrebbero come obiettivo la salvaguardia di condizioni di vita planetarie decenti per tutti, per noi e le altre specie. Se invece si intende prendere distanza da un simile scenario, dai tratti fortemente distopici, ci si deve chiedere quale forma di coordinamento tra stati nazionali dovrebbe emergere per far sì che vengano attuate, nell’arco dei prossimi decenni, misure tali da impedire la catastrofe ecologica. Quest’ultima, di fronte a queste ipotesi tra loro inconciliabili, costringe a riflettere non solo e non tanto su cosa mangiamo e cosa consumiamo, ma soprattutto sulla natura stessa della sovranità. Risulta quindi urgente domandarsi: se nell’ordinamento post-westfalico entro cui si muove ogni singolo stato sovrano ciò che conta sono i rapporti di forza tra stati, come può articolarsi politicamente la coappartenenza dell’umano e del suo ambiente sapendo che un’irriducibile conflittualità tra interessi mina alla radice la possibilità di porre al centro dell’agenda globale il tema dell’interesse comune nei confronti della salvaguardia dell’ambiente?
In sintesi, gli snodi tematici che vorremmo fossero trattati all'interno di questo numero sono:
- la natura come piano, tra ontologia del processo e costruzionismo (prospettive ecologiche a partire da G. Deleuze, G. Simondon, F. Guattari, A. N. Whitehead, B. Latour)
- l'ecologia intesa come articolazione interna alla teoria dei sistemi e ai paradigmi della complessità (G. Basteson, R. Ashby, H. von Foerster, N. Luhmann)
- il concetto di ecologia e le sue implicazioni epistemologiche in relazione alla ri-articolazione dell'enciclopedia dei saperi
- sviluppi delle teorie dell'evoluzione che tengano conto dei rapporti interspecifici (I.E. Wallin, L. Margulis, D. Haraway)
- forme di auto-organizzazione vivente e di socialità animali, vegetali, microbiologiche ecc. (I. Stengers, V. Despret, B. Morizot, A. Tsing)
- intreccio tra predominio maschile, sistema economico ed ecologia nella teorizzazione dei movimenti femministi, con la particolare attenzione critica al dibattito ecofemminista (D. Haraway, K. Warren, V. Plumwood)
- modelli di governance giuridico-politico-economici in risposta alla crisi ecologica (G. Teubner).
- analisi degli effetti generati dalla ridefinizione delle nozioni di "spazio" e "abitare" nel contesto delle teorie del progetto architettonico e urbanistico
Procedura: si prega di inviare, all'indirizzo redazione@philosophykitchen.com, entro il 15 ottobre 2020, un abstract di massimo 6000 caratteri, indicando il titolo della proposta, le modalità in cui si intende sviluppare il tema e l'argomentazione, una bibliografia essenziale e ragionata nonché una breve biografia dell’autore o dell’autrice. Le proposte verranno valutate dai curatori e dalla redazione. Gli esiti della selezione verranno resi noti, via mail, entro il 9 dicembre 2020. I contributi selezionati dovranno poi essere inviati entro il 31 marzo 2021 e saranno sottoposti a double-blind peer review. La pubblicazione del volume è prevista per settembre 2021.
La nuova edizione di Manifesto cyborg. Donne, tecnologie e biopolitiche del corpo (Feltrinelli, 2018) raccoglie tre saggi di Donna Haraway, teorica femminista e storica della scienza allieva di Georges Canguilhem. I saggi in questione sono stati pubblicati la prima volta nel 1991, in Italia nel 1994, all’interno di una raccolta dal titolo Simians, Cyborgs and Women. The Reinvention of Nature (Routledge). L’importanza della riedizione di un testo considerato ormai un classico può ricercarsi nella necessità di rivalutare la portata teorica e filosofica della riflessione di Haraway, portata che fino ad ora sembra essere stata scarsamente considerata. Ciò che andrebbe messo in discussione è un inquadramento “specialistico” del testo, che lo vorrebbe di interesse unicamente per chi si occupa di “questioni legate al genere” e, ancora più nello specifico, per chi nella cornice degli studi di genere riflette sui problemi della scienza e della tecnologia. Nella rivalutazione delle implicazioni teoretiche di Manifesto Cyborg è in gioco, più in generale, la riconsiderazione dell’importanza filosofica dei cosiddetti studi di genere e postcoloniali, che normalmente trovano legittimazione solo se inseriti nella cornice dei cultural studies. Il testo di Haraway eccede queste cornici disciplinari, e con le sue incursioni “spregiudicate” nel terreno delle scienze biologiche, biomediche e delle teorie dei sistemi, può essere considerato un’argomentazione a favore della contaminazione come importante strumento di produzione e creatività teorica.
Fin dalle prime pagine di Manifesto Cyborg è chiara l’urgenza teorica e politica che muove la riflessione dell’autrice: la necessità per il femminismo socialista e in generale per gli allora nuovi movimenti di sinistra di ripensarsi, alla luce del confronto con le profonde trasformazioni globali che segnavano il contesto dell’elezione di Reagan alla presidenza degli Stati Uniti negli anni ’80. Il cyborg, protagonista dell’opera, rappresentava provocatoriamente quella peculiare “creatura” contraddistinta da un’intrinseca necessità di evadere ogni forma di pensiero dicotomico, ogni forma di razionalità strutturata intorno a stringenti dualismi, in favore di un nuovo punto di vista in grado di rendere conto di una realtà infinitamente complessa ed eccedente che il suo stesso apparire metteva prepotentemente alla ribalta. A quasi trent’anni di distanza, in cui la modalità dominante di gestione della complessità (sociale, psichica, politica, scientifica) sembra ancora rimanere il riduzionismo, in cui lo scenario pare ancora caratterizzato dal riproporsi di un pensiero dicotomico e dall’intensificarsi delle logiche di dominazione patriarcale, razzista e capitalista connaturate a esso, provare a immaginare un modello di razionalità che non evade la complessità ma che se ne fa carico non si rivela meno urgente. La posta in gioco è l’elaborazione di modalità alternative e sfaccettate di gestione della complessità, rifiutando quindi anche quel pensiero che vedrebbe nella postmodernità il terreno in cui si consuma la crisi della razionalità dominante che non lascia spazio a null’altro se non alla contingenza e alla “differenza” irriducibile, intese come negazione dell’elaborazione teorica e della prassi. Manifesto Cyborg riapre invece con forza l’elaborazione teorica, etica e politica, al cuore della postmodernità e lo fa oggi non meno di ieri.
Lo sguardo attraverso cui Haraway analizza le trasformazioni che segnano il suo tempo è quello che deriva dalla sua storia in quanto biologa: in particolare, l’autrice mette in luce la profonda rielaborazione e ripensamento della biologia in relazione all’emergere di nuovi saperi, quali la cibernetica, le teorie dei sistemi, le scienze della comunicazione e dell’informazione. Il ripensamento della biologia in seguito alla contaminazione con nozioni, teorie e concetti provenienti da queste scienze è stato profondo al punto che, secondo Haraway, si può sostenere che l’“organismo” biologico, come oggetto della scienza, abbia cessato di esistere, e sia stato sostituito da sistemi di comunicazione completamente denaturalizzati. Gli organismi sono quindi diventati artefatti, sempre contingenti, le cui modalità di costruzione non sono vincolate da nessun’architettura naturale. Contemporaneamente, le macchine hanno preso vita: se quelle pre-cibernetiche potevano essere ancora distinte dagli organismi in quanto pensate e costruite dall’uomo, le macchine cibernetiche rendono completamente ambigua la distinzione tra autosviluppo e progettazione esterna (p.43).
Le ondate di denaturalizzazione e de-essenzializzazione che secondo N. Katherine Hayles definiscono il postmodernismo hanno quindi investito anche i corpi biologici: se le prime teorizzazioni degli organismi come sistemi cibernetici riposavano ancora su una concezione olistica e mantenevano intorno a questi un certo involucro, le teorie sociobiologiche di uno scienziato dalla sensibilità postmoderna come Richard Dawkins hanno radicalizzato questa tendenza, rompendo definitivamente con i paradigmi olistici e ripensando l’individualità biologica come costrutto contingente ad ogni livello. Come mettono in luce le escursioni di Haraway nel territorio delle moderne biologie della comunicazione, i processi di decostruzione e ricostruzione dei corpi occupano il centro del discorso, non solamente dal punto di vista del critico culturale o dell’archeologo delle scienze umane, ma anche dello scienziato postmoderno: le biologie moderne si occupano di tecnologie d’inscrizione e codici, di processi di disassemblaggio e riassemblaggio, di sistemi di controllo altamente tecnologizzati. La centralità delle tecnologie di scrittura emerge in modo evidente se si considerano i lauti investimenti direzionati a progetti come quello di mappatura e ricostruzione del genoma umano. Questo progetto emblematizza un “umanesimo postmoderno” in cui la ricerca biologica segnata dalla rilevanza sempre maggiore delle tecnologie d’inscrizione è messa al servizio della tradizionale ideologia umanista e del sogno ad essa associato di poter finalmente definire l’umano, di poter finalmente tracciare un confine netto e chiaro, privo di ambiguità e porosità tra il sé e il non-sé.
Il cyborg, segnalando importanti cedimenti di confine come quello tra macchina e organismo e tra umano e animale, si presenta come figurazione non dicotomica della nostra realtà sociale e corporea, che consente quindi di rompere con i dualismi che hanno strutturato la razionalità occidentale: naturale/artificiale, natura/cultura, uomo/donna, mente/corpo, materia/forma, umano/animale, soggetto/oggetto. Come ci ricorda Haraway, queste non sono mai solo opposizioni dicotomiche: attraverso questi dualismi, la razionalità occidentale ha intrecciato il suo destino a pratiche di dominio e di oppressione legate al genere, alla razza e alla specie.
D’altra parte, il cyborg in occidente è anche espressione di una cultura maschilista e guerrafondaia, che concepisce la vulnerabilità che contraddistingue la dimensione corporea come segno di una “mancanza” costitutiva, a cui far fronte attraverso un progressivo miglioramento delle strategie di difesa. Se le individualità cyborg sono per definizione contingenti e instabili, l’immagine della corsa agli armamenti e della guerra perenne lascia trasparire in filigrana il “telos apocalittico” (p. 41) di un sé finalmente libero da ogni forma di dipendenza. La realizzazione di un sé autonomo e integro, che ha “disassemblato” e digerito ogni forma di eterogeneità e alterità si accompagna al dispiegamento di un apparato di controllo diffuso e capillare, che Haraway indica come “informatica del dominio” (p. 55). Con questa figurazione si vogliono mappare i nuovi inquietanti meccanismi di controllo che attraversano il nostro tempo: alle gerarchie che contraddistinguono il “patriarcato capitalista bianco” (p. 57) si sostituisce un sistema polimorfo e reticolare, che agisce attraverso l’allacciamento di connessioni multiple. Ai vecchi sistemi di controllo centralizzato si sostituisce la delocalizzazione, la decentralizzazione, la diffusione e la moltiplicazione dei centri.
Ma il cyborg è anche un costrutto femminista, e in questo senso elicita possibilità oppositive e liberatorie. Cyborg è quel particolare oggetto di conoscenza e pratica femminista, l’esperienza delle donne, che proprio in quanto fatta oggetto di sapere, è ricostruita come aperta, non finita, contestata, vulnerabile, presa in un gioco di perenne decostruzione e riscrittura. Haraway a questo proposito da particolare importanza ai processi di decostruzione e di de-naturalizzazione che hanno interessato il femminismo in seguito al prendere voce di quelle soggettività, come le donne nere, che sfuggono al sistema di categorie attraverso cui i teorici e le teoriche occidentali hanno tentato di rappresentare il mondo degli oppressi. Questi processi hanno consentito al soggetto femminista di riarticolarsi lungo assi inediti, di immaginare e di praticare nuove forme di unità e di identità al di fuori dell’impianto dicotomico e oppositivo che ha strutturato i miti politici occidentali. La critica post-coloniale ha ricostruito le identità femministe come identità sempre parziali, contraddittorie e problematiche, definite dal non poter essere naturalizzate o essenzializzate. Haraway legge in questo senso la Sister outsider della poetessa nera Audre Lorde (p. 74), ovvero come ricostruzione letteraria dell’identità attraverso l’esclusione, la non appartenenza in quanto eccedenza rispetto a categorie prestabilite. Le identità ricostruite nelle pratiche di scrittura delle donne di colore sono identità sempre contraddittorie e frantumate, prive del privilegio dell’identità a sé, prerogativa dei corpi non marcati come quelli maschili e bianchi. Se i processi decostruttivi e de-essenzializzanti impediscono di radicare la politica nelle identità “naturali”, questo non significa che sia stata minata radicalmente la possibilità di legami: la loro ricostruzione implica politiche dell’affinità, che non ripristinano unità naturali, ma non per questo impediscono legami (parziali ma potenti) e comunità per soggetti postmoderni.
Con l’elaborazione della nozione di “saperi situati” Haraway si inserisce in un altro dibattito che attraversa il femminismo: il rapporto con l’epistemologia e la scienza e, strettamente connesso a questo, il dibattito circa lo statuto dell’oggetto di conoscenza. Proponendo “saperi situati” Haraway intende pensare una versione femminista di oggettività scientifica, che consenta di uscire dalla polarizzazione del dibattito attuale, caratterizzato dal contrapporsi di posizioni radicalmente costruzioniste ed empiriste. La rielaborazione della nozione di oggettività che Haraway propone si appoggia a un ripensamento della metafora della visione. Se quest’ultima ha significato, nella storia della razionalità occidentale, la capacità di alcuni corpi (quelli maschili, benestanti e occidentali) di “smaterializzarsi” in uno sguardo venuto dal nulla mentre si inscrivevano i corpi marcati nel mito, con la nozione di saperi situati assume un significato opposto. L’oggettività e la visione non significano più neutralità e distanza, ma corporeità, parzialità, localizzabilità, impegno e coinvolgimento. (p. 115) L’oggettività ha a che fare non con la scoperta distaccata, ma con la strutturazione reciproca e di solito ineguale; solo saperi parziali, vulnerabili e impegnati garantiscono una conoscenza oggettiva, ovvero che non sia un’illusione. Oggettività e visione non segnalano più un “trucco da dio”, che consente di scomparire arrogandosi il potere di rappresentare senza essere rappresentati, ma diventano modi per stare nel corpo, pratiche di assunzione corporea.
In How we became posthuman, Katherine Hayles sostiene che l’affermarsi di quell’entità chiamata informazione si sia accompagnata a processi di “smaterializzazione” dei corpi, di progressivo abbandono e trascendimento dei vincoli della materialità. L’approccio di Haraway ai mondi alto-tecnologici mostra una realtà più complessa: i corpi radicalmente decostruiti e ricostruiti dalle moderne biotecnologie e dalle scienze informatiche non comportano tanto la smaterializzazione di questi in puri flussi informativi, problemi di codifica e di ricerca di un linguaggio comune che permetta la perfetta comunicazione. Anche l’informazione per Haraway ha una specifica dimensione materiale, così come i testi e i codici, che dovrebbero venire ripensati attraverso la nozione di embodiment. Facendo riferimento alla dimensione corporea, Haraway non si riferisce quindi a una dimensione prettamente biologica: le tecnologie di visualizzazione sono ripensate come sistemi di percezione attivi, nelle quali siamo immersi e con le quali siamo inestricabilmente intrecciati nella costruzione di specifiche forme di vita: un aspetto del nostro embodiment.
Il ripensamento della nozione di corporeità consente ad Haraway di riprendere e al tempo stesso di andare oltre l’analisi biopolitica inaugurata da Michael Foucault, ovvero dell’analisi che fa del corpo l’entità bioculturale per eccellenza e che consente di indagare i rapporti di potere che si concentrano direttamente sul soggetto in quanto entità corporea. La decostruzione della corporeità come sistema di comunicazione tecnologico consente di indagare gli effetti del biopotere oltre la sfera organismica: oggetto delle relazioni di potere non è più un corpo organico e organizzato gerarchicamente, ma sistemi cibernetici completamente decostruiti, assemblaggi ricomposti in modo sempre parziale, costrutti contingenti. Le biopolitiche che interessano corpi ricostruiti come sistemi di comunicazione non sono quelle del sesso e della riproduzione, ma dell’immunità, legate ai processi di replicazione di un sé estremamente vulnerabile e contingente (p.159). Quali tipi di sé vengono costruiti dal discorso sul sistema immunitario? L’intento di Haraway è di risignificare il paradigma immunitario: da dispiegamento di una guerra diffusa e capillare, in cui la replicazione del sé è funzione delle sue strategie di difesa e di attacco di fronte a una minaccia costante di “invasione”, a sistema che “apre” il sé e lo mantiene aperto. In quanto dispiegamento di una rete capillare di blackout e crolli delle comunicazioni, di confusione di confini, il sistema immunitario continuamente “disfa” il sé, mantenendolo contraddittorio ed eterogeneo, impedendone la chiusura e l’autonomizzazione. In questa dimensione riposa la “promessa illegittima” (p. 42) del cyborg: la sua natura artefatta, saltando il gradino dell’unità originaria, impedisce la realizzazione del suo telos apocalittico. In quest’ottica, inoltre, la differenza irriducibile con cui obbligano a fare i conti la postmodernità e i processi a essa inestricabilmente connessi, come quelli di decolonizzazione, non segnala tanto la “morte del soggetto”, come vorrebbero alcuni, ma piuttosto ci costringe a ripensare il soggetto come non isomorfico, auto-contraddittorio e multidimensionale.
La problematizzazione dell’antropocentrismo è ormai uno dei topoi più frequentati della letteratura filosofica (come culturale, sociologica, ecologica, ecc.) contemporanea, al punto che – facendo il verso al noto Linguistic Turn del Novecento – si è recentemente preso a parlare in modo esplicito di un Non-Human Turn (R. Grusin). Non è questa l’occasione per discutere portata e natura di una simile “svolta”, né tantomeno per valutare il modo in cui è stata tradotta e soprattutto gli slogan che appare avere generato: bisogna comunque notare che, di fatto, si è giunti a una situazione in cui l’anti-antropocentrismo si è declinato pressoché univocamente in una forma di zoocentrismo, o – se si preferisce – in un vitalismo pensato a partire dall’equazione “vita = organismo (animale)”.
Sotto questo riguardo, il libro di Coccia (La vie des plantes. Une métaphysique du mélange, Payot & Rivages, Paris 2016) ha un innegabile merito: mettere in discussione questo più o meno esplicito slittamento dal “non umano” all’“animale”, e non certo per riaffermare la preminenza dell’uomo o dell’organismo umano, bensì per indicare la possibilità di una genuina metafisica o filosofia della natura. Con ciò, Coccia non si limita a sostenere le ragioni di quel Plant Turn che pur richiama (p. 155), ossia a reclamare spazio per quelli che sono già stati prontamente battezzati come Critical Plant Studies (H. Stark), che fanno anche diventare a pieno titolo le piante protagoniste di una “storia naturale” – a partire dalla loro origine, il seme (J. Silvertown).
Infatti, la posta in palio è filosofica ad ampio raggio: è possibile trovare un accesso al problema della vita, ossia della natura e del cosmo, che non sia inficiato da una forma di «snobismo metafisico» (p. 15) per cui si finisce per assumere come superiore e privilegiato il punto di vista supposto essere più “complesso”? La risposta di Coccia è radicale: è possibile se si dismette l’abito zoocentrico che ha rivestito quello antropocentrico, ossia se si comprende che l’antispecismo non ha fatto altro che estendere il narcisismo umano al regno animale (p. 16).
L’esito è a questo punto conseguenziale (senza dubbio problematico, come indicherò): andare ancora più a fondo e “riabilitare” quello che è stato da sempre ritenuto il grado più basso della vita, ai limiti della sua assenza, ossia la “vita vegetativa”, il regno vegetale. In questo modo, si potrà riconoscere che ogni punto di vista (point de vue) non è altro che un punto di vita (point de vie): non qualcosa di distaccato e separato, ma quanto esprime una modalità di immersione e commercio.
Per Coccia, c’è una ragione ben precisa a rendere praticabile questa riabilitazione: la vita vegetale si presenta come la vita nella sua esposizione integrale, in continuità assoluta e in comunione globale con l’ambiente. Le piante sono esseri di pura superficie, che aderiscono costitutivamente al mondo: la loro assenza di movimento fa tutt’uno con la loro adesione integrale a ciò che arriva a loro e al loro ambiente. Le piante sono insomma inseparabili (fisicamente come metafisicamente: il passaggio filosofico avanzato da Coccia sta tutto qui) dal mondo che le accoglie: rappresentano la forma più intensa, radicale e paradigmatica dell’essere al mondo, perché intrattengono il legame più stretto ed elementare con il mondo, quasi una forma di assorbimento contemplativo privo di dissociazioni, una fusione e una coincidenza prive di separazioni (pp. 17-18).
Troviamo in opera – esplicitato – un importante presupposto di fondo: il pensiero si fa filosofico nel momento in cui si confronta con la natura del mondo, ossia con la natura, vale a dire che la filosofia sorge nel mondo naturale e dal confronto col mondo naturale, inteso come nascitura, come ciò che permette a tutto di nascere e divenire, esprimendosi in tutto ciò che è. Il mondo, la natura, è insomma una forza, non un insieme di cose o una totalità astratta di esseri: la natura è un processo in atto, e la filosofia è tale soltanto in quanto è filosofia della natura, solo nel momento in cui smette di essere «fisiocida» per cogliere la natura nella sua veste dinamico-processuale. L’unica forma di filosofia che può essere considerata legittima è insomma la cosmologia (pp. 31-36).
L’idea di Coccia è semplice (nonché nuovamente problematica, lo vedremo), come tutte le idee fondamentali: vivere significa vivere della vita d’altri, o – persino – esigere la relazione con ciò che precede e rende possibili gli organismi stessi (pietre, acqua, aria, luce), e le piante sono paradossalmente il luogo in cui questo fatto – il fatto della vita – si manifesta eminentemente. Se la natura è un campo aperto di relazioni trasformative, il metabolismo e il trofismo delle piante presentano esattamente l’emblema della capacità di fare di elementi dispersi e disparati un’occasione di consistenza e tenuta: le piante sono cosmogonia in atto (p. 22).
La pianta diventa così il “modello” per un generale ripensamento dell’essere al mondo e così della cosmologia, articolato in tre principali momenti.
1) La foglia consente di mettere a fuoco l’atmosfera come fluidità cosmica o luogo metafisico di mescolanza radicale in cui tutto comunica e si tocca. L’atmosfera è il soffio o respiro che tutti condividiamo, inteso quale movimento ritmato che precede le distinzioni e però le rende possibili, essendo il principio di circolazione, trasmissione e traduzione: tutto è dentro tutto e tutto comunica con tutto; ogni cosa è immanente a ogni altra; non c’è azione senza retroazione. La cosmologia è una pneumatologia (pp. 37-96).
2) Le radici permettono di ribaltare il modo in cui intendiamo il fondamento: non il ritrovamento di ciò che vi è di essenziale e originario (di fondamentale, di radicale, appunto), ma la fecondità di un processo di networking. Siamo insomma abituati a pensare al radicamento come all’emblema del riferimento saldo, dell’ergersi a partire da un principio dato e ben fermo, dell’edificarsi al di sopra di una base solida, di un suolo sicuro, mentre in realtà le radici ci presentano un dinamismo ambiguo, ibrido, anfibio e doppio. Si tratta di quello della ramificazione, che mette in comunicazione “il basso” e “l’alto”, il “più profondo” e il “più superficiale”, la notte e il giorno, la Terra e il Sole. È allora in gioco una prospettiva più eliocentrica che geocentrica, che fa spazio alle ragioni della contingenza, dell’imprevisto, dell’irregolarità e dell’inabitabilità. La cosmologia è un’astrologia, l’ecologia è un’uranologia (pp. 97-122).
3) I fiori fanno comprendere la natura puramente espressiva e dimostrativa (sessuale) degli attrattori, ossia di ciò che non definisce una natura o comunica un’essenza, bensì apre uno spazio di congiunzione e mescolamento, di moltiplicazione e variazione di forme – di alterazione. La logica dell’organismo individuale si rovescia: ci si trova nel pieno dell’esposizione alle possibilità della mutazione, del cambiamento (come della morte), nel pieno dell’espropriazione. La razionalità si converte nella ragione seminale, che si presenta come luogo di indifferenza e transizione tra “psichico” e “materiale” (come tra biologico e culturale, intensivo ed estensivo). In questo modo, la ragione diventa una forza moltiplicativa che “ripete” la stessa dinamica trasfiguratrice del cosmo: non restituisce un esistente a se stesso, attestandone l’identità, non riconduce a unità; piuttosto, apre al rinnovamento dei possibili, potenzia le connessioni, moltiplica e differenzia gli elementi, si sforza di mescolare gli incomparabili e gli incompossibili. La ragione è sessuale nella misura in cui fa tutt’uno con il processo attraverso il quale avviene un prolungamento e un rinnovamento delle sue istanze mediante un’invenzione di nuove forme di mescolamento: pensare significa rivolgersi alla sfera delle apparenze, non per rivelarne l’interiorità o per dirne l’essenza, bensì per metterle in comunicazione nella loro eterogeneità. La cosmologia è una cosmetica (pp. 123-138).
Come si sarà colto da questo rapido affresco, in chiave concettuale abbiamo a che fare con una generale problematizzazione del nesso tra forza e relazione, o tra dinamismo effettivo e pura soglia. Troviamo infatti discusso in generale il superamento di una gerarchia topologica che distingue tra luoghi in base a interiorità ed esteriorità, che pone posizioni fisse e non riesce così a cogliere – per esempio – le compenetrazioni e proiezioni reciproche, la reversibilità, le transizioni, l’immersione senza resti, la fluidità cosmica, la permeabilità, l’inclusione di tutto dentro tutto, l’amalgama perfetto, l’immediatezza della metamorfosi, l’intimità assoluta, i mediatori produttivi, la circolazione universale, l’identità formale tra passività e attività e tra essere e fare, l’esistenza come atto cosmogonico, le interpenetrazioni e influenze diffuse.
Un simile tentativo metafisico, com’è naturale, non solo non nasconde, ma fa anzi presto affiorare in superficie i propri tratti problematici (e non: le proprie contraddizioni), che mi sembrano essere principalmente due.
Il primo si potrebbe ribattezzare il rischio di “vegetocentrismo” o “plantocentrismo”, che di per sé è abbastanza chiaro: perché le piante offrirebbero l’accesso privilegiato al cosmo rispetto agli uomini e agli animali, e non potrebbero a quel punto farlo i sassi, o i batteri, e così via? O, detta altrimenti, siamo davvero sicuri che sia possibile prendere il fenomeno della vita come fenomeno per eccellenza cosmologico o cosmogonico? Insomma, fino a che punto la natura coincide con la vita (sappiamo infatti che non è così)? Queste questioni possono sembrare oziose, e il punto forse ancora più dirimente sta altrove: non è che le piante, più che essere la forma paradigmatica dell’essere al mondo, sono la forma paradigmatica di un determinato modo di essere al mondo? In particolare, qualcuno potrebbe notare, la totale aderenza, la completa immersione, la spiccata fluidità. la piena indistinzione tra “sé” e “mondo” che contraddistinguerebbero le piante, sembrano rappresentare l’affermazione di un orizzonte in cui non ci si può distinguere dal proprio ambiente e non si può modificarlo, ossia di una vita vegetativa nel senso (deleterio) comune del termine. Ancor più, qualcuno direbbe che si tratta dell’ipostatizzazione della forma di vita neoliberale o neocapitalistica o capitalista tout court, incentrata sull’esigenza di un adeguamento assoluto agli imperativi della flessibilità, della mobilità, della relazionalità, della deindividualizzazione, e via discorrendo.
Sotto questo punto di vista, l’uranologia di Coccia, nel suo sforzo di emanciparsi dalla subordinazione alla logica terrestre, mostra in effetti un fianco debole. Di per sé, si potrebbe anche sostenere che in realtà la condizione contemporanea (al di là dell’etichetta con cui si sceglie di connotarla) non fa altro che (finalmente) rivelare dei tratti che da sempre hanno fatto parte della realtà umana o naturale, liberandosi di una postura demistificatrice rispetto ai processi in atto. Ma, allora, bisogna proprio per questo anche evitare di assumere acriticamente come posizioni metafisiche “pure” ciò che altro non è che il tentativo di rendere concepibile un dato orizzonte, ossia di “trasporlo” in concetti adeguati a comprenderlo o figurarlo. Altrimenti, il rischio è di presentare idee e concetti filosofici come se piovessero dal cielo, mentre essi sono davvero un fatto relazionale, che concerne il nostro rapporto con il mondo. Detta diversamente, non si tratta tanto di imputare a Coccia di aver terminato per offrire una lettura apologetica dell’esistente, bensì – al limite – di evidenziare che non si è ancora spinto fino in fondo nel riconoscere la ramificazione (a valle come a monte) dei concetti e problemi a partire da cui articola la propria prospettiva.
Il secondo tratto problematico è correlato: riguarda il modo in cui intendere e praticare la conoscenza in generale e la filosofia in particolare. Coccia assume una posizione ben delineata in merito (pp. 141-151): il regionalismo specialistico è animato da intenti “morali” (ossia organizzativi, istituzionali, ordinativi, disciplinari, corporativi, ecc.) più che gnoseologici, e produce di fatto una limitazione della volontà di sapere, una messa a freno degli eccessi della curiosità. In questo modo, si perderebbe di vista il fatto che cose e idee sono molto meno disciplinate degli uomini: si mescolano di continuo, in modo eterogeneo, disparato e imprevedibile. Di conseguenza, la filosofia dovrebbe rapportarsi a esse senza mediazioni disciplinari e canoni normalizzanti, senza procedure, protocolli e metodi prestabiliti, senza lo scopo di ricondurle a un’unità superiore, alla comunanza di una forma, una natura o un ordine. La filosofia cercherebbe di cogliere e restituire quell’unità senza fusione sostanziale che è il clima, l’atmosfera, ossia il mondo, nel quale niente è ontologicamente separato dal resto – anzi, dovrebbe creare tale unità: la filosofia dovrebbe con ciò svolgere un’operazione di autotrofia speculativa, per cui anziché trarre nutrimento sempre ed esclusivamente da idee e verità che hanno già ricevuto il sigillo ufficiale di una qualche disciplina, anziché costruirsi a partire da elementi cognitivi già strutturati e ordinati, si devono invece trasformare in idee materie, oggetti o eventi di qualsiasi tipo. Proprio come fanno le piante, capaci di trasformare in vita qualsiasi frammento di terra, aria e luce: «una cosmologia proteiforme e liminare, indifferente ai luoghi, alle forme, alle maniere in cui viene praticata» (p. 147).
Ora, questa concezione “meteologica” o “atmosferica” della filosofia, per la quale essa è una sorta di condizione atmosferica che può sorgere all’improvviso in ogni luogo e momento, ha senza dubbio un elemento di rilevanza: suggerire che la filosofia dovrebbe essere considerata non come la costruzione di un campo di conoscenza specifico superiore che si “sovrimpone” su altri campi, ma come un costante movimento di sorvolo, ogni volta attento a tutto ciò che sta accadendo e mutando nel campo della ragione e della conoscenza, per giungere a modificare il modo in cui idee e conoscenze si concatenano e i saperi sono attraversati. Insomma, Coccia ha – a mio parere – il merito di ricordare che la filosofia deve essere coraggiosa, e accettare di essere impegnata nell’attraversamento concettuale del mondo, non nel commento di libri, nella discussione di soggetti astratti, nella ripresa di argomenti tradizionali, facenti perlopiù parte di un canone riconosciuto come “propriamente filosofico”. Ed è persino brillante quando osserva che la filosofia non potrà mai essere una disciplina per la semplice ragione che è ciò che diventa il sapere una volta che si è riconosciuto che non c’è nessuna disciplina – morale come epistemologica – possibile, nessuna dottrina scolastica da sancire.
Né, va aggiunto, ci si deve lasciare distrarre dai toni del discorso e dalle sfumature retoriche per connotarla come una posizione “irrazionalista” o “letteraria”, perché si tratta di una visione che anche un filosofo strettamente analitico come R. Casati ha presentato (lasciando ora da parte le evidenti diversità tra i due approcci): la filosofia come pratica “artistica” diffusa ovunque e pronta ad affiorare nel momento in cui occorre e viene sollecitata una qualche forma di negoziazione concettuale che permetta di attraversare diversi punti di vista o pratiche o discipline.
Ciononostante, resta sempre vero – cosa che l’esposizione di Coccia sembra lasciare troppo sullo sfondo – che non può esservi tale «autotrofia speculativa» senza un lavoro faticoso e certosino di rifinitura concettuale, rischiaramento tematico, affinamento problematico e articolazione sistematica, pena il pericolo di esaurire l’elaborazione in prese di posizione accorate ma euforiche, convinte ma entusiastiche, originali ma fideistiche.
In definitiva, questo lavoro di Coccia, al di là di un certo – si può letteralmente dire – afflato “pantemistico” (una sorta di mistica a sfondo panteista, per intenderci), pone delle questioni filosofiche che non possono essere ignorate, e le pone portandole ai loro esiti più estremi, forse proprio per questo esprimibili prevalentemente in termini più evocativi e in senso lato poetici – soprattutto se pensiamo alle circostanze biografiche e personali che hanno mosso l’autore (gli studi in un liceo agricolo e la scomparsa del fratello gemello nel pieno della giovinezza).
Ma, appunto, ciò non toglie che siano temi che hanno una notevole portata filosofica. Prendiamo per esempio il fatto decisamente banale della presenza del mio corpo nel mondo: esso segna i miei confini rispetto al mondo, mi individua, fa sì che sia proprio “io” a essere nel “mondo”. Eppure, da un certo punto di vista (lo notava già Whitehead), dove cominciano i confini del “mio” corpo, in realtà sta cominciando la natura in me, il mondo in me, sta cioè cominciando il mio essere del mondo (che il corpo sia “naturale” significa semplicemente questo). Il lavoro di Coccia consente di esplicitare molto bene l’insieme di aspetti connessi a una simile condizione: ormai è persino scontato riconoscere che non si può separare l’uomo dalla natura, come la mente dal corpo, ma una simile affermazione quanto può essere presa alla lettera? Che cosa davvero può significare? Essere in rapporto significa che non c’è distinzione? Detta sinteticamente, lo snodo filosofico che si profila è affermare il legame di tutto con tutto e insieme lo slancio della forza differenziatrice: le cose effettivamente si separano, ma lo fanno soltanto perché sono in rapporto.
Si potranno dunque imputare al lavoro di Coccia i limiti sopra riscontrati, ma un testo filosofico – alla fine – merita tanta più considerazione quanto più rende possibile l’articolazione di problemi al contempo genuini e difficili: sotto questo prospetto, questo libro dunque va decisamente tenuto in conto e preso come termine di confronto.
Il rompicapo della realtà. Metafisica, ontologia e filosofia della mente in E. J. Lowe (Mimesis, Milano 2015) di Timothy Tambassi è la prima monografia dedicata interamente al pensiero di Lowe, il quale ha contribuito a impreziosirla seguendone la stesura passo per passo fino alla versione definitiva (la tesi di dottorato dell’autore) senza tuttavia potere assistere alla pubblicazione del volume, avvenuta a poco più di un anno dalla morte dello stesso Lowe. Il sottotitolo rivela il contenuto vero e proprio del libro: non ogni aspetto della ricerca di Lowe, ma quelli considerati più aderenti al suo nucleo teoretico, ossia la metafisica, l’ontologia e la filosofia della mente, a cui corrispondono i tre capitoli del libro. Più in particolare, Tambassi mira a mostrare la stretta connessione sussistente fra questi aspetti della proposta loweiana, la loro costitutiva apertura ai risultati delle scienze e, più in generale, ad altre forme di indagine della realtà. Secondo Lowe, infatti, la riflessione metafisica – focalizzata sui tre concetti cardine di realtà, di sostanza e di risorse esplicative – costituisce lo sfondo concettuale imprescindibile dell’ontologia e della filosofia della mente e conseguentemente, attraverso queste ultime, di ogni altra forma di indagine della realtà. Come vedremo, però, la scelta di presentare una sintesi coerente solo del nucleo essenziale della proposta loweiana, se da un lato abbrevia certamente la via per l’acquisizione di una certa dimestichezza col suo pensiero, dall’altro, però, rischia di contrarre nella pura dimensione dell’implicito la ricchezza di temi e questioni che pure hanno caratterizzato il lavoro filosofico di Lowe e che intrattengono un ruolo di continuo scambio col suo nucleo – e non semplicemente di mera applicazione o conseguenza.
Il primo capitolo del testo di Tambassi è dedicato alla metafisica di Lowe, definita come una disciplina razionale che studia sistematicamente le strutture fondamentali della realtà, intesa a sua volta come unitaria e indipendente dal nostro modo di osservarla, e fa ciò interamente a priori, cercando quindi di chiarire alcuni concetti universalmente applicabili (pp. 19-20). Essa definisce ciò che è possibile, sia specificando la natura stessa della possibilità sia determinando quali siano le entità possibili e che caratteristiche abbiano. Stando a questa definizione, allora, la possibilità metafisica viene qualificata come una possibilità de re, ossia una possibilità reale, che riguarda la natura stessa delle cose di cui è predicata e ciò a prescindere dal modo in cui tali cose vengono concretamente descritte. Il criterio minimale per la possibilità reale, allora, è che tra le proposizioni utilizzate per descrivere le cose sia assente la contraddizione. In questo senso, nella concezione di Lowe la possibilità logica e l’ambito della metafisica risultano coestensivi: ciò che è possibile è, cioè, vero in ogni mondo in cui valgano le leggi della logica. L’orizzonte della pura possibilità logica acquisisce poi una più compiuta determinazione per mezzo delle nozioni trascendentali – quali, per esempio, le nozioni di sostanza, proprietà e stato di cose –, che è compito proprio della metafisica approfondire e che sono alla base dell’articolazione della nostra stessa esperienza della realtà attuale (pp. 25-26). In proposito, il senso del trascendentale loweiano – a differenza di quello kantiano – riguarda sia la realtà in se stessa sia il nostro modo di pensarla. E questo proprio perché, per Lowe, se da un lato non si dà realtà al di fuori dell’esperienza possibile, dall’altro la nostra esperienza e il nostro pensiero sono una parte costitutiva della realtà stessa, e ciò che riguarda essenzialmente il nostro pensiero della realtà riguarda con ciò stesso anche la realtà in quanto tale. Il fatto che Lowe sottolinei l’indipendenza della descrizione della realtà dal nostro modo di pensarla non risulta, però, in contraddizione con quanto appena sottolineato, poiché questa indipendenza è intesa tale non tanto nei confronti del pensiero in generale, quanto piuttosto nei confronti delle particolari prospettive dei soggetti.
Fra le nozioni trascendentali la centralità assoluta spetta alla nozione di sostanza (1.3), in virtù della sua indipendenza ontologica, che comporta la sua priorità ontologica rispetto a ogni altro tipo di entità (p. 28). È qui che il discorso metafisico entra pienamente nel vivo, coinvolgendo infatti le condizioni d’esistenza e d’identità delle sostanze, che a loro volta comportano – come vedremo più avanti – l’approfondimento della natura del tempo. Una certa entità è, allora, ontologicamente indipendente – ossia è una sostanza – se e solo se non dipende per la sua identità da qualche altra entità. Da tale condizione discende anche quella relativa all’esistenza: se una certa entità dipende da un’altra per la sua identità, ne dipende anche per la sua esistenza, ossia esiste solo se esiste anche la seconda. La sostanza è indipendente in entrambi i sensi – e in ciò consiste propriamente la sua indipendenza ontologica: «Così concepita, la sostanza è un particolare (concreto) che non dipende per la sua esistenza da nient’altro oltre che da se stesso, dove la dipendenza esistenziale coinvolta è intesa in termini di dipendenza rispetto all’identità» (pp. 29-30). L’insieme delle condizioni d’identità di una sostanza – ciò che determina l’identità e l’unità di essa – è allora la sua forma, ossia il suo costituirsi come istanza di un certo genere (o tipo). In virtù di questo aspetto fondamentale della forma Lowe ammette poi l’esistenza di sostanze immateriali – quali per esempio i sé (oggetto della filosofia della mente) e le particelle ultime (che sarebbero quindi fisiche e immateriali al tempo stesso; cfr. p. 32) – accanto a quelle materiali, intendendo qui ‘materiale’ nel senso della materia prossima, ossia ciò di cui una cosa risulta immediatamente costituita.
Sempre dalla forma discende poi anche la più importante distinzione relativa alle sostanze: quella fra sostanze composte – tra le quali si annoverano le cose concrete del mondo macroscopico – e sostanze semplici (o prime) – per esempio i sé e alcune particelle subatomiche la cui immaterialità, naturalmente, consegue dalla loro semplicità – che costituiscono il fondamento ultimo dell’esistenza del reale (pp. 33-34). Una sostanza è allora composta, se possiede delle parti – dalle quali non dipende però per la propria identità – ed è invece semplice, se è priva di parti costituenti. A sua volta, la differenza fra i due tipi di sostanze si fonda su una differenza fra criteri d’identità ed è qui che il tempo gioca un ruolo decisivo: se infatti ogni sostanza materiale e ogni sostanza fisica sono necessariamente collocate in modo determinato nello spazio e nel tempo, le sostanze mentali (i sé) esistono necessariamente nel tempo ma solo contingentemente nello spazio – ossia solo nella misura in cui sono legate a sostanze fisiche quali i loro corpi: poiché per Lowe il tempo è reale per ogni tipo di sostanza, esso risulta un riferimento privilegiato. Più in particolare, è in relazione al tempo che emerge una differenza fondamentale nei criteri d’identità delle sostanze: contrariamente a quelle semplici, infatti, le sostanze composte sono dotate di un criterio d’identità diacronica (1.6), che «è fondata a partire dalle relazioni di equivalenza definite sulle loro componenti attuali o possibili […] e consiste nella conservazione di tali relazioni fra le parti costituenti possedute dalle sostanze attraverso il tempo» (pp. 36-37). La sostanza complessa, in somma, è ciò che permane attraverso il mutare delle relazioni, in cui il tempo propriamente consiste. È per questo motivo che l’esistenza stessa del tempo dipende in ultima istanza da quella delle sostanze semplici, «che persistono attraverso il tempo come “continuanti” […] e la cui persistenza è necessariamente primitiva» (p. 40).
Al culmine di queste considerazioni, Tambassi inserisce un’accurata analisi della concezione loweiana del tempo e del contesto in cui si colloca (1.7). Se il dibattito contemporaneo sulla natura del tempo è diviso fra le teorie tensionali (dall’inglese ‘tense’) e quelle atensionali – le prime ritengono essenziali le nozioni di passato, presente e futuro, le seconde si limitando a considerare le nozioni di prima, dopo e simultaneità –, Lowe assume la prima posizione, legandola essenzialmente a una concezione della persistenza (di una sostanza nel tempo) di tipo endurantista, secondo la quale una sostanza è sempre completamente presente in ogni momento in cui esiste – posizione contrapposta a quella perdurantista, secondo cui a differenti momenti dell’esistenza di una sostanza complessa corrispondono differenti parti temporali di essa.
Il secondo capitolo del libro è dedicato all’ontologia, che Tambassi rileva come «la parte più innovativa e originale» (p. 45) degli scritti di Lowe, anche perché giunta alla sua veste definitiva solo con la pubblicazione nel 2006 di The Four-Category Ontology. Dopo una ricostruzione storico-contestuale dell’ontologia analitica e del dibattito contemporaneo (2.1), Tambassi delinea la posizione loweiana sull’ontologia: «quella parte della metafisica che studia nello specifico l’essere in tre sensi fondamentali: esistenza, entità ed essenza» (p. 50). Essa ha il compito di stabilire che cosa esiste (esistenza), di determinare le categorie fondamentali dell’essere nonché le loro interrelazioni (entità) e, infine, di indagare quali siano le caratteristiche necessarie e quali le caratteristiche contingenti di una determinata entità (essenza). L’ontologia si divide inoltre in una parte a priori – quella specifica dell’elaborazione categoriale – e una empirica, che si confronta coi risultati delle altre scienze. In sintesi, allora, se la metafisica si occupa della pura possibilità, l’ontologia si occupa di ciò che esiste e coesiste. In quanto scienza dell’essere, come già osservato, essa è secondo Lowe indissolubilmente connessa alle descrizioni della realtà che emergono dal lavoro di ogni disciplina scientifica, il cui obiettivo è una descrizione vera della porzione di realtà che costituisce il suo specifico oggetto di ricerca, descrizione su cui si innesta conseguentemente anche la capacità di una scienza di fornire adeguati modelli di previsione per i fenomeni coinvolti nel suo oggetto. «L’ontologia ha l’obiettivo di unificare le diverse descrizioni […], in modo da fornire una descrizione unitaria» (p. 50), essendo il suo oggetto la realtà in se stessa e in quanto tale. Tambassi prosegue collocando la posizione di Lowe nel panorama contemporaneo relativo alle categorie ontologiche (2.2), che Lowe definisce come i tipi più generali di cose (categorie dotate di maggiore generalità) che forniscono i criteri d’identità per specifiche classi di oggetti (p. 53). Partendo dalla categoria ontologica di entità – la massima per generalità –, si arriva quindi finalmente al sistema ontologico quadri-categoriale (2.3), ottenuto combinando le suddivisioni di entità in universali/particolari e sostanziali/non sostanziali. Le quattro categorie (cfr. p. 55) sono quelle dei generi (universali sostanziali), degli attributi (universali non sostanziali), degli oggetti (particolari sostanziali, ossia le sostanze di cui si è discusso nel primo capitolo) e dei modi (particolari non sostanziali). Tutto ciò che esiste è incluso in una di queste categorie, il cui studio avviene interamente a priori. Fra le quattro categorie fondamentali, inoltre, sussistono due relazioni metafisiche fondamentali: l’istanziazione (generi e attributi istanziati rispettivamente da oggetti e modi) e la caratterizzazione (generi e oggetti caratterizzati rispettivamente da attributi e modi). A queste due prime relazioni metafisiche Lowe aggiunge poi la relazione di esemplificazione (attributi esemplificati da oggetti). A ognuna delle quattro categorie ontologiche loweiane, che categorizzano entità esistenti (anche nel caso degli universali, come vedremo), Tambassi dedica poi un’analisi specifica (2.4).
Il punto di partenza è ancora la nozione di sostanza, che nel sistema quadri-categoriale è rappresentata dalla categoria degli oggetti (2.4.1): com’era emerso nel capitolo dedicato alla metafisica, questa è la categoria delle entità che per la loro indipendenza e priorità ontologiche sono il fondamento della realtà. Così, relativamente al rapporto fra gli oggetti e i modi che li caratterizzano (proprietà e relazioni degli oggetti), Lowe pone due importanti distinzioni: la prima è che gli oggetti non sono meri sostrati privi di proprietà in se stessi (bare particulars) con la funzione di sostenere proprietà che avrebbero così un ruolo ontologicamente prioritario nelle condizioni d’identità dell’oggetto stesso. Piuttosto, invece, «gli oggetti non dipendono né per la loro esistenza né per la loro identità dai modi che li caratterizzano» (p. 61) trattandosi di due entità differenti, le prime ontologicamente indipendenti, le seconde dipendenti. La seconda distinzione importante, è quella fra oggetti e quasi-oggetti. Questi ultimi sono entità particolari e numerabili, che tuttavia sono costitutivamente privi di condizioni d’identità determinate che ne permettano l’individuazione (tali sono per esempio le particelle atomiche oggetto della meccanica quantistica): «L’indeterminatezza della loro identità è di tipo ontologico e non dipende in alcun modo dal nostro modo di conoscere le entità in questione» (p. 63). Procedendo con le altre categorie, Tambassi considera poi i modi – che si dividono in proprietà particolari (modi monadici) e relazioni particolari (modi poliadici) – e il loro rapporto con la nostra esperienza empirica (2.4.2), rapporto a proposito del quale Lowe considera la differenza fra le nostre percezioni e i fatti stessi (a loro volta distinti in eventi e processi, intesi come cambiamenti e sequenze di cambiamenti nei modi di un oggetto; cfr. p. 67). Che i modi siano delle entità particolari, inoltre, comporta l’unicità di ognuno di essi, mentre la loro dipendenza dagli oggetti implica che nessun modo può dipendere al tempo stesso da oggetti differenti; i modi, inoltre, non possono nemmeno essere considerati alla stregua di parti di un oggetto: queste sono infatti particolari sostanziali, che possono a loro volta possedere degli altri modi, ma non ridurvisi. Dalle considerazioni sui modi, Tambassi prosegue a discutere la concezione loweiana degli attributi (2.4.3.), intesi come il modo di due o più oggetti, o come un’entità portata dal genere che ne viene così caratterizzato (cfr. p. 71; per esempio, si dice che l’attributo della “trasparenza” caratterizza il genere “vetro”, che è un portatore della trasparenza; il vetro particolare (sostanza) della finestra che ho accanto e la sua particolare trasparenza (modo), sono allora rispettivamente istanze del genere “vetro” e dell’attributo “trasparenza”). Comincia qui a profilarsi il particolare realismo “immanente” sugli universali di Lowe, secondo il quale gli universali inclusi nell’inventario dell’esistente sono sia quelli istanziati attualmente sia quelli che hanno avuto istanze e che non sono però più attuali, ma non quelli di cui non si abbiano istanze (p. 70). Tambassi conclude poi il secondo capitolo con la discussione dei generi (2.4.4.) – universali sostanziali –, a cui Lowe «attribuisce un ruolo fondamentale nella descrizione dello statuto ontologico delle leggi naturali» (p. 74). Alle leggi naturali corrispondono i generi naturali da esse necessariamente caratterizzati e, in questo senso, le leggi naturali «determinano tendenze fra i particolari […] a cui si applicano, ma non i loro comportamento attuale […] che è invece il risultato di molteplici interazioni implicanti una molteplicità di leggi» (p. 77).
Infine, il terzo e ultimo capitolo prende in considerazione la filosofia della mente, definita come «la disciplina che si occupa di studiare e analizzare, da un punto di vista filosofico, i soggetti di esperienza, […] di chiarire cosa siano e se e come possano esistere» (p. 83). Con “soggetto di esperienza” s’intende ogni possibile portatore di proprietà mentali (per esempio persone, altri animali, robot e spiriti senza corpo). In gran parte, la filosofia della mente di Lowe mi sembra essere una coerente conseguenza di idee sviluppate su un piano strettamente ontologico e metafisico. Così, Lowe può tradurre il problema del rapporto mente-corpo nella questione del rapporto fra due differenti generi naturali di oggetti, l’uno rispondendo a leggi biologiche – il corpo – l'altro a leggi psicologiche – il sé. La peculiare soluzione di Lowe, chiamata anche dualismo delle sostanze non cartesiano (3.4), afferma infatti che a corpo e mente corrispondono rispettivamente una sostanza complessa e una semplice (il sé, che Tambassi presenta assieme al cosiddetto unity argument (3.5)) senza però che tali sostanze siano necessariamente separabili l’una dall’altra (per questo il dualismo è qui “non cartesiano”) e soprattutto senza che ci sia un rapporto di subalternità fra leggi biologiche e leggi psicologiche, dato che Lowe rivendica per queste ultime «uno specifico ruolo causale ed esplicativo» (p. 102) capace anche di determinare in una certa misura, amplificata dai contesti sociali, la stessa storia evolutiva biologica.
Su questo tema il testo si chiude ed è proprio a questi ultimi argomenti che si rivolge l’unica mia critica al volume. Si tratta di una critica metodologica, e non contenutistica, nei confronti di Tambassi: a mio modo di vedere, l’unica debolezza de Il rompicapo della realtà – debolezza, per altro, conseguente a una consapevole scelta di Tambassi – consiste nell’aver deliberatamente escluso tutti gli studi di Lowe che non riguardino direttamente il tema metafisico. Mi riferisco a quegli studi su Locke che hanno occupato una parte certamente non marginale del lavoro di Lowe e che potrebbero integrare in modo significativo la presentazione della metafisica loweiana proposta da Tambassi fornendo al lettore da un lato interessanti informazioni sul percorso d’indagine che Lowe ha seguito, dall’altro una visione più ampia della genesi della metafisica loweiana: la nozione loweiana di sostanza risente, infatti, del confronto con Locke e, attraverso quest’ultimo, è ampiamente debitrice della cosiddetta Early Modern Philosophy. Anzi, si potrebbe osservare che la concezione loweiana della sostanza sembra a tratti quasi sovrapponibile a quella lockiana, a esclusione di un aspetto decisivo: per Lowe, infatti, la nozione di sostanza non ha affatto una natura ipotetica, ma marcatamente reale – le sostanze, infatti, sono le autentiche componenti della realtà esistente. Questa soluzione parrebbe indirizzare Lowe verso un paradigma leibniziano, tuttvia l’autore smentisce questa apparenza sostenendo che per lui esistono sia le sostanze immateriali (com’erano le monadi leibniziane) sia le sostanze materiali (impensabili nel sistema leibniziano maturo, nel quale materia ha un carattere derivato), e ammette persino l’esistenza di entità numerabili ma non discernibili come i quasi-oggetti (anche questo aspetto è assolutamente escluso dal Leibniz maturo). Un ennesimo elemento indica quanto Lowe sia profondamente legato a Locke: Lowe non esita a definire Le categorie di Aristotele come il testo più importante nella storia dell’ontologia1, rimarcandone al contempo l’influenza sul suo pensiero, ma si discosta poi nettamente dall’idea aristotelica di sostanza prima riconvergendo verso una posizione lockiana.
Da queste rapide osservazioni conclusive – che hanno più la natura di spunti, che di critiche – mi sembra si possa guadagnare una piena prospettiva sulla fecondità di questa monografia: il nucleo teoretico del pensiero di Lowe è tutto qui, esposto in modo chiaro e sintetico. E tuttavia, così come possedere un passepartout non equivale a varcare tutte le soglie che esso ci può aprire, la ricchezza del pensiero di Lowe attende ancora importanti esplorazioni.
1Cfr. E. J. Lowe, The Four-Category Ontology, Oxford University Press, Oxford 2006, p. 58.
La psicologia è ibrida. O tale dovrebbe essere. Da sempre il suo status è meticcio, frutto di una sintesi che miscela elementi filosofici, religiosi, scientifici e occultistici. La deriva presa dal suo insegnamento e dalla relativa pratica terapeutica nel corso del Novecento ne ha però messo in crisi alcuni aspetti basilari: primo fra tutti la commistione col sapere scientifico finalizzata a custodire un insieme di conoscenze che, però, il passare degli anni ha reso sempre più datato. Sembra infatti essersi verificato un progressivo isolamento, che ha reso il sancta sanctorum della psicologia, lo studio terapeutico, un luogo refrattario alle influenze esterne, impermeabile alle contaminazioni disciplinari e, soprattutto, poco avvezzo ad aprirsi alla scienza che, nella Vienna di fin de siècle, aveva non poco influenzato i primi studi dei maestri Freud e Jung. Con il libro Biologia dell’anima (Bollati Boringhieri, 2015), Maurilio Orbecchi si propone di restituire alla psicologia il suo tratto distintivo, la tendenza alla fusione dei saperi, auspicando che tale disciplina si apra a nuovi campi d’indagine di matrice scientifica. Per farlo, l’autore si affida a un riposizionamento concettuale proprio del postumano: riconsiderare l’animalità dell’uomo e abolire ogni pretesa di eccezionalità umana, obsoleto retaggio di secoli di umanesimo. Da dove ripartire dunque, se non da Darwin? La teoria dell’evoluzione – sia nella forma originale ottocentesca sia in quella che il Novecento ha prodotto con la sintesi moderna, conosciuta come neodarwinismo – diventa quindi la bilancia critica dell’opera di Orbecchi, grazie alla quale è possibile tarare la presunta scientificità delle principali scuole psicologiche e al tempo stesso costruire un’architettura di matrice biologica sulla quale innestare altri saperi. L’edificio ottenuto dovrebbe, dopo questa fondamentale operazione di riassestamento e aggiornamento, azzerare gli ultimi ma ancora piuttosto vivi afflati di matrice dualistica presenti nel pensiero e nella terapia odierni.
Non c’è traccia di naturalismo nel procedere critico del saggio: l’autore, non appellandosi esclusivamente alla genetica, evita lo spauracchio del determinismo proprio di alcune scuole di pensiero post-darwiniane (dall’ultradarwinismo di Dawkins alla sociobiologia di Wilson), e propone una definizione di Homo sapiens come «insieme complesso di sistemi psicobiologici egoisti e altruisti sulla cui espressione influisce largamente l’ambiente di sviluppo» (p. 161). Appare chiaro che, in tale cornice, non possono trovare posto il determinismo psichico freudiano e il finalismo junghiano, così come tutti quegli aspetti teorici invalidati da una scorretta lettura della teoria evolutiva, apertamente lamarckiani oppure ampiamente superati dal punto di vista scientifico – come il ricorso alla legge biogenetica di Haeckel, il cui principio (l’ontogenesi riepiloga la filogenesi) non è più considerato valido al giorno d’oggi. In aggiunta ai riferimenti continui a studi contemporanei nel campo delle neuroscienze cognitive e affettive, Orbecchi ricorre alle ricerche effettuate da numerosi etologi, come Frans de Waal, nel campo della psicologia animale e di quella comparata. Alla luce delle recenti scoperte scientifiche relative a questo settore, appare chiaro che la divisione del vivente operata da Freud in esseri umani (animati da pulsioni, Triebe) e animali (schiavi dell’istinto, Instinkt) è quanto mai scorretta e approssimativa. Nonostante ciò, ancora oggi, nelle parole di psicanalisti come Massimo Recalcati riecheggiano superati ritornelli antropocentrici: «Il corpo animale appare governato integralmente e infallibilmente dalle meccaniche naturali dell’istinto; è un corpo totalmente asservito alle esigenze della riproduzione della specie e determinato dalla necessità della propria autoconservazione» (2012, pp. 126-127). Le specie non umane – dalla medusa al gorilla – sono raggruppate in una categoria indistinta, l’Animale, i cui tratti distintivi sono un’infallibile meccanicità di cartesiana memoria e un principio causale che fa invidia ai deterministi più ortodossi. Non c’è spazio alcuno per ciò che sta oltre l’umano, per ciò che gli scienziati osservano ogni anno in numerose specie, dal delfino ai grandi felini, passando per il bonobo (Pan paniscus), specie che sta al centro delle grandi ricerche sulle scimmie antropomorfe odierne, la cui complessa vita sessuale presenta omologie con quella umana tali per cui parlare di “binari istintuali” appare quantomeno riduttivo. Risulta dunque evidente quanto ancora non sia stata assimilata né compresa un’importante lezione darwiniana: le differenze che separano l’uomo dagli animali non umani, siano esse evolutive, strutturali o cognitive, non sono di qualità ma di grado.
La principale accusa mossa agli impianti teorici costruiti da Freud e da Jung (e successivamente ampliati da numerosi epigoni) consiste nell’identificare tutti gli aspetti che promuovono una “psicologia culturalista” all’interno della quale l’uomo, forte delle sue doti eccezionali di natura esclusivamente culturale, si trova a essere fulcro del mondo, entità priva di connessioni con l’Altro non umano e mancante di strutture psicobiologiche condivise con altri mammiferi. Orbecchi smonta pezzo dopo pezzo i fondamenti della psicologia freudiana e junghiana – dall’inconscio alla sincronicità, passando per la sublimazione e il transfert – al fine di rileggerne alcuni da un punto di vista per così dire moderno, interdisciplinare ed evolutivo, e di proporre una psicoterapia libera da scuole dogmatiche, votata all’accrescimento della consapevolezza evoluzionistica in ogni sua corrente, orientata dal racconto e fondata sul buon rapporto (il rapport di Pierre Janet) fra analista e paziente. Obiettivo ultimo è dunque demolire il “muro di Vienna”, restituendo al tempo stesso importanza ad alcuni precursori ormai sprofondati nell’oblio, come William James e Pierre Janet, i cui studi sono forti di intuizioni e teorie ben più valide, in particolare per quanto concerne la scientificità, rispetto a quelle proposte dai mostri sacri del sapere psicologico definiti, in un affondo provocatorio dell’autore, “morti viventi”. Biologia dell’anima non è un pamphlet scientista il cui intento consiste nel distruggere un secolo di sapere, bensì un lavoro che sostiene la creazione di una psicologia multilivello e che pone alla base di tale operazione contaminante il contributo della biologia, non tanto perché senza biologia non si possa comprendere alcunché, ma perché, come scrive Roberto Marchesini in Post-human: «L’uomo non può essere compreso al di fuori del contesto biologico, non perché le leggi della biologia possano da sole spiegare la sua natura, ma perché è proprio la natura biologica a rendere la sua ontogenesi ricorsiva – anche in quella mirabile costruzione che è la cultura – ovvero inspiegabile assumendo un solo punto di vista» (2002, p. 52).
Bibliografia
Marchesini, R. (2002). Post-human. Verso nuovi modelli di esistenza. Torino: Bollati Boringhieri
Recalcati, M. (2012). Ritratti del desiderio. Milano: Raffaello Cortina Editore
Il cosiddetto “principio dell'handicap”, elaborato per la prima volta dal biologo Amotz Zahavi nasce per rendere coerenti con la teoria dell'evoluzione alcuni caratteri delle specie viventi che sembrano del tutto ingiustificati, ovvero non presentano alcun vantaggio evolutivo per la specie che li sviluppa. L'esempio classico è quello della coda del pavone: essa è piumata, visibile, ma anche ingombrante, tale da rendere difficile sia lo spostamento che la mimetizzazione.
I pavoni con la coda più grande, ingombrante e difficile da gestire, tuttavia, a dispetto dell'impraticità, risultano spesso anche i più apprezzati dagli esemplari femmina della stessa specie. La spiegazione addotta da Zahavi si basa sul fatto che la coda rappresenta un “segnale onesto”, ovvero che proprio le difficoltà aggiuntive poste alla sopravvivenza del pavone superdotato “dicono” alla femmina che egli dispone di buona salute, e che è tanto forte, veloce e intelligente da compensare la scomodità della coda. Nel caso dello stotting delle gazzelle – un tipo di corsa lenta, nella quale si compiono tuttavia salti notevoli – l'handicap serve da segnale ai predatori: ad essere cacciate saranno le gazzelle che saltano meno in alto, dimostrando una capacità di fuga inferiore. Fortunatamente, tali comportamenti appartenenti al regno animale non sono propri dell'uomo, che attraverso le forme superiori del pensiero razionale ha superato la necessità di impelagarsi in comportamenti improduttivi, fastidiosi, dolorosi e rischiosi solo per dimostrare qualcosa (che in genere è il proprio valore riproduttivo). Oppure no? In effetti, forse, estendendo il principio di handicap all'analisi dei comportamenti umani, potremmo trovare che esso è tutt'altro che fuori luogo, e anzi si applica egregiamente in tutta una serie di casi che trovano difficilmente una spiegazione altrimenti.
Si potrebbe argomentare che il principio di handicap è molto vicino al concetto di “lusso”. I vestiti di lusso, le auto di lusso, i palazzi di lusso, le cose di lusso hanno costi esorbitanti e spesso una efficienza minima (basti pensare alla immane scomodità di guidare un SUV in città). Anzi, spesso la loro significatività sta proprio nella immane quantità di denaro speso per procurarseli, denaro che parla di altro denaro, che ci rassicura sul fatto che quella persona alla guida del SUV non ha né avrà problemi economici. Oltre al concetto di lusso, si può riportare il principio di handicap a una serie di accessori e comportamenti femminili. Forse che camminare su un paio di tacchi è più facile, più comodo che farne a meno? Il principio di handicap applicato alla moda femminile potrebbe forse fornire più d'una elucidazione. È interessante notare anche, a tal proposito, che la moda maschile ha fatto a sua volta la sua comparsa (con i suoi spiacevoli e scomodi effetti) proprio nel momento in cui la scelta del partner smetteva di dipendere esclusivamente dall'uomo – secondo la regola tradizionalmente invalsa nelle culture patriarcali – e cominciava a riguardare anche l'universo femminile.
Ma non dobbiamo limitarci a guardare lontano da noi stessi, per rintracciare il lavorìo incessante del principio di handicap. Esso, lungi dal presentarsi solo nei luoghi più riparati e lontani dalla razionalità, come un riflesso vestigiale dell'evoluzione che ci riguarda solo in quanto residuo istintuale, pre-razionale, può essere ritrovato nell'attività squisitamente accademica della stesura di bibliografie ipertrofiche impressionanti, sovradimensionate, faticosissime a mettersi insieme. Oppure nell'ostentazione di conoscenze enciclopediche. O ancora nella proliferazione di cautele metodiche meticolose fino all'ossessione compulsiva. La nostra risposta a tali bizzarrie dell'intelletto, che sconfinano talvolta nel vizio vero e proprio, è quella di considerarli segni di intelligenza. Ma stiano in guardia gli studiosi, soprattutto quelli giovani e inesperti, quando valutano se imitare o meno questi stili di scrittura e di pensiero: a volte l'intelligenza e il genio si annuncia tramite tali bizzarrie proprio perché occorre intelligenza e quasi genio per produrre qualcosa di sensato o valevole nonostante tali difetti.
Dopotutto, se fare filosofia può dirsi talvolta un lusso, ci piace pensare che oltre all'immenso piacere di leggere, scrivere, ascoltare e dibattere di idee e sistemi ci sia qualcosa di più profondamente necessario che si fa, facendo della filosofia, e a volte nonostante il fatto di stare facendo della filosofia. (Ma se potessi scriverlo in otto parole in coda a questo intervento a cosa servirebbero le istituzioni?)
La psicoanalisi e le donne hanno sempre camminato insieme sin dalla nascita della prima. Diverse donne, nel tempo inaugurale della psicoanalisi, hanno aperto a Freud la via del transfert e gli hanno mostrato l’essenziale circa il nesso tra i sintomi di origine psichica e la sessualità. Cosa possiamo cogliere circa la specificità del rapporto tra la psicoanalisi e il femminile?
All’origine della psicoanalisi c’è l’incontro tra Freud e alcune isteriche. Isteria e femminile non coincidono in modo totale, ma vi è qualcosa nella logica dell’isteria che consente di connettersi col femminile. Freud constata che, nell’esperienza clinica, certi sintomi resistevano sia a trattamenti che avevano una presa diretta sul corpo (idroterapia, pranoterapia, ecc.), sia al trattamento che avrebbe avuto una presa diretta sullo psichismo: l’ipnosi. Così facendo, egli prende atto e nota del fatto che vi sia una discontinuità, qualcosa che esiste nella sua materialità e che, però, non si lascia trattare allo stesso modo delle altre sostanze materiali con cui la scienza medica è abituata ad aver a che fare. Freud incontra molto presto quel punto limite d’intrattabilità e ciò lo spinge a inventare la psicoanalisi e a proseguire, lungo tutta la vita, nella sua elaborazione, rilanciandola ogni volta che trova che quel punto insiste e chiama a una riformulazione della teoria. Nel testo sull’Interpretazione dei sogni lo chiama “l’ombelico del sogno”, mentre in Analisi terminabile e interminabile, scritto al termine della sua carriera, “la roccia della castrazione”. Per Lacan sarà il reale, l’impossibile.
È a partire da ciò che egli ipotizza l’esistenza dell’inconscio in quanto sessuale; giacché è con l’inconscio e con le sue elucubrazioni di lalingua, che il soggetto cerca di trattare questo impossibile strutturale. La sessualità umana, per la psicoanalisi, è una sessualità che non corrisponde a una sessuologia, poiché essa non è associata a una sorta di “manuale d’uso” che potrebbe spiegare al soggetto come utilizzarla. La sessualità non è nemmeno legata all’istinto. L’istinto e la biologia dettano agli animali quando, come e con quale simile soddisfare l’appetito legato alla necessità della specie di riprodursi. Per l’essere vivente che è preso dal e nel linguaggio, il parlessere, il modo in cui si situerà nella propria sessualità, come uomo o come donna, non è qualcosa di già dato sin dalla nascita. Ciascuno, a partire da certe condizioni– condizioni che non ha scelto, ma con le quali dovrà giocarsi la sua partita –, transitando attraverso un percorso fatto di identificazioni e di godimenti, arriverà a scegliere inconsciamente di posizionarsi dal lato maschile o dal lato femminile, in relazione alla propria sessualità.
Dal lato uomo troviamo una modalità di godimento legata alla logica fallica, logica del tutto, dell’universale. Grazie al significante fallico il soggetto può trovare un orientamento simbolico universalizzante che lo aiuta a raccapezzarsi con quella sessualità che nulla e nessuno gli può spiegare. L’organo sessuale maschile e il tipo di godimento che da esso il soggetto può trarre, rappresenta bene, sul piano del godimento, questa logica universale del tutto. La posizione maschile di godimento è identificata con la parvenza di avere il fallo e questo produce, nel soggetto così situato, una condizione tale per cui il proprio modo di godere è modulato secondo la logica del o tutto o niente,in concordanza con l’alternanza tumescenza-detumescenza propria dell’organo che viene identificato con il fallo (anche se non lo è). Da questo lato, l’immagine anatomica contribuisce a fissare in modo più assoluto il soggetto maschile al godimento fallico. Godimento che, nel Seminario Ancora, Lacan nomina come “godimento dell’idiota”. Dal lato donna, la logica fallica e il godimento che le è proprio è anche presente. In questa logica, il soggetto donna è nella posizione che l’identifica a essere il fallo, per sé e per l’altro. L’anatomia, che le rivela che non ce l’ha, non le impedisce di poter godere anche lei in modo fallico, a livello del corpo ma anche fuori dal corpo. Nulla vieta a una donna, per esempio, di godere del potere – sostituto fallico per eccellenza – allo stesso modo di un suo collega uomo, né di ottenere della soddisfazione sessuale attraverso un godimento fallico. Freud non ha mai smesso di interrogarsi sulla specificità delle donne, arrivando a concludere che la donna fosse caratterizzata dall’assumersi la castrazione, superando l’invidia del pene. Ciò però non basta per spiegare la specificità femminile, poiché l’assunzione della castrazione pertiene anche al mondo maschile, dal momento che il fallo simbolico – che manca all’uno e all’altra – non coincide con l’organo maschile. Jacques Lacan non è indietreggiato rispetto a questo impossibile nel quale l’opera freudiana si era arenata, interrogandosi ed elaborando qualcosa di più incisivo sulla specificità del godimento femminile. È questa specificità che fa dire a Lacan che La donna (come universale) non esiste, dal momento che non esiste Il godimento femminile unico e universale. Ciascuna donna può avere, se vi acconsente, un suo rapporto con un godimento al di là del fallo, al di là della castrazione e dell’Edipo, a condizione però di servirsi anche della logica fallica. Diversamente, si aprirebbe il campo al discorso sulla follia, ma questa è un’altra faccenda. Non si tratta, come possiamo vedere, di far coincidere il femminile con l’isteria. Vi è, però, qualcosa che le raccorda, senza sovrapporsi. A partire dei soggetti isterici, Freud scopre un al di là. L’inconscio, che cela un trauma in relazione alla sessualità, è un al di là. Un al di là degli enunciati, del sintomo, del lamento, i quali rivelano di essere dei messaggi da decifrare, solo a partire dal fatto che ci sia qualcuno che si metta nella posizione di volerlo cogliere e accogliere. L’isteria si difende dal sessuale insito nell’inconscio e perciò produce dei sintomi. L’isterica si difende dal godimento Altro, ma proprio perché si difende può trovarsi nella posizione opportuna per accedervi.
Il soggetto isterico è un soggetto diviso, che testimonia che vi è in lui un qualcosa da svelare, un al di là, appunto, anche quando spesso lui stesso oppone resistenza a questo svelamento. Le donne, a partire da una condizione che le caratterizza e rispetto alla quale sono in un certo modo privilegiate, oltre a essere iscritte nel godimento fallico, possono avere – se lo vogliono – accesso a un godimento Altro. L’inconscio non coincide con questo godimento Altro, il godimento femminile, come lo chiama Lacan; ma un modo per accedervi è quello di passare attraverso l’esperienza dell’inconscio, così come accade durante un’analisi. Quando un soggetto – uomo o donna – entra in analisi, ciò di cui fa esperienza è che i suoi sintomi, i suoi comportamenti, i suoi enunciati rivelano Altro da ciò che credeva; non solo un altro senso, ma addirittura un altro godimento. Cogliere questo, man mano, nell’analisi, conduce il soggetto ad acconsentire e accettare quell’altra logica, innanzitutto rispetto a sé, e di conseguenza anche rispetto agli altri. Accettare che vi sia un Altro godimento, forme di godere altre e diverse da quella sostenuta dall’Io, dal discorso cosiddetto comune, che è quello del padrone.
Passare attraverso l’esperienza di un’analisi e portarla a termine, può essere il modo, per una donna, di accedere al godimento specificamente femminile, il quale non si può afferrare, né dire, né localizzare da nessuna parte, ma, talvolta, lo si può provare.