Raramente il tono con cui si parla o si scrive è stato fatto oggetto di trattazione filosofica. Come trattare del tono? Come rendere conto di un elemento riconoscibile, ma apparentemente così distante, nella sua espressione singolare, dalla pretesa di generalità universale che muove il sapere filosofico? Un discorso che ha a che fare con il vero e con l’universale, sembra non potere e non dovere avere nulla a che fare con ciò che chiamiamo tono: un tale discorso – la filosofia – sembra, anzi, al contrario, dover richiedere, come sua condizione preliminare e proprio in virtù della sua istanza di generalità, una certa neutralità del tono. La filosofia esige quella che Jacques Derrida chiama, in Di un tono apocalittico adottato di recente in filosofia (Jaca Book, 2020), la «norma atonale dell’allocuzione» (p. 35).
Se poniamo il nostro sguardo da una prospettiva filosofica, dobbiamo allora definitivamente rinunciare a trattare del tono? Dobbiamo, di conseguenza, continuare a considerare il tono come qualcosa di semplicemente esteriore alla filosofia, come un suo “fuori”? Non sembra di questo avviso Derrida. La recente riedizione del suo scritto dà la possibilità al lettore italiano di riflettere, in maniera feconda, su una questione tutt’altro che ininfluente per le sorti della filosofia.
Questo breve lavoro – la nuova edizione con testo originale a fronte conta poco più di un centinaio di pagine – è la trascrizione di un intervento che il filosofo francese pronunciò a Cerisy-La-Salle nel 1980, in occasione di una conferenza dedicata proprio al suo pensiero e a cui gli organizzatori diedero il titolo di Fins de l’homme (Fini dell’uomo), eco dell’omonimo saggio di Derrida contenuto nella sua opera del 1971 Margini della filosofia.
La prima cosa che ci dice il titolo è che l’autore si occuperà di un certo tono, non tanto del tono in generale, ma del tono che assumono quei «discorsi della fine» (p. 69), così in voga al tempo, che annunciano, con rintocco di morte, «la fine della storia, la fine della lotta delle classi, la fine della filosofia, la morte di Dio, la fine delle religioni, la fine del cristianesimo e della morale, […] la fine del soggetto, la fine dell’uomo, la fine dell’Occidente, la fine di Edipo, la fine della terra, Apolcalypse now». (p. 69).
Il titolo, inoltre, suggerisce un esplicito richiamo, «secondo la citazione» (p. 33), ma anche nello stile della trasformazione e della parodia, al famoso testo di Kant, D’un tono da signori assunto di recente in filosofia (in Scritti sul criticismo, Laterza, 1991). In questo opuscolo del 1796, Kant se la prende con quelli che chiama «mistagoghi» (p. 266), portatori di un pensiero oracolare che trova nell’intuizione intellettuale, nell’illuminazione mistica e nell’esaltazione fantastica, le armi improprie con cui giungere alla verità e che conduce – sono le parole di Kant – alla «morte della filosofia» (p. 265). I mistagoghi confondono la voce immateriale della ragione, una voce che parla a tutti in un linguaggio universale e infinitamente trasmissibile, con la voce misteriosa e carica di immagini sensibili dell’oracolo. Così facendo, affidando a una solo e alla sua visione privata, il beneficio della conoscenza della verità e l’onere di trasmetterla, i mistagoghi si fanno portatori di una visione elitaria della filosofia che ha come diretta conseguenza una concezione della politica ristretta e settaria. Niente di più lontano dell’idea kantiana di una filosofia infinitamente aperta al progresso e di una politica profondamente egualitaria e democratica.
Ciò che è decisivo per Kant, e per Derrida che lo commenta, è il fatto che il tono che i mistagoghi assumono, il «tono gran-signore» (p. 51), non soltanto si fa portatore di una cattiva concezione della filosofia, ma la conduce di fronte al suo limite estremo. Il tono gran-signore dei mistagoghi, proprio come il tono assunto dai fautori dei discorsi della fine, è un tono apocalittico che annuncia la morte della filosofia.
Che cosa accomuna questi due toni: il tono gran-signore con cui se la prende Kant, al tono dei «discorsi della fine» a cui Derrida fa riferimento al tempo del suo discorso? Nel rispondere a questa domanda, Derrida comincia a prendere le distanze da Kant. Non lo fa opponendo una sua propria tesi a quelle del filosofo tedesco. (Kant e Derrida, entrambi con spirito illuminista, potremmo dire, da demistificatori, combattono dallo stesso lato della barricata contro i mistagoghi). Ma lo fa mostrando, com’è nel suo instancabile stile di scrittura, che le opposizioni concettuali messe in campo, in questo caso per difendere la filosofia dai suoi aguzzini, non sono poi, a ben vedere, così nette e inequivocabili.
Dopo averne tessuto l’elogio, Derrida, dunque, mostra anche limiti e criticità della trattazione kantiana. Proprio il limite – tra filosofia e il suo altro – costituisce il punto più problematico. Pur avendo avuto il coraggio di trattare da una prospettiva filosofica del tono, o quantomeno di un certo tono, Kant, opponendo al carattere mistificatorio e sensibile del tono, la purezza diafana, ideale della voce della ragione, non ha fatto altro che ripetere quell’operazione di esclusione del gesto, della scrittura, del corpo, che Derrida, nelle sue opere maggiori degli anni ’60 (La voce e il fenomeno, Della grammatologia, La scrittura e la differenza) e ’70 (La disseminazione, Margini della filosofia, Glas,) ci ha insegnato a riconoscere essere quella fondamentale della metafisica occidentale, ovvero di quella struttura in cui le coppie concettuali oppositive e gerarchizzate si organizzano in un tutto organico con al centro la verità.
In apertura del suo libello polemico, Kant parla di smarrimento del «significato originario» della filosofia intesa come «saggezza di vita perseguita con metodo». A causa di ciò – continua Kant – «il nome di filosofia venne ben presto rivendicato a titolo di ornamento dell'intelletto di pensatori fuor del comune, per i quali rappresentò una sorta di rivelazione d'un mistero» (p. 245). Soltanto in seguito a tale smarrimento, si sono create le condizioni favorevoli all’alzata di tono del mistagogo che, come il sofista, pretende di detenere in privato, in segreto, per se stesso e i suoi adepti, la verità. Il filosofo, da parte sua, per tenersi in vita, per tracciare il suo proprio spazio di azione nella polis, deve poter riconoscere il proprio altro e nettamente distinguersi da esso. Questo, problema classico della filosofia da Platone in poi, è l’obiettivo, il fine di Kant: differenziarsi da colui che usurpa il luogo della verità.
Ma siamo sicuri – invita a chiedere Derrida – che lo sviamento, lo smarrimento, la stonatura che può portare alla morte della filosofia di cui parla Kant, avvenga soltanto dopo rispetto a un prima originario in cui la filosofia sarebbe stata al riparo da ogni contaminazione? Siamo sicuri che il tono, e in particolare il tono apocalittico, sia del tutto estraneo all’essenza della voce, all’orizzonte “proprio” del filosofico? Prima di rispondere, va anzitutto chiarito un aspetto. A rigore, non si potrebbe parlare di tono al singolare. Il tono resiste alla chiusura della domanda ontologica che cos’è? Ciò che permette di alzare il tono – la stonatura, la Verstimmung, ovvero quel «turbamento delle menti inclinanti all’esaltazione fantastica» (Kant 1991, p. 265), e che comporta l’allontanamento dalla neutralità del discorso filosofico, non è un processo unitario. Più che di tono, dovremmo parlare di differenziazione dei toni, di alternanza dei toni (il Wechsel der Töne hölderliniano che ossessiona La cartolina), di «vibrazione differenziale» (Derrida 2020, p. 77) come ciò che permette a un tempo un tono e l’altro tono. Se il tono non può che essere plurale, rivolto all’altro e dell’altro, non può nemmeno mai essere neutro, come vorrebbe, invece, la norma atonale dell’allocuzione filosofica. La Verstimmung, la stonatura, «moltiplica le voci e fa saltare i toni. […] La Verstimmung generalizzata è la possibilità per l’altro tono, o il tono di un altro, di venire a interrompere in qualunque momento una musica familiare» (pp. 75-77).
Nonostante si guardi bene dal cedere alla tentazione di essenzializzare, di ontologizzare la stonatura generalizzata che apre la strada al tono apocalittico – essa è infatti precisamente ciò che impedisce di chiudere, di portare a termine ogni tentativo di questo tipo – Derrida non rinuncia, dopo aver preso le dovute precauzioni, a immaginare, potremmo dire per ragioni strategiche, una scena fondamentale. «Cediamo per poco alla tentazione di una finzione e immaginiamo questa scena fondamentale. Immaginiamo che vi sia un tono apocalittico, una unità del tono apocalittico» (p. 75).
A quale fine mira la strategia di Derrida? È questa domanda sul fine che, anzitutto, dobbiamo porci quando trattiamo con il tono dei discorsi della fine. È la stessa di Kant e di Derrida: a quale fine mirano i mistagoghi di tutti i tempi quando annunciano, con tono apocalittico, la morte della filosofia? Essi vogliono svelare la verità sulla fine che soltanto loro detengono in segreto e, mediante questa, attirare, far venire, sedurre. «Svelamento o verità, apofantica dell’imminenza della fine, di qualunque cosa che riguardi alla fine, la fine del mondo. Non soltanto la verità come verità rivelata di un segreto sulla fine o del segreto della fine. La verità stessa è la fine, la destinazione, e che la verità si sveli è l’avvenimento della fine» (p. 77). Ma, alla fine, la verità non è lo stesso fine a cui aspira anche Kant? Ecco allora che la verità, con la sua struttura apocalittica, non soltanto tiene insieme, in una scena fondamentale, tutti i discorsi sulla fine, ma rivela un accordo, un «potente programma» (p. 69) in cui escatologia e teleologia trovano, al di là della loro dichiarata opposizione, un segreto accordo. La voce della ragione e il tono apocalittico non sono affatto così nettamente opposti come vorrebbe Kant. La stonatura generalizzata, la Verstimmung è ciò permette a un tempo l’alterazione dei toni, la distinzione tra un tono e l’altro tono e la differenziazione tra tono e voce. Se è così, essa non può essere espunta dalla scena come se fosse venuta dopo nella forma dello sviamento da un significato originale puro, incontaminato e neutro. La stonatura, la venuta dell’altro, la fine, è già da sempre venuta. Il tono, e in particolare il tono apocalittico, abita già da sempre, e lo fa fino alla fine, la voce della ragione.
«La Verstimmung, – scrive Derrida –se si nomina così ormai il deragliamento, il cambio di tono come si direbbe il cambio di umore, è il disordine o il delirio della destinazione ma anche la possibilità di ogni emissione» (p. 77). In tale disordine o delirio dobbiamo certo riconoscere un rischio catastrofico che dobbiamo arginare, – la morte della filosofia – ma anche la chance, forse l’unica, che qualcosa come un invio, un senso, un desiderio, una politica, un’etica, inizi a circolare.
Cimabue - Visione del trono e del libro dei Sette Sigilli (1277-1281)
Cimabue - Visione degli angeli ai quattro lati della terra (1277- 1281)
C’è un luogo della tradizione in cui immaginare una scena fondamentale del tono apocalittico: è l’Apocalisse di Giovanni. Qui il tono apocalittico si fa, o meglio, si rivela, testo. Ogni testo apocalittico annuncia che «il tempo è vicino», che la fine è imminente. Ciò che interessa a Derrida del testo, non è tanto il contenuto rivelato, la fine, ma la sua struttura, «la verità della rivelazione invece che la verità rivelata» (p. 85). La moltiplicazione delle voci, degli invii che circolano, all’inizio dell’Apocalisse, negli scambi di messaggi rivelatori tra Gesù, l’angelo e Giovanni che scrive, è la stonatura generalizzata come «condizione trascendentale di ogni discorso, persino di ogni esperienza, di ogni marca o di ogni traccia. […] Se l’apocalisse rivela, essa è innanzitutto rivelazione dell’apocalisse, auto-presentazione della struttura apocalittica del linguaggio, della scrittura, dell’esperienza della presenza, ossia del testo o della marca in generale: cioè dell’invio divisibile per il quale non c’è auto-presentazione né destinazione assicurata» (p. 85).
Di tutti i motivi che si intrecciano nella polifonia del testo, Derrida si occupa del «Vieni», di quel «Vieni» che apre la sequenza dei sette sigilli e dei Cavalieri dell’Apocalisse. Dicevamo, la fine è già sempre venuta. Qui il participio passato non va letto come se indicasse un’azione compiuta, un contenuto rivelato: esso marca, piuttosto, il venire, l’infinito di un «Vieni». Infatti, precisa Derrida, «l’avvenimento del vieni precede e chiama l’avvenimento» (p. 97). Il vieni non può mai ridursi a un oggetto, a un tema, a una rappresentazione, perché è esso ad aprire la scena, a rendere possibile, come condizione trascendentale, ogni domanda.
Il vieni è già sempre venuto ed è sempre a-venire. È in questa strana formulazione che si può esprimere l’annuncio di quella che Derrida chiama «apocalisse senza apocalisse» (p. 99) e in cui dobbiamo riconoscere il fine senza fine, la «strategia senza finalità» (Derrida 1997, p. 33), il «compito» (Derrida 2020, p. 27) a cui mira il discorso derridiano. In «tono affermativo» (p. 97), il «Vieni», che è il «gesto nella parola, […] annuncia qui, promessa o minaccia, un’apocalisse senza apocalisse, un’apocalisse senza visione, senza verità, senza rivelazione, degli invii (perché il «vieni» è plurale in sé), degli indirizzi senza messaggio e senza destinazione, senza destinatore o destinatario decidibile, senza giudizio finale, senza altra escatologia che il tono del «Vieni», la sua stessa differaenza, un’apocalisse al di là del bene e del male» (p. 101).
Il tono è al di là dell’opposizione tra sensibilità e idealità, al di là dell’opposizione tra voce della ragione e voce oracolare, «al di là dell’essere» (p. 99). Esso annuncia, «alla vigilia della filosofia e al di là di essa» (Derrida 1997, p. 33), qui e ora, apocalypse now, la chance, forse l’unica, di un pensiero aperto all’altro, aperto all’a-venire.
In queste poche, ma densissime pagine, Derrida, nell’affrontare la questione del tono, raccoglie molti dei temi e dei motivi che lo hanno interessato fino a quel momento (ruolo e rilevanza della voce, rapporto tra nome e cosa, differenza e scrittura) e anticipa alcuni di quelli che, strettamente intersecati ai precedenti, lo impegneranno nella sua riflessione successiva (pensiero dell’a-venire, invenzione dell’altro). Per questo motivo, per la sua straordinaria capacità di condensazione, Di un tono apocalittico adottato di recente in filosofia risulta un testo chiave per avere accesso a uno dei laboratori di pensiero più fervidi di tutto il Novecento, un pensiero che con la forza del suo «Vieni» ci chiama ancora, in questi giorni apocalittici, a rispondere al suo annuncio.
È noto che Michel Foucault intendeva scrivere un libro sul pittore Édouard Manet, dal titolo Le noir et la couleur, la cui pubblicazione era prevista da parte delle Éditions de Minuit (Defert 2001, p. 41). Egli aveva redatto un gran numero di pagine sull’argomento, senza però consegnarle all’editore. A quanto sembra, dopo aver conservato molto a lungo l’ampio manoscritto su Manet, da ultimo il filosofo ha scelto di distruggerlo (Guibert 2019, p. 27). Tuttavia alcuni segni significativi del suo interesse per l’artista francese sono emersi a più riprese, nel corso dei decenni.
Già in un saggio su Flaubert datato 1964, Foucault ha introdotto un parallelismo fra il narratore e il pittore ottocenteschi: «Flaubert è, rispetto alla biblioteca, ciò che Manet è rispetto al museo. Essi scrivono e dipingono in un rapporto fondamentale con quel che è stato dipinto e scritto – o piuttosto con ciò che della pittura e della scrittura rimane indefinitamente aperto. La loro arte si edifica là dove si forma l’archivio. Non in quanto segnalino il carattere tristemente storico – gioventù diminuita, assenza di freschezza, inverno delle invenzioni – con cui ci piace stigmatizzare la nostra epoca alessandrina; ma essi fanno emergere un fatto essenziale per la nostra cultura: ogni quadro appartiene ormai alla grande superficie quadrettata della pittura; ogni opera letteraria appartiene al mormorio indefinito di ciò che è scritto. Flaubert e Manet hanno fatto esistere, nell’arte stessa, i libri e le tele»[1]. In effetti, lo scrittore – specie in opere come La tentation de saint Antoine o Bouvard et Pécuchet[2] – aveva costruito dei volumi che erano il frutto di innumerevoli letture, così come Manet presupponeva nello spettatore delle proprie tele la capacità di riconoscere analogie e differenze rispetto ai capolavori pittorici dei secoli precedenti, a cui non di rado si ispirava.
Occorre ricordare inoltre che Foucault ha dedicato al pittore una serie di conferenze tenute in vari luoghi del mondo: nel 1967 a Milano, nel 1970 a Tokyo e a Firenze, nel 1971 a Tunisi, nel 1972 a Buffalo. L’esposizione orale di Tunisi, dal titolo La peinture de Manet, ha avuto una storia editoriale piuttosto complessa. Dapprima, per la sua pubblicazione su una rivista tunisina, avvenuta nel 1989, ci si è basati su una registrazione parziale (l’unica disponibile) della seduta. Più tardi, è stato possibile, tenendo conto di una trascrizione che era in possesso di Daniel Defert, ricostruire una versione più fedele del testo, edita nel 2001 nel bollettino annuale della Société française d’esthétique. Infine, grazie al fortunato ritrovamento di una registrazione sonora completa, nel 2004 si è giunti alla pubblicazione integrale della conferenza, in un volume corredato anche da vari interventi di studiosi che la commentano[3].
Nel suo discorso rivolto all’uditorio tunisino, Foucault esordisce scusandosi per il fatto di parlare del grande pittore pur senza essere un esperto d’arte. Aggiunge che non è sua intenzione occuparsi dell’opera di Manet in generale, bensì soltanto di prendere in esame una dozzina di dipinti. In effetti, però, la parte iniziale della conferenza riguarda quelle che, a giudizio del filosofo, sono le intenzioni di fondo del lavoro del pittore. Foucault conferma il giudizio tradizionale che vede in quest’artista il precursore dell’impressionismo, ma si spinge ben oltre: «Mi sembra che Manet abbia reso possibile non solo l’impressionismo, ma tutta la pittura successiva, tutta la pittura del XX secolo, la pittura al cui interno si sviluppa ancora, attualmente, l’arte contemporanea» (Foucault 2005, p. 9-11). Il filosofo non è certo l’unico ad attribuire al pittore francese un ruolo inaugurale. Malraux e Bataille, per esempio, lo avevano già fatto, l’uno sostenendo che «Manet passa dalle sue prime tele romantiche ad Olympia, al Portrait de Clemenceau, al piccolo Bar aux Folies-Bergère, così come la pittura passa dal museo all’arte moderna», mentre l’altro, in maniera ancor più esplicita, scrivendo che «Manet non è soltanto un grandissimo pittore: in rotta con coloro che l’hanno preceduto, ha aperto il periodo in cui viviamo, accordandosi col mondo attuale, il nostro» (Malraux 1999, p. 41: Bataille 2013, p. 11).
E. Manet, Olympia (1863)
Per dimostrare la propria audace tesi, il filosofo passa ad esaminare alcuni dipinti, ben pochi in rapporto alla vasta produzione dell’artista francese, ma comunque rilevanti e rappresentativi[4]. Il primo aspetto che Foucault vuole sottolineare riguarda il modo in cui Manet ha messo in rilievo gli aspetti materiali della tela. Fa dunque notare che in La musique aux Tuileries le teste dei numerosi personaggi raffigurati (ricordiamo per inciso che fra essi ci sono il pittore stesso e alcuni suoi amici, come Baudelaire) sono disposte lungo una linea orizzontale, mentre gli assi verticali vengono indicati dagli alberi. Una composizione simile si ritrova in Le bal masqué à l’Opéra: anche qui, infatti, i cappelli a cilindro indossati dai personaggi maschili sono disposti lungo una linea orizzontale. Tuttavia, rispetto al quadro precedente, vi sono alcune modifiche significative, volte a diminuire la profondità di campo. Dice il filosofo: «Questa profondità è ora chiusa, chiusa da uno spesso muro; e come per segnalare bene che vi è un muro e nulla da vedere dietro, osservate i due pilastri verticali e l’enorme barra orizzontale che incornicia il quadro, che raddoppia in qualche modo all’interno del dipinto la verticale e l’orizzontale della tela. Questo grande rettangolo della tela viene ripetuto all’interno del quadro, lo chiude sul fondo, eliminando così l’effetto di profondità» (Foucault 2005, p. 27). L’unica modesta apertura di campo dovrebbe trovarsi in alto, al di sopra della barra orizzontale (che è una specie di soppalco), ma tale apertura mostra solo i piedi di altri individui, come se la scena fosse raddoppiata, ricominciasse da capo. La tendenziale chiusura dello spazio è ravvisabile anche in un altro quadro, L’exécution de Maximilien, il cui sfondo è quasi interamente costituito da un muro: questo fa sì che i personaggi si trovino confinati su una stretta superficie di terreno. Inoltre essi sono vicini fra loro al punto che i fucili del plotone di esecuzione esplodono i loro colpi quasi a contatto col petto delle tre persone giustiziate. E anche qui non manca l’inizio di una scena ulteriore nella parte alta del dipinto.
L’incrociarsi delle linee orizzontali e verticali è al centro di un’opera, Le port de Bordeaux, in cui le alberature delle navi formano un reticolo talmente fitto da richiamare, secondo Foucault, non soltanto la forma del quadro, ma qualcosa di ancor più concreto, in quanto sono «in certo modo la riproduzione, nella filigrana del dipinto, di tutte le fibre orizzontali e verticali che costituiscono la tela stessa, la tela in quel che ha di materiale» (Foucault 2005, p. 35)[5]. Ciò diviene ancor più chiaro in Argenteuil, dove tale effetto viene ottenuto grazie ai tessuti riprodotti nel quadro, quelli degli abiti indossati dalle due figure in primo piano: il vestito a righe verticali della donna e la maglietta a righe orizzontali dell’uomo che le sta accanto.
Oltre ai due procedimenti citati (restringimento della profondità di campo ed evidenziazione delle linee ortogonali), Foucault ne segnala un terzo, che consiste nel rappresentare dei personaggi che stanno guardando in direzioni opposte, in avanti e all’indietro, come accade in La serveuse de bocks o in Le chemin de fer. Con qualche forzatura, egli ravvisa qui l’intento, da parte del pittore, di richiamare l’attenzione sul fatto che il quadro è un oggetto bifronte, giacché presenta un recto e un verso. Se a ciò si aggiunge che, in entrambe le opere, quel che i personaggi guardano si vede a malapena o non si vede affatto, allora la strategia dell’artista diviene ancor più perversa: «È questo gioco dell’invisibilità, assicurata dalla superficie stessa della tela, che Manet usa all’interno del quadro in un modo che si può comunque definire, come vedete, vizioso, malizioso e crudele; poiché, in fin dei conti, è la prima volta che la pittura si offre mostrandoci qualcosa di invisibile: gli sguardi sono lì per indicarci che c’è qualcosa da vedere, qualcosa che per definizione, e per la natura stessa della pittura, della tela, è necessariamente invisibile» (Foucault 2005, p. 45-46).
Il filosofo passa poi a considerare un altro aspetto del lavoro di Manet, quello che riguarda i problemi legati alla luce. Un primo esempio viene offerto dal quadro Le fifre, che mostra un ragazzino, con un’elegante divisa militare, intento a suonare il piffero. Tuttavia la soppressione della profondità di campo fa sì che il personaggio si stagli su uno sfondo neutro e del tutto vuoto. Solo poche ombre attorno ai piedi suggeriscono che egli si trova su un pavimento, distinguibile a stento dalla parete di fondo. Tale semplificazione è una delle caratteristiche per cui il dipinto, nel 1866, è stato rifiutato dalla giuria del Salon. Ma non è questo ad interessare a Foucault, bensì il fatto che, mentre nella pittura classica l’illuminazione proviene sempre da una certa direzione, e spesso la fonte di luce viene resa esplicita anche quando la scena si svolge in un interno, in Le fifre non si nota nulla del genere. Qui la luce raggiunge la figura di fronte, è un’«illuminazione dunque totalmente perpendicolare, come lo sarebbe l’illuminazione reale della tela se questa, nella sua materialità, fosse esposta davanti a una finestra aperta» (Foucault 2005, p. 50). Ma la tecnica relativa alla luce può essere, in Manet, anche più complessa, come mostra un dipinto celebre, Le déjeuner sur l’herbe. Foucault scorge in quest’opera la compresenza di due diversi metodi di illuminazione. Per quanto riguarda lo sfondo, la luce proviene dall’alto e da sinistra, in una maniera che si può definire tradizionale, mentre i personaggi in primo piano vengono illuminati frontalmente. «Questi due sistemi di rappresentazione, o piuttosto questi due sistemi di manifestazione della luce all’interno del quadro, sono qui giustapposti nella stessa tela, e la giustapposizione dà al quadro il suo carattere discordante, la sua eterogeneità interna» (Foucault 2005, p. 52-53).
Foucault giunge così ad affrontare Olympia, il dipinto forse più famoso di Manet, o se si preferisce il più famigerato, viste le reazioni che aveva prodotto al momento della sua esposizione al pubblico. Il filosofo, che di norma nella sua conferenza sorvola sugli aspetti relativi alla ricezione delle opere dell’artista, in questo caso fa un’eccezione e accenna ai fatti accaduti all’epoca: «L’Olympia, come ben sapete, ha suscitato scandalo quando è stata esposta al Salon del 1865, uno scandalo tale che si è stati costretti a ritirarla. Alcuni borghesi, in visita al Salon, volevano trafiggerla con la punta dei loro ombrelli, tanto la trovavano indecente. Ora, la rappresentazione della nudità femminile nella pittura occidentale è una tradizione che risale al XVI secolo, e se n’erano viste molte altre prima di Olympia […]. Cosa c’era dunque di così scandaloso in questo quadro, da far sì che non si riuscisse a sopportarlo?» (Foucault 2005, p. 53-56)[6]. Una prima risposta, non formulata da Foucault, è piuttosto ovvia: pur ispirandosi a quadri classici, in particolare la Venere di Urbino di Tiziano, l’artista francese aveva scelto di raffigurare non una dea dalle forme perfette e sensuali, bensì una donna dall’aspetto banale e realistico. Ciò viene riconosciuto anche dai rari e coraggiosi difensori di Manet, come Émile Zola: «Quel corpo nudo è parso indecente; così doveva essere, perché è carne, una ragazza che l’artista ha gettato sulla tela nella sua nudità giovane e già appassita» (Zola 1993, p. 27). Infatti il senso della scena rappresentata non sfugge agli osservatori: la donna stesa sul letto è una prostituta, cui la domestica di colore sta consegnando un mazzo di fiori portato da un cliente. Jules Claretie scrive appunto, con tono d’indignazione: «Olympia? Quale Olympia? Senza dubbio una cortigiana» (Claretie in Romano 2004, p. 14). I vari aspetti provocatori del quadro convergono fra loro, come ha notato un amico e ammiratore dell’artista, il poeta Stéphane Mallarmé, ravvisando nell’Olympia «quella cortigiana pallida e scarna la quale offre per la prima volta al pubblico il nudo che sfugge alle convenzioni e alle tradizioni» (Mallarmé 2004, p. 65).
Il filosofo, da parte sua, ricorda che «gli storici dell’arte sostengono, e indubbiamente hanno ragione, che lo scandalo morale era soltanto un modo maldestro di esprimere lo scandalo estetico: non si sopportava questa estetica, queste tinte piatte, questa grande pittura alla giapponese» (Foucault 2005, p. 56). E in ciò anche la luce gioca il suo ruolo: se nella Venere di Tiziano «c’è una fonte luminosa in alto a sinistra che viene a illuminare dolcemente la donna […] e che sembra una sorta di doratura che le accarezza il corpo», nel quadro di Manet la luce, essendo fredda e frontale, produce un effetto assai meno idealizzante. Inoltre, proprio per il fatto che sembra provenire dal luogo stesso in cui si trova l’osservatore del quadro, «è il nostro sguardo che, aprendosi sulla nudità dell’Olympia, la illumina. Siamo noi a renderla visibile» (Foucault 2005, p. 56-57).
Che la luce eserciti il suo pieno effetto solo sulle figure in primo piano trova conferma in un altro quadro di Manet, Le balcon. In esso, oltre al consueto gioco sulle linee orizzontali e verticali, si ritrova, sia pure in maniera diversa, anche il restringimento della profondità di campo. In teoria, oltre ai tre personaggi (uno maschile e due femminili) che si trovano sul balcone, l’illuminazione dovrebbe estendersi anche alla stanza retrostante, ma di fatto ciò non accade, poiché l’interno appare quasi buio. Secondo Foucault, che esagera un pochino, «si distingue solo il vaghissimo riflesso di un oggetto metallico, una specie di teiera, e un ragazzo che la porta, ma è a malapena visibile. E tutto questo grande spazio cavo, questo grande spazio vuoto che normalmente dovrebbe aprire su una profondità, ci è reso assolutamente invisibile, e perché? Ebbene, semplicemente perché tutta la luce è all’esterno del quadro» (Foucault 2005, p. 60-61). In questa scena appiattita, i personaggi appaiono situati tra la luce e l’ombra, quasi fossero al confine tra la vita e la morte. A tal proposito, il filosofo non manca di ricordare che il pittore surrealista René Magritte ha eseguito un’ironica variante di Le balcon, nella quale al posto delle figure umane si trovano altrettante bare[7].
E. Manet, Le balcon (1868)
Riguardo all’ultimo dei temi che è sua intenzione affrontare, ossia quello del luogo assegnato da Manet allo spettatore dei dipinti, il conferenziere sceglie di riferirsi a una sola opera, Un bar aux Folies-Bergère. Si tratta di una tela complessa: mostra infatti una figura centrale, la giovane donna che serve al bancone di un bar, ma dietro a lei si trova un grande specchio, nel quale possiamo vedere riflesso, in maniera più o meno distinta, il resto de locale. Il fatto che nel dipinto lo specchio eserciti un ruolo rilevante richiama alla memoria (benché il parallelismo non venga esplicitato) un celebre quadro che si basava su un dispositivo simile, Las Meninas di Velázquez, al cui minuzioso esame era dedicata l’ouverture di un altro libro del filosofo, Les mots et les choses (Foucault 2012, p. 17-30). Anche se l’inclusione nell’immagine dipinta di un riflesso speculare non costituisce di per sé una novità, Manet adotta ulteriori soluzioni innovative, coerenti col proprio stile. Tanto per cominciare, nel quadro lo specchio occupa interamente lo sfondo, dunque delimita e restringe lo spazio così come un muro lo chiudeva in L’exécution de Maximilien. L’illuminazione, ancora una volta, è frontale, con l’astuzia supplementare data dal fatto che il riflesso mostra i lampadari presenti nella sala, dunque nello spazio antistante rispetto a quello in cui si trova la barista.
Ma il riflesso medesimo offre ben altre sorprese. Osserva il filosofo che, «in linea di principio, questo è uno specchio, dunque tutto quel che si trova davanti allo specchio deve essere riprodotto all’interno di esso […]. In realtà, se provaste a contare e a ritrovare le stesse bottiglie qui e là, non ci riuscireste, perché di fatto c’è una distorsione tra ciò che viene rappresentato nello specchio e ciò che dovrebbe esservi riflesso» (Foucault 2005, p. 68). La distorsione raggiunge il massimo nella figura della donna, la cui immagine riflessa si trova alquanto spostata a destra rispetto alla posizione che dovrebbe logicamente occupare. È come se lo spettatore osservasse la scena da un’angolazione molto laterale, ma se così fosse egli non potrebbe vedere la barista di fronte, come invece il quadro ce la mostra. «Dunque il pittore occupa – e lo spettatore è invitato a farlo con lui – successivamente, o piuttosto simultaneamente, due posizioni incompatibili» (Foucault 2005, p. 68). Non si può neanche ipotizzare che lo specchio sia disposto in obliquo, poiché il suo bordo è perfettamente parallelo al bancone del bar, e alla cornice stessa del dipinto. Non basta ancora: il riflesso rivela un personaggio maschile che sta parlando con la barista, e che dunque dovrebbe trovarsi, fuori dallo specchio, di fronte a lei, mentre in effetti non c’è. Da tutte queste stranezze consegue che Manet «fa giocare la proprietà del quadro di non essere assolutamente uno spazio normativo la cui rappresentazione ci assegna, o assegna allo spettatore, un punto e un unico punto da cui guardare, e il quadro appare come uno spazio davanti al quale e in rapporto al quale ci si può spostare» (Foucault 2005, p. 71). È quel che accade quando osserviamo una tela appesa alle pareti di una stanza o nella sala di un museo. Manet – conclude il filosofo – «è dunque in procinto di inventare, se volete, il quadro-oggetto, la pittura-oggetto, ed è questa senza dubbio la condizione fondamentale affinché, finalmente, un giorno ci si liberi dalla rappresentazione e si lasci giocare lo spazio con le sue proprietà pure e semplici, le sue stesse proprietà materiali» (Foucault 2005, p. 72)[8].
Se il testo completo dell’esposizione tunisina è ora accessibile, lo stesso non può dirsi per quello delle altre conferenze tenute da Foucault sul pittore. Tuttavia nel 2011 è stata pubblicata la riproduzione fotografica (con relativa trascrizione) di una serie di ventiquattro fogli manoscritti senza data su Manet, dal titolo Le noir et la surface (Foucault 2011, p. 378-395). Si tratta di appunti schematici, ma ricchi di riferimenti sia alla biografia dell’artista che, più in generale, alla storia della pittura. Da essi, ci limiteremo a trarre solo poche osservazioni. Il filosofo ricorda che «Manet viene considerato come […] il primo pittore del XIX secolo ad aver attuato, in maniera violenta e scandalosa, una rottura con l’accademismo. […] E non, come Courbet, tramite la scelta dei soggetti, ma per via del modo stesso di dipingere» (Foucault 2011, p. 380). Riguardo all’altra delle definizioni tradizionali dell’artista, visto come antesignano dell’impressionismo, Foucault si mostra invece più cauto: riconosce che «senza dubbio c’era qualcosa, della pittura di Manet, che rendeva l’impressionismo possibile; e qualcosa che resisteva ad esso. Tuttavia ciò che resisteva all’impressionismo non era […] il classicismo della pittura, ma piuttosto qualcosa che doveva apparire in piena luce solo dopo l’impressionismo» (Foucault 2011, p. 380).
L’artista, che da giovane era stato un allievo, ancorché indocile, di Thomas Couture, da lui aveva desunto l’idea di un richiamo non propriamente accademico alla tradizione, per cui i nuovi quadri che venivano realizzati potevano instaurare un nesso, per così dire laterale, con i dipinti del passato. Da qui il fatto che, in Manet, «Le déjeuner sur l’herbeha più rapporti con Giorgione che con una vera colazione. Olympia con la Venere di Urbino» (Foucault 2011, p. 381). Questo e altri insegnamenti di Couture, in parte accolti da Manet, «resteranno in sospeso, inavvertiti, fino a quando la pittura postimpressionista – Cézanne e Gauguin, Bonnard, i Nabis, i Fauves – ne risveglierà per noi i poteri rimasti dormienti» (Foucault 2011, p. 383). Foucault prosegue esaminando alcune opere al livello della composizione e dell’uso dei colori. A tal proposito entra il gioco il nero, che agisce al tempo stesso «come colore e come valore (distinguendosi così dal bianco e dal chiaro, che continuano ad essere assimilati fra loro […])» (Foucault 2011, p. 384). In Le déjeuner sur l’herbe, per esempio, «a partire dal momento in cui il nero funziona come colore, gli altri colori se ne liberano: – il verde acido degli alberi – i volti e i corpi sono assolutamente lisci – il fondo si schiarisce» (Foucault 2011, p. 385).
E. Manet, Le déjeuner sur l'herbe (1863)
Il filosofo appare minuziosamente attento agli aspetti tecnici del lavoro pittorico e ricorre spesso al confronto tra l’artista francese e i suoi predecessori: «Manet abolisce la distinzione scena-ritratto – Gainsborough aveva collocato dei ritratti su un fondo di paesaggio – Courbet e Corot avevano collocato dei ritratti […] nei paesaggi, e l’illuminazione era la stessa per gli uni e per gli altri. Mai erano stati dipinti in un paesaggio ritratti dotati delle dimensioni, dell’illuminazione e del contrasto netto che sono propri di un ritratto. È evidente che nell’evoluzione di Manet (almeno fino al 1870) la tecnica del ritratto prevale sulle esigenze specifiche dei paesaggi» (Foucault 2011, p. 385). Foucault è sempre pronto a cogliere quel che distingue il pittore di cui si occupa dagli impressionisti, anche proprio a livello tecnico. Così, se Manet sopprime «uno degli elementi più importanti della pittura classica: il tono locale (tono dell’oggetto stesso, opposto al tono fondamentale del quadro)», non lo fa in maniera analoga agli impressionisti: questi ci riescono «tramite il colore puro, che è al tempo stesso sostanza della luce e sostanza dell’oggetto», mentre in Manet ciò avviene «tramite l’utilizzo di colori complessi offerti alla luce, ma alla luce che illumina realmente il quadro», vale a dire dall’esterno (Foucault 2011, p. 388). E il filosofo ribadisce nuovamente che, tra i colori, è il più scuro ad avere la prevalenza: «Il nero è sì un colore come gli altri, ma ha una funzione spaziale che gli altri non hanno – si è visto quale ruolo giocava a titolo di linea di contorno – ma gioca anche un ruolo organizzatore in quanto macchia centrale. […] Di modo che, in fin dei conti, lo spazio del quadro s’illumina per effetto del nero, e sembra volatilizzarsi grazie al potere di questa macchia enigmatica. Sorta di macchia cieca che fa scintillare il visibile» (Foucault 2011, p. 389-390).
Un altro metodo usato per ottenere un effetto di apertura o dispersione consiste nel modo in cui è orientato lo sguardo dei personaggi: «A partire dal Rinascimento italiano, la divergenza degli sguardi aveva la funzione di definire lo spazio del quadro, e in certo modo di incorniciarlo, percorrerlo e solidificarlo – in Manet, gli sguardi escono dal quadro, ma in una direzione non valutabile, dunque per rivolgersi non verso lo spettatore, bensì verso qualcosa che contesta il quadro» (Foucault 2011, p. 391). Un risultato analogo viene ottenuto allontanando alcune delle figure umane dal centro del dipinto e rendendole visibili solo in parte: «È in certo modo il quadro stesso ad essersi spostato in rapporto allo spazio che rappresenta. Perciò il fatto che i personaggi non siano al centro della tela non è dovuto a loro, ma a uno slittamento del quadro in rapporto al proprio spazio. Da qui i personaggi tagliati» (Foucault 2011, p. 392).
Proprio come nella conferenza tunisina, anche in Le noir et la surface la conclusione è dedicata all’analisi di Un bar aux Folies-Bergère. Oltre a mettere in evidenza il gioco sulle immagini riflesse dallo specchio, Foucault rende esplicito il rapporto, nel contempo analogico e oppositivo, stabilito dall’artista con Las Meninas di Velázquez (oppositivo perché in Manet i riflessi speculari risultano dislocati). Da ultimo, la forma e il colore del corsetto della barista che vediamo in primo piano acquistano, agli occhi del filosofo, un significato particolare, funereo: «Questa macchia nera in forma di busto ha le stesse linee di una clessidra: è la figura del tempo e della morte, così come la gondola del Grand Canal, errante in uno spazio incerto e decomposto, aveva tutti i poteri della barca dei morti» (Foucault 2011, p. 394)[9].
E. Manet, Le Grand canal de Venis (1875)
Prima di concludere a nostra volta, dobbiamo ricordare che Foucault ha fatto riferimento al pittore francese anche in due interviste. La prima, del 1970, è tuttora inedita, ma un passo significativo di essa è stato citato da Didier Eribon nella sua biografia del filosofo. Parlando del progetto di scrivere un libro su Manet, Foucault spiega di aver scelto di occuparsi dell’artista in quanto rappresenta un «fenomeno di rottura»; infatti «la sua opera è apparsa all’interno di una storia della pittura che era lirica, rappresentativa, spaziale, voluminosa, mentre egli, senza aver coscienza (o avendo scarsa coscienza) della propria stranezza, si è messo a dipingere figure piatte e brutte. Ed è proprio questa distruzione della pittura quale veniva riconosciuta dalle persone del suo tempo che, quindici anni più tardi, diverrà il segno stesso della modernità per altri pittori, gli impressionisti, che del resto non sono fedeli a Manet. È sorprendente…» (Foucault in Eribon 2011, p. 299).
La seconda intervista è datata 1975. A un domanda volta a chiarire se egli sia interessato all’arte pittorica in generale, il filosofo risponde di sì, specificando che, in quell’ambito, «ci sono cose che assolutamente mi affascinano e m’incuriosiscono, come Manet. Tutto mi stupisce in lui. La bruttezza, ad esempio. L’aggressività della bruttezza, come in Le balcon. E poi l’inesplicabilità, tale che lui stesso non ha mai detto nulla sulla propria pittura. Manet ha fatto, in pittura, un certo numero di cose rispetto alle quali gli “impressionisti” erano del tutto regressivi» (Foucault 1974, p. 1574). Spiazzato dall’elogio della bruttezza, l’intervistatore gli chiede di spiegarsi meglio. Foucault precisa che «può trattarsi della distruzione totale, dell’indifferenza sistematica a tutti i canoni estetici, e non solo a quelli della sua epoca. Manet è stato indifferente a canoni estetici talmente radicati nella nostra sensibilità che persino adesso non capiamo perché e come egli abbia potuto far questo. C’è una bruttezza profonda, che ancora oggi continua ad urlare, a stridere» (Foucault 1974, p. 1574). Secondo il filosofo, il carattere urtante di tale pittura, lo choc che (sia pure in forma attenuata rispetto a quanto avveniva nell’Ottocento) essa produce anche adesso sullo spettatore, va considerato come un merito, non come un difetto.
Si può dunque dire che l’analisi condotta da Foucault sull’opera di Manet, nonostante l’indubbia originalità del metodo adottato, perviene a conclusioni piuttosto simili a quelle a cui giungeva Bataille, che a sua volta scorgeva in essa un elemento di mistero e, nel contempo, una significativa anticipazione dell’arte novecentesca. Infatti, nel 1955, Bataille chiudeva il proprio libro con queste frasi: «Ho voluto presentare Manet come uno dei pittori più segreti, più difficilmente penetrabili. Come il più degno di annunciare la nascita di quel mondo favoloso, così fertile di sorprese, che oggi la pittura moderna apre dinanzi ai nostri occhi» (Bataille 2013, p. 90)[10].
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[1] Testo pubblicato prima in tedesco nel 1964, poi in francese nel 1967 col titolo Un «fantastique» de bibliothèque, ora in Foucault 1971: 139; si avverte che i passi delle traduzioni italiane cui si rimanda vengono spesso citati con modifiche).
[2] Sul nesso fra i due libri, cfr. gli appunti per una conferenza del 1970, Foucault 2019: 265-286.
[3] Su tutto ciò, cfr. Maryvonne Saisonin Foucault2005: 9-11.
[4] I quadri commentati da Foucault vengono riprodotti a colori nel volume La peinture de Manet. Per un esame complessivo dell’opera, si può vedere ad esempio Cachin1991.
[5] Anzi, se si isola la parte del dipinto che raffigura le alberature, diviene legittimo scorgervi un’analogia con «la serie di variazioni che Mondrian ha fatto sull’albero […], il suo famoso albero a partire dal quale – contemporaneamente a Kandinskij – ha scoperto la pittura astratta» (Foucault 2005: 35-36).
[6] Sulle polemiche suscitate dal quadro, cfr. Rewald 1991: 110-113, e Romano 2007.
[7] Anni prima, il filosofo aveva chiesto chiarimenti a Magritte sul suo quadro Perspective: «Le balcon» de Manet (1950), e l’artista belga gli aveva risposto con una lettera del 4 giugno 1966, ripresa in appendice a Foucault 1980: 84-85).
[8] Su come ciò si sia verificato in molte opere novecentesche, si veda ad esempio Menna 1975.
[9] Per Giorgione, il riferimento è al Concerto campestre, uno dei modelli del Déjeuner sur l’herbe.
[10] L’altro quadro di Manet qui richiamato è Le Grand Canal à Venise.
“Per poter affrontare veramente la ‘malattia’, dovremmo poterla incontrare fuori dalle istituzioni” (p. 77), scriveva Basaglia nel 1968. Dieci anni dopo, la promulgazione della legge n. 180/1978 (nota anche come legge Basaglia) sancirà la chiusura definitiva dei manicomi, aprendo una nuova fase per le politiche della salute mentale in Italia. Questa legge, se da un lato ha rappresentato una conquista parlamentare decretando la fine dei manicomi come luoghi di miseria, custodia e coercizione, dall’altro non ha segnato però la fine della battaglia: adesso che i manicomi sono stati chiusi, come gestire la cura della sofferenza psichica? Come restituire dignità e diritti a tutti i soggetti che vi erano internati? I diritti forzati. Conversazioni sulla follia a quarant’anni dalla legge Basaglia (L’Ornitorinco, 2018), a cura di S. Rossi e P. Tincani, si presenta come una riflessione a più voci intorno a tali quesiti, ponendo particolare attenzione a quei diritti che, ad oggi, continuano a non essere tutelati: sette saggi di autori eterogenei (filosofi, giuristi, psichiatri) offrono ognuno un punto di vista particolare – per tenere fede alla complessità della questione – con l’obiettivo di restituire i profili emergenti nella tutela della salute (mentale, ma non solo) e del correlato diritto, interpretando quest’ultimo come “espressione del ‘vissuto’ della persona, come fonte e luogo di svolgimento dell’identità e dignità dell’individuo socializzato e, al contempo, quale crogiuolo paradigmatico del rapporto tra libertà e autorità” (p. 11).
Perché follia e diritto? Come sottolineano gli stessi curatori, perché “il diritto è un sapere incarnato, scritto sulla pelle degli uomini, il che consente alle norme giuridiche di cogliere e, al contempo, di essere influenzate dalla complessità e irregolarità dell’esistenza, trovando il modo di concettualizzarla senza cancellarla” (p. 9). Con la legge 180 si è infatti realizzata una riattribuzione di soggettività a favore di coloro che erano stati vittima di dispositivi escludenti: la critica al manicomio si è infatti tradotta in processo istituente che, a partire dalla critica del diritto, ne ha rivendicato la promessa universalistica per restituire diritti agli internati.
Nel primo saggio del volume, Daria Dibitonto si concentra su uno dei principali nodi irrisolti della legge 180: il problema della coercizione all’interno degli SPDC (Servizio Psichiatrico di Diagnosi e Cura, luogo di ricovero temporaneo di pazienti in crisi). In Italia la contenzione non è vietata, e solo 21 SPDC (su 324, dati del 2018) sono no restraint. Perché un uso così diffuso? L’autrice trova la risposta nella mancanza di dialogo e di ascolto nei confronti dei pazienti psichiatrici e delle loro storie, mostrando l’esistenza di buone prassi in psichiatria che consentono di evitarla (prima fra tutte, il “dialogo aperto” nato in Finlandia). Influenzata dalla psichiatria fenomenologica tedesca, Dibitonto propone un “orizzonte etico di strutturale inconoscibilità dello psichico, che opera anche come tutela pratica della libertà e della dignità della persona” (p. 18), così che ciascuna storia umana possa e debba essere aperta alle più diverse interpretazioni. Perché ci si avvii alla gestione di reparti no restraint secondo l’autrice è necessario un percorso formativo dell’intero personale che favorisca la costruzione di un rapporto di fiducia e ascolto con i pazienti, condizione essenziale per qualsiasi terapia e modo per prevenire le crisi, gestendole in modo meno violento.
Nel secondo saggio Paolo Jarre sposta l’attenzione sul consumo di oggetti psicoattivi e sulla coercizione paternalistica alla loro cura tipica del sistema normativo e sanitario italiano: tale consumo è da considerarsi patologia o fisiologia? Due fatti incontrovertibili rispondono alla domanda: 1. Questi consumi hanno accompagnato la storia dell’umanità sin dai suoi albori; 2. Non è solo l’uomo a fare uso di sostanze, ma gli stessi animali. La tossicodipendenza, afferma l’autore, non è “naturale” ma nasce dall’inestricabile rapporto tra il consumo di una sostanza psicoattiva e un dato sistema di norme giudiziarie, culturali, antropologiche e religiose. Senza queste ultime il consumo, anche “esagerato”, di sostanze non è tossicodipendenza. La sua “cura” mostra così il suo aspetto di coercizione paternalistica: l’insieme del modello normativo relativo al consumo di droghe è infatti un complesso dispositivo paternalistico che parte da presupposti non dimostrati e non dimostrabili (il consumo è considerato a metà strada tra il male e la malattia) per arrivare a un articolato strumentario di cura che ignora quello che si sa essere il principale ingrediente di qualsiasi intervento terapeutico efficace, la volontaria scelta di intraprenderlo.
Proseguendo, Valeria Marzocco analizza il legame “genetico” che intercorre tra psichiatria e diritto, da rintracciarsi alle origini del percorso di affermazione della scienza psichiatrica. La psichiatria è, sin dal suo ingresso ottocentesco nell’ambito del sapere medico, scienza ambigua, a causa della discontinuità epistemica che la distingue dalla pratica medica sul piano diagnostico e per la difficoltà a definire il perimetro e i confini del proprio oggetto, la follia. Scienza “debole” alla quale, nota Marzocco, il diritto offre i processi e i luoghi della propria istituzionalizzazione: nell’Ottocento al manicomio era associato il processo giudiziario, condizione che ha portato a definire in termini normativi i confini tra patologia e devianza. Queste procedure giurisdizionali hanno delimitato i contorni e l’identità dell’oggetto della psichiatria all’interno di un quadro che contiene tanto il bisogno della cura quanto il ricorso alla custodia. Con la legge 180 il sistema italiano ha riformato la gestione del disagio psichico, facendosi recettore di un movimento teorico teso a scardinare dalla psichiatria la presa in carico di una istanza di custodia del sofferente psichico: grazie a questa, si è scisso infatti il legame tra pericolosità e malattia mentale risalente alla criminologia positivistica, ma la categoria della pericolosità sociale – frutto dello stesso clima ottocentesco – continua a sopravvivere e ad affidare una valutazione che riguarda l’orizzonte del controllo alla competenza dello psichiatra. L’esistenza delle Rems (Residenza per l’esecuzione delle misure di sicurezza, strutture sanitarie volte alla riabilitazione di soggetti affetti da malattia mentale, autori di reati) testimonia, con il suo giudizio circa la pericolosità sociale, l’affermazione di un’istanza di controllo che permane in capo alla psichiatria. Non solo: il Tso per malattia mentale (Trattamento sanitario obbligatorio, disposto con provvedimento del sindaco nella sua qualità di autorità sanitaria, su proposta motivata di un medico) rappresenta tutt’oggi lo spazio istituzionale in cui si rinnovano strumenti e modalità di un esercizio della funzione psichiatrica in contrasto con i diritti fondamentali della persona, un’area grigia di sospensione dei diritti per la quale l’elemento della pericolosità del paziente psichiatrico – per sé o per gli altri – è spesso la condizione legittimante. La non ancora superata legittimazione di strumenti di contenzione in regime di Tso (denunciata anche da Dibitonto nel primo saggio) è un’altra di queste criticità, che arriva a toccare il reato di tortura. Marzocco in definitiva mette in luce come la psichiatria resta un sapere che, proprio perché consapevole dei propri limiti epistemologici sul piano conoscitivo, ha compensato questa carenza con l’esercizio di una funzione potestativa, ideologicamente connessa a un’esigenza di difesa, prima ancora che di cura.
Nel quarto saggio, Francesca Poggi mostra come la tensione, tipica della Costituzione italiana, tra tutela assoluta della vita e della salute da un lato e rispetto dell’autonomia personale dall’altro, si rifletta in modo significativo nella disciplina del Tso per malattia mentale, la quale rappresenta una significativa eccezione all’interno dell’attuale panorama di crescente valorizzazione dell’autonomia individuale: tale trattamento è finalizzato (ufficialmente) alla realizzazione del diritto alla salute, il quale non costituisce solo un fondamentale diritto dell’individuo ma anche un interesse della collettività. L’imposizione di un trattamento terapeutico contro la volontà del soggetto arriva ad essere giustificato (conformemente a un’etica liberale) poiché volto a prevenire un danno a sé stessi e ad altri soggetti; ma nella legislazione del 1978 non vi è traccia dell’esigenza di tutela della salute collettiva, motivo per cui non è chiaro (aspetto più rilevante della questione) come il pericolo per l’interesse collettivo potrebbe essere declinato in caso di Tso per malattia mentale, a causa di un evidente rischio della reintroduzione dell’elemento di pericolosità sociale. Il principale aspetto illiberale della normativa in tema di Tso per malattia mentale consiste allora nell’imporre un trattamento sanitario obbligatorio o coattivo al di fuori dell’esigenza (dichiarata) di evitare un danno a terzi contro la volontà di soggetti competenti (coscienti, adulti, razionali, informati). Questo aspetto, nota Poggi, non si ravvisa infatti in altri Tso, come ad esempio le vaccinazioni, dove invece è evidente l’esigenza di salute collettiva, né nei Tso che riguardano soggetti non competenti e non capaci di intendere o di volere (interdetti, inabilitati, minori).
Proseguendo con questa riflessione, Stefano Rossi osserva che se si scrutina la sostenibilità della disciplina dei Tso per malattia mentale alla luce dei parametri costituzionali ne emerge un quadro critico, poiché appare sfuggente quell’interesse alla tutela della salute collettiva tale da giustificare l’imposizione di un trattamento a un soggetto con sofferenza psichica, non rinvenibile certo nel vetusto criterio della pericolosità sociale. Le esigenze collettive di sicurezza, nota Rossi, dovrebbero essere affrontate nel quadro di un’assistenza di prevenzione e cura a carattere territoriale e non possono trovare risposta in un esasperato ricorso ai trattamenti coattivi. Ma facciamo un passo indietro: le condizioni atte a legittimare l’internamento in manicomio erano, con la legge del 1904, la pericolosità per sé o per gli altri o il pubblico scandalo ingenerato da soggetti che non potessero essere custoditi e curati adeguatamente fuori dal manicomio. Con la legge del 1978, nel regolare il trattamento della malattia mentale, il legislatore definisce una scala di valori che vede il primato della salute dell’uomo, della sua libertà e dignità su ogni altro interesse, spostando l’asse dell’intervento istituzionale dal ricovero ospedaliero alla definizione di servizi territoriali. L’obiettivo principale perseguito attraverso la riforma è dato dalla chiusura dei manicomi nel segno dei diritti (sistema di cura senza custodia), ma l’impatto del passaggio a livello normativo, sociale e culturale si è concretato in un work in progress in costante evoluzione. Oggi, anche se lontani dalle immagini dell’internamento tradizionale, l’impoverimento dei servizi nel contesto del sistema di welfare mette a grave rischio la possibilità di cura, ripresa e guarigione di migliaia di cittadini che si trovano ad affrontare il problema del disagio psichico. Lo scenario cui si assiste è quello di una frequente riduzione dell’offerta sanitaria alle sole visite ambulatoriali – gravate da sterminate liste di attesa – per ottenere quasi esclusivamente prescrizioni farmacologiche. Il ricorso frequente e reiterato al Tso è allora sintomo, osserva Rossi, di questa cronica mancanza di offerta e dell’incapacità di intercettare il disagio mentale sul nascere, fornendo azioni di tipo preventivo dell’acuzie.
Successivamente, Antonella Massaro analizza il precario equilibrio presente all’interno dell’ordinamento penale italiano di fronte a un soggetto che commette reato a causa di un vizio di mente, tra esigenza di cura del “sofferente psichico” da una parte e neutralizzazione-criminalizzazione del “folle-reo” dall’altra. Il ricovero in Opg (Ospedale psichiatrico giudiziario, struttura attualmente non più esistente, sostituita nel 2015 dalle Rems) consisteva in una misura di sicurezza, disposta nei confronti di un soggetto socialmente pericoloso, con un contenuto terapeutico. L’istituzione delle Rems segna un’ulteriore tappa legislativa dell’iter che intende enfatizzare il polo della cura rispetto a quello della custodia. Resta però difficile, secondo Massaro, il connubio tra carattere securitario della misura ed esigenza di cura di un soggetto che è anzitutto un malato: da una parte si impone il primato dell’individuo, dall’altra si staglia una restrizione della libertà personale imposta coattivamente per ragioni di difesa sociale. Il complesso rapporto tra libertà e autorità si delinea qui in tutta la sua evidenza: il soggetto “deve” essere curato, se così non fosse l’internamento si esaurirebbe in una dimensione meramente custodialistica volta alla neutralizzazione della pericolosità sociale. Ma come si può attribuire una reale possibilità di scelta rispetto a una cura che resta orientata anche a finalità di difesa sociale? Sarebbe forse opportuno ammettere, sottolinea Massaro, che il ricovero nelle Rems rappresenta una forma di trattamento sanitario imposto per via legislativa.
Da ultimo, Persio Tincani si concentra sull’influenza che la criminologia positivistica di Lombroso ha avuto nella costruzione normativa della follia. Tutto nasce ai tempi dell’Unità d’Italia: siamo nel 1861 e all’impresa di fare gli italiani Lombroso fornisce un nuovo strumento, la costruzione (normativa) del “tipo normale”, cittadino normale che non metta in crisi la convivenza e le regole della socialità. Egli definisce così il soggetto politico del cittadino: esso è, al contempo, la normalità-regolarità rispetto alla quale tutti gli altri tipi costituiscono la devianza, con la categoria del pazzo che rappresenta il principale gruppo di controllo. Una delle sue teorizzazioni più importanti è quella del “delinquente nato”, destinato a delinquere “per natura”, a causa di sue caratteristiche fisiche innate. L’intera tassonomia dei tipi umani è formata a partire da quel tipo minoritario ed estremo: è a partire da esso che si costruisce il tipo normale come modello speculare. Alla base del giudizio sull’ “uomo delinquente” (questo il titolo di uno dei principali lavori di Lombroso) non stanno i fatti commessi ma la pericolosità del reo, ovvero i motivi per i quali quel determinato soggetto ha compiuto quella determinata azione; qui svolge allora un ruolo importantissimo la perizia degli esperti, ai quali il giudice deve rivolgersi. Se il delinquente è determinato al crimine dai suoi tratti devianti significa, secondo Lombroso, che non possiede una piena libertà del volere: il criminale non è normale, non corrispondendo al modello del cittadino (modello che è soprattutto normativo e non statistico – il metodo di Lombroso infatti è solo apparentemente scientifico, spesso le sue teorie sono fondate a partire da un solo caso) è senza mezzi termini malato. Egli può essere curato, ma ciò non toglie che la società abbia il diritto e il dovere di proteggersi. La pratica giuridica ha trovato con Lombroso una soluzione di compromesso nella perizia scientifica, con la quale il giudice incarica uno scienziato o un tecnico di esprimere una valutazione su un determinato argomento oggetto di giudizio sul quale la corte non possiede le competenze: oggi non condanniamo più al carcere i malati di mente perché hanno compiuto azioni considerate in astratto dalle leggi come delitti, poiché riconosciamo che di quelle azioni non possono essere ritenuti responsabili o comunque non totalmente. Questa concezione della pena come misura che deve tendere alla riabilitazione del condannato è la direzione verso la quale il lavoro di Lombroso è stato per l’epoca rivoluzionario.
A poco più di quarant’anni dalla legge che ha portato la follia fuori dall’istituzione manicomiale, per restituire dignità e diritti a tutti quei soggetti che vi erano internati, possiamo affermare che tale processo di restituzione non sia certo terminato. La situazione si presenta come un work in progress nel quale il diritto continua a giocare un ruolo fondamentale: esso è, come sostengono i curatori citando Rodotà, un processo “faticoso, che non allontana da sé la vita, ma cerca di penetrarvi; che non fissa una regola immutabile, ma disegna una procedura per il continuo e solidale coinvolgimento di soggetti diversi; che non sostituisce alla volontà del ‘debole’ il punto di vista di un altro (come vuole la logica del paternalismo), ma crea le condizioni perché il ‘debole’ possa sviluppare un punto di vista proprio (secondo la logica del ‘sostegno’)” (p. 10). È possibile riconoscere al diritto, nonostante i numerosi spazi grigi nei quali questo continua a essere forzato, tale peculiarità? Se vogliamo che l’assunto di Rodotà non scada in un mero idealismo, dobbiamo auspicare che in Italia – paese modello della chiusura manicomiale – dibattiti e volumi come quello qui presentato aumentino, coinvolgendo specialisti provenienti dai più diversi ambiti disciplinari e acquisendo più visibilità all’interno del dibattito pubblico.
Se si vuol comprendere la posta in gioco del pensiero di Gilles Deleuze, ci sono due luoghi da frequentare, strettamente connessi e corrispondenti in buona sostanza alle sue due grandi opere teoriche degli anni ’60 (Differenza e ripetizione e Logica del senso): nel primo troviamo il progetto di un “empirismo trascendentale” o “superiore”, che non ricalchi più, come nel criticismo kantiano, le condizioni di possibilità della conoscenza sugli atti empirici della coscienza, ma che ci permetta di cogliere in se stessa la genesi trascendentale della differenza, ossia di “ciò per cui il dato è dato” (Deleuze 1997, p. 287). Nel secondo possiamo apprezzare il modo in cui Deleuze cerca di mettere in atto questo progetto, tramite la nozione-chiave di evento: dalla correlazione soggetto-oggetto – vera e propria impasse su cui si è incagliata buona parte del pensiero moderno – si può uscire, sembra dirci Deleuze, mostrando come la ragione trascendentale di entrambi si trovi proprio in una dimensione evenemenziale, ossia in quel vettore che dà conto da un lato di ciò che accade concretamente nella realtà, dall’altro dell’atto processuale che ha portato alla sua stessa realizzazione. L’evento possiede infatti per Deleuze una “struttura doppia”: è tanto “incorporeo” (trascendentale), slegato dalle sue concrete effettuazioni spazio-temporali quanto “incorporato” (empirico), incistato nella singolarità di ogni sua reale occorrenza (Deleuze 1975, p. 135).
Alessandra Campo, in Fantasma e sensazione. Lacan con Kant (Aesthetica Preprint, 2020) si inserisce nel progetto disegnato da Deleuze, percorrendo però una via che potremmo definire laterale. Pur appoggiandosi all’opera deleuziana, Campo tenta di mostrare come l’esigenza di un empirismo trascendentale – di una scienza compiutamente trascendentale del sensibile – abiti alcuni luoghi decisivi della filosofia kantiana e della psicanalisi lacaniana. Si tratta di una prospettiva originale, per almeno due motivi: in primo luogo perché ci costringe a ritornare analiticamente al criticismo kantiano, con cui l’autrice ingaggia un vero e proprio corpo a corpo, mostrandone la straordinaria attualità; in secondo luogo – e soprattutto – perché, ben al di là di un semplice confronto (ormai fin troppo percorso) tra filosofia e psicanalisi, tenta di avvicinare il progetto kantiano – a prima vista così saldo nella sua ricerca della certezza epistemica – alla prospettiva lacaniana, forse troppo frettolosamente autocertificatasi come anti-filosofica. In altri termini, come sembra emergere tra le righe del testo, se è vero che nella domanda kantiana intorno alla conoscenza si può intravedere in controluce un percorso in direzione dell’inconscio, nel reale lacaniano assistiamo altresì a un profondo sforzo speculativo volto a ghermire la genesi della realtà.
Al centro del saggio troviamo l’analisi della sensazione secondo Kant; appoggiandosi in particolare alle letture di Luigi Scaravelli (Scritti Kantiani) e Tommaso Tuppini (Kant.Sensazione, realtà, intensità), Campo mostra come per analizzare a fondo il senso dell’estetica kantiana non ci si debba affatto confrontare, come ci si dovrebbe aspettare, con l’omonima sezione della Critica della ragion pura, quanto piuttosto con quella dedicata alle Anticipazioni della percezione (p. 19), pagine non a caso definite da Deleuze “straordinarie” (Deleuze 2004, p. 81). Qui Kant analizza infatti la sensazione ben prima della sua trasformazione – mediante il decisivo ruolo delle intuizioni – in percezione spazio-temporalmente localizzata, mostrando innanzitutto la sostanziale passività del soggetto, affetto e modificato da un fuori a-dimensionale. Nelle Anticipazioni Kant ci mostra così il modo del tutto peculiare in cui i sensi pensano (p. 57), un modo intensivo che costituisce una sorta di tertium nella distinzione tra fenomeno e noumeno. Per Kant “il reale che è oggetto di sensazione, ha una quantità intensiva, cioè un grado”: prima della realtà estesa, quantificata spazio-temporalmente e in seguito sintetizzata dalle categorie, vi è insomma un reale intenso, graduato e qualitativo, condizione trascendentale di ogni successiva operazione di sintesi.
Parente prossimo – se non omonimo – della sensazione è, secondo Campo, il fantasma freudo-lacaniano. Come la sensazione per Kant, anche il fantasma assurge a condizione trascendentale dell’esperienza. Formatosi come consolazione contro l’angoscia per l’interruzione di un primordiale stato di godimento, il fantasma, secondo il Lacan del Seminario VI, è un’istanza in grado di costituire il soggetto al tempo stesso proteggendolo dall’irruenza del reale. Compito del fantasma è allora quello – come la sensazione kantiana – di rendere la conoscenza possibile, eseguendo una traduzione o un transito tra il reale (intenso) che non è lingua e la realtà (estesa) che lo è (p. 45). Il fantasma, paradossale figura al contempo genetica e di frontiera, è allora, in senso heideggeriano, ciò che a un tempo maschera e rivela la natura dirompente del reale (p. 84). Così come ogni sensazione possiede un grado che permetterà la sintesi operata prima dalle intuizioni e poi dalle categorie, allo stesso modo il fantasma trova la propria condizione trascendentale nell’oggetto a piccolo, argine che impedisce al soggetto di svanire di fronte al reale (p. 86) e che innesca l’impresa conoscitiva.
Nella complessa analogia a quattro termini (sensazione e grado da un lato, fantasma e oggetto a piccolo dall’altro) è la relazione di transizione a fare da protagonista dell’analisi di Campo: tanto per la sensazione quanto per il fantasma si tratta – si è visto – di figure che permettono il transito da una dimensione condizionante intensa che esiste atemporalmente, ma che colpisce e dunque è sentita, a una dimensione estesa che accade, ma risulta inevitabilmente condizionata, derivata. È un passaggio che Campo descrive in vari modi: come “mediatizzazione” tra un “nulla d’origine” a partire da cui sorge il grado/a piccolo e un “nulla di destino” verso cui inderogabilmente si consuma (p. 80); come barra/frazione che genera i poli (esteso e intenso) di un campo (p. 98); come skia-grafie (scrittura d’ombra) che fa transitare la luce verso il buio (p. 51); come abbassamento del profilo cosale dallo choc alla rappresentazione (p. 100). Ciò che emerge è l’idea che esista “un altro modo di ricevere” (p. 19), ossia un modo differente di intendere la passività e l’aisthesis: non più come percezione spazio-temporalmente localizzata e rappresentabile, ma come choc o trauma tale per cui il soggetto viene modificato/toccato proprio là dove non sente e non vede (p. 51), sul crinale tra l’insensibile/impercettibile (a priori) e il sensibile (a posteriori). La sensazione e il fantasma si sviluppano insomma per caduta e annullamento del proprio grado di intensità nell’esteso: l’andare a 0 dell’intenso diventa così paradossale legge di sviluppo (p. 78). Nei più classici termini della metafisica occidentale, si può intendere tale passaggio come transito dall’essere effetto (modificato, colpito) all’essere causa (ossia percipiente).
A questo proposito, il testo di Campo risulta permeato da una polemica nei confronti delle pretese di oggettività proprie di ogni regime epistemico: se tutta la realtà oggettivamente conoscibile va ricondotta in ultima battuta alla sensazione, ecco riemergere l’inquietante quesito che aveva tormentato la filosofia moderna: ciò che garantisce l’esistenza empirica della realtà è la stessa istanza che ne sancisce la dimensione inevitabilmente soggettiva, in quanto modificazione della sensibilità (p. 47). Ciò significa che l’approdo ultimo della sensazione kantiana e del fantasma lacaniano va derubricato nella cornice di un solipsismo senza alcuna via d’uscita? Al contrario: il riconoscimento di un’embricazione costitutiva tra soggettività e oggettività nella conoscenza – discorso che riguarda tanto la psicanalisi quanto la filosofia – rilancia l’opportunità di un empirismo trascendentale, superiore e radicale, capace di ritrovare in una dimensione estetico-cosmologica la ragione stessa della correlazione soggetto-oggetto.
Fantasma e sensazione. Lacan con Kant è un testo che indaga questioni filosofiche profonde e fondamentali con un focus interpretativo efficace. Ha il pregio dell’ambizione e dell’assoluto rigore dell’analisi – specialmente per quanto riguarda la filosofia kantiana – e, forse, il difetto di un’eccessiva densità: l’importanza dei quesiti mobilitati e delle loro implicazioni risulta a volte implicita, a svantaggio in particolare di chi non avesse immediata dimestichezza con molte delle questioni affrontate. Si sarebbe altresì apprezzato qualche approfondimento ulteriore rispetto all’originale tema estetologico che emerge dalle analisi – ossia quello di un’estetica dell’aniconico o di una figuratività non-figurativa (p. 51) – che, tra Francis Bacon e Paul Klee, si sforza incessantemente di rendere visibile l’invisibile. Ciononostante, il saggio di Campo è un riuscito tentativo di afferrare con le armi della speculazione filosofica e in un modo decisamente poco battuto il problema della sensazione e del fantasma. Al di là della doppia neutralizzazione, secondo cui essi sono, nella migliore delle ipotesi, una sorta di trasparente pharmakon propedeutico a più alte e “libere” forme di cognizione oppure, nella peggiore, mera illusione da correggere con i metodi quantitativi della scienza (psichiatrica o fisica), Campo ci mostra in che modo i sensi e l’inconscio “pensano”, cioè – in senso whiteheadiano – esibiscano una qualità (e una logica) che precede la loro “prima quantificazione” (p. 15); soglie atopiche e atemporali capaci di realizzare il campo della conoscenza, essi, proprio nei termini dell’evento secondo Deleuze, non smettono di insistervi.
La pubblicazione degli scritti psicoanalitici di Paul Ricoeur sotto il nome Attorno alla psicoanalisi avviene come una delle tappe di un processo che la casa editrice Jaca Book intende riprendere e portare avanti, alla luce di un ideale antico, circa la trattazione dell’Altro, che la collana Psyché riprende da un suo progetto editoriale risalente agli anni ’60, e tuttavia nuovamente al centro dell’esigenza culturale contemporanea. Non è un caso, nel considerare l’opera complessiva, che il titolo della collana sia lo stesso che Derrida diede a due sue raccolte di scritti incentrati sul tema dell’«invenzione dell’altro». Che si raccolgano molti dei testi psicoanalitici di Ricoeur (attinti dall’omonimo fondo francese) non deve sorprendere in tal senso, poiché proprio la questione dell’emergenza dell’Altro si snoda attraverso essi, divenendo sempre più cruciale.
Tale domanda si pone nel momento in cui Ricoeur s’interroga su cosa sia l’uomo. Domanda centrale e tipica della maturità del pensiero di Ricoeur, dalla cui posizione liquiderà rispettosamente come «fabulatoria» (p. 375) la pretesa foucaultiana della sua morte. L’uomo è sì un sistema metaforico, ma mantiene al tempo stesso una sua dimensione che non viene costruita o decostruita. L’uomo continua a porre e a costituire un problema in quanto tale, che non si può ridurre a un prodotto culturale ottenuto da un certo modo di praticare le forme del sapere. È un problema ancora presente e lo sarà anche in futuro, ancora sempre da analizzare, e che non si trova confinato all’interno di una specifica episteme. Non si riduce solo a un’invenzione enunciativa, ma a un modo di stare al mondo che non può essere decostruito, sebbene, attraverso le sue auto-narrazioni e razionalizzazioni, continui a porre l’esigenza di darsi un senso, agendo sulla causa non propriamente razionale che le motiva.
La raccolta di testi segue un ordine cronologico che risulta efficace per poter seguire il percorso lungo cui si snodano le tematiche e gli interessi di Ricoeur. Ampio e variegato è il lavoro svolto per rendere agibile la fruizione dei testi. Dalla presentazione di Francesco Barale alla postfazione di Giuseppe Martini, nel mezzo di trovano sia scritti della sola penna di Ricoeur, sia discussioni con personalità eminenti, come Enrico Castelli e Jacques Lacan.
La domanda circa l’essenza dell’uomo si trova inizialmente declinata secondo l’ordine di grandezza posto dal fenomeno originario della cultura. La cultura come momento fondativo dell’essere umano. Lo è sia in quanto strumento di difesa contro la natura, sia come particolare e delicato modo di dar forma all’altro, nel momento in cui creazione e rielaborazione di senso tendono a coincidere. Cultura è ciò che risponde, inevitabilmente attraverso la repressione degli istinti, alla gestione simbolica, da parte del soggetto cosciente, delle dinamiche fisico-biologiche che agiscono nell’uomo. Questa trova il suo strumento nel linguaggio (mentre con gli sviluppi successivi alla parola succederà la mera rappresentazione). È l’influenza dello strutturalismo linguistico che gioca la sua presa su Ricoeur, e lo conduce a considerare la questione con il filtro del testo e della parola come elementi primi e irriducibili del senso cosciente di tali forze fisiche. Per come queste si concentrano nell’uomo, configurando desideri e aspettative, azioni e repressioni, ognuna di esse ha in sé il richiamo, rivolto a qualcuno al di fuori da sé, di venir presa in carico, curata e gestita. A tale appello risponde il sistema centrale dato dal Sé, la coscienza.
L’unico espediente che in una prima fase della sua carriera Ricoeur trova adeguato, si è detto essere appunto il linguaggio, il quale si inscrive nelle dinamiche neurologiche, appellandole, e asseconda un dialogo formalizzato e meccanizzato tra i desideri reconditi e il loro centro di gestione cosciente. Il linguaggio è incaricato di dare senso a quanto non ha senso alcuno. Non si tratta di un’imposizione forzata, ma del soccorso dato a una richiesta di senso, di interpretazione. La forza desiderante invoca un riconoscimento dal sistema psichico centrale. Il desiderio è una forza che chiede, invoca di essere presa in carico, ascoltata, «proprio per il suo carattere di indirizzo all’altro» (p. 384). Verso cosa? Verso altro da se stessa. È dunque portatrice di una mancanza costitutiva, e come tale caratterizza il dolore, o quanto meno la condizione bisognosa dell’essere umano.
In tal quadro, l’intero sistema psichico, conscio e inconscio, inizia a funzionare grazie alla moneta corrente costituita dalla parola, e attraverso essa può verificarsi, nei limiti concessi dalle strutture e dalle leggi topiche, una sorta di gestione dell’energia pulsionale da parte dello psichico. In questo assunto trova la sua ragion d’essere la psicoanalisi, che viene intesa, in maniera coerente per tutta la vita dell’autore, come il lavoro tra la forza delle resistenze messe in atto dallo psichico da un lato, e il senso che il soggetto cosciente riesce a dare di se stesso dall’altro, alla luce delle poche conoscenze di sé che può ottenere direttamente. L’altro è sia ciò che va creato sia ciò con cui occorre fare i conti. Non vi è mai univocità nella relazione tra la parola posta e la forza rilevata che domanda ascolto.
Si intuisce dunque come Ricoeur tenti in più modi di attuare una riabilitazione di quel paradigma energetico che tanto ha fatto discutere tra i post-freudiani. L’idea fondamentale è tratta dall’opera freudiana, e occorre rielaborarla. In tal senso vanno le interviste multiple, incluse nell’opera, tra addetti ai lavori di più campi, dalla psichiatria psico-patologica alle neuroscienze, per tentare di ridare spolvero a un paradigma interpretativo che è fruttuoso per certi versi, e pone alcuni problemi ermeneutici per altri. Esso, infatti, non viene ripreso all’interno dello schema più semplice della duplice iscrizione del fenomeno psichico (sia nella mente sia nel corpo), ma come parte integrante e complementare rispetto a quella psichica nello stesso sistema. Si accetta anche la possibilità che si tratti di una metafora, che tuttavia contribuisce a smarcare l’intuizione della nostra archeologia da ogni possibile «idealizzazione» (p. 315 - Questa è l’interpretazione minima che Ricoeur prende in considerazione per concepire l’energetica pulsionale freudiana, che si trova trattata in questa accezione nel testo sulla Tecnica e non-tecnica nell’interpretazione, incluso nella raccolta). La cultura non è dunque un prodotto puro, perché si scopre già da sempre calato nella dinamica reale tra forza e senso. La cultura diviene così la risposta propriamente tecnologica e continua, calata nella carne della neurologia ma declinata diversamente, con cui l’uomo risponde ai bisogni dell’economia energetica. Si tratta di collegare questa ad un sistema simbolico, quanto avviene prima con il linguaggio e in seguito con la rappresentazione.
Non si prenda la presente esposizione come la fotografia teorica di quanto Ricoeur affermi in qualche suo testo. Le questioni si intrecciano e si sciolgono, vengono continuamente riproposte se riconosciute come insoddisfacenti, e approfondite se avvertite come potenzialmente fruttuose. È come se Ricoeur procedesse lungo un sentiero, e si dedicasse ad uno solo dei temi che incontra fino a ritenerlo esausto. Solo a tal punto declina la sua attenzione verso altri sforzi, che approfondiscono e allargano il quadro teorico a cui è pervenuto.
Per quanto concerne lo iato tra «forza e senso», Ricoeur lo disegna e lo pone come punto di opacità del soggetto a se stesso, che viene trattato in diversi saggi. Ne consegue una prese di distanze dall’approccio fenomenologico, da cui pure era partita la sua avventura filosofica, in relazione ai temi della colpa e del perdono. Resosi presto conto dell’insufficienza di una teoria pura della coscienza, Ricoeur non esclude la possibilità di erigere ponti tra fenomenologia e psicoanalisi, mentre viene esclusa in quanto non plausibile ogni teoria idealistica, alla quale tendono ad esempio le Meditazioni Cartesiane di Husserl, colpevoli di non considerare il ruolo specifico dato dall’opacità della coscienza e di non spiegare quindi l’insorgere dell’Altro (p. 368). Ciò nonostante, la fenomenologia rimane sempre un punto di riferimento critico, tendenzialmente oppositivo, con cui confrontarsi per prendere le misure del proprio lavoro (Ciò avviene a partire dal primo dei saggi, su La questione della prova in psicoanalisi, sino al testo dedicato a Kohut). A riprova di ciò, per chi legge il testo di Ricoeur, può risultare affine la critica all’intellettualismo che Merleau-Ponty mosse ai tentativi «intellettualistici» di ridurre la portata ontologica del reale, esterno alla coscienza, a un fattore interno alla coscienza, alla sua relazione con essa. Non è un caso allora che Ricoeur mantenga aperta la finestra del confronto con la tradizione fenomenologica, perché appare evidente una certa somiglianza strutturale nei modi in cui viene trattato il Sé nel rapporto con la forza corporea, che non si riduce a un’emanazione della coscienza.
È così che si trova la possibilità di comunicazione tra i due agenti apparentemente incommensurabili costituiti da «forza e senso», i due veri attori che si trovano in scena nel concerto umano, che si tratti dei sogni, della vita quotidiana o della seduta analitica. Le forze vanno trattate, in sede terapeutica, attraverso il senso che si può loro dare, quindi in forma narrativa. Tale forma non può scindersi dalla caratura emotiva ed empirica che anima le stesse forze, individualizzandole in un contesto storico e concreto. La specificità del tipo di approccio deve allora considerare entrambi i lati della faccenda umana. La forma narrativa, che tende a plasmare le forze che la invocano, si trova al tempo stesso a doversi adattare alla realtà pulsionale, la quale si mostra sempre e soltanto nella sua enigmaticità. Questo senso non si riduce perciò al «segmento intellettuale» costituito dall’analisi razionale del disturbo o della nevrosi, ma indica il punto su cui occorre fare il grosso del lavoro. Un lavoro pratico, fondato su un’intelligenza narrativa che si richiama alla phronesis aristotelica. L’invito è allora indirizzato a un lavoro sporco del soggetto sulle proprie emozioni, a lasciarsi andare all’ermeneutica di sé, per mettere in atto una autentica conversione. Questa è la posta in gioco più alta e decisiva, poiché in questa scommessa, che può essere attuata solo attraverso il dialogo con se stessi e con l’altro da sé, ne va di tutta l’impresa etica, oltre che di quella terapeutica.
Ciò è quanto si trova emblematicamente espresso dal problema della sublimazione, altro grosso tema tipicamente psicoanalitico, e legato al percorso che muove dalla cultura e perviene all’esigenza d ripensare il rapporto tra la gestione delle regole e l’insorgenza del nuovo. La questione si allarga così ad ogni atto umano migliorabile, e quindi si lega direttamente all’antropologia filosofica e al miglioramento di sé. Un esempio è la magistrale trattazione della Monalisa leonardesca, nel saggio luminoso sull’apporto della psicoanalisi all’analisi artistica. In Psicoanalisi e arte, Ricoeur spiega come si tratti di attingere il Nuovo dallo Stesso, attraverso un’ispirazione che al lettore può facilmente richiamare Derrida: nuove forme, un nuovo senso di quanto si crea, senza cadere nel rischio di optare per una genealogia della vita emotiva dell’autore. L’arte non si riduce al percorso analitico che porta alla sublimazione: l’arte è il prodotto libero, in quanto creato, della sublimazione. Ricoeur lo ripete più volte: è l’Altro, inteso come bacino interno di forza e infiniti possibili nuovi sensi da dare al passato in vista del futuro, ciò da cui tenta di attingere l’artista, e ciò a cui è chiamato a rispondere ogni essere umano per tentare di raccontarsi (da leggersi: vivere) sempre meglio. Ciò che viene così prodotto dall’analisi, diventa propriamente la creazione dell’oggetto del desiderio, che si sarebbe voluto trovare tra i propri ricordi, e a cui tende il lavoro dell’immaginazione.
Salvador Dalì - Sogno causato dal volo di un'ape intorno a una melagrana un attimo prima del risveglio (1944)
Innumerevoli sono poi gli spunti che vengono approfonditi di conseguenza. Dalla teoria della civilizzazione freudiana, al nuovo ruolo universalizzabile della psicoanalisi: sia la cultura sia la psicoanalisi agiscono sulla passione dell’uomo, attraverso la gestione «del transfert dai conflitti di forza ai conflitti di senso» (p. 383). Si tratta inoltre dell’autonomia riservata al discorso teologico, proprio grazie ad una presa critica di distanza dall’ateismo di Freud, distinguendo le genesi del fenomeno dal suo fondamento: è il caso del testo L’ateismo della psicoanalisi freudiana. Vi si trova pure un saggio, Il sé secondo la psicoanalisi e secondo la filosofia fenomenologica, che costituisce un unicum, in quanto non ispirato principalmente da Freud, ma dalla Psicologia del Sé di H. Kohut, che viene relazionato a Hegel e a Lévinas nel tentativo di disegnare un discorso sulla dialettica circa la natura della negazione nella dialettica intercalata nell’analisi.
Trattandosi di tutto ciò, il metodo è sempre teso a percorrere a ritroso il cammino fatto dalla lingua e dalla parola per risalire indietro lungo il sentiero costellato su diversi piani di tutti i meccanismi psicologici, fino al gesto creativo. Il non-luogo ove il linguaggio trova il suo insediamento nel desiderio, per nominarlo e per definirlo.
Il percorso ermeneutico conduce da quanto è già psicologico e che ha già un senso, sebbene provvisorio, a ciò che ancora è celato al di sotto del livello della coscienza. Queste due dimensioni rispondono a due sfere dell’umano e del percorso di riconoscimento di se stessi, la prima volta all’esegesi e all’archeologia, la seconda alla teleologia e al suo divenire. Non si possono scindere questi due aspetti, come peraltro Ricoeur stesso aveva fatto nel suo Dell’interpretazione, innalzando il secondo al puro lavoro filosofico. Egli spiega infatti che, come testimonia la terapia analitica, il banco di prova dell’elaborazione meditata del proprio futuro non è esclusiva della filosofia; questa demarche richiede una dinamica spirituale più ampia, che invoca tutto il supporto della psicoanalisi. Sembra in certi punti sentir risuonare il tema del discorso su di sé tipico degli ultimi corsi di Foucault, ma è Ricoeur stesso che si smarca dall’accostamento proposto da Giuseppe Martini nell’ultima intervista presente nel volume, risalente al 2003. Il problema della terapia non può ridursi a una dimensione puramente intellettuale, poiché occorre far sì che il senso del discorso riesca a muovere le montagne poste a protezione dei contenuti e delle dinamiche inconsce. Occorre un paziente e levigato lavoro che consenta all’analizzato, che diventa analizzante in quanto attore, di metter in atto la sua trasformazione di sé, per affrontare le proprie nevrosi o psicosi. Non è una epoché intellettuale, ma un’immersione totale nel vissuto per cercare di raccontarsi altrimenti quanto si riteneva di aver già compreso definitivamente riguardo la storia passata della propria vita. A tal fine, Ricoeur prende prende spesso spunto dalla rilettura di testi più o meno canonici del corpus freudiano, come Analisi terminabile e interminabile, nonché Ripetere, ricordare, rielaborare. Riprendendo la posizione ortodossa freudiana, concorda sul fatto che non vi sia infatti termine possibile all’interpretazione sempre nuova di quanto già si è vissuto, essendo questo costitutivamente aperto alla lettura sotto diverse angolature, e secondo nuovi ritmi o andamenti. Ciò non smetterà mai di fare problema, e Ricoeur continuerà a ripensare i termini di questo problema. Il tema della fine della cura è legato ai motivi presenti nella rielaborazione del vissuto personale, la quale non si definisce mai una volta per tutte.
Ciò ha ampie conseguenze, soprattutto per le conseguenze al di fuori dello stretto campo analitico. L’etica ne viene investita pienamente, e Ricoeur affronta il tema dell’etica e della morale alla luce della psicoanalisi in più saggi.
Il pensiero di Ricoeur muove per decenni alla ricerca di nuove formulazioni di tale operazione ermeneutica. Lungo tutto il percorso di Ricoeur, sono principalmente i tre paradigmi del simbolo, del testo e della traduzione che modificano l’assetto e i metodi di questa sua indagine (Sono ancora la prefezione e la postafazione di Barale e di Martini a riannodare le fila di questi paradigmi). Il fine rimane lo stesso: si richiede che avvenga una sorta di illuminazione retroattiva delle zone non pensate, per riportarle alla luce, intessendole in nuove forme narrative date alla propria persona e al proprio vissuto. Ma il triangolo teorico tra ermeneutica come auto-narrazione, veridicità come chiave dell’accesso al profondo e cambiamento pratico di sé si rielabora ed evolve.
L’accenno alla narrazione e al ruolo costituito dalla traccia non è certo un tema esclusivo degli scritti sulla psicoanalisi, ma si lega con essi inscindibilmente per quella pretesa interminabile del lavoro di rielaborazione del senso e delle dinamiche cui ci si sottopone quasi automaticamente. Si tratta dunque di una lotta contro questi automatismi, e l’unica fonte di innovazione va cercata al di là di essi e delle loro rappresentazioni fantastiche o linguistiche, mirando a ciò che ancora non ha potuto, o non può più venir rappresentato chiaramente alla coscienza. Si tratta di attingere all’intraducibile, che si assume legato alla sorgente del dir il vero su se stessi, per trarre prospettive ed energie nuove per raccontare e vivere altrimenti ciò che rimane chiuso nel segreto della psiche, che è al tempo stesso passato e rivolto al futuro. La veridicità è allora la chiave di tutta la possibilità di mutare forma e abitudini, poiché essa è la capacità che si scopre sempre più in fondo, oltre le barriere, le quali invece tendono a mascherare il vero. E sebbene non si possa pretendere dalla psicoanalisi una morale positiva densa, si può rinvenire in essa, comunque qualcosa di importante. Con le parole di Ricoeur: «un’etica ridotta alla veridicità non è poca cosa: ha in germe nuovi atteggiamenti, frutto della fine della dissimulazione» (p. 190). La veridicità è dunque ciò che apre le porte al cammino etico, ma anche alla conoscenza di sé. Due direzioni che procedono parallele, condizioni l’una dell’altra.
Un mutamento significativo, che può leggersi nel suo graduale verificarsi, è dato dal ruolo dell’immagine, che va acquisendo una centralità sempre maggiore attraverso i vari testi della raccolta, a discapito della mera parola. Ciò implica, per Ricoeur, un ruolo più originario della Vorstellung, della rappresentazione, rispetto alla sua formulazione linguistica. Il senso può trovare un appiglio prima ancora della sua verbalizzazione, e ciò può avvenire attraverso le immagini. Ricoeur, spiegando in vari passaggi i motivi di questo sorpasso della rappresentazione sulla locuzione verbale, sembra prevedere in qualche modo l’immensa fortuna dell’immagine nella società contemporanea. Questo mutamento di registro è indicativo, inoltre, anche perché segna il distacco definitivo dal lacanismo, già iniziato a prodursi dopo la sua partecipazione ad un seminario di Lacan (Distacco motivato nel testo nella Discussione su Du Trieb de Freud et du Désir du psychanalyste). È così che l’immagine si configura come vettore potenziale di senso grazie al quale il soggetto risponde all’appello rivoltogli dalle passioni. Questo è un fattore forse decisivo anche a livello antropologico, oltre che in chiave teoretica e in quella pratica dell’analisi. Infatti, ciò che non è mai possibile fare è allungare, metaforicamente, la mano in direzione delle proprie pulsioni, per catturarle e decidere liberamente cosa farne. Soprattutto, non è possibile farlo solo attraverso il linguaggio. La rappresentazione grafica si scopre più originaria rispetto al segno linguistico, ed è a partire da quella che questo si instaura. In relazione alle pulsioni – che rimangono comunque inevitabilmente inaccessibili in loro stesse, oltre ogni possibilità della traduzione stessa – si tratta comunque sempre o di nominarle o di immaginarle, per scoprire su quali altre metafore si basano, e la scommessa è che sia proprio questa concezione del desiderio corporeo come una chiamata al senso a rendere possibile una sua gestione da parte del sistema centrale costituito dalla coscienza. una gestione di qualcosa che è bisognoso e carente. Molte possibili letture si possono dare di questa gestione della forza, di un non-rapporto, che nel venir preso in carico dal soggetto, assume la caratura di «un processo ontologico fondamentale» (p. 413. È il commento di Giuseppe Martini nella sua chiara Postfazione su la voie longue intrapresa da Ricoeur). Una concezione molto simile è ripresa nella attuale scena psicoanalitica, anche da alcuni lacaniani, come Alenka Zupančič.
Per finire, è proprio questo invito della forza a venir dotata di senso, a cercare un Altro da sé con cui venir relazionata, a porre le basi per la formazione della Psiche, e di conseguenza a consentire di formulare e immaginare una concezione globale dell’uomo. Ricoeur disegna quindi una genealogia di quest’ultima, la quale è al tempo stesso una teleologia della natura, da modificare verso la creazione in forme nuove. Ciò può avere innumerevoli percorsi di sviluppo, poiché innesta tra il linguaggio e le immagini, che costituiscono la base della cultura, e la forza viva e bruta, la possibilità di uno scambio che si mantenga libero e creativo, tale da dover puntare sempre oltre, verso quel dominio né culturale né naturale costituito dal pre-rappresentazionale, dall’illocutorio, da cui trae origine la vita.
Secondo la filosofa e storica della scienza Donna Haraway, la lotta per un mondo più vivibile si combatte anche sul terreno della natura e dei suoi significati. Se tradizionalmente il pensiero femminista si è impegnato attivamente nel condannare i resoconti scientifici del mondo come sostanzialmente ideologici, impegnandosi in un lavoro di decostruzione che ne smascherasse i presupposti storico-culturali impliciti ad essi inestricabilmente connessi, per Haraway il campo della scienza è tuttavia soprattutto un campo di significati contestati e contestabili, aperti e dinamici. In esso alcune storie e metafore, lungi dal legittimare sistemi di oppressione, di sfruttamento e ordinamenti gerarchici del mondo, possono invece ampliare il nostro modo di pensare e immaginare, fungendo così da alleate nella lotta per la costruzione di un mondo più vivibile e giusto. L’ordine nascosto. La vita segreta dei funghi (Marsilio, 2020) di Merlin Sheldrake è un serbatoio di storie e metafore potenti, da questo punto di vista.
I funghi di cui ci parla Sheldrake sono, dal punto di vista concettuale, importanti strumenti in grado di mettere in crisi alcune categorie normalmente considerate auto evidenti. In particolare l’importanza teoretica e filosofica di questo saggio sta nel rimettere radicalmente in discussione la nozione classica di individuo-soggetto-uno prendendo le mosse direttamente dall’analisi delle caratteristiche costitutive di una particolare gamma di viventi. Un’operazione già sviluppata nell’ambito della microbiologia dove la nozione di individuo è stata, in vari contesti, potentemente trasfigurata fino a espandersi e trasformarsi a tal punto da divenire irriconoscibile: con essa alla biologia degli organismi viventi si è sostituita l’ecologia delle loro relazioni e interdipendenze. «Siamo ecosistemi composti – e decomposti da un’ecologia di microbi il cui significato solo da poco tempo ha cominciato a venire alla luce» (p. 28) scrive l’autore a proposito. In tal senso i funghi di Sheldrake emergono come esseri intrinsecamente relazionali, portando alla ribalta il concetto di simbiosicome categoria biologica centrale. Un ruolo importante, nel portare al centro del discorso biologico questa categoria, va attribuito alla biologa americana Lynn Margulis e alla sua teoria endosimbiotica, secondo cui la simbiosi avrebbe avuto un ruolo cruciale nell’evoluzione delle prime forme di vita: in particolare, le cellule eucariote sarebbero il risultato di un’unione poi stabilizzatasi tra organismi diversi. Se i funghi emergono dal testo di Sheldrake come organismi in grado di confondere confini netti, proprio per la natura del suo oggetto, il testo di Sheldrake deve uscire dallo specialismo e tracciare un “discorso più ampio”, che porta necessariamente l’autore a costruire relazioni di mutuo scambio accademico, a interfacciarsi con studiosi appartenenti ad altri campi disciplinari, a praticare incursioni in altri ambiti dando vita a un «movimento bidirezionale di informazioni e risorse» (p. 269) che traccia una rete complessa.
Al centro di testo di Sheldrake non ci sono soltanto i funghi in quanto specie: ma anche e soprattutto le simbiosi, le connessioni imprevedibili, gli intrecci e le reti complesse che questi possono generare. Vengono prese in considerazione le articolate reti di relazioni che il tartufo instaura con la sua comunità di microbi, con il terreno e con il clima in cui vive, da cui emerge il suo aroma caratteristico, risultato inoltre di un processo evolutivo che l’ha portato a rispecchiare i gusti animali, a farsi ritratto odoroso delle loro passioni perché questi potessero essere veicolo alla dispersione delle spore (p. 38). Un altro esempio è costituito dai licheni, secondo alcune ipotesi scientifiche risultato della simbiosi tra un’alga e un fungo, relazione frutto di un processo evolutivo che ha consentito a entrambi di adattarsi e popolare ambienti altrimenti inospitali e proibitivi. In tutti questi casi i funghi emergono soprattutto come organismi in grado di destrutturare categorie prestabilite e confini netti, come reti dinamiche di relazioni trasformative.
Ciò che viene messo fortemente in evidenza, infatti, è la complessità irriducibile delle relazioni e degli intrecci che i funghi instaurano e nei quali sono coinvolti. La stessa “dual hypotesis”, secondo cui i licheni sarebbero il risultato di una simbiosi tra un fungo e un’alga, è già stata ampiamente problematizzata da alcuni studi che hanno mostrato come gli attori coinvolti siano di più, le relazioni contestuali e fondamentalmente irriducibili a uno schema fisso (p. 114): da questo punto di vista l’identità dei licheni emerge più come una domanda che una risposta già nota, e questi si configurano come «sistemi dinamici più che un elenco di componenti che interagiscono tra loro» (p. 115). I licheni sono relazioni aperte in quanto il reticolo miceliare, ossia ciò che costituisce il “corpo” del fungo, si configura come processo più che cosa. I funghi emergono quindi come organismi viventi e dinamici, al punto che per Sheldrake si potrebbe parlare del reticolo miceliare, il corpo metamorfico e sempre provvisorio del fungo, come traccia della sua storia, del suo sviluppo continuo, sempre imprevedibile e contestuale. L’“indeterminismo comportamentale” che caratterizza il reticolo miceliare fa si che non si possano dare due reticoli identici e porta ad adottare metafore per descrivere i funghi che ci consentono di evitarne la reificazione, preservandone l’identità aperta e provvisoria. A questo proposito Sheldrake parla del micelio come di una “melodia” polifonica, irriducibilmente molteplice e plurale e delle ife, le cellule che lo costituiscono, come di flussid’incarnazione, processi in divenire senza pianificazione centralizzata da cui però emergono forme.
La stessa nozione di simbiosi viene ulteriormente trasfigurata e ampliata nel testo di Sheldrake, connessa al concetto di trasmutazione e metamorfosi. La capacità dei funghi di rendere ambigui i confini tra individui emerge in questo caso come potere di confondere i confini tra specie: Sheldrake riporta l’esempio del fungo Ophiocordyceps, capace di prendere “possesso” del corpo e della mente di una specie di formica, al fine di riprodursi diffondendo le spore. Quest’esempio particolare di simbiosi assomiglia per Sheldrake a un vero e proprio caso di possessione, in cui la formica diventa fungo, uscendo dai binari della propria storia evolutiva e cominciando a percorrere quelli dell’Ophiocordiceps (p. 134). Facendo riferimento al concetto di fenotipo esteso, coniato dal biologo Richard Dawakins, è possibile dare conto scientificamente di questa trasformazione e di questo mescolamento: con esso si fa riferimento al fatto che il genotipo non fornisce soltanto le istruzioni per costruire un organismo biologico, ma regola anche il comportamento. Attraverso quest’ultimo, proprio come un uccello costruendo il proprio nido esprime “esteriormente” i propri geni, il fungo si “travasa” nel mondo esterno, rendendo ambigui e confondendo profondamente il confine tra sé e altro. Richiedendo senza dubbio un certo sforzo immaginativo al lettore, Sheldrake propone un’analogia coraggiosa: così come la formica è manipolata dal fungo al punto da diventare fungo, da deviare dalla propria storia evolutiva per incrociare quella di quest’ultimo, è possibile considerare le esperienze stranianti e di ampliamento della coscienza prodotte sulla nostra mente dalla psilocibina, principio attivo dei funghi psichedelici, come incursioni del fungo nell’umano. È possibile pensare, con le parole dell’autore, che i funghi psilocibinici «indossino la nostra mente come l’Ophiocordiceps e la Massospora indossano il corpo degli insetti» (p. 141). Il punto di vista che ci offre l’autore pone l’accento sulla lunga storia delle relazioni tra esseri umani e funghi psilocibinici: più che considerare le loro storie evolutive come nettamente separate, l’operazione del testo consiste nell’invitarci a considerare l’intrecciarsi della storia evolutiva dei funghi con la storia culturale umana e il loro reciproco influenzarsi. Considerando la storia e la cultura legata alla psichedelia, e il modo in cui questa ha influito sulla storia evolutiva dei funghi, sul modo in cui si sono diffusi e sono stati coltivati, su come certe specie sono state preferite ad altre, siamo invitati a leggere questa come un rapporto di reciproco addomesticamento, piuttosto che una relazione a senso unico. Il ribaltamento di prospettiva che offre il testo è potente: non solo gli esseri umani hanno interferito con la storia dei funghi, coltivandoli, ma questi ultimi hanno “preso in prestito”, indossato e modificato la coscienza e la storia umana.
Non soltanto sulla storia umana i funghi hanno lasciato un’impronta e hanno interferito di più di quanto siamo soliti considerare, ma hanno avuto un ruolo importante anche nella storia evolutiva delle piante e dell’ambiente terrestre in generale. Se le piante sono riuscite a popolare la terraferma, dandole la configurazione che oggi conosciamo, ciò è avvenuto perché le loro antenate acquatiche, prive di radici, hanno stretto un’alleanza poi stabilizzatasi con i funghi. Questi ultimi hanno quindi funto da “radici” primitive, consentendo alle antenate delle piante terrestri di procurarsi acqua e nutrienti dal terreno, instaurando con queste relazioni di reciproco scambio. Una traccia di queste antiche associazioni è offerta dalle relazioni micorriziche, che ancora oggi i funghi stabiliscono con diverse specie di piante. L’importanza di queste relazioni è tutt’altro che secondaria: oggi più del novanta per cento delle specie di piante dipende dai funghi micorrizici. Le relazioni micorriziche hanno stimolato fortemente l’immaginazione di biologi e botanici, dando luogo a una vera e propria fioritura di metafore. Per descriverle, si parla di «mutualismo», ma anche di «relazione conflittuale e parassitaria mascherata» (p. 162). Altri biologi parlano di un equilibrio di potere che mantengono il fungo e la pianta all’interno della relazione, sottolineando come questa possa essere considerata alla stregua di un commercio, in cui nessuno degli attori coinvolti ha il controllo totale della relazione, ma ciascuno deve stringere compromessi e accordi. Secondo quest’ultima prospettiva, ci troviamo di nuovo di fronte a una relazione aperta: funghi e piante ereditano la capacità e la tendenza ad associarsi, ma la mettono in pratica in forme sempre nuove e rinegoziate, strategiche, imprevedibili e irriducibili a uno schema fisso. A questo proposito può essere trasferito ai funghi il termine inglese entangle, utilizzato per descrivere il nostro coinvolgimento in situazioni sociali mutevoli e complesse. Al di là delle diverse metafore con cui si è cercato di cogliere le relazioni micorriziche, risulta indubbia la centralità che i funghi hanno avuto nell’influenzare la storia passata e nel fare quella presente e futura del nostro ambiente. Secondo una logica che potremmo definire ecologica, le relazioni micorriziche hanno avuto un ruolo fondamentale nell’evoluzione di gran parte delle forme di vita terrestri (p. 166). Per descrivere queste forme di coinvolgimento profondo, alcuni biologi hanno proposto di utilizzare, al posto del termine evoluzione, che letteralmente significa “svolgere”, l’uso di involution, nel senso di coinvolgimento e partecipazione: con questa parola si riesce forse a rendere meglio il complesso intreccio di attrazione e repulsione che caratterizza le varie forme di convivenza che costruiscono gli organismi.
Se le relazioni micorriziche hanno dato un forte impulso alla produzione di metafore in biologia, ancora più potente da questo punto di vista è stata la scoperta del wood wide web: la rete sotterranea che attraverso i reticoli micorrizici crea un sistema di scambi, relazioni e condivisione tra gli alberi di una foresta. Le reti e i reticoli micorrizici condivisi hanno tutt’altro che una funzione accessoria: si possono invece paragonare a «sistemi circolatori condivisi» (p. 191) da un certo gruppo di alberi, secondo una prospettiva che invita a ripensare radicalmente gli ecosistemi forestali. Al paradigma del conflitto e della competizione come meccanismi chiave dell’evoluzione, la scoperta dei reticoli sotterranei condivisi ha consentito di sostituire metafore che enfatizzano la collaborazione e la distribuzione delle risorse all’interno di una comunità. Se l’immaginazione è stata stimolata al punto da portare a parlare, per quanto riguarda queste reti, della scoperta di “luoghi di cura”, di altruismo e cooperazione disinteressata in natura, Sheldrake ci invita a considerare invece le ambiguità che la nozione di rete porta con sé: così come internet ai suoi esordi è stata potentemente investita di fantasie romantiche e libertarie, come luogo a-gerarchico e orizzontale, per poi mostrarsi invece veicolo di relazioni di potere e di controllo, così le wood wide webs andrebbero considerate nella loro complessità e ambivalenza, come «amplificatori di interazioni»(p. 203). Ancora una volta il concetto su cui si insiste è quello di complessità: le reti di alberi costituiscono sistemi complessi adattativi, dinamici, caratterizzati da un ricambio costante e cangiante.
Se i funghi hanno avuto un ruolo centrale nel determinare il passato e il presente di numerosi ecosistemi, il loro protagonismo potrebbe addirittura crescere in futuro, soprattutto in relazione alla minaccia che i cambiamenti climatici rappresentano per la sopravvivenza di numerosi ecosistemi. Già in passato, i funghi hanno dimostrato grande capacità di sopravvivere e anzi di prosperare di fronte a mutamenti ambientali di grande portata: i funghi che decompongono il legno ebbero un ruolo importante nella transizione da un’epoca chiamata Carbonifero, in cui a causa dell’assenza di decompositori di lignina, il grande accumulo dei resti di alberi nel sottosuolo era stato causa di un importante cambiamento climatico. Proprio grazie alla loro capacità “decostruttiva” questi organismi hanno dimostrato capacità di sopravvivere alle devastazioni ambientali. Non soltanto la lignina, ma numerosi altri inquinanti possono essere digeriti e usati come fonte di sostentamento dai funghi: dai mozziconi di sigaretta ai pesticidi, a vari tipi di rifiuti agricoli, i funghi sanno trasformare vari inquinanti pericolosi per la vita umana e ripristinare ecosistemi gravemente danneggiati. Come sottolinea Sheldrake, i limiti relativi a queste pratiche di micorisanamento dipendono in larga parte dalla complessità di questi organismi: i funghi proliferano in modo irriducibilmente imprevedibile, così come il loro comportamento rispetto agli inquinanti rimane complesso. Il micorisanamento si configura come una forma di “digestione esterna”, o un’esternalizzazione di processi digestivi: un’associazione in cui organismi diversi intonano insieme una canzone metabolica che da soli non saprebbero cantare. In questa relazione, i funghi si configurano sia come tecnologie, che come partner degli esseri umani (p. 246).
Citando Donna Haraway, è importante capire «quali storie raccontano altre storie, quali pensieri pensano altri pensieri, quali sistemi sistemizzano sistemi» (fonte). Ciò che Haraway ci aiuta a mettere in evidenza, è come sia possibile rintracciare al di sotto delle diverse storie gli intrecci che le costituiscono. L’operazione al centro del testo di Sheldrake è soprattutto questa: mostrare, utilizzando resoconti scientifici del mondo, come storie che sembrano percorrere binari paralleli, come la storia evolutiva dei funghi, degli esseri umani e delle piante, siano invece un intreccio. Scavare nelle storie per disseppellire gli intrecci e le associazioni stravaganti che le hanno prodotte, fare emergere con forza, al di sotto della patina universalizzante e antropocentrica che predilige l’attore unico (l’essere umano, unico soggetto propriamente detto, e quindi unico attore e costruttore della propria storia, in un mondo di cose fondamentalmente inanimato e a sua disposizione) la pluralità degli attori coinvolti: queste sono le operazioni principali al centro del testo di Sheldrake. Molte importanti storie umane sono in realtà storie di associazioni e relazioni con i funghi, storie che portano alla ribalta attori non umani, attivi e coinvolti in una relazione bidirezionale quanto i loro partner umani. L’invenzione dell’agricoltura e i connessi processi di sedentarizzazione, potrebbero essere il frutto di una delle relazioni più intime che l’umano ha stretto con i suoi partner fungini: quella con i lieviti. È stato per i processi di fermentazione, per la produzione del pane e della birra che gli esseri umani hanno abbandonato il nomadismo: la svolta neolitica, e le trasformazioni legate all’agricoltura, possono essere considerate da questo punto di vista una risposta culturale ai lieviti, al punto che, secondo Sheldrake, in un certo senso, «siano stati i lieviti ad addomesticare noi» (p. 255). Così, come le storie umane rimandano necessariamente ad altro, le storie sui funghi ci portano altrove, a sconfinare in altri campi disciplinari per incontrare piante, alghe, ecosistemi forestali. L’effetto della narrazione del L’ordine nascosto è proprio questo: quello di farci deviare, mostrando come ogni storia rimandi in fondo a un’altra.
Nonostante lo sviluppo di una definizione matematica e rigorosa del continuo attraverso i lavori di Georg Cantor e lo sviluppo teoria degli insiemi a fine ‘800, la continuità del tempo rimane un problema per la filosofia contemporanea. Questo vale soprattutto per quelle teorie che accentuano la natura dinamica del tempo e del cambiamento, come la teoria A del tempo e in particolare il presentismo. Come è possibile pensare il tempo come continuo e perciò come esteso, se esso è, in quanto dinamico, in eterno divenire? Come possiamo concepire la continuità del tempo in contrapposizione alla continuità dello spazio? Attraverso un analisi di diverse concezioni del continuo nella storia della filosofia così, il presente volume intende esplorare diverse risposte a tali domande.
Despite the development of a rigorous mathematical definition of continuity through the development of set theory at the end of the 19th century, the continuity of time still remains a problem for the contemporary philosophy of time. This holds especially for those theories that accentuate the dynamic nature of time and change, such as the A-theory and in particular presentism. For, how can we conceive time as something continuous and extended, if this is dynamic and hence in eternal becoming? How should we understand the dynamical continuity of time in opposition to the static continuity of space? Through an analysis of different conceptions of the continuum in the history of philosophy, the present issue intends to explore different answers to this question.
Con Pensiero istituente. Tre paradigmi di ontologia politica (2020) Roberto Esposito porta avanti la riflessione per una filosofia politica affermativa che da tempo muove le sue pubblicazioni. La presa di distanza dalle filosofie che pensano le proprie categorie a partire dal loro rovescio negativo (l’amico a partire dal nemico, la vita a partire dalla morte) è esplicito in Politica e negazione (2018) ma rintracciabile fin da Communitas (1998). D’altra parte in Pensiero istituente si chiarisce anche il distacco dell’autore dalla parte della biopolitica e da quella filosofia affermativa che dimentichi di articolare in maniera produttiva la negatività e il conflitto come caratteristiche imprescindibili del politico. La novità del saggio è proprio la definizione di una terza posizione all’interno della quale Esposito stesso si colloca: egli la delinea tornando a Machiavelli ma soprattutto attraverso l’opera di un autore di cui fin qui poco si era occupato e che, almeno per quel che riguarda la recezione italiana, rientra ancora tra i minori, Claude Lefort. È alla sua posizione, definita appunto istituente, che si riferisce il titolo del nostro testo e che costituisce la proposta positiva di Esposito.
L’articolazione del libro in tre capitoli restituisce la partizione proposta dall’autore tra un paradigma destituente che fa capo alla tradizione heideggeriana, un paradigma costituente fatto risalire all’opera di Deleuze, e infine un pensiero istituente, neo-machiavelliano o conflittualista, lefortiano. Se l’ultimo paradigma è la pars costruens del discorso di Esposito, Heidegger e Deleuze rappresentano invece due tendenze, tra loro opposte ma ugualmente degenerative, che caratterizzano la crisi del pensiero politico contemporaneo. Ripercorrerne le elaborazioni è così un modo per prendere posizione rispetto al dibattito, italiano e non, che ad essi è debitore, si pensi per esempio ad Agamben o a Nancy per il primo ed a Negri e Hardt per il secondo.
Le tre posizioni si collocano all’interno di un orizzonte che Esposito definisce «ontologico politico post-fondazionale» e corrispondono ad altrettante declinazioni possibili del rapporto tra essere, politica e differenza. A caratterizzare questa impostazione sarebbe secondo l’autore la particolare consapevolezza della dipendenza reciproca di ontologia e politica: da una parte la presupposizione di concezioni sull’essere (sullo spazio, sul tempo, sull’uomo) implicita in ogni azione politica, dall’altra il fatto che l’elaborazione di posizioni ontologiche, a partire dalla decisione su ciò che deve o meno essere considerato politico, dipende a sua volta da opzioni politiche. È su questo piano comune che riposa la possibilità di un confronto tra autori che si sono occupati in maniera quanto mai difforme di politica, sia per quel che riguarda la teorizzazione che la sua pratica concreta. L’impressione però è che ad emergere in Pensiero istituente, anche rispetto ad altri interventi dello stesso Esposito più situati rispetto a questioni di politica contemporanea, sia piuttosto l’ontologia della politica che non la concreta esigenza politica di un’ontologia.
Il primo capitolo del saggio è dedicato al paradigma destituente cui fanno capo le filosofie che, pensando la politica a partire dal suo fondamento negativo, hanno come esito una delegittimazione dell’azione politica. In questa prospettiva che vede la politica rinchiusa all’interno dei propri confini mondani, e compromessa con la violenza e il potere che ne fanno parte, ogni tentativo di realizzazione storica di qualsivoglia idea di bene o di giustizia è destinato a fallire. La critica di Esposito al pensiero heideggeriano ed al paradigma che rappresenta è che, a fronte di affermazioni teoricamente rivoluzionarie, essi finiscano per essere praticamente inerti e spoliticizzanti (p. XIII).
Benché Esposito ne ripercorra quasi interamente l’opera, non è tanto l’Heidegger degli anni Trenta a rappresentare nella maniera più chiara questo paradigma. Qui, ancora, l’adesione al regime nazista si accompagna a un discorso positivo sulla messa in opera e quindi a una possibilità positiva di politica, benché Heidegger la immagini guidata dalla filosofia in un primo tempo (cfr. il Discorso del rettorato, 1933), e in seguito la concepisca in analogia alla creazione dell’opera d’arte, condotta da parte degli individui “più unici” in grado di dare unità simbolica e politica a un popolo (cfr. i corsi del 1934-35 su Hölderlin e L’origine dell’opera d’arte, 1935). È piuttosto dagli anni Quaranta che Heidegger comincia a maturare la sfiducia nei confronti dell’azione che andrà consolidando negli scritti del secondo dopoguerra. Già nel corso del ’42 su l’Ister di Hölderlin, Heidegger non pensa più la politica come un’opera da realizzare ma come un evento che emerge dalla polis (p. 46). Se però ancora nella polis una politica sembra possibile, in un mondo sempre più dominato dalla tecnica l’azione politica non è in grado di sottrarsi alla sua razionalità: il passaggio dall’idea greca di una realtà operante alla concezione romana del reale come creato e dell’agire come causa efficiente fa sì che l’azione politica venga a far parte della stessa logica della tecnica e della macchinazione che vorrebbe contrastare (cfr. Scienza e meditazione, 1953). In questo contesto l’unica azione possibile è un lasciar essere, una revoca dell’azione e della volontà che in Heidegger si tinge di tinte poetico meditative (cfr. Gelassenheit, 1983).
Paolo Uccello, Battaglia di San Romano (1483)
Come già accennato, Heidegger non è l’unico autore ascritto al paradigma destituente. In Categorie dell’impolitico (1988), che si può dire si muova all’interno di questa prospettiva, Esposito si era rivolto tra gli altri a Weil, Broch, Bataille che anche in Pensiero istituente non manca di citare. Se la lezione di altri autori «destituenti» non porta a esiti così smaccatamente spoliticizzanti come quelli di Heidegger egli è però portatore dell’opinione condivisa sulla limitatezza, sulla non fondatezza dell’agire umano e sulla sua implicazione nella necessità del mondo. Come commenta Esposito seguendo Schürmann: «A venir meno, con la distruzione metafisica praticata da Heidegger, non è l’agire, ma la possibilità che questo continui a essere legittimato da un principio esterno. Ormai la praxis non è più fondabile da parte della theoria» (p. 65).
Un discorso specularmente inverso vale per il paradigma costituente rappresentato da Deleuze. La filosofia di Deleuze è definita costituente nel senso che essa pensa l’essere come una realtà creativa e produttiva di molteplicità. La critica di Esposito a questa posizione è che, per quanto non pacifica nel percorso di Deleuze, la coincidenza sempre più stretta di essere e differenza tenda a obliterarne la dimensione conflittuale, e il politico, che in questa dimensione si colloca, finisce per confondersi con il flusso del divenire perdendo rilievo specifico e forza critica. «Ciò che manca, in un’ontologia dell’immanenza assoluta, non è la trascendenza del potere, ma una teoria del conflitto politicamente articolata» (p. 115).
Anche in questo secondo capitolo Esposito ripercorre puntualmente l’evoluzione del pensiero di Deleuze. Secondo l’autore, in buona parte in consonanza con Žižek, il pensiero di Deleuze oscilla tra due ontologie divise dalla posizione di fronte al negativo. Ancora in Nietzsche e la filosofia il negativo viene inteso come il risultato dell’aggressività dell’affermarsi della differenza, dotato di una forza propria, e in Marcel Proust e i segni emerge come il segno di ciò che non è più, di ciò che è passato. A partire dagli anni ’60, con l’avvicinamento alle posizioni di Bergson, Deleuze tende invece a mettere da parte il negativo come falso problema. Nonostante qualche eccezione (cfr. per esempio Logica del senso, 1969), la sua ontologia si sposta interamente sul piano di immanenza cosicché l’essere stesso viene a coincidere con la differenza, ovvero con una realtà plurale e articolata in una molteplicità di organizzazioni (p. 107). Proprio quando, nella collaborazione con Guattari, l’interesse e il linguaggio di Deleuze si fa espressamente politico, la politica stessa finisce per perdere i confini del proprio ambito e viene a coincidere con il dispiegarsi del desiderio inteso come azione rivoluzionaria produttiva di realtà (p. 120). In questo contesto la critica al capitalismo che innerva i due volumi di Capitalismo e schizofrenia vede come unica azione politica possibile l’accelerazione degli stessi flussi di desiderio di cui il capitalismo è composto. La schizofrenia, la decodificazione di tali flussi e la dissoluzione degli ultimi vincoli che ancora li trattengono costituiscono l’unica strada per immaginare il superamento del capitale.
Nello stesso ordine di riflessioni si inseriscono, come già notato da Benjamin Noys (cfr. The Persistence of the Negative, 2010), autori come Lyotard e Baudrillard, ma Esposito vi fa convergere anche Negri e Hardt e per altro verso Vattimo. Il tratto che, pur nelle differenze specifiche, li accomuna è il tentativo di contrapporsi al capitale dall’interno, assecondandone la razionalità invece di contrastarla (p. 79). L’esito del paradigma costituente risulta simmetricamente opposto a quello heideggeriano, ovvero un pensiero dalla veste al contempo iperpolitica e spoliticizzante. Una nota a parte meritano invece due testi, Istinti e istituzioni (1955) e Empirismo e soggettività (1973), perché ci portano nella direzione che sarà propria del paradigma istituente. In questi testi, a partire dalla lettura di Hume, Deleuze interpreta l’istituzione come la zona d’incontro tra natura e cultura, ovvero tra il desiderio e la necessità di darvi una forma. Diversamente dalla lettura che ne è stata data dai francofortesi fino a Foucault, in questa prospettiva l’istituzione è l’affermazione di un modello possibile di soddisfazione degli istinti piuttosto che un dispositivo volto a frenarli, com’è invece la legge. Vedremo come ciò sia consonante con alcune posizioni lefortiane.
Claude Lefort
A queste ultime si rivolge il terzo e ultimo capitolo di Pensiero istituente. Lefort (1924-2010) è noto per essere stato fondatore insieme a Cornelius Castoriadis di Socialismo o Barbarie. Allievo di Merleua-Ponty, ne è stato anche esecutore testamentario curando e introducendo le edizioni di molti dei suoi testi, come Il visibile e l’invisibile (1964); L’institution. La passivité (2003); e Œuvres (2010). Questa matrice fenomenologica caratterizza fortemente il terzo paradigma delineato da Esposito. Qui l’istituire viene inteso come un processo di stabilizzazione dell’esperienza che si compie su un piano intersoggettivo: se da una parte l’istituzione consiste nelle azioni dei soggetti istituenti, essa ha allo stesso tempo una validità indipendente da ognuno di essi. In questo modo i singoli la tengono in vita modificandola, ma senza per questo crearla ex nihilo né tantomeno trovandola prederminata, ricevendola da altri e restituendola ad altri.
Ad istituire per Lefort è in primo luogo la politica, dove essa consiste nella messa in forma simbolica dei conflitti che dividono il sociale. Questa prospettiva, che segna anche il distacco da Marx, deve molto all’incontro con la letteratura etnografica e con Machiavelli (cfr. Le Travail de l'œuvre Machiavel, 1972). In particolare dal confronto con quest’ultimo, in parte anticipato nel Merleau-Ponty delle Note su Machiavelli (1949) e de Le avventure della dialettica (1955), si delineano due punti centrali dell’ontologia politica di Lefort: il simbolico come luogo del politico e l’ineluttabilità del conflitto. Come ribadisce Esposito «il potere ha a che fare più col discorso – cioè con la sua costruzione rappresentativa – che con i rapporti economici all’interno dei quali s’istituisce» (p. 178), in quanto sua immagine simbolica il politico eccede dal sociale e retroagisce su di esso. Se da una parte non si dà politica al di fuori della società su cui si esercita, infatti, d’altro canto anche la società non esiste propriamente come insieme riconoscibile prima di essere resa visibile tramite la sua rappresentazione politica (p. 169). D’altra parte, la comprensione del conflitto come dato ineluttabile delle società intende affermare che l’ordine politico è sì possibile ma sempre provvisorio, ovverosia che l’operazione di simbolizzazione e di messa in forma della società non è garantita dal suo fallimento proprio perché, se il politico non coincide col sociale, neppure il sociale coincide con se stesso. Ciò che distingue le diverse società è il modo in cui in esse il potere politico rappresenta il conflitto (p. 191). Da una parte, nelle cosiddette “società senza storia” o “stagnanti” la tendenza è quella a escludere e neutralizzare per quanto possibile il conflitto, con lo scopo di mantenere intatto un certo ordine. Diversamente, secondo Lefort, la democrazia moderna è l’unico sistema politico in grado di riconoscere e rappresentare l’essenza conflittuale della società (cfr. Sur la démocratie: le politique et l’institution du social, 1971). Attraverso le sue istituzioni volte non tanto a mantenere un certo potere quanto a salvaguardare la possibilità del suo passaggio di mano tra le parti in gioco, la democrazia dà forma a un potere vuoto, cioè infinitamente contendibile. Contraddicendo una valutazione comune ai più grandi pensatori politici novecenteschi, che intendono la modernità come un’epoca di spoliticizzazione, per Lefort la democrazia moderna è al contrario politica per eccellenza. Nell’istituzione democratica, infine, viene riconosciuto il risultato del ribaltamento dell’articolazione di diritto e potere messa in atto dalle rivoluzioni moderne, dove adesso è il diritto a fondare e a limitare il potere.
Anche in questo caso Lefort non è né il primo né l’unico ad aver tematizzato l’istituzione, egli ne condivide anzi il discorso con autori come Castoriadis, Ricoeur, ma anche Hariou e Santi Romano. In particolare attraverso quest’ultimo, cui Esposito dedica l’ultimo paragrafo del saggio, il discorso istituente viene aperto a una prospettiva che superi la dimensione statale. Romano riconosce l’istituzione anche nelle collettività organizzate alternative o addirittura competitive nei confronti dello Stato, facendo dell’istituire un processo in grado di accogliere le istanze mutevoli della società. Così anche per Esposito «tutt’altro che a un ordine consolidato di regole e leggi, l’istituire rimanda piuttosto a un compito – coincidente con quello della politica – destinato a mutare continuamente il quadro normativo entro cui agisce» (p. XIX).
Jean Wahl, Verso il concreto. Studi di filosofia contemporanea. William James, Whitehead, Gabriel Marcel (Mimesis, Canone Minore, 2020)
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Di Jean Wahl un poeta notava lo spirito mobile e trasparente, la «disinvoltura che era levitazione» (269). Come il levitatore non è colui che si stacca da terra, ma la parte più prona alle mescolanze di un mondo che si accresce, così Wahl è filosofo leggero per la durezza materica del suo sguardo. L’edizione italiana di Verso il concreto. Studi di filosofia contemporanea. William James, Whitehead, Gabriel Marcel, uscito per Mimesis a cura di Giulio Piatti e con una postfazione di Barbara Wahl, è opera di un pensatore ironico e poetico, impegnato nell’ascesi dell’incontro totale con ciò che si propone di pensare. Contro una storia della filosofia come galleria di statue e apologia della grande figura, Verso il concreto è innanzitutto un accostamento tra incontri felici, animato dall’entusiasmo paratattico che prolunga il vivum di altri pensieri. È un libro che contiene altri spiriti, intuiti nel loro splendore fenomenico, e che rivela appieno lo stile filosofico di Jean Wahl, la sua maniera di pensare. Wahl scrive da filosofo di altri filosofi, con una virtù che sarebbe riduttivo definire eclettica. La ricca introduzione del curatore illustra perfettamente in che misura questo libro è un capitolo fondamentale e appassionante della filosofia francese del ‘900, su cui Wahl aveva già iniziato ad esercitare un’influenza profonda con la fortunata opera sui pluralisti americani e inglesi del 1920.
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Étienne Souriau scriveva che quando i filosofi si esprimono sull’uno o sul molteplice, desiderano o l’uno o l’altro. In questa osservazione c’è di più del semplice rilevamento di un moto d’interesse dietro a istanze eterne del pensiero: l’alternativa tra pluralismo e monismo è innervata un investimento magico, un ideal-realismo che scaturisce dalla visione dell’accordo del continuo con il discontinuo. È l’«esperienza» in senso più proprio, l’alliance paradoxale di cui Wahl parlerà, trent’anni più tardi, ne L’expérience métaphysique. James, Whitehead e Marcel sono filosofi speculativi e sperimentatori, quando pensano un mondo fatto di blocchi di durata, di volumi, di eventi, di relazioni primitive, di processi di discretizzazione per confluenza e concrescenza: pluralisti in nome dell’eterogeneità del reale, monisti in nome della sua unità in divenire. A quest’altezza ha luogo, in maniera diversa in ognuno di questi autori, il «suicidio della dialettica» (51), la dialettica hegeliana che nasce proprio squalificando il concreto dell’esperienza, piegandolo a una certa idea di speculazione. Speculativo, sembra dirci Wahl, può esserlo soltanto un realismo; e se non si vuole abbandonare la dialettica sarà più per amore dell’oggetto reale che per sentimento della sua insufficienza.
In William James, primo protagonista di Verso il concreto, una filosofia dell’Abenteuer risponde al temperamento «motore» del filosofo (143), che ricerca la grana della realtà solida, l’universale fattivo. È il ritratto di un James mercuriale, che propugna un pluralismo in costante tensione con un monismo mistico, per cui il mondo si accresce per estasi delle parti. Nel sapiente studio del suo epistolario, Wahl rintraccia quella reciproca evocazione tra vita e filosofia che ha determinato la grandezza di uno dei padri del pragmatismo. Il secondo protagonista del libro, Alfred North Whitehead, è invece rappresentato come un pensatore dell’universo vivente, autore di una grande metafisica della natura. Come un nuovo romantico, Whitehead vede nel reale un humus di percettività cieca, di intenzionalità pure che germinano e concrescono: la realtà crea incessantemente sentendo sé stessa, e il soggetto non vi si riconosce che come una sopravvenienza. Da qui l’attenzione a ciò che nel soggetto è legame con la natura creante, percezione e sentimento. Come il pensiero di James è incontrato nella rappresentazione della sua vita e la filosofia di Whitehead nell’interpretazione complessiva dei suoi scritti, Gabriel Marcel, infine, è studiato con intima confidenza, attraverso il suo diario filosofico (il Journal métaphysique), quasi come in sua compagnia. Wahl, che è stato amico di Marcel, ritrova come principio ermeneutico quella partecipazione emotiva che lo stesso Marcel mette al centro del proprio pensiero – l’amicizia come forma di conoscenza completa.
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Poco meno di cento anni dopo la sua uscita possiamo cominciarne a cogliere la rilevanza di Verso il concreto. Qui Wahl contribuisce ad aprire una traccia che attraversa – più o meno allo scoperto – il Novecento francese e raggiunge il realismo speculativo contemporaneo. Il topos che Wahl utilizza per forzare lo hegelismo è lo stesso dell’Agamben de Il linguaggio e la morte e del Lyotard di Discorso, figura (ma anche, in senso più ampio, del Deleuze di Differenza e ripetizione): il tentativo di dire il “questo”, che all’inizio della Fenomenologia dello Spirito vanificail sapere sensibile, viene recuperato come vero compito della filosofia, verso un’altra concezione dell’assoluto. La rivalutazione dell’esperienza in sé conduce proprio là dove Hegel non era voluto andare, ad una mistica e a una poetica, senza mai lasciare la filosofia. D’altronde, «era forse il destino del pensiero hegeliano quello di negarsi» (227). Tutto ciò che una certa tradizione speculativa ha cercato di fare nel corso del secolo passato è questa critica alla significazione, alla causalità meccanica, alla priorità della conoscenza soggettiva in nome di un pensiero più concreto, che sia monista e pluralista insieme, in quanto «negazione di un mondo già fatto» (136).
Dietro al dire c’è dunque sempre un conatus d’instaurazione, che nell’uomo è esperienza pura, e che sfonda il cerchio della dialettica, per renderla incessante e senza concetto. Bergson, Renouvier, Samuel Alexander e tutte le figure che si avvicendano accanto ai tre filosofi raffigurati da Wahl confluiscono in un mosaico ancora in formazione che andrà a costituire il nerbo della grande avventura continentale del ‘900. Dietro a questo passaggio fondamentale, la penna ariosa di Wahl, quasi a divinarne il corso – in levità.
Per chi voglia avvicinarsi agli ultimi sviluppi delle scienze sociali e della filosofia, la lettura di Bruno Latour è una tappa cruciale da molti anni ormai. Testi come Non siamo mai stati moderni (elèuthera, Milano 1995) o Politiche della Natura(Raffaello Cortina, Milano 2000) sono presenze fondamentali nelle bibliografie di chi si muove, per esempio, nelle environmental humanities o nel campo del postumano. Sarebbe però riduttivo limitare l’influenza di Latour a questi settori disciplinari, non solo per la difficoltà di assegnare i suoi scritti a una regione del sapere chiara e distinta. Attorno alle opere di Latour si sono affollati artisti, curatori, designer, architetti ed esponenti delle scienze dure. La grande fortuna di Latour mostra la dismisura della nostra fame di saperi ibridi, bastardi, capaci di attraversare più ambiti disciplinari. Gli scritti di Latour sono animati da un doppio movimento: da un lato, lo sguardo si posa fedele su alcuni grandi autori del canone filosofico occidentale come Heidegger e Schmitt, con un approccio che talvolta rasenta la filologia – o addirittura l’esegetica biblica, il primo ambito di specializzazione accademica scelto da Latour; dall’altro, le mani sono indaffarate in una pratica di pensiero tutta contemporanea, impegnate a lambiccare in un laboratorio entro il quale i concetti e i problemi più impellenti del pianeta vengono trattati come reagenti instabili.
Essere di questa terra. Guerra e pace al tempo dei conflitti ecologici (Rosenberg & Sellier, Torino 2019) costituisce un eccellente punto di ingresso in questo antro alchemico, questa zona di sperimentazione. Il calderone di Latour si versa qui in 5 articoli che illustrano lo sviluppo del suo pensiero dal 1995 al 2013: a Modernizzare o ecologizzare. Alla ricerca della settima città (1995) seguono Perché la critica ha finito il carburante. Dalle matters of fact alle matters of concern (2004), L’Antropocene e la distruzione dell’immagine del globo (2013) e infine Guerra e pace al tempo dei conflitti ecologici (2013). La brillante introduzione di Nicola Manghi mette a fuoco il criterio con cui questi materiali sono stati raccolti in un’unica antologia. Il fil rouge di queste indagini di Latour consiste nel «rapporto di forte continuità che gli studi di ecologia politica hanno con le ricerche di sociologia della scienza e "antropologia dei Moderni" precedentemente condotte» (p. 7). La ricostruzione storica proposta prende le mosse dagli studi sulla costruzione della competenza condotti da Latour ad Abidjan, la capitale della Costa d’Avorio, mostrando come essi conducano all’etnografia della vita di laboratorio che farà di Latour uno degli autori cardine dell’antropologia del pensiero scientifico. Tuttavia, nella produzione recente di Latour i riferimenti cambiano. I nuovi protagonisti sono due personaggi concettuali, Gaia e l’Antropocene, alternativi a concetti quali Natura e Modernità. Da un lato, nella concettualizzazione inventata da James Lovelock, Gaia è quel complesso mosaico di entità in costante e imprevedibile negoziato fra loro che materializzano su scala planetaria gli effetti dell’evoluzione della vita sulla Terra. Questo tempo evolutivo profondo si solidifica in un’opera di costruzione collettiva di mondi a cui hanno preso e prendono parte tutte le specie viventi; dall’altro, l’Antropocene trasforma la portata dell’agency umana depositandola in tracce geostoriche, prodotte come eccesso involontario dei sogni moderni di un perfetto controllo dell’ambiente da parte della specie umana.
Gaia e l’Antropocene danno nuovo alimento a una delle missioni principali di Latour, la riconcettualizzazione dei rapporti fra scienza e società, fra natura e politica. Secondo Latour, la Modernità pensava di poter descrivere queste dicotomie concettuali considerando i loro termini reciprocamente autonomi, purificando tutte quelle entità ibride situate sulle frontiere fra i due domini. Latour propone piuttosto di ricondurre naturale e sociale a quell’ampia zona di indistinzione metamorfica in cui essi risiedono prima di essere depurati in una serie di binomi. Entro questa riconfigurazione dei rapporti costituzionali fra gli agenti, anche le scienze assumono un volto ben diverso. Ben lungi dal disincantamento weberiano, i saperi scientifici sono piuttosto pratiche di avventurosa moltiplicazione degli attori che compongono i nostri mondi. Pensare le scienze come operazioni di riduzione o meccanizzazione degli enti è un’allucinazione che appartiene solo alle autodescrizioni dei Moderni e che descrive male la natura pratica del lavoro scientifico. Se gli si rivolge uno sguardo etnografico, le scienze diventano processi di esplorazione di mondi brulicanti di agenti, sistemi per tracciare cartografie di reti cosmologiche. Agli occhi di Latour la conoscenza scientifica è dunque un’attività di continua costruzione dei fatti, ma questa pratica inventiva non è appannaggio esclusivo degli umani. Gli agenti della costruzione dei fatti scientifici vanno ben oltre alla concettualizzazione Moderna della “società”. Gli scienziati non sono i soli soggetti attivi nelle loro ricerche. I loro laboratori non sono luoghi in cui gli enti sono oggetti passivi, messi a completa disposizione, ma spazi di incontro fra umani e cose, mediatori indocili e mai del tutto controllabili, capaci di sgusciare dalle procedure di controllo per intraprendere corsi di azione imprevedibili.
L’articolo che inaugura l’antologia – Modernizzare o ecologizzare? – è un accesso insolito a Latour, ma chiarisce molti degli approcci e dei temi trattati negli anni successivi. Una domanda fondamentale lo guida: data la difficoltà con cui i partiti ecologisti si muovono nell’arena democratica, l’ecologia può essere sciolta in altre sfere del politico? In altre parole, i problemi e i conflitti che sorgono dalla natura possono essere ridotti a questioni di carattere amministrativo o economico? Latour riformula il problema. Il quesito è mal posto perché si richiama a una concezione dell’ecologia relativa a una natura staccata dal corpo sociale, universale ma passiva. In questo senso, l’ecologia si riduce a una serie di contenuti discreti che hanno a che vedere con le difficoltà che talvolta sorgono da un mondo senza umani, che si tratterebbe di tutelare, amministrare o utilizzare come risorsa. Latour propone invece di concettualizzare l’ecologia non come contenuto, ma come processo trasversale che attraversa in modo diffuso tutto l’ambito del politico. Compiuta questa riconcettualizzazione, ecologizzare il politico non significherà quindi tinteggiare di verde gli stendardi lasciando inalterati i corsi d’azione politici, ma «creare le procedure che permettano di seguire un insieme di quasi-oggetti i cui legami di subordinazione rimangono incerti e che obbligano dunque a un’attività politica di tipo nuovo che sia adatta a monitorarli» (p. 61).
Latour propone un aggiornamento concettuale analogo anche in Perché la critica ha finito il carburante? Secondo Latour la pur fondamentale eredità dello sguardo critico rischia di aggravare un già irrespirabile clima di sfiducia generalizzata. I maestri del sospetto sono diventati maestri della paranoia, complottisti sofisticati che dietro a ogni fenomeno vedono agitarsi le ombre titaniche di una serie di antagonisti dalle iniziali in maiuscolo: il Capitalismo, la Tecnoscienza, e così via. Latour conosce bene lo scenario che dipinge perché è stato ascritto alle fila dei suoi agitatori. Entro le science wars – animate fra gli altri da Alain Sokal – la sua antropologia delle scienze era stata considerata l’ennesimo colpo di maglio inferto alla struttura pericolante della fiducia pubblica nel discorso scientifico. Agli occhi dei critici di Latour, dire che i fatti scientifici sono costruiti implica che le scienze mentano, che inventino in modo arbitrario la realtà. Latour va in tutt’altra direzione. La missione di Latour è cosmopolitica, per dirla con Isabelle Stengers. Per Latour, «il critico non è colui che smaschera, ma colui che assembla» (p. 90), che intraprende un faticoso lavoro di composizione di un mondo comune. Non si tratta dunque di demolire i saperi, ma di rallentare la velocità con cui essi costruiscono le proprie unità di senso per risalire ai reticolati e alle assemblee di agenti che li rendono possibili.
Questo lavoro di montaggio e manutenzione di mondi tuttavia comporta dei rischi. Gli ultimi tre articoli si concentrano sugli scossoni epistemologici ed esistenziali assestati da Gaia e dall’Antropocene. La diagnosi di Latour è chiara: in un’epoca di catastrofi quotidiane, di ordinaria sommossa geostorica, gli strumenti offerti dalla Modernità sono ormai ferrivecchi quasi inservibili. «Nel modernismo, le persone non sono equipaggiate con un repertorio mentale ed emozionale adeguato ad affrontare eventi di una simile scala» (pp. 97-98). Non si tratta solo di conoscere meglio: i saperi affrontano inedite sfide di carattere affettivo, entro le quali la posta in gioco è anche l’elaborazione di nuove storie capaci di fornire alla specie umana delle tecniche della presenza, degli scafandri in grado di reggere l’insostenibile pressione ambientale odierna e a venire. Latour lo afferma con James Lovelock e Peter Sloterdijk: il compito è immunologico. Dobbiamo costruire membrane in grado di proteggerci dai capricci di una Gaia irritata e vendicativa. La natura meccanomorfa e indifferente dei Moderni è impraticabile, Gaia e l’Antropocene ci costringono ad assumere una forma di pur debole animismo, a pensare i viventi nonumani e le cose come vivi e attivi: «uno dei principali enigmi della storia dell’Occidente non è tanto che ‘vi siano popoli che ancora credono nell’animismo’, quanto la credenza, piuttosto ingenua, che molti continuano tuttavia a coltivare, in un mondo disanimato fatto di mera materia – e questo proprio nel momento in cui sono essi stessi a moltiplicare le agency, con le quali si trovano ogni giorno più intrecciati. Più ci addentriamo nella geostoria, e più questa credenza sembra difficile da capire» (p. 105).
Gaia, a differenza della Natura a cui eravamo abituati, non può essere dominata perché non può essere osservata dall’esterno, nel sorvolo offerto da una posizione trascendente e disincarnata. Gaia non è una figura di unificazione, non è un ambito di sintesi, un magnete capace di attrarre a nuovo consenso tutti i popoli della terra. Gaia è il nome di un processo in atto, non di un fondamento; con Gaia ci manca la terra sotto ai piedi. Gaia non è neppure raffigurabile come una sfera, un globo, una totalità intera; la sua immagine è piuttosto l’intrico di un grande numero di anelli e di onde d’azione che agiscono e retroagiscono diffondendo i propri effetti in maniera imprevedibile. Interagire con Gaia significa quindi muoversi a tentoni, provando a intercettarla e seguirla con il maggior numero di strumenti possibili. Fra questi strumenti ci sono anche le epistemologie, le storie che i saperi raccontano.
Di quali storie e immagini ha bisogno questo spaesamento generalizzato? Per Latour occorrono narrazioni ed esperienze che consentano di sviluppare «una fusione lenta e progressiva di virtù cognitive, emozionali ed estetiche, ottenuta grazie a mezzi tramite cui gli anelli si fanno sempre più visibili – strumenti e forme d’arte di ogni sorta. A ogni anello, diventiamo più sensibili e più reattivi ai fragili involucri che abitiamo» (p. 143). Questo addestramento a nuove arti dell’immaginazione e dell’attenzione è forse uno dei compiti più preziosi di chi voglia impegnarsi, oggi, a rovistare fra le rovine dei discorsi e delle pratiche che abbiamo ereditato, per sperimentare nuovi bricolage e per provare a inventare tesori costruiti con rottami.
In questo breve ma densissimo volume, Jacques Lacan, una scienza di fantasmi, (Orthotes 2019) Federico Leoni continua il suo lavoro di originale rilettura delle riflessioni di Jacques Lacan, facendo funzionare il complesso, monumentale e oscuro svolgersi del pensiero dello psicoanalista parigino come pungolo per costruire nuove possibilità di traiettorie teoriche. Infatti, questo libro non vuole essere tanto un testo d’introduzione a Lacan quanto la continua interrogazione e scavatura di alcune delle sue più importanti riflessioni. Un’indicazione sulla lettura del testo ci viene direttamente dall’autore alla fine del libro: “Questo è un libro insistente. Ogni capitolo mostra una stessa cosa, che si presenta ora come Uno, ora come tratto, ora come voce, ora come mana, ora come fantasma, ora come oggetto, ora come gesto, ora come miniatura, ora come ideogramma.” (Leoni 2019, p. 173). Questa “stessa cosa” che Leoni ci mostra in Una Scienza di Fantasmi è l’evento – sempre attivo – dell’insorgenza e dell’inscrizione che produce il continuo processo di soggettivazione. Il libro è, allora, una sorta di indagine sul “supporto” di questo processo, non ritrovato in un fondamento certo e stabile quanto definito e perciò perduto, ma in una materia fluida e inafferrabile che anima la soggettivazione sempre in atto. Cercheremo di riattraversare l’insistenza di questa “stessa cosa” attraverso due vettori in particolare: l’Uno e la perversione.
La struttura di questo libro è permeata da una modalità particolare, che viene in qualche modo rivelato verso la fine del libro: l’obliquità. L’obliquità, o inclinazione, è proprio quella del diwan, del lettino freudiano, residuo della regressione ipnotica (anticamera della psicoanalisi). Questa strana angolatura, caposaldo del metodo clinico psicoanalitico, viene applicata costantemente nel testo sul continuo torcersi del pensiero dei filosofi interpellati. Questo non significa che i filosofi (fra i più presenti troviamo Leibniz, Kant, Cartesio, Bergson e Deleuze) vengano interrogati sui loro fatti privati, ma che le loro teorie, in qualche modo, vengano rese “spurie”, inclinate e condotte verso nuove possibilità. E non è un caso che nell’obliquità e nell’inclinazione ci stia anche la deviazione: infatti ciò che per eccellenza de-via in psicoanalisi è la per-versione, la negativa freudiana della nevrosi, ciò che modifica la rotta e batte strade nuove.
L’Uno, rintracciato e moltiplicato in varie figure (come il mana, il gesto, la voce, l’oggetto), è il protagonista indiscusso di questo libro e ne è anche il ritmo, la scia continua che permette ai molti percorsi anche eterogenei dipanati dall’autore di scandirsi in maniera sempre più coordinata. E, in qualche modo, da un punto di vista letterario, si potrebbe ascrivere questo libro di filosofia al genere del picaresco: assistiamo infatti a un continuo peregrinare avventuroso di questo Uno, dalla psicoanalisi lacaniana ai vari pensieri filosofici indagati, fino all’arte e alla letteratura. Un’altra maniera di mettere a fuoco la centralità di questo Uno ce la suggerisce Leoni stesso attraverso l’altro protagonista di questo libro, il fantasma, paradossalmente più nascosto rispetto alla onnipresenza dell’Uno. L’Uno è il fantasma di questo saggio filosofico, nel senso che è la cornice che anima la sua struttura e attraverso la quale si determina un continuo assemblaggio fra psicoanalisi e filosofia.
L’Uno non è, però, una nozione priva di ambiguità e addirittura strane sorte di pregiudizi sia nell’ambito filosofico che in quello della psicoanalisi lacaniana, come nota Leoni stesso. Sul lato filosofico, nel testo si insiste su come l’Uno sia uno dei marchi dell’elaborazione filosofica sin da Platone e dal platonismo (in Plotino l’Uno trova il suo apice) e non a caso Leoni riprende il Parmenide di Platone che si interroga sull’Uno e il Moltepice (Leoni 2019, p. 103). D’altronde lo stesso Lacan a suo modo notava nel seminario XVI (La logique du fantasme, ancora inedito in italiano) che Platone e Plotino sono fra i pochi filosofi che non cadono nell’errore di sovrapporre Essere e Uno e che riescono a fornire una riflessione specifica su questa dimensione dell’Uno (Leoni 2019, p. 21). Nonostante ciò, secondo Leoni, “dell’Uno non ne è più nulla, nella filosofia, da un certo punto in poi, e salvo diramazioni preziose quanto isolate” (p. 6).
Sul lato psicoanalitico si può dire che il tema dell’Uno emerge in punti diversi dello svolgimento dei seminari lacaniani. All’inizio più che essere un Uno filosofico, l’uno lacaniano è l’eredità dell’einziger Zug (tratto unico o unario) del Progetto di una psicologia freudiano del 1895. Da qui Lacan inizia a elaborare la nozione di tratto unario, che definisce una visione dell’incidenza del significante a partire da un tratto traumatico originario e di “partenza” per l’identificazione e perciò soggettivazione (Seminario IX). Più tardi questo tratto unario assumerà forme differenti nel Seminario XVII subendo una torsione e divenendo S1, il significante padrone cui ci si identifica e da cui origina la catena significante. Solo a partire dal Seminario XIX Lacan (2011) inizia a porre la questione di un Uno filosofico-psicoanalitico, e lo fa confrontandosi soprattutto con Platone e la teoria degli insiemi di Cantor e Frege. Insomma, sembra che si passi da un uno dalla lettera minuscola all’Uno con la maiuscola. Quando Miller (2013) ripercorre le riflessioni di Lacan sull’Essere e l’Uno mette in luce come Lacan passi da una “ontologia” (o ancor meglio una para-ontologia) a una “henologia”, un discorso sull’Uno. Nella lettura milleriana l’Uno di questo Lacan è esemplificabile nella messa a fuoco della dimensione del “corpo che si gode”, narcisisticamente e autisticamente, che diviene sempre più centrale nella costruzione teorica lacaniana. L’immagine dell’Uno che si è andata a definire sempre di più nella psicoanalisi lacaniana è quella concentrata dalla formula milleriana dell’Uno-tutto-solo o Uno-senza-Altro, che rifugge dalla dialettica che si istituisce fra un soggetto e l’Altro, per richiudersi su sé stesso in un godimento sterile e “perverso”. Ma è proprio a partire da un’altra lettura della perversione che Leoni vuole riconsiderare filosoficamente la nozione di Uno psicoanalitico, con l’obiettivo di mostrarne una dimensione nascosta e ricavata proprio dalla elaborazione lacaniana.
Joseph Cornell, Music box, hotel eden (1945)
La perversione, nell’ambito clinico lacaniano, viene spesso indicata come quella struttura per la quale il soggetto si colloca nella posizione di oggetto inscalfibile, scaricando sull’Altro l’angoscia generata in lui dalla divisione inferta nel soggetto dal linguaggio. Il perverso vuole dividere l’Altro, proiettare su di lui l’angoscia della castrazione che non intende sostenere su sé stesso addirittura arrivare ad angosciare Dio, l’Altro per eccellenza (Recalcati, 2016; Lacan, 2004).
Un altro modo di dire la questione della perversione (ed è a partire da questa altra angolazione che parte la riflessione di Leoni), non contraddicendo necessariamente le altre letture ma facendo emergere un lato “positivo-creativo”, è che il soggetto della perversione “comprende” la struttura e il funzionamento del linguaggio e che in qualche modo usi questa “competenza” riversandola sull’Altro. È in questo senso che, nella prospettiva della teologia psicopatologica paolino-lacaniana suggerita da Leoni nel primo capitolo, se il nevrotico vive nel dramma innescato dalla Legge e lo psicotico non riconosce, forclude questa dimensione della Legge, non accedendo completamente al Simbolico, il perverso conosce questa Legge per negarla e superarla, per andare aldilà di essa e collocarsi al posto di Dio (pp. 8-11). Il soggetto perverso si sistemerebbe nella posizione di colui che scrive, letteralmente crea la Legge, addirittura identificandosi con essa. In questa direzione, si può suggerire, a ulteriore chiarimento, l’immagine prototipica data dall’inserto filosofico-politico di Sade (autore caro a Lacan) all’interno della sua Filosofia nel boudoir. Qui viene messo in luce come il perverso conosca lo strumento della Legge e del suo istituirsi e come utilizzi questo sapere per creare e immaginare un nuovo tipo di società iperbolica, sebbene basata su principi razionali, macabramente illuministici e “formalizzati” su un piano giuridico-filosofico.
A partire da questo lato creativo della posizione soggettiva della perversione, Leoni ci interroga sulla possibilità di concettualizzare la filosofia non come un processo paranoico (la diagnosi che Freud aveva, a suo tempo, affibbiato, e con una certa logica, alla filosofia) di iperuniversalizzazione e astrazione, purificazione dei pensieri e dei concetti. Piuttosto l’autore ci spinge a immaginare la filosofia come un processo perverso, la messa in atto di una possibilità di continua scrittura e riscrittura creativa del pensiero e del mondo a partire dall’invenzione filosofica.
C’è qualcosa come un’altra perversione, qualcosa come un altro scatenamento del possibile, che quella costellazione di pensatori cerca di mettere a fuoco. Misurarsi con la morte di Dio significa misurarsi con quest’altra perversione, con quest’altro scatenamento del possibile. Nuovi possibili si rendono possibili, nuovi impossibili si disegnano a margine di quei possibili. […] [Il perverso] Si mette al posto di Dio, e crea i possibili, o dice che al posto di Dio non c’è nient’altro che questa incessante creazione dei possibili. (Leoni 2019 p. 79)
Infatti, si può dire che la scrittura leoniana di questo testo sia in un certo qual modo perversa, producendo deviazioni, scatenamenti e misurandosi con un’esplorazioni dei possibili. Nel quinto capitolo, Leoni si riallaccia, e non a caso, proprio alla figura di Bafometto (p. 85), principe infernale delle metamorfosi e idolo templare protagonista del romanzo del filosofo “perverso” Klossowski. Nel testo klossowskiano, infatti, si esplicherebbe una condizione di continua trasformazione e implicazione di “tratti dentro altri tratti”:
Ogni tratto di divenire sposta ogni altro tratto implicandolo nel proprio percorso, facendo di ogni altro tratto un proprio segno e facendo di sé stesso un segno di ogni altro tratto. Qui leggere è fare, interpretare è fabbricare. Per questo il lettore dei segni di quel cosmo non va immaginato come davanti a un libro, immune ai segni che sta decifrando, ma come un segno esso stesso, e come un fabbricatore esso stesso. (Leoni, 2019 p. 89-90)
Dunque, in questa direzione obliqua e deviata, l’Uno inizia ad apparire non tanto come un Uno che accade, uno spazio definito nello spazio-tempo o nel soggetto, quanto il supporto continuo, la piega nel soggetto che permette che una soggettivazione, continuamente in genesi e in divenire, accada (Leoni 2019 p. 51). Dunque, se questo Uno non è l’Uno-tutto-solo della perversione, che Uno perverso della creazione sarebbe? L’Uno, che qui viene ripreso a partire dal Seminario XIX di Lacan (2011), non è semplicemente un momento atavico, uno stadio larvale della soggettività che precede cronologicamente l’incontro del soggetto con l’Altro. Viene, invece, indicato come quell’evento, o ancora meglio come quel rimasuglio dell’evento (eco de l’Y a d’l’Un lacaniano) che permette strutturalmente l’emergere di una dialettica fra il soggetto dell’Altro. L’Uno non sarebbe, dunque, un soggetto che può mettersi in dialettica con un Altro (e che eventualmente sceglie di non farlo) ma sarebbe l’evento stesso della possibilità di un’emergenza del rapporto fra un soggetto e l’Altro, in altre parole il suo supporto. È come dire che nell’Uno sta già il Due e il molteplice, nel senso che l’Uno permette, ponendosi come fondamento, l’articolarsi fra più elementi, fra più Uni:
Ovvero, che c’è dell’Uno, c’è l’operazione di un Uno molto più profondo o molto più superficiale di così, un Uno che non sta né dalla parte dell’uno né dalla parte dell’altro, ma che distribuisce le parti e opera la divisione, non cessando un istante di non-dividersi al fondo della divisione stessa. Questo Uno è nella stessa posizione dell’Altro, anzi è l’Altro stesso, ma come il suo accadere. L’Uno è l’Altro che accade, o l’Altro è l’Uno ormai accaduto. L’Altro è il regime dei rapporti istituiti, l’Uno è l’istituirsi di quei rapporti. (Leoni 2019 p. 35)
Uno, dunque, che nel suo continuo mettere in atto la divisione senza esserne compromesso (una sorta di fondo psicotico a ogni nevrosi), mostra la natura continuamente metamorfica della soggettivazione, del suo incessante divenire all’interno di una logica sostenuta dallo scandire di questo Uno fondamentale. Dunque, nella lettura di Leoni, se l’Altro è il “regime” dove si sono dati dei legami e delle leggi secondo un ordine simbolico (istituito), l’Uno sarebbe il supporto che permette che questi rapporti si istituiscano senza esso si istituisca mai.
Ancora, per rimanere nel solco del complesso svilupparsi della riflessione lacaniana attraverso i suoi seminari, il tratto unario, l’elemento di identificazione a un tratto dal soggetto che fa partire la sua soggettivazione, è sostenuto dalla dimensione dell’uniano, appunto da quel yadlun (“c’è dell’uno”) inassimilabile e allo stesso tempo motore e supporto della possibilità di far partire la soggettivazione dall’identificazione del tratto unario. Certo, seguendo Lacan non troviamo un Uno tutto-pieno, monolitico e compatto, le sue fondamenta sono instabili. L’Uno lacaniano del Seminario XIX è rappresentabile, infatti, da una sacca vuota con un buco: «Si vous en voulez une figure, je représenterais le fondement du Yad’lun comme un sac. Il ne peut avoir l’Un que dans la figure d’un sac, qui est un sac troué» (Lacan, 2011 p. 147) [1]. Insomma, di questo Uno non si sa mai quanto ce n’è davvero dentro al sacco.
[1] Se volete una figura, io rappresenterei il fondamento di Yadl’un come un sacco. Non si può avere l’Uno se non dentro la figura di un sacco, che è un sacco bucato. (traduzione mia)
Non è un caso che l’Uno di Lacan sia inavvicinabile dal linguaggio ordinato dell’istituirsi del simbolico e che lo psicoanalista francese idei proprio per questo Uno il neologismo yadlun. Questo ci porta nella dimensione della lalangue (che Leoni incrocia nell’indagine su grido e voce nel capitolo otto) di una lingua primitiva rispetto all’intervento regolativo e differenziante del simbolico, capace dunque di mostrare, più che significantizzare, l’ambigua e inafferrabile consistenza di questo Uno.
E se Leoni ci indica un modo per immaginare come un soggetto venga fuori da questo Uno è attraverso l’immagine di un piano che si piega su se stesso, producendo una singolarità in continua trasformazione, la soggettivazione sempre in divenire. È così che il soggetto appare come una monade, piega e unità singolare in cui tutto il mondo si inclina attraverso quel particolarissimo vertice che è il fantasma, meccanismo di cornice-interfaccia della realtà e allo stesso tempo suo assemblaggio. Il fantasma è, infatti, già nella riflessione lacaniana, la dimensione che permette al soggetto di aprire una vasta gamma di possibili incontri con l’oggetto piccolo a. S◊a, il matema del fantasma che Lacan (2013) indica nel Seminario VI, va a significare proprio questo: il punzone ◊ che contiene in sé più simboli (maggiore, minore, et, vel) rappresenta la plurimità delle possibilità di rapporto fra il soggetto diviso (S) del desiderio e l’oggetto causativo del desiderio, l’oggetto piccolo (a), resto di una delle forme dell’Uno lacaniano, Das Ding, la Cosa perduta per sempre dal soggetto nella rimozione originaria.
Jacques Lacan (Roma, 1974)
Certo, ogni singolarità, ogni soggetto non può solo creare a partire dal suo fantasma ed è inevitabilmente posto sotto il giogo della legge della coazione a ripetere. Eppure, partendo da una sorta di teoria della registrazione, Leoni nell’ottavo capitolo mette in luce come anche la più fedele registrazione sia in qualche modo una deformazione, un cambiare strada, un de-viare dall’originale (Leoni 2019 p.129). In questo senso ci viene da suggerire l’associazione a un pensatore a suo modo decisamente perverso, William S. Burroughs, che insisteva sul ruolo dello scrittore come registratore, come supporto apparentemente passivo degli avvenimenti della realtà: “Uno scrittore può scrivere soltanto di una cosa: di quello che c’è davanti ai suoi sensi al momento di scrivere… Sono uno strumento di registrazione… Non presumo di imporre una “storia”, una “trama”, una “continuità”…” (Burroughs 1959 p. 199). Nonostante ciò, la vera operazione di Burroughs non si risolveva qui: lo scrittore per lui non si può limitare a ripetere a pappagallo ciò che della realtà si imprime su di lui ma ricostruisce e trasforma il testo della realtà attraverso tagli, sovrapposizioni e giustapposizioni attraverso cui inserisce nella ripetizione un brulicante continuo differenziarsi dentro al testo stesso attraverso la tecnica del cut-up, in cui il testo viene tagliato e poi ricomposto, e la tecnica del fold-in, dove, ancor più significativamente, il testo viene piegato su se stesso.
Pieghe e monadi, dunque, sono le forme filosofiche attraverso le quali Leoni ci vuole restituire una visione della soggettivazione vista dalla prospettiva di una scienza dei fantasmi, delle singolarità. Quello che si configura in questa scienza dei fantasmi è una posizione etica (Leoni p. 105) per indagare il soggetto nella sua prospettiva singolare a partire da una presa in carico del fantasma da cui lo si guarda, indicazione questa preziosa anche per la clinica. Scienza assolutamente soggettiva da una parte e dall’altra, invece, “unica scienza rigorosa”, con le parole di Husserl, perché consapevole di indagare il fantasma a partire da una cornice che è già a sua volta un fantasma:
Che cosa sa, infatti, la scienza del fantasma? Che il fantasma è tanto il fantasma “verso cui” essa guarda per scrivere e descrivere, come suo oggetto di studio; tanto il fantasma “da cui” essa scrive e grazie a cui essa descrive ciò che descrive; quanto il fantasma “in cui” essa scrive, cioè lo spazio e l’esigenza e lo strumentario e la ragnatela di strade resesi possibili, entro cui la sua scrittura, la sua descrizione si muove.” (Leoni 2019 p. 105)
Dunque, la scienza del fantasma auspicata da Leoni sarebbe una scienza capace di mettere in luce la cornice verso cui si tende nella scrittura, la cornice “oggetto di studio”, ma anche la cornice da cui si scrive (in qualche modo, un riconoscimento del fantasma dell’autore) ma soprattutto “ragnatela di strade resesi possibili”, l’esplicazione effettiva “in cui” questa scienza scrive e si dipana. È in questo senso che il testo propone non solo una questione “epistemologica” ma soprattutto una dimensione etica, di riconoscimento e di accoglimento del fantasma singolare all’interno dell’elaborazione del pensiero, che ne è la cornice stessa ma che costituisce anche il metodo di assemblaggio degli oggetti di studio, modificandoli. A partire dalla definizione di questa scienza, Leoni negli ultimi capitoli del libro ci permette di vedere almeno due vertici a partire dai quali si può fare una scienza di fantasmi. Da una parte troviamo il filosofo “perverso”, che dopo Nietzsche è costretto a confrontarsi con la morte di Dio e alle nuove possibilità che gli sono date da scriversi. In qualche modo il filosofo perverso è un filosofo della contingenza lacaniana, colui che fa passare “ciò che non cessa di non scriversi” al “ciò che cessa di non scriversi”. Dall’altra, invece, in una posizione differente da quella del filosofo troviamo lo psicoanalista, che può manifestarsi attraverso più forme di singolarità: cadavere, santo (saint homme) e addirittura idiota. A differenza del filosofo, che fa emergere nuovi possibili attraverso assemblaggi fantasmatici, nella posizione di colui che “crea”, lo psicoanalista si pone in una posizione di annullamento, di “cadaverizzazione”, per permettere all’analizzante di incontrare e attraversare il suo proprio fantasma singolare.
Una scienza di fantasmi, per concludere, è un libro che, fedele alla scena carrolliana descritta da Deleuze in Logica del senso, ci mostra uno scorrere obliquo e continuo di Uni, oggetti, figure, disegnando una ragnatela di associazioni attraverso le quali si inizia a vedere un fantasma emergente, una cornice ritmica. Questo testo vuole già essere, dunque, una messa alla prova di una possibile scienza dei fantasmi che animano il soggetto, lasciando libero di emergere, unico e singolare, un fantasma che anima la complessa struttura del testo:
Ciò che essa sa, e insieme ciò che essa fa, è conoscere e perciò spostare l’oggetto. Non si può conoscere il fantasma senza spostarlo. In parte perché lui stesso è mobile, metamorfico, consegnato a una perenne fibrillazione dei disparati che lo compongono. In parte perché noi stessi siamo mobili, noi che lo studiamo, noi con la nostra scienza del fantasma, la scienza stessa del fantasma che non è mai di fronte al fantasma ma è sempre spinta dal fantasma e immersa nel fantasma, dunque che è fantasma a tutti gli effetti. Se così è, la scienza del fantasma è un’arte che accompagna. (Leoni 2019 p. 105)
di Lorenzo Curti
Bibliografia:
Burroughs, W. S. (1959), Pasto nudo, tr. it. F. Cavagnoli, Adelphi, Milano 2012
Lacan, J. (2004) Seminario X. L’angoscia, tr. it. A Di Ciaccia e Adele Succetti, Einaudi, Torino 2007
Lacan, J. Séminaire XIX …ou Pire, Seuil, Paris, 2011
Lacan, J. (2013) Seminario VI. Il desiderio e la sua interpretazione, tr. it. A. Di Ciaccia e Lieselotte Longato, Einaudi, Torino 2016
Miller, J. A. L’Essere e l’Uno. La Psicoanalisi, 53/54, Astrolabio, 2013, pp. 177-227
Leoni, F., Jacques Lacan, una scienza di fantasmi, Orthotes, Napoli-Salerno, 2013
Recalcati, M., Jacques Lacan. La clinica psicoanalitica: struttura e soggetto. Raffaello Cortina, Milano, 2016
Il libro di Manlio Iofrida, Per un paradigma del corpo: una rifondazione filosofica dell’ecologia, uscito per Quodlibet alla fine del 2019, si presenta come uno snodo ricco e importante per un approccio teoretico, etico e critico all’attuale questione ecologica. In questo senso, il libro s’inserisce nel cuore stesso del dibattito – non solo italiano – incrociando tematiche come il corpo, il concetto di Natura, lo statuto filosofico del vivente e della sua relazione con la tecnica (a questi temi si aggiungano la critica della cultura, la storia dell’arte, il dialogo tra filosofia e altri campi del sapere, i rapporti tra la cultura Europea e i suoi grandi altri ecc.).
Il libro assume quella che potremmo definire un’ottica cosmopolitica e si presenta come il crocevia d’intuizioni, idee e riflessioni che animano il gruppo di ricerca Officine Filosofiche(il gruppo gestisce anche un’omonima collana editoriale), fondato e diretto dallo stesso Iofrida assieme a Ubaldo Fadini. Molti argomenti sviluppati nel libro intrecciano le principali linee di lavoro del gruppo, contribuendo così a fare dell’ecologia filosofica uno dei campi di ricerca più innovativi e stimolanti dell’attuale panorama filosofico italiano.
Si può dunque comprendere, sin da queste prime considerazioni, che riportare in maniera analitica o anche solo accidentale tutti gli impliciti teorici – nonché la profonda erudizione dell’autore che conferisce all’ecologia un ampio spessore culturale – è compito improbo per una recensione e, probabilmente, anche inutile. Quel che ci proponiamo di fare in questa sede è di attraversare il testo in maniera “libera” tentando di esplicitare alcuni aspetti che sembrano restituire, nella parzialità della nostra lettura, alcune delle intenzioni di base dell’autore.
Non si può non partire dalla centralità teorica del tema del corpo che, non nuova nel lavoro di Iofrida, si richiama esplicitamente all’opera complessiva di Merleau-Ponty e all’attualità del suo concetto di Natura (pp. 19-31) «come limite che la cultura non può sorpassare» (p. 30). Sotto tale aspetto, questo studio si riallaccia (pp. 9-16), pur con oltre dieci anni di distanza, al precedente lavoro dell’autore Per una storia della filosofia francese contemporanea: da Jacques Derrida a Maurice Merleau-Ponty. Dire che questo sia un libro “merleau-pontyano” è senza dubbio corretto e tuttavia rischierebbe di schiacciarne la profondità su un “arroccamento” teorico, una semplice riproposizione ermeneutica. Devono essere menzionati, infatti, almeno altri due autori classici presenti come linee di basso nell’architettura del testo: Schelling ritorna diffusamente nel testo, utilizzato in chiave anti fichtiana-attualista (pp. 38, 141) o hegeliano-sintetico (anche se Hegel resta comunque un autore importante nell’impostazione ecologica iofridiana, pp. 138-140); ma è soprattutto il Kant della Critica della facoltà di giudizio a fornire un’impalcatura teorica di primo piano (vanno, poi, almeno ricordati i nomi di Goethe, Schiller e Adorno, per completare la batteria tedesca di riferimento, cfr. pp. 47-52). Ci sia concesso dunque di entrare nel vivo del libro approcciandolo alla lontana, così da poter restituire, se non altro, il profumo della complessa architettonica di Iofrida.
In siffatta architettonica, l’ecologia non si presenta tanto, né solo, come una disciplina scientifica (pp. 45-47) ma, potremmo dire, si tratta di una questione di gusto, di istituire un paradigma del gustoecologico. Come si può intuire, molto lessico di Iofrida è intriso di una semantica post-kantiana. Il gusto, permettendoci l’ardire di parafrasare Kant, è quella strana facoltà di giudicare secondo sentimento (leggendo in questa chiave il giudizio riflettente).
Sappiamo anche che il sentimento è un vero e proprio mondo intermedio che si situa tra la facoltà di conoscere e quella di desiderare, ossia tra l’intelletto e la ragione, tra la “necessità naturale” e la “libertà umana” (che Iofrida definisce prometeica, cfr. pp. 59-61). Dire, dunque, che l’ecologia è questione di gusto significa affermare che essa si situa nel mezzo di un’ardita relazione tra la Natura e la Cultura – dualismo principale di molte riflessioni ecologiche. Ma, altresì, ci dà delle informazioni sugli aspetti “filosofici” dell’ecologia: il gusto, sappiamo dal §40 sul senso comune della Terza Critica, va educato. L’ecologia, secondo Iofrida, non consiste né nella descrizione di uno stato di cose oggettive (ci sia concessa la banalizzazione: filosoficamente, l’ecologia non può essere ridotta a una disciplina naturalistica) né, occorre fare attenzione, nella prescrizione di massime della ragione (che si limiterebbe a un greenwashing della Ragion Pura Pratica): l’ecologia è filosoficamente fondata nella misura in cui è capace di una vera e propria educazione sentimentale. Così, l’ecologia filosofica non è né scientifica (occorre «declinare l’ecologia come critica anti-intellettualista», p. 54) né morale («non si pone come sussunzione dominante», p. 119), ma è intimamente etica (l’ecologia, ci ricorda l’autore, è un pensiero della finitezza, pp. 52-56). È a partire da una esigenza etica (e, con Merleau-Ponty, connesso a un certo spinozismo schellinghiano, da un’esigenza anche ontologica) che va letta la proposta di un paradigma del corpo. Non si tratta, così, di fondare un principio di rappresentazione, o massime pratiche, ma di sviluppare delle ipotesi etiche, per dir così, da un punto di vista pragmatico.
Maurice Merleau-Ponty
Fatta questa premessa, possiamo addentrarci in alcuni aspetti concettuali. Uno dei concetti chiave per leggere la proposta iofridiana è quello di inerenza (pp. 29-31). Di matrice fenomenologica, l’inerenza è un fenomeno corporeo e rimanda a una «ontologia relazionale» (p. 41) che si pone in antitesi tanto con le ontologie costruttiviste del pensiero debole (p. 43) quanto con le ontologie realiste di certi modi di intendere il materialismo (pp. 60-61). L’inerenza è il concetto cardine di un’ecologia che si propone di lavorare in chiave ontologica sulla «nostra relazione coi milieux» (p. 41) – i riferimenti sono alla «geografia […] fenomenologica» (p. 39) di A. Berque: la relazione degli “individui” con gli ambienti (o paesaggi) «non è quella della sostanza pensante con la sostanza estesa; […] piuttosto c’è uno sconfinamento, un’interpenetrazione» (p. 41). L’inerenza ci offre una cifra filosofica importante: essa è la relazione chiasmatica – è evidente nel lessico iofridiano l’influenza di Merleau-Ponty – del vivente con i suoi dintorni, le sue Umwelten, il co-appartenersi di individuo e ambiente. Intreccio, potremmo dire, della parte con il tutto.
In quanto etica ontologicamente orientata, l’ecologia si interessa non alle partizioni sostanziali – che comportano, sul piano etico, la costruzione di un’impalcatura morale – bensì agli assunti relazionali (ci sia concessa un’assonanza col lavoro di Giuseppe Semerari 2009) che solo centrando l’analisi filosofica sulle potenze corporee possono essere messi in risalto. Questa inerenza, che è una mediazione senza soggetto – e che anzi produce soggettività – non è pensabile come Aufhebung, bensì come un’unità senza concetto (p. 115) attuata per il tramite del corpo «e la sua apprensione orizzontale del mondo» (p. 25). L’esigenza di un paradigma del corpo è dunque insito nella tematica stessa della relazione ecologica, così che, per Iofrida, ogni ecologia, sul piano etico, non può non passare – anche implicitamente, come traspare mediante la critica alla smaterializzazione postmoderna (pp. 67-68) – per il tramite di un paradigma del corpo.
Il problema del corpo è però l’altra faccia di un ulteriore assunto di Iofrida, ovvero l’idea complementare che la Natura non sia un oggetto (p. 45) e che il vivente non sia meccanizzabile (p. 30). Il rischio di interpretare in chiave puramente valoriale, facendo di tali assunti delle massime della Ragione, è grosso. Occorre dunque tentare di essere chiari, ancora una volta, sul lessico dell’autore. Siamo pur sempre, lo si è detto, sul piano del giudizio riflettente. I riferimenti sono ancora all’opera di Merleau-Ponty e, tramite lui, Schelling e Kant. In ultima istanza, l’orizzonte concettuale ci appare ancora di matrice kantiana. L’idea che il vivente non sia meccanizzabile vuol dire che lo specifico fenomeno di inerenza dell’umano agli altri viventi (che compongono i suoi dintorni) non è un rapporto conoscitivo, o intellettuale, né tuttavia un rapporto pratico. Non è conoscitivo perché, in quanto soggetti empirici, non tutti gli umani sono “scienziati”, e questo non pone particolari problemi. Ma non è neppure un rapporto pratico, perché non è possibile estrapolare una massima categorica da questa idea: non tutti i viventi possono agire conformemente a scopi (tralasciamo i motivi di tale impossibilità). L’idea che il vivente non sia meccanizzabile non è un enunciato che riguardi il regno della libertà. Concessa la formula, quella tra viventi non è una relazione tra esseri (radicalmente) liberi, situandosi, invece, nel regno intermedio tra la necessità dell’oggetto naturale e la libertà radicale del soggetto trascendentale (Merleau-Ponty 1996, 312-313).
Il problema del vivente – che possiamo anche chiamare, se ci è concesso, il problema della finalità senza scopo – è un problema sentimentale e affettivo. È ancora un paradigma del corpo che permette di comprenderlo: un corpo è il medium non solo, e non tanto, della natura e della libertà, bensì della inerenza al mondo e agli altri viventi. È mediante il corpo – un’utilità non strumentale – che si è costitutivamente aperti ad altre modalità dell’esistere e del vivere. Una mediazione senza soggetto che si fa nel mezzo delle relazioni inter-individuali: l’inerenza come vero e proprio fenomeno trans-individuale, contatti molteplici e variegati tra corporeità (cfr. Merleau-Ponty 1996, 254-261). Appare, in queste considerazioni, un altro dei concetti cardine della proposta di Iofrida, concetto che crea un ponte col suo lavoro precedente: si tratta della nozione di libertà strutturale. Una concezione strutturale – o ecologica – della libertà comporta che essa non sia la radicale assenza di limiti, bensì che trovi la propria potenza esistenziale ed espressiva nella composizione delle relazioni, nella ricchezza e varietà degli affetti e degli incontri corporei.
Pino Pascali, Balena, 1965-66
È una libertà che non è competenza di una filosofia della prassi, ma di un’etica, come accennato, dal punto di vista pragmatico. Un’ecologia della libertà richiede pratica e attenzione [Aufmerksamkeit] (p. 146), un’educazione sentimentale finalizzata a un uso ragionevole degli affetti. Insomma, la libertà, in una prospettiva ecologicamente orientata, presuppone una capacità tecnica. È in quest’ottica che leggiamo, infatti, la proposta di Iofrida di una tecnica ecologica (pp. 84-90). Si tratta di una formula ambigua, ma le ambiguità spariscono se non usciamo dalla semantica nella quale ci stiamo muovendo. Un tale epiteto, infatti, è lontano da un greenwashing delle attuali configurazioni tecnico-tecnologiche del tardo capitalismo: insomma, non si prospetta la necessità di una Green Economy. Si tratta, invece, di una concezione ecologica della tecnica che tenga conto del portato affettivo – cioè esistenziale e vitale – della tecnica.
In questo senso, una tecnica ecologica è di segno contrario rispetto alle attuali configurazioni produttive (si tratta di uscire dal dualismo manicheo «produzione o libertà», p. 60; andare al di là dell’alleanza demoniaca di capitalismo e schizofrenia, cfr. Pignarre & Stengers 2016) configurandosi invece come rivolta alla convivialità – tra umani e tra umani e non umani – incastonata nella complessità variegata degli ambienti di vita (fondamentale in quest’ottica il capitolo dedicato alla teoria dei sistemi, pp. 121-140). È ancora una semantica del giudizio: la tecnica rimanda all’arte, cioè una tecnica ecologica diventa una vera e propria arte dello stare in vita da parte dei viventi – ecologicamente, vi è tecnica ovunque vi sia fragilità e ostinazione della vita: occorre «concepire l’arte come un nuovo modo di rapportarsi al mondo […] poiché, già in se stessa, tale prassi priva di finalità è un’altra e superiore modalità di azione del nostro corpo vivente rispetto a quella meramente utilitaria, essa può essere punto di partenza di una prassi concreta […] e punto di arrivo di una costruzione dal basso, partecipata, intersoggettiva» (p. 152).
Senza dubbio si tratta di una concezione ottimistica della tecnica: nessuna caduta da un eden ormai perduto, né solo nichilistica distruzione della vita da accettare passivamente come un destino. Si tratta, invece, di un’arte pericolosa, quella dello stare in vita, proprio perché la vita – un vivente – è insieme ostinazione e fragilità: l’educazione sentimentale serve a saper «reggere delle crisi, saper gestire il rischio […], anche se rischio significa appunto che la crisi non è mai del tutto esclusa e che il disordine può avere sempre il sopravvento» (p. 123). È una concezione ecologica e ottimistica della tecnica, sì, ma non è il frutto di una anima bella (ecco comparire una certa ispirazione hegeliana). Rifacendosi al lavoro di Kurt Goldstein (2016), neurologo tedesco del secolo scorso, tra le fonti di Merleau-Ponty, Iofrida ci ricorda che «un organismo vivente, e l’uomo in particolare, è teso ad accrescere continuamente la propria complessità […]; esso cerca dunque la relazione e anche il conflitto, in un mondo in cui l’ordine è sempre un momento precario all’interno di una lotta di forze eterogenee che genera un perenne dinamismo» (p. 127).
Educazione sentimentale, teoria degli affetti e concezione tecnica del vivente: i tre capisaldi che istituiscono la fondazione filosofica dell’ecologia proposta attraverso un paradigma del corpo. Tale paradigma fa sì che un’ecologia filosofica si trovi a proprio agio non nel contemplare un’astratta e fondativa Natura Naturante, un’origine ormai perduta o distrutta dalla cattiveria dell’Uomo, bensì nel concepire modi possibili del vivere in comune, forme collettive di esistenza con i più ampi margini di gioco transindividuali, vincoli che non obbligano capaci di aumentare le potenze esistenziali e le capacità creative dei viventi umani e non (è questo il principale rimando al concetto di natura di Merleau-Ponty). Si tratta di una concezione minoritaria della storia, del divenire minoritario dell’umano, dei suoi affetti, delle sue ibridazioni, delle sue contaminazioni (cfr. Deleuze & Guattari 2015, 349-357). Una storia minore che non ha la Natura come Grande Altro, bensì che è caratterizzata dalla sua inerenza all’elemento naturale, alla sua imprevedibilità, alle sue complessità ontologiche (ma anche epistemologiche, dato che, ecologicamente, l’ontologia è inscindibile da un’epistemologia): si tratta di una storia universale della contingenza (Deleuze & Guattari 2002, 86).
L’ecologia filosofica proposta da un paradigma del corpo è così una filosofia artistica, un’arte, pericolosa e sublime a un tempo, del vivere insieme, del condividere la Terra con altri viventi (l’Autore parla di «un materialismo della Terra», p. 44). Un’arte, per chiudere restituendo il ruolo di Michel Foucault nel nuovo paradigma ecologico (pp. 205-211), che sia una «estetizzazione della vita come progetto condiviso di una comunità di eguali che dialogano e, esercitando la socievolezza, istituiscono con il mondo e gli altri una relazione che non è quella della ragione strumentale, brutalmente utilitaria, ma che può a tutti gli effetti definirsi ecologica: non è il bello quella dimensione sempre mobile di limite in cui ci apriamo al mondo e agli altri non in funzione di un dominio, ma per essere passivi quanto attivi, copresenti in una relazione con l’alterità che può definirsi col termine, anch’esso fenomenologico, di attenzione?» (p. 211).
Bibliografia minima
Deleuze, G. & Guattari, F. (2002; ed or. 1991). Che cos’è la filosofia?. Torino: Einaudi.
Deleuze, G. & Guattari, F. (2015; ed. or. 1980). Mille piani. Capitalismo e schizofrenia 2. Tr. it. G. Passerone. Roma: Castelvecchi.
Goldstein, K. (2016; ed. or. 1934). L’organismo. Un approccio olistico alla biologia derivato dai dati patologici nell’uomo. Tr. it. L. Corsi. Roma: Fioriti.
Merleau-Ponty, M. (1996; ed. or. 1995). La natura. A cura di M. Carbone. Milano: Cortina.
Pignarre, P. & Stengers, I. (2016; ed. or. 2005). Stregoneria capitalista. Pratiche di uscita dal sortilegio. Tr. it. di S. Consigliere e A. Solerio. Milano: IPOC.
Semerari, G. (2009; ed. or. 1961). La filosofia come relazione. Milano: Guerini.
Un antico canto degli Indiani d’America recita: “I vecchi dicono che solo la terra dura. Diceste la verità. Avete ragione”. In effetti, mentre gli Indiani se ne stanno nelle loro Riserve, la terra del continente nordamaricano – che fu la loro – se ne sta ancora lì, con i suoi canyons, le sue praterie e le sue foreste. E questo vale per l’intero pianeta: un po’ malconcio, sommerso di rifiuti, esso se ne sta ancora lì. Anzi: come ci suggerisce Leopardi nel Frammento apocrifo di Stratone di Lampsaco, magari questo mondo passerà, ma poi ne verranno altri: «venuti meno i pianeti, la terra, il sole e le stelle, ma non la materia loro, si formeranno di questa nuove creature, distinte in nuovi generi e nuove specie, e nasceranno per le forze eterne della materia nuovi ordini delle cose ed un nuovo mondo». E magari ben prima dell’apocatastasi che porterà alla sparizione di questo mondo per dar poi vita a un altro noi saremo ben che scomparsi per via di un nuovo virus, più potente e micidiale del coronavirus che tanta paura di morire sta inducendo a molti nostri conspecifici. Dobbiamo mettere per questo da parte ogni preoccupazione per la salute del pianeta e assumere un atteggiamento distaccato e disincantato, tale per cui ci diciamo che in fondo il mondo – e gli infiniti cicli cosmici – non ha bisogno di noi, che noi siamo solo abitatori provvisori del pianeta, e che dunque possiamo tranquillamente starcene qui a guardarci l’ombelico meditando sulla caducità nostra e di tutte le cose? Un simile atteggiamento – per altro rispettabile e sensato – dimentica però una cosa, ovvero che festeggiare la terra non significa contemplare gli enti non umani che ci circondano per ricavarne un qualche piacere estetico nel caso siano belli e armoniosi, né significa meditare sulla nostra caducità, il pensiero della quale affiora immediato proprio dalla visione malinconica della bellezza di campi fioriti e uccellini svolazzanti (come ci viene ricordato da Freud in un suo breve ma intenso saggio intitolato appunto Caducità). Festeggiare la terra significa ricordare che essa è la nostra nicchia ecologica, e che dunque siamo toccati direttamente dal suo stato di salute (se mi passate questa metafora impropria: è ovvio in realtà che la salute del pianeta non cambia poi di molto se si verifica un riscaldamento globale di qualche grado).
Ambrogio Lorenzetti, Allegoria del buon governo, Palazzo pubblico di Siena 1338-1339
Il romanticismo, insomma, aiuta poco se è in ballo una associazione di qualche tipo tra la terra e noi che la abitiamo. Posto che questa duri anche senza di noi, è di noi in quanto suoi abitatori che dovremmo insomma preoccuparci. E questo proprio in vista di una possibile e auspicabile diffusione di una maggiore coscienza ecologica. Perché mai gli umani dovrebbero oggi preoccuparsi di quanto sarà duro abitare domani un pianeta con un clima peggiore di quello attuale, con meno acqua, magari devastato da guerre causate dal riscaldamento globale? Aspettarsi dagli umani – sia individualmente che collettivamente – una qualche capacità di far fronte a rischi futuri è profondamente erroneo. La pandemia in corso – tanto per fare un esempio – era stata ampiamente prevista, ma tutti sapevano che essa avrebbe colto tutti i paesi del mondo impreparati.
Parrebbe allora meglio far leva su un argomento molto semplice e banale, che comunque aiuta a non troppo indirettamente a dare corpo a una coscienza ecologica più matura. È nel nostro interesse che il pianeta se la passi bene: se vogliamo continuare a godere dei beni di cui godiamo, almeno per un tempo che è in fondo quello di una generazione (un tempo quindi afferrabile intuitivamente), continuare a sfruttare le risorse del pianeta come se fossero inesauribili potrebbe rivelarsi una scelta assai poco razionale.
L’argomento, sulle prime attraente, fa però acqua da tutte le parti. Presuppone sia che gli umani si comportino in modo razionale, sia che sappiano qual è il proprio bene. Così non è quasi mai – o, più chiaramente, quasi mai le due cose coincidono. Di conseguenza, alla festa della terra si dovrebbe arrivare non muniti delle migliori intenzioni (che sappiamo dove portano) ma con un dono che piove dal cielo, una sorta di deus ex machina: la Giustizia. Essa sola fa del bene sia alla città che alla campagna, per così dire, ovvero sia al bisogno di produrre e consumare, sia al bisogno di godere di quei beni comuni che non possono appartenere a nessuno e che hanno lo scopo di permettere agli umani di stare bene sulla terra – come si vede nell’affresco di Ambrogio Lorenzetti nella Sala dei Nove del Palazzo Pubblico di Siena raffigurante l’Allegoria del buon governo, un’opera che per certi versi potremmo definire “ecologica” ante litteram. Senza un governo dei collettivi che sappia coniugare la libertà di intraprendere e di fare profitti con la giustizia, senza insomma un nuovo modello di sviluppo – sarà ormai banale dirlo, lo si ripete da decenni, ma il punto è sempre questo – una qualche forma di convivenza “ecologica” nella nicchia che abitiamo resterà sempre un pio desiderio. Oppure, come ci suggerisce Luhmann, un argomento di cui parlare all’infinito, o almeno a ogni 22 aprile, in attesa che la catastrofe ecologica faccia il suo corso.
Nella metro berlinese si aggira uno spettro, che sussurra: Ich bin, was ich höre.
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Pubblicità di Audible Deutschland, 2009
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La fisiognomica della bambina ci illumina su quel che accade: «Sorriso autoprofetico, come tutti i segnali pubblicitari: sorridete, vi si sorriderà. Sorridete per mostrare la vostra trasparenza, il vostro candore. Sorridete se non avete niente da dire, soprattutto non nascondete il fatto che non avete niente da dire, o che gli altri vi sono indifferenti. Lasciate trasparire spontaneamente questo vuoto, questa indifferenza profonda nel vostro sorriso, fate dono agli altri di questo vuoto e di questa indifferenza, illuminate il vostro volto del grado zero della gioia e del piacere, sorridete, sorridete...» (J. Baudrillard, America)
Il grado zero di questa bambina è la sua insoddisfazione, da qui inizia il messaggio. Il suo vuoto prima di capire che ella può ambire a tanto – cioè a poco. Il suo sorriso ambiguo, leonardesco ci dice che lei sente di avere la possibilità di oltrepassare la sua accidia semplicemente mettendosi le cuffie. Ma il rapporto che lei ha con le sue cuffie non è solo, quindi, quello che un umano ha con la (sua) macchina. La macchina risponde esattamente al «sostentamento» della bambina, la macchina la ascolta – gli altri, le non-macchine, no. Io sono quello che ascolto perché quello che mi permette di ascoltare, a sua volta, è poroso. Io sono (anche) la macchina che mi isola – che suggella il mio isolamento e lo certifica ufficialmente. Tutti vedranno in tal modo che «io voglio isolarmi». Ma qui non è suggerito solo questo: il legame così forte che ha la musica con il sorriso, con l’emozione è, per l’appunto, qualcosa di talmente banale da risultare infantile. Date a vostra figlia le sue cuffie, lei sorriderà. In tal modo avrà la possibilità di ascoltare senza farsi ascoltare. Vi è un qualcosa di arcaico, di sinuoso, nel legame che si ha con la propria musica. Questo legame originario – che andremo ad investigare – va a cozzare contro la visualizzazione della sensazione musicale (sorridere per quello che si ascolta), con il tentativo di trasformare anche l’ineffabile musica in un dattiloscritto. La bambina sembra un contenitore, un vaso che viene riempito dalla musica. Cosa si aspetta? Lei aspetta di essere cantata.
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Peter Sloterdijk si è concentrato a lungo sul tema dell’ascolto e della costituzione della soggettività. Nel primo volume della sua microsferologia, Sloterdijk riprende le ricerche psicoacustiche di Alfred Tomatis. Se la ricerca di Sloterdijk è una genealogia della nozione di intimità, la chiave di volta è sicuramente il cosiddetto stadio delle sirene.
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La storia occidentale potrebbe essere interpretata come un percorso verso la defascinazione. Da quando Odisseo ha deciso di farsi legare dai suoi compagni per resistere al canto mortale delle sirene, si è costituita implicitamente un’equivalenza di carattere ontologico: solo chi resiste, chi sviluppa «una relazione non-commossa con le prestazioni retoriche e musicali che fanno appello al suo accordo” sarà degno della vita: «essere soggetto vuol dire soprattutto: poter, in primo luogo e più spesso, resistere alle immagini, ai testi, ai discorsi e alle musiche che si incontrano».
Nel condotto acustico si insinua il canto delle sirene. Qual è il legame tra questo suono e la morte? Come ricorda Sloterdijk, sembra strano che la questione del come si muoia ascoltando le sirene non sia mai stata discussa, come se fosse un dato di fatto il legame tra questo canto e la necessità di morire. Ciò che sconvolge l’equilibrio psico-fisico del viaggiatore è che le sirene non cantano qualcosa dal loro repertorio: esse si adattano perfettamente a quello che il viaggiatore vuole ascoltare. «Il loro segreto è di cantare esattamente i canti nei quali l’orecchio del viaggiatore in transito desidera precipitarsi. Ascoltare le sirene significa, di conseguenza, essere entrato nello spazio centrale di una tonalità che ci chiama internamente e, ormai, voler rimanere nella fonte emozionale di questo suono di cui non si può fare a meno».
Forse dovremmo immaginare il loro canto come un lento silenzio. Nel Silenzio delle sirene, Kafka ribalta completamente la descrizione di Omero. Addirittura, Kafka sembra commettere un errore grossolano nell’associare lo stratagemma della cera anche a Odisseo, che proprio alla cera ha rinunciato per poter ascoltare liberamente il canto delle sirene. Omero, d’altronde non si dilunga sul messaggio delle sirene. Come potrebbe, d’altronde, se nessun uomo gli è mai sopravvissuto? Le sirene sono un’entità metapoetica, sono più grandi di Omero, di Ulisse, della storia. Ecco allora che Kafka racconta che la verità è inenarrabile, che quello che deve essere veramente successo è un grande inganno, un’invenzione di Odisseo, un’escogitazione.
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Di cosa vorrebbe sentire parlare un viaggiatore, che non sa ancora quando farà rientro a casa, se non del suo interminabile viaggio, delle sofferenze che lo hanno condotto fin là? Ogni uomo vuole diventare una canzone che abbia sé al centro. Sentire delle voci che ci cantano significa che la nostra vita è finalmente «diventata un argomento di conversazione alla tavola degli dei». Ecco spiegata l’inesorabilità delle sirene: esse sono quel dispositivo che ci isola in noi stessi. Il risultato è il tramortimento, l’essere imbevuto di sé. L’atto delle sirene è un richiamare l’animo all’intonazione, un accordarsi inconscio che non è possibile evitare poiché si tratta di un solco preesistente, un cammino percorribile perché già percorso in precedenza. Ma in che tempo si è svolta questa alleanza inconscia?
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Accordo, armonia: l’origine della musica ha una sfumatura politica, relazionale. Sin da Esiodo, il canto poetico si è posto tra l’uomo e il divino, e ogni aedo che desiderasse iniziare un racconto si riferiva alle Muse. Esse si invocano perché sono foriere di garanzia di verità. Non è pensabile un’arte della parola che abbia una certa rilevanza senza un accompagnamento musicale; in tal senso, anche il termine «accompagnamento» risulta inesatto: in quanto cantata, tutta la poesia greca del periodo arcaico e classico è fatta di musica.
«Risulta di qui che chi dice che dal movimento degli astri nasce armonia, in quanto dal movimento sono prodotti dei suoni e questi suoni sono consonanti, dice certamente con singolare eleganza, ma non dice il vero. C’è infatti chi crede che, movendosi corpi così grandi, ne nasce un suono, perché suono è prodotto dal movimento dei corpi che sono quaggiù, i quali pure sono meno grandi e meno veloci di quelli. Non può, dicono, non nascere un suono straordinariamente grande dal movimento del sole e della luna e degli astri, che sono tanti e tanto grandi e procedono con tanta velocità. Così essi credono, e che i rapporti della velocità degli astri in relazione alle distanze siano i medesimi degli accordi musicali; e perciò dicono che è armonico il suono degli astri rotanti. Poi a giustificare il fatto che questo suono noi non lo udiamo, dicono che la causa sta in ciò che esso c’è sempre dal nostro nascere; manca per questo, dicono, ogni contrasto col silenzio, e quindi non possiamo distinguerlo ché suono e silenzio si discernono appunto perché sono in contrasto […]». Aristotele, De Cælo.
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Il piacere, nell’ascoltarla, non è altro che l’indice della facilità con cui la musica penetra in noi, oltrepassando ogni sorta di difesa. Per questa ragione essa veicola, ed è la parola che si piega alla musica, che diviene ritmata per assecondarla. Unificazione, congiungimento: l’anima è in sé armonia, essa contiene già in sé la possibilità di un ricongiungimento con quello che è armonico fuori di lei. Il cosmo è armonico, come l’anima; l’anima partecipa dell’armonia del cosmo tramite la musica. Perciò la musica ha potere taumaturgico, essa rappacifica l’anima che finalmente si ricongiunge con il posto che le spetta.
Platone testimonia il terrore di una musica non accompagnante ma dominante, quando nella Repubblica (400d-e) propugna, per l’educazione dei giovani, solo quella musica che segua il buon discorso – poiché un buon discorso viene solo da una buona anima. «Tra filosofia e musica esiste un disaccordo antico», ma è anche vero che la musica più alta, per Platone, non ha niente da invidiare alla filosofia. Non è un caso che, nel Fedone, Socrate dica di essere stato visitato tante volte dallo stesso sogno, che gli suggeriva di comporre musica. Eppure, Platone si riferisce alla musica astratta, spogliata da ogni arbitrarietà e velleità – non quindi a quella realizzata praticamente dagli strumentisti.
Il timore di Platone per una musica ricca di particolarità e casistiche, di una musica non prevedibile e incontrollata, - che è lo stesso timore che egli aveva verso la parola deformata dei/dai Sofisti – prende la forma delle ingannatrici Sirene; tramite esse, la musica paventa un lato sinistro e pericoloso, proprio in forza della sua pervasività. Poiché dopotutto, le Sirene sono onniscienti, proprio come le Muse, e promettono al viaggiatore una verità assoluta. Le Metamorfosi (v, 294-331; 662-678) narrano persino della vendetta delle Muse a discapito di nove fanciulle che avevano tentato di imitarle: queste vengono trasformate in gazze (le Sirene, secondo alcune mitologie, sono presentate anche come esseri alati). Orfeo, figlio di Calliope, riesce a sovrastare con la sua lira il suono del canto delle Sirene, salvando gli Argonauti (gli unici ad essere scampati, insieme ad Odisseo, al sortilegio). La dialettica tra Muse e Sirene, tra verità e illusione, pervade tutta la storia dell’uomo. Se vi era stato, a partire da Aristosseno, un tentativo costante di far collimare la musica al problema etico, era perché si scorgeva quella che era la voragine verso la quale il reale può scivolare. Se Platone ammonisce i poeti che «soggiacendo ai gusti della folla, divengono maestri di disordinate trasgressioni, ispirandosi, come baccanti, più del dovuto al piacere» (Leggi 700d) è perché questo dovuto non lo è per tutti.
Le orecchie sono bersagli facili, e non offrono alcun riparo naturale all’uomo. Ecco che Cristo assume spesso proprio le forme di Orfeo, poiché le Sirene rimangono le devianti, quelle che l’uomo deve rifiutare categoricamente perché lo distolgono dal sentiero della virtù. La seduzione del demonio è rappresentata, nelle miniature medievali come un’invasione sonora. Poiché, «il demoniaco non esiste fuori di noi. Se esiste è in noi» (Enrico Castelli, 1952). Ancora una corrispondenza, dunque, tra ciò che è fuori e quello che risiede internamente. Dopotutto, «se il demoniaco fosse una sorpresa assoluta, sarebbe invincibile. L’urto travolgerebbe». Ma non lo è, esso fa leva sulla curiositas, su un deposito nell’animo, che va solo sospinto.
Il male nella concezione medievale non è altro che la perdita di questa distinzione, poiché «l’impeto demoniaco ha scisso.” Il cerchio e la scissione: le Sirene portano alla circolarità originaria (Sloterdijk), ad un’orbita che ricongiunge (solo) a se stessi, ma è una circolarità fittizia, cosparsa di frammenti, di particolarità. Si perde l’unità poiché se ne perde il controllo.
Così, io non sono quello che ascolto. Voglio, al contrario, che quello che ascolto sia l’io. Che quello che io ascolto, cioè, comprenda già quello che in me è celato, che mi aiuti a ricongiungermi con questa parte. Ecco che la bambina ci sorride ancora:
«Specchio deformante, schermo mutevole di ogni possibile metamorfosi, folgorazione, esse parlano di morte ad una civiltà che non vuole parlarne […]. Perciò ogni loro fulminea comparsa sonora comporta una vaga premonizione, un sentore di minaccia, provocando in noi quell’emozione intramontabile e universale che fa liberare sostanze chimiche e accelerare i battiti del cuore. Reazione del cervello limbico e, forse, di quello rettiliano. Risposte del nostro proprio ibrido interno. Inquietudine sommersa, rivoli di insicurezza che si infiltrano, devastanti» (Meri Lao, 2000). Siamo ancora tra le Sirene. Il nostro mondo è essenzialmente uno spazio ritagliato tra le Sirene degli altri. Quelle che sanciscono la proprietà – la propria ietà– di ciascuno, che sanciscono i limiti e i confini che non riusciremmo ad indicare altrimenti.
L’azione umana è soggetta a vari tipi di vincoli. Quello biologico: siamo membri di una specie animale e le nostre capacità emotive e intellettive sono tali in virtù della selezione naturale. Quello istituzionale/organizzativo: ognuno di noi si muove dentro spazi strutturati, con regole scritte e non scritte – laddove la più potente di tali realtà istituzionali è lo stato. Vi è infine il vincolo dato dalle norme morali. Quale spazio di manovra resta allora ai singoli, al fine di poter plasmare la propria esistenza in modo libero e autonomo? Tale spazio sorge e cresce dall’ascolto del desiderio, da un confronto con le proprie pulsioni – su questo terreno germoglia infatti non solo l’aspirazione al godimento e alla felicità, ma soprattutto la pulsione verso la libertà.
La videolezione è stata organizzata nell'ambito del progetto
Vita, emozioni ed esperienze sociali alla soglia di un cambio d'epoca registrate attraverso un dispositivo online di conversazioni digitali.
A cura di Luigi Fassi e Alberto Salvadori
Connessioni Inventive è un progetto inedito di committenza e produzione di un calendario di conversazioni digitali pensate come momenti di formazione e approfondimento, realizzato in collaborazione tra due istituzioni italiane di arte e cultura contemporanee, il MAN Museo d'Arte della Provincia di Nuoro e Fondazione ICA Milano. Obiettivo del progetto è dare impulso a un percorso di promozione di conoscenza umanistica in termini interdisciplinari secondo modalità e linguaggi a tutti accessibili. In un momento di distanza sociale e scarsità di rapporti interpersonali determinato da un rivolgimento globale destinato a segnare mutamenti importanti nel vivere civile, MAN e ICA danno vita a un programma di lecture digitali per offrire un contributo di analisi e interpretazione affidato a voci italiane autorevoli nei loro ambiti di operatività.
Recensione a F. Lolli, Inattualità della psicoanalisi. L'analista e i nuovi domandanti (Poiesis Editrice, Bari 2019)
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Correva l’anno duemilatredici e la politica italiana attraversava una delicata fase di translatio imperii. Da una parte si assisteva al lento ma inesorabile sfacelo di quel mostro tentacolare, di quel partito-piovra-azienda che fu il Popolo della Libertà e, dall’altra, alla marea montante di nuovi (ancorché vecchi e pur sempre ideologicamente ritriti…) partiti populisti che sia da destra che da sinistra, sbracciando e sbraitando, miravano a conquistarsi frange sempre più consistenti di un elettorato quanto mai fiacco, stordito e disilluso. In un tale contesto - segnato tanto dal disorientamento ideologico quanto dall’altissimo tasso di dissonanza cognitiva che cominciava a serpeggiare nelle quotidianità anche più caserecce delle nuove società iperconnesse, smart e quasi completamente digitalizzate… - Massimo Recalcati, gettando uno sguardo retrospettivo sulla figura già in pieno declino di Silvio Berlusconi si esprimeva così:
«È questo eccesso pulsionale ciò che ha affascinato materialisticamente i suoi elettori. È il cardine di una nuova psicologia delle masse. Significa – e questo è ciò che ha dato al berlusconismo la sua forza specifica – affermare un desiderio privo di legge, dunque un desiderio che sconfina in un godimento illimitato che per la psicanalisi è il godimento incestuoso. Per questo l’appellativo ‘papi’ è rivelatore di una tendenza perversa intrinseca al berlusconismo come fenomeno culturale. Il padre non è più simbolo della Legge ma della sua continua trasgressione interna» (2013, p. 57).
L’agile libretto da cui è tratto questo passo, un’intervista in cui al più celebre tra gli psicanalisti lacaniani d’Italia l’editore-giornalista-scrittore Raimo chiedeva - non senza una certa qual dose di sacrale soggezione… - illuminanti e innovative analisi psicopolitiche del contemporaneo, si prospettava già dal titolo come un’operazione editoriale ben pesata, una vera e propria pubblicazione strategica: Patria senza Padri. Psicopatologia della politica italiana.
L’equazione Evaporazione del nome del padre = disagio della civiltà postmoderna alla quale il titolo alludeva, e alla quale ci siamo ormai abituati, ha funzionato infatti per anni come un mantra ed è stata riproposta dal suo gonfaloniere a più riprese e, senza grandi variazioni, nei contesti più disparati. Come i concetti di liquidità o di Nuovo Realismo proposti da Baumann e Ferraris, anche quello di Evaporazione-del-nome-del-Padre è stato al centro di un intenso dibattito (benché meno filosofico che giornalistico, più popolare che intellettualmente raffinato) che ha animato fiere del libro, salotti televisivi, festival della filosofia ed eventi culturali di ogni sorta. Al prezzo di ridurre la complessità intrinseca a materie quali la sociologia, la filosofia e la psicanalisi e correndo il rischio di lasciar scomparire l’identità stessa di queste discipline, il loro vero valore, dietro la bidimensionalità e la superficialità imposte dal “discorso pubblico” e dal senso comune, questi tre esempi ci illustrano chiaramente quali sono le difficoltà che incontrano la divulgazione e l’esportazione di modelli cognitivi “alti”, sofisticati o più semplicemente “tecnici”, in contesti in cui occorre (oltre che vendere più libri possibile…) accattivarsi l’interesse di un pubblico alla ricerca di facili e accomodanti risposte che sollevino da quell’oneroso e sfibrante compito che è il pensare, magari in modo critico, magari in modo autonomo.
Nell’equivalenza concettuale Evaporazione del nome del padre = disagio della civiltà postmoderna proposta da Recalcati, infatti, ciò che più colpisce è l’innegabile semplificazione alla quale è sottoposta la realtà (sia questa sociale, psichica, politica o storica), nonché la paradossale e quasi contradditoria via d’uscita politica che lo stesso Recalcati ha suggerito, per anni, quale soluzione allo stallo ingenerato dalla scomparsa della funzione simbolica incarnata dai padri, ovvero… il recupero della funzione simbolica incarnata dai padri. Come si legge nello stesso testo, infatti:
«Nell’epoca in cui il nome del padre evapora, affinché resti qualcosa del padre, affinché qualcosa del padre sopravviva, è necessario che ci sia una sua reincarnazione singolare. È solo questa incarnazione che può far esistere di nuovo il valore del nome. Questo per me è il passaggio centrale. E ha una forte risonanza politica. Per riabilitare la dimensione simbolica della politica, oggi completamente screditata, c’è bisogno di testimonianza. Il valore della politica non è più garantito ideologicamente dalla forza delle tradizioni, dalla autorevolezza simbolica dei partiti. Per riabilitare la politica non serve il nome ma l’atto. Come accade per il padre della Strada. Testimonianza di come un padre sperduto in un mondo senza Dio sia riuscito a sopravvivere e a non impazzire o suicidarsi. Questa testimonianza può essere la condizione attraverso cui rendere possibile l’evocazione del Nome del Padre. Non dall’alto, ma dal basso» (p. 113).
I brani sopracitati, lungi dal costituire un’estemporanea presa di posizione del loro autore, hanno assunto nel tempo un valore esemplare e a dir poco paradigmatico nella misura in cui riassumono, stilizzandola, quella che è stata la tendenza più in voga adottata, almeno in Italia, dalla letteratura critica di stampo psicanalitico nell’ultimo decennio.
Ora: è anche e soprattutto alla luce di ciò che è incorso all’interno di questo contesto, quello della letteratura psicoanalitica e filosofica mainstream, che una pubblicazione come Inattualità della psicanalisi. L’analista e i nuovi domandanti (Poiesis, Bari 2019, pp. 2014), l’ultima fatica editoriale di Franco Lolli, assume la sua peculiare pertinenza e acquista la sua giusta rilevanza. Ma dall’opera, che almeno nella sua prima sezione si prospetta come un vero e proprio tentativo di sottrarre al parallelismo Evaporazione del nome del padre = disagio della civiltà postmoderna il primato eziologico che vi attribuiscono molti psicanalisti contemporanei, traspaiono anche tanto l’esigenza quanto un intenso sforzo di revisione, di aggiornamento della pratica psicanalitica e di alcuni suoi presupposti dottrinali. Il libro consiste infatti nell’elaborazione di una questione assai complessa, che l’autore, forse, ricapitolerebbe così: «l’estensione dell’applicazione della psicanalisi e le mutazioni socioculturali intervenute negli ultimi decenni impongono una riconsiderazione profonda della tecnica che sia in grado di trattare domande diverse da quelle in risposta alle quali la psicoanalisi è nata» (p. 58). Seguendo la scansione tripartita del testo cecheremo di evidenziare sinteticamente sia le critiche al paradigma recalcatiano sia le istanze di stringente attualità (anche se paradossalmente inattuali…) sollevate da Lolli nel suo accattivante e assolutamente necessario nuovo libro.
Nella prima sezione l’autore, seguendo la ricerca di Zafiropoulos (2019), rileva l’influenza esercitata dalle letture di Bachofen, Durkheim e Horkheimer sul giovane Lacan. Questi, poco più che trentenne, azzardava con la formula “declino sociale dell’imago paterna” un’interessante diagnosi psicopolitica o psicosociale riguardante una mutazione antropologica che all’epoca, agli inizi del Novecento, giungeva a compimento ma che storicamente si innerva nei meandri della modernità. Con “declino sociale dell’imago paterna” Lacan indicava infatti quel precipitato di eventi di lunga durata come la rivoluzione industriale, la rivoluzione scientifica e il conseguente discredito subito dai monoteismi. La formula, quanto mai icastica, individuava una mutazione di non poco conto, quella tra famiglia patriarcale famiglia coniugale:
«Ad entrare in crisi è stata la declinazione storico-immaginaria della funzione paterna (l’organizzazione che le religioni monoteistiche hanno consolidato), non la funzione cosiddetta paterna in quanto tale, da considerarsi, al contrario, la condizione indispensabile al processo costitutivo del soggetto» (Lolli 2019, p. 16).
La presunta eclissi, il tramonto della funzione paterna (che produrrebbe da una parte un’ipertrofia di godimento, una circolazione incontrollata e diffusa di frivoli piaceri a buon mercato e, dall’altra, la scomparsa del desiderio e della progettualità quali possibilità di dare senso a un’esistenza altrimenti impantanata nelle paludi dell’edonismo) non è quindi una diagnosi completamente fuorviante. Vi è del vero, e al netto delle semplificazioni che una tale tesi è stata costretta a subire per poter circolare tra il grande pubblico. Occorre semmai, secondo Lolli, ridimensionare la portata e stemperare il lirismo che ammanta questa efficace formulazione del giovane Lacan.
Occorre, precisamente, distinguere tra quelle che sono le condizioni trascendentali del desiderio, di cui la funzione simbolica incarnata dall’ordinamento patriarcale non è che un esempio storicamente determinato, e le incarnazioni empiriche, appunto, di queste stesse condizioni. Sul primo versante il Lacan più maturo, che ha filtrato la lezione di Levi Strauss e di Saussure, individua la forza propria del significante, il potere generatore e antropopoietico del linguaggio mentre sull’altro polo, al contrario, localizza il ruolo simbolico occupato del genitore, dalla figura parentale materiale e contingente che si trova (molto spesso senza esserne addirittura consapevole…) a occupare lo spazio che è quello del garante formale dell’ordine simbolico. La paternità, dunque, non ha mai coinciso e non è mai stata sovrapposta, per Lacan, all’ordine simbolico (come sembrerebbe dire Recalcati) e i padri, lungi dal costituirsi come gli agenti diretti dello stesso, i suoi facenti funzione, non sono mai stati concepiti come nient’altro che dei presta nome.
Attraverso questo movimento di riconfigurazione e di chiarificazione della terminologia tecnica Lolli ci invita allora a valutare a pieno quella che è la portata della scoperta freudiana ovvero ci invita a rintracciare, al netto delle dinamiche storiche che determinano di volta in volta l’emergenza di nuove morfologie soggettive e identitarie, la dimensione strutturale che si muove carsicamente al di sotto della superficie dei fenomeni. Freud, infatti, ha scoperto che l’uomo, per far sussistere quel progetto millenario che va sotto il nome di “civiltà” (quella Kultur di cui la psicanalisi definisce il costo di produzione nei termini dell’Unbehagen, del disagio), ovvero al fine di porre in essere un ordine, un qualsivoglia assetto civile, ha bisogno di rinunciare al soddisfacimento pulsionale:
«La rinuncia pulsionale non è un’esperienza che l’umano possa evitare: essa è imposta dall’operatività del significante come dato ineluttabile dell’antropogenesi. Il soggetto si genera da tale originaria azione, inevitabile e indifferente ai contenuti socioculturali che il discorso vigente promuove. Il cambiamento delle ‘figure’ dell’Altro (cambiamento che in alcune epoche storiche si rende particolarmente evidente) non deve, in altre parole, indurre ingannevolmente a pensare che la sua funzione di regolazione del godimento possa essere cancellata» (p. 23).
La “rinuncia pulsionale” e la perdita di godimento (o più semplicemente tutto quello che passa sotto il nome di “castrazione”) sono allora la conditio sine qua non sia della civiltà che del suo disagio e indicano l’orizzonte concettuale di ogni analisi critica delle realtà sociali, politiche e soggettive che vogliano fondare i propri presupposti sulla psicanalisi freudiana. Le teorie dei “declinisti” (l’appellativo usato da Lolli per definire chi attribuisce al declino dell’immagine paterna la causazione del nuovo disagio psichico), per contro, sembrano focalizzare l’attenzione su di un aspetto marginale e più che altro formale della questione. Queste teorie, in altre parole, sembrano da una parte rimuovere la persistenza eterna, ubiquitaria, strutturale e per certi versi anch’essa inattuale del disagio, della sofferenza umana. Da un’altra parte, inoltre, le teorie decliniste paiono strumentalizzare questo stesso disagio in modo da far leva su di una tendenza che, nell’epoca del tramonto del simbolico e dell’estensione assoluta del dominio tecnologico sulla comunicazione, mira alla resurrezione di un discorso conservatore, revanscista e tradizionalista. E questo, ovviamente, al netto di quelle dinamiche storicamente determinate e variabili che regolano la patogenesi e le mutazioni morfologiche dei sintomi psichici, in ottemperanza alla distinzione sopracitata tra condizioni trascendentali del desiderio e incarnazioni empiriche di queste stesse condizioni. Su questo tema Lolli tornerà nella terza parte del libro.
Per ora ci basti notare che, una volta gettata luce sulle vicissitudini storico-filologiche del concetto di “declino sociale dell’imago paterna”, risulta più chiaro come la riproposizione post-moderna di questa categoria critico-diagnostica forgiata negli anni trenta del secolo scorso figuri più come una grossolana semplificazione che come una rivoluzionaria e geniale trovata sociopsicologica. Il mantra Evaporazione-del-nome-del-Padre=disagio della civiltà postmoderna, che è stato ripetuto fino allo sfinimento e che in un certo senso ha funzionato più come un martello che come una chiave di lettura filosofico-politica, avrà sicuramente facilitato l’individuazione di alcune tendenze insite alla realtà Italiana di inizio millennio e avrà favorito la comprensione (almeno quella cronachistica) di processi che sarebbero stati altrimenti difficilmente rendicontabili (non da ultimo i capricci di un anziano signore che si trovava a occupare, in quel momento, il ruolo di leader politico, di padre dell’orda…), ma non soddisfa di certo quei criteri che ne farebbero lo strumento-chiave per produrre una cosiddetta “diagnosi epocale”.
Nella seconda sezione (pp. 59-42) Lolli compie un’operazione di ricerca storico-filologica che non ha precedenti nella letteratura che riguarda Lacan. Grazie a un lento e faticoso lavoro archivistico di dissodamento e di certosina ricerca filologica qui Lolli ci consegna finalmente, per la prima volta, un elenco ragionato ed esaustivo di tutte le occorrenze incontrate dal termine “analista” lungo l’intero arco del Seminario. La ricerca merita un’attenzione particolare anche perché attinge, oltre che alle trascrizioni di Miller, ai seminari non pubblicati neanche in francese e reperibili solo on-line, seminari di cui esistono solo annotazioni dattiloscritte, appunti e registrazioni audio. Ogni occorrenza è opportunamente contestualizzata e analizzata e tutta questa seconda sezione va letta come un’esplorazione approfondita dell’intero spettro di significato che si dipana, per Lacan, attorno al significante “analista”.
Riproduco qui l’intero elenco degli epiteti reperiti da Lolli e che Lacan ha evocato per rendere conto della professione che ha praticato per tutta la vita, riservandomi di rimandare il lettore al ricco commento proposto in Inattualità della psicanalisi: analista feccia, Pantagruele, saint homme, fuoco fatuo, analista diviso, traumatico, posto vuoto, soggetto-supposto-sapere, dupe, ignorante, ingannatore, sarto, analista-taglio, sofista, specchio opaco, tecnico, facente funzione, analista-nel-gioco-significante, impostore, retore, ostetrico, ipnotizzato, analista-Verleugnung, analista dell’amore, Tiresia, analista-oggetto-a, sembiante, capro espiatorio, destituito, segretario, analista-nodo, analista ultimo-arrivato.
Ebbene, senza voler riassumere la varietà e l’eterogeneità di una figura proteiforme come quella dell’analista ci basti ricordare, qui, del grande insegnamento metafisico ed epistemologico che traspare dalla lezione di Lacan relativo allo statuto ontologico della sua “figura professionale”. Egli, infatti, con il suo fare da flâneur incallito, attraverso le sue pindariche digressioni e i suoi calembour, forte di un nozionismo sconfinato che elargisce al suo uditorio e ai suoi lettori come si trattasse di caramelle o di canditi e assolutamente preoccupato di farsi intendere (anche se, ça va sans dire, non da tutti…) fin nella più improbabile delle sue intuizioni, ha incarnato un modello certamente problematico e difficilmente replicabile di analista. Questo è fuor di dubbio. Sarebbe pura follia pretendere che tutti gli psicoanalisti si conformassero al suo stile anche perché, a dirla tutta, è uno stile un po' troppo ricercato, barocco, e alla lunga può risultare stucchevole. Altra cosa, però, è cercare di mimare con flemma professorale, moraleggiante e con toni decisamente paternalistici la postura cangiante e le movenze ardite di Lacan. Da parte sua, inoltre, questi non ha mai dato consigli su come vivere, non ha mai istruito le masse in merito a cosa sia più o meno giusto votare alle urne (non ha mai osato accusare gli avversari politici, per esempio, di esser nevrotici per il solo fatto di voler votare “No” a un referendum…) e le poche volte che si è presentato in televisione lo ha fatto per il gusto di non farsi capire…o meglio: per suscitare il gusto dell’incomprensibile. Imperniare l’esperienza analitica su quanto vi sia di indecifrabile, di muto, di inerte e di privo di senso: è questa semmai la più grande lezione che la filosofia e la cultura tout court possono trarre da quella pseudo-scienza, o da quella fanta-scienza, che è in realtà la psicanalisi. Il ruolo dello psicanalista di conseguenza non può che essere definito, diretto e limitato da questo paradossale interdetto. Come afferma Lolli, allora:
«Ogni sapere esibito dall’analista che intende spiegare la ‘sostanza’ delle cose umane diventa […] una farsa che magari, come capita di osservare frequentemente, riscontra favori e riscontri positivi (nell’immediatezza e nelle reazioni emotive che una sua presentazione charmant è in grado di generare) ma che, a lungo termine, non può che avere degli effetti di svalutazione della psicanalisi. Non solo: la riduzione della psicanalisi a ‘sapere dell’uomo’ ne decreta irreversibilmente la fine. Una disciplina che pensa di poter spiegare l’uomo infatti ha cessato di interrogarsi e dimostra, in questo modo, di essere giunta al capolinea della sua evoluzione (teorica e storica)» (p. 140).
Come a dire: dimenticarsi della lezione epistemologica di Lacan equivale automaticamente a esporsi all’accusa di voler occupare il posto del guru, del mâitre à penser (ovvero del maestro dietro la cui figura, spesso, si nasconde quella dell’ammaestratore) e, di conseguenza, di svilire la professione di psicanalista nella misura in cui si disattende ai suoi principi dottrinali.Un rischio, questo, che dovrebbe risuonare alle orecchie di quanti, all’interno della più che nutrita tribù dei filosofi e degli psicanalisti attualmente in auge, fanno leva sul proprio ascendente carismatico e sul fascinum intellettuale con il malcelato intento imbonirsi e infatuare intere platee, amalgami indistinti di telespettatori ed elettorato, in un gioco perverso di specchi, riflessi di fantasmi identitari e identificazioni paterne. Lacan (così come Heidegger, Freud e Sartre, per dirne alcuni…) ha esplicitato meglio di chiunque altro che non c’è nulla da dire, di sostanziale, in merito tutto ciò che l’uomo reputi essenziale per sé stesso, quindi: perché ergersi a maestri di verità e di vita se non per godere del godimento del mâitre?
Tali elucubrazioni trovano nella terza parte (pp. 143-190) del volume di Lolli un’ampia e originale elaborazione. L’ultima sezione, infatti, è dedicata all’annosa questione di come aggiornare la tecnica e la teoria psicanalitiche o, per dirla in altro modo, di cosa significhi essere uno psicanalista oggi. Una considerazione che può valere da banale premessa a questo problema potrebbe essere quella relativa ai mutamenti culturali e antropologici intercorsi tra l’epoca in cui si consuma l’invenzione freudiana dell’inconscio e lo stato attuale delle cose. Mutazioni di ordine economico, politico e storico non indifferenti come l’affermazione del consumismo come sistema etico e la riforma della morale influenzata dall’ormai ubiquitario modello neoliberale hanno infatti mutato, giocoforza, le condizioni materiali in cui l’inconscio si manifesta. Ma anche l’esistenza e il successo stessi della psicanalisi (ovvero la libera circolazione di un discorso critico-analitico che esplora la dimensione pulsionale e che mira a disambiguare l’opacità che si condensa attorno al nucleo scabroso, abietto e perturbante dell’umano) hanno contribuito, e non di poco, alla metamorfosi ontologica del sociale tuttora in atto.
D’altronde già J. A. Miller, durante il quarto Congresso dell’AMP svoltosi a Comandatuba, nel 2004, registrava non senza stupore le trasformazioni che un secolo di psicanalisi hanno impresso nella società e nella cultura contemporanee. Quasi come a voler suggerire l’idea di un effetto quantistico tale per cui la posizione dell’osservatore finisce con il mutare la natura, la struttura dell’oggetto osservato, l’erede di Lacan affermava:
«La psicoanalisi è stata inventata per rispondere a un disagio nella civiltà, a un disagio del soggetto immerso in una civiltà, che potremmo enunciare così: per far esistere il rapporto sessuale, si deve trattenere, inibire, rimuovere il godimento. La pratica freudiana ha aperto la via a quella che si manifestava – metteteci tutte le virgolette che volete – come una liberazione del godimento. […]. La pratica lacaniana, dal canto suo, ha a che fare con le conseguenze di questo successo sensazionale; conseguenze che sono sentite come dell’ordine della catastrofe. La dittatura del più-di-godere devasta la natura, fa scoppiare il matrimonio, disperde la famiglia e rimaneggia il corpo» (2006, p. 27).
È su questo stesso solco che sembra muoversi Lolli. Più che di evaporazione-del-Padre, infatti, sembra che l’autore suggerisca che dai nuovi casi psicopatologici traspaia una vera e propria evaporazione-dell’Io, una sorta di sua regressione generalizzata a quella fase detta “dello specchio” che qualifica tanto il funzionamento della mente psicotica quanto quello, per certi versi, della mente infantile. La psiche in via di sviluppo, infatti, condivide con quella psicotica l’assenza di solidi punti di riferimento simbolici, l’assenza di stabili identificazioni dell’io. In un contesto del genere non è di certo il padre a essere causa, in quanto assente o evaporato, dello sfaldarsi dell’universo simbolico e dello sfibrarsi della tenuta sociale garantita da saldi punti di riferimento. Più che di “declino sociale dell’imago paterna”, forse, converrebbe allora porre l’accento, per quanto riguarda l’eziopatogenesi delle psicopatologie contemporanee, sulle trasformazioni tecnologiche o sullo strapotere esercitato dagli oggetti – dalla fascinazione per lathousa, se volessimo parlare in lacanese. Ciò che qualifica la condizione sociale contemporanea è infatti probabilmente più simile a una sorta psicosi collettiva, una specie di schizofrenia che va a braccetto con le dinamiche di sfruttamento, iper-consumo e iper-produzione come preconizzato da Deleuze e Guattari in quegli stessi, ruggenti anni in cui Lacan teneva il suo seminario. Ma si tratta di una deriva che, se concepita al netto della retorica rivoluzionaria e neanche troppo velatamente celebrativa della quale i due filosofi sopracitati hanno sempre ammantato la psicosi, può essere intesa come un grande processo di infantilizzazione su larga scala, di regressione generalizzata, che elicita quella dimensione ancestrale e neotenica dell’uomo da intendersi quale vera e propria condizione trascendentale dello psichismo. D’altronde Freud e Lacan hanno ripetuto instancabilmente che “Il bambino è il padre dell’uomo” (anche se la citazione è tratta da The rainbow, una poesia di W. Wordsworth). Sembra proprio che sia a partire da qui, allora, che Lolli ci invita a riconsiderare il rapporto che intercorre tra attualità e inattualità della psicanalisi, tra sintomo e struttura del disturbo psichico:
«Quelli che vengono considerati nuovi sintomi sono, in realtà, forme “aggiornate” alle dinamiche storiche contemporanee del medesimo meccanismo. Basta grattare l’involucro del sintomo per vedere apparire, al di sotto della superficie fenomenica, la questione che inquieta l’essere umano da sempre: come conciliare l’esigenza di soddisfazione personale del proprio desiderio (sostenuta – ed è questa la peculiarità che possiamo rinvenire nell’attualità – dall’enunciato del discorso sociale) con le richieste alla rinuncia della piena soddisfazione (sulla quali l’economia capitalistica si regge, per rinnovare infinitamente il circuito di produzione della merce da cui dipende)» (p. 152).
E di qui sorge infine una duplice necessità. Anzitutto occorre aggiornare la pratica psicoanalitica ai nuovi bisogni insorti negli ultimi decenni, bisogni che Freud non poteva assolutamente prevedere. Lolli definisce “Psicanalisi applicata” questo nuovo modo, più attivo e in un certo senso più “interventista”, di condurre la cura. L’analista, per esempio, ora non riceve solamente ma induce la domanda d’analisi in soggetti che, seppur bisognosi, si rifiutano di formulare una richiesta di aiuto. Ma il nuovo analista è anche chiamato ad assume una postura più elastica e non è più costretto nella sua posizione di ricettore imperturbabile dei patemi dell’analizzante: egli partecipa attivamente alla discussione (laddove la psicoanalisi, a differenza di altre strategie terapeutiche, prevede appunto un suo ritiro, una sorta di sua scomparsa) ed è anche a chiamato a farsi carico della costruzione del transfert e del rinforzo dell’Io, indebolito dalla difficoltà che i nuovi analizzanti (i nuovi “domandanti”, come li chiama Lolli) riscontrano, come abbiamo visto, al livello delle possibili identificazioni offerte dai contesti culturali privi di saldi basamenti simbolici. Anche la mutazione del setting, degli orari e della cadenza delle sedute necessitata dalla nuova scansione del tempo imposta dai ritmi produttivi delle società post-industriali è un’altra trasformazione necessaria, così come lo è la necessità di istituire la seduta come luogo di un sapere possibile, valorizzabile, e non come un semplice “muro del pianto”. La professione praticata da Lolli e da ogni psicanalista permette, in breve, di registrare una sorta di atrofizzazione o di occlusione su larga scala delle potenzialità comunemente attribuite al linguaggio, alla comunicazione e al capire. E va da sé che, se è conclamato che l’efficacia e la tenuta dottrinale della talking cure risentono di tali mutazioni antropologiche, gli psicanalisti siano costretti ad aggiornare il loro strumentario e le loro tecniche di intervento.
La seconda necessità che emerge dalla mutazione antropologica in corso, invece, è relativa al versante opposto a questo, più avanguardista e progressista, e concerne la fedeltà ai testi fondativi, al “testamento spirituale” di Freud e alle fondamenta teoretico – epistemiche della dottrina psicanalitica. In una sorta di movimento enantiodromico, infatti, Lolli accosta alla necessità di una riforma della psicanalisi quella di istituire e di rinforzare la continuità con la tradizione. L’accento qui è posto sulla difesa della centralità della sessualità nella patogenesi del sintomo, sull’esistenza di ciò che Freud ha definito Unbewusstein (un sapere, lacanianamente strutturato come un linguaggio, che è posseduto dal soggetto ma del quale l’Io non è al corrente), sul potere terapeutico del Transfert e sull’importanza capitale da attribuire a Thanatos, ovvero alla pulsione di morte. Tutti questi elementi, infatti, definiscono il nucleo concettuale del lascito freudiano e animano la prorompente forza euristica che caratterizza l’analisi dell’inconscio classicamente intesa.
Solo grazie all’appiglio sicuro garantito da questi punti saldi è possibile, infatti, rilanciare la partita terapeutica ed euristica della psicanalisi – e solo grazie alla reiterazione di un gesto inattuale qual è quello del “ritorno a Freud” promosso da Lacan, sembra dire Lolli, è allora possibile rendere attuale quel discorso che mira al fondo oscuro, indecifrabile e opaco del soggetto parlante e che si cura solo della singolarità, dell’eccezione e della verità di ognuno, della verità dell’uno-per-uno:
«L’analista inattuale non vede nella condizione psicopatologica di chi riceve le conseguenze del declino del padre, dell’assenza del limite, dell’educazione permissiva o della scomparsa dell’autorità. Egli vede, piuttosto, un soggetto alle prese con il compito che impegna qualunque essere umano. Con la differenza che, nella specificità dell’epoca storica nella quale l’incontro si svolge, il compito di trovare un accordo possibile tra le esigenze pulsionali e le esigenze della civiltà è reso più complicato dall’inganno fondamentale che sostiene il regime consumistico-capitalistico. Il quale, nella logica perversa che lo contraddistingue, autorizza il cittadino a pretendere il massimo della soddisfazione (affermandone l’assoluto diritto) e, contemporaneamente, progetta e applica programmi di frustrazione del desiderio stesso, necessari alla macchina produttiva affinché la domanda di consumo non cessi mai» (p. 188).
Che si tratti di un incidente di percorso, o di un esito coerente con la nostra direzione di marcia, la crisi finisce sempre per rivelare qualcosa: quella che stiamo vivendo, se non altro, ci ricorda quanto siamo fragili, quanto precaria ed esposta alla fortuna sia la condizione umana. E invita anche tutti noi a meditare sulla necessità dell’altruismo, tanto su scala individuale quanto internazionale, al fine di tamponarne le conseguenze più funeste. Se quella che serve è allora una coscienza globale, indispensabile per fronteggiare questa come altre emergenze, non sarà forse inopportuno riflettere attentamente sul significato e le implicazioni di un simile allargamento di prospettiva. È quello che prova a fare Martha Nussbaum nel suo ultimo libro, La tradizione cosmopolita. Un ideale nobile ma imperfetto, recentemente tradotto in italiano per le edizioni Bocconi, un saggio in cui alla complessità dei temi affrontati fa da contraltare il migliore stile anglosassone.
Partendo dai Greci, e nello specifico da quella straordinaria figura che fu Diogene il Cinico, il quale dichiarava di sentirsi cittadino del mondo intero, la filosofa ricostruisce una tradizione di pensiero che dall’antichità giunge fino a noi, e che nelle parole dei suoi protagonisti ha costantemente difeso il principio dell’eguale valore di ogni essere umano. Non si tratta però di ripercorrere passo dopo passo la storia di un concetto, con precisione filologica: a Nussbaum interessa piuttosto soffermarsi su alcuni autori particolarmente significativi per i problemi al centro della sua indagine, accogliendone gli spunti o prendendone invece congedo come si farebbe con dei contemporanei.
Si comincia con lo stoicismo, che eredita dai cinici l’idea secondo cui l’essere umano, indipendentemente dal rango sociale e dalle appartenenze politiche, sia in quanto tale meritevole di rispetto: la dignità, secondo questa tradizione, trascende ogni differenza e deriva dalla capacità di pensare e agire moralmente. Il possesso di beni esteriori non rappresenta affatto un discrimine rilevante, un motivo per giustificare un trattamento iniquo. Ecco l’egualitarismo stoico, che si traduce – l’autrice ha qui in mente soprattutto Cicerone – nel riconoscimento dei doveri di giustizia a cui ognuno di noi è chiamato, e che consistono fondamentalmente nell’astenersi da comportamenti lesivi dell’altrui libertà. Fin qui, spiega Nussbaum, il discorso stoico suona condivisibile, ma a ben vedere non ancora sufficiente: sconta infatti un antico pregiudizio, una visione dell’essere umano monolitica, che non gli consente di comprendere appieno la nostra sfera di responsabilità. Si tratta del convincimento secondo cui la dignità umana, inalienabile in ogni individuo, sarebbe al riparo dalle condizioni esterne, e quindi anche dalle privazioni materiali, giudicate del tutto indifferenti per una vita buona. Convincimento che a sua volta deriva dalla rigida separazione tra foro interno e mondo esterno, respinta dalla filosofa con ottimi argomenti: «La mente e lo spirito, infatti, sono parte di un organismo vivente che ha bisogno di cibo, di cure mediche e di altri beni materiali» (p. 16). Una rettifica quanto mai opportuna e tuttavia gravida di conseguenze, perché lo scarso valore tributato ai beni esteriori è proprio ciò che consente agli stoici di affermare l’universale dignità umana. Non esiste il rischio che, riabilitandoli, si finisca anche per negare dignità a coloro che di quei beni non dispongono? No, spiega Nussbaum, il riconoscimento che la vita umana necessiti di beni esteriori per fiorire davvero, invece di favorire sperequazioni e degradazioni, presuppone al contrario un impegno maggiore nei confronti degli altri, affinché ciascun essere umano abbia la possibilità di condurre un’esistenza ricca di significato. Per un verso la dignità è allora inalienabile, e come affermano gli stoici appartiene all’individuo in quanto tale, ma per un altro verso è responsabilità nostra e della comunità alla quale apparteniamo contribuire a farla risplendere, dando a ciascuno i mezzi per esprimerla appieno. Questo comporta che i doveri di aiuto materiale siano importanti tanto quanto quelli di giustizia, e che agire moralmente non significhi semplicemente astenersi dal commettere azioni malvagie, ma anche attivarsi in modo concreto per il benessere altrui. Con le sue parole: «Esiste un livello minimo di beni esteriori di cui è giusto preoccuparsi, sia pure strumentalmente, poiché la sua mancanza impedisce a un essere umano di vivere una vita decorosa, all’altezza della dignità umana, così come glielo impedisce la mancanza di libertà politica, di istruzione, di legami associativi e di reciproco rispetto con i propri concittadini» (p. 69). Gli stoici, che pur furono anche riformatori sociali, secondo Nussbaum non si sarebbero mai spinti a tanto: con l’eccezione forse di Cicerone, indiscutibile protagonista della prima parte del libro, che ammorbidisce il rigorismo morale affermando l’importanza dei rapporti umani e in generale dei beni di fortuna per la conduzione di una vita felice.
A questo punto, bisogna però sottolineare come le implicazioni del discorso non chiamino in causa la sola dimensione individuale, bensì anche quella internazionale, come non deve sorprendere vista la prospettiva cosmopolitica della tradizione, secondo la quale tutti gli esseri umani farebbero già parte di un ordine morale universale. Dovremmo sentirci obbligati nei confronti dei popoli diversi dal nostro, e fino a che punto? Una delle domande centrali del saggio, alla quale l’autrice risponde con un energico sì. Cicerone, per altri versi un modello da seguire, da questo punto di vista non sembra più un interlocutore affidabile, dal momento che ripropone a livello internazionale la distinzione tra doveri di giustizia e di aiuto materiale, sostenendo che nelle relazioni tra stati non si dovrebbe pretendere altro che il rispetto dei primi. Occorre allora richiamarsi ad altri autori, per elaborare una teoria della giustizia globale più comprensiva, ed è proprio quello che l’autrice intende fare rivolgendosi a pensatori come Ugo Grozio e Adam Smith.
Mona Hatoum - Hot Spot (2013)
Il giurista olandese ha il grande merito di traghettare la tradizione stoica nel mondo moderno, calando la prospettiva cosmopolitica nell’orizzonte della statualità. Ecco allora che la concezione groziana del diritto internazionale, incentrata sul riconoscimento di una legge naturale a fondamento della politica, può rivelarsi di grande ispirazione per Nussbaum, insieme alla sua difesa del principio di sovranità. Il tentativo di conciliare i due aspetti, bisogna ammetterlo, finisce inevitabilmente per alimentare tensioni. Se è vero infatti che la ragione impone al potere politico di rispettare l’umanità, secondo Grozio questo non deve neanche diventare un pretesto per ingerirsi in modo sistematico nelle vicende degli altri stati. Difficile però stabilire un criterio univoco, una regola generale per disciplinare l’intervento umanitario, che viene giustificato solo come extrema ratio. Come viene spiegato, «il mondo delineato da Grozio è quindi tutt’altro che semplice. Pur prevedendo un’evoluzione del diritto internazionale, egli prefigura un mondo in cui continuano a esistere anche norme morali vincolanti ma non sancite dal diritto positivo, a meno che questa o quella nazione non le trasformi in leggi» (p. 98). La speranza è allora che le sovranità esistenti traducano sul piano legislativo i comandi della ragione, e che nel frattempo la comunità internazionale si impegni a intervenire nelle vicende degli altri stati solo di fronte a intollerabili crimini contro l’umanità. Oltre a questo, un altro fondamentale contributo del giurista, che in questo innova rispetto alla posizione di Cicerone, va ricercato nella concezione groziana dei beni comuni, ovvero dei doveri di aiuto materiale su scala internazionale, una dimensione del suo pensiero spesso trascurata. Pur senza prefigurare meccanismi o istituti precisi, Grozio avrebbe infatti sostenuto l’imperativo dei paesi ricchi di venire in aiuto dei popoli in difficoltà, spingendosi ad affermare qualcosa di rivoluzionario, ovvero che la condizione d’indigenza, lo stato di necessità che attanaglia i poveri, darebbe loro pieno diritto alle risorse di cui non dispongono, e che anzi ne sarebbero loro i legittimi proprietari.
Sull’importanza dei beni materiali, questa volta nell’ambito di una riflessione più generale sullo sviluppo della personalità umana, Nussbaum analizza poi la posizione di Adam Smith. Nelle pagine del saggio, il filosofo scozzese smette i panni del liberista appassionato e si scopre teorico della giustizia redistributiva. Il riferimento non va alla Teoria dei sentimenti morali, come ci si potrebbe attendere, giudicata dalla filosofa ancora troppo debitrice del rigorismo stoico, ma proprio alla Ricchezza delle nazioni, il classico dell’economia politica, dove Smith riabilita la dimensione pratica dell’esistenza, emancipandola dal disprezzo che una lunga tradizione le aveva riservato. Sensibile alle rivendicazioni dei lavoratori contro le iniquità, egli auspica che lo stato garantisca a tutti un’istruzione minima, affinché le capacità innate presenti in ogni essere umano non deperiscano. Pur senza auspicare stravolgimenti, ecco forse perché l’autrice lo preferisce a un pensatore come Marx, il filosofo scozzese ci ricorda che «la dignità umana non è simile a una roccia, ma è semmai una tenera pianta che in condizioni inclementi appassirà» (p. 136), e che la collettività ha il dovere d’intervenire a favore degli svantaggiati.
Nussbaum prosegue l’itinerario giungendo all’epoca dell’interconnessione globale, dove il cosmopolitismo diviene per ragioni strutturali una prospettiva non solo attraente ma anche necessaria. Bisogna recuperare la tradizione mettendola a confronto con le sfide del presente, nella direzione di un «liberalismo politico globale materialista, basato sulle nozioni di capacità e di funzionamento dell’uomo» (p. 195). Le proposte avanzate dalla filosofa sono molteplici, e appaiono in linea con la sua produzione teorica precedente, come quando – emancipandosi dall’antropocentrismo stoico – afferma l’esigenza di estendere il riconoscimento della dignità a tutti i senzienti. O come quando, arricchendo la lista delle capacità umane che a suo giudizio dovrebbero essere garantite universalmente, confida che sia possibile trovare un consenso per intersezione con qualsiasi cultura. A ogni modo, le pagine più interessanti dell’ultimo lavoro concernono la società internazionale. Considerati i deficit delle organizzazioni sorte in seguito al secondo conflitto mondiale, lungi dall’autrice prospettare soluzioni radicali come la costituzione di un governo planetario, del tutto irrealistico, o auspicare nel breve periodo che i diritti umani vengano riconosciuti e garantiti ovunque allo stesso modo. «La società internazionale rimane soprattutto un ambito di persuasione morale, e solo in rari casi diventa una vera e propria sfera politica. Ma ciò non significa che il processo di creazione e ratifica dei documenti sia inutile: esso genera un senso di solidarietà e di finalità comune, creando le premesse per l’emergere di potenti movimenti transnazionali capaci di influenzare le politiche nazionali» (p. 195). Senza impegnarsi in progetti irrealistici dal punto di vista istituzionale, Nussbaum intende riattualizzare il cosmopolitismo stoico, provando a conciliarlo con il principio della sovranità nazionale. Una prospettiva equilibrata, si direbbe, che ricorda quella di Grozio. Leggendo tra le righe, si viene però a scoprire che è solo la sovranità democratica a meritare considerazione morale, sebbene l’autrice eviti di esplicitarne le conseguenze. Ove si verifichino violazioni dei diritti umani, si deve quindi ritenere legittimo l’intervento umanitario? Nei casi estremi, sembrerebbe di sì. Ma non è affatto chiaro quali soggetti istituzionali dovrebbero farsene carico, se le sole organizzazioni internazionali, che però non sembrano godere dell’autonomia necessaria, o addirittura ogni stato moralmente ispirato. Fatta eccezione per il primo interrogativo, l’autrice non fornisce le doverose spiegazioni, preferendo rimanere sul piano dei principi: inutile rilevare che si tratta però di questioni ineludibili, impossibili da accantonare, e che rappresentano il banco di prova di ogni cosmopolitismo davvero conseguente.
Martha Nussbaum - fotografia di Jeff Brown per The New Yorker
Sulla scorta di Grozio e Smith, Nussbaum insiste poi sulla necessità dell’aiuto materiale alle nazioni sottosviluppate. Ma anche in questo caso, sebbene le dichiarazioni di principio siano più che condivisibili, a colpire è soprattutto l’afflato normativo. Da notare per inciso come l’autrice rifugga da ogni analisi vagamente strutturale del sistema economico mondiale: la prospettiva rimane individualista, incentrata sulla distinzione manichea tra paesi ricchi, i quali avrebbero il dovere morale di condividere parte delle loro risorse, e paesi poveri, bisognosi del soccorso internazionale. Per quanto animato dalle migliori intenzioni, il suo monito presenta almeno due problemi. Da un punto di vista geopolitico, è chiaro che dietro agli aiuti economici si celano molto spesso i disegni imperiali delle grandi potenze, le uniche peraltro a poter elargire risorse significative in mancanza di istituzioni internazionali indipendenti a livello finanziario: la generosità ha valore in quanto tale, certo, ma rappresenta anche una forma particolarmente subdola di esercizio del potere. Nussbaum questo lo sa bene, ma tale consapevolezza non mette capo a una seria problematizzazione degli aiuti all’estero, di cui la filosofa si limita a sostenere l’assoluta necessità morale.[1] Inoltre, per venire al secondo punto, non sembra che la proposta di Nussbaum riesca davvero a emanciparsi dall’accusa di paternalismo, nonostante i molteplici tentativi profusi in tal senso. Ammesso infatti che i paesi ricchi abbiano il dovere d’intervenire a favore di una maggiore eguaglianza planetaria, e che riescano a farlo in modo equamente distribuito, che cosa dovrebbero fare nel frattempo quelli poveri? L’interrogativo è di quelli cruciali, considerando che il saggio ha rivendicato a chiare lettere il diritto universale a un’esistenza dignitosa. Al quietismo, obiettivamente inaccettabile, sembrano profilarsi tre alternative fondamentali. La prima alternativa è rappresentata dalla migrazione economica verso le aree del pianeta più sviluppate, una possibilità che Nussbaum ritiene vada garantita, ed entro certi limiti anche implementata, ma pur sempre nel rispetto delle sovranità nazionali dei paesi ospitanti, che legittimamente pretendono di governare i flussi: il bilanciamento tra accoglienza e protezione, maggiore o minore inclusività delle politiche migratorie, viene quindi rimesso ai singoli governi. Un altro scenario è rappresentato dalla ripresa del conflitto – variamente inteso, anche in senso bellico – contro i paesi ricchi sfruttatori di risorse, uno scenario che però l’autrice neanche prende in considerazione, non fosse altro che per le evidenti difficoltà a ricomprenderlo in una visione morale della politica. Infine, rimane pur sempre aperta la via tracciata dagli stoici, i quali raccomandavano il distacco e l’indifferenza nei confronti dei beni materiali come viatico per la serenità dell’animo: una possibilità che Nussbaum come abbiamo visto rifiuta a livello individuale, e tanto più a livello collettivo. Alle nazioni povere non resta dunque che continuare a fare quello che hanno sempre fatto, tentare cioè di sopravvivere alle dure regole del mercato mondiale varando riforme in grado di stimolare la crescita economica, nella speranza che la comunità internazionale, a cui nello specifico Nussbaum indirizza il suo messaggio, intervenga con politiche di solidarietà.
Che cosa dire, in conclusione? Stimolante per i temi affrontati, indubbiamente di grande attualità, oltre che per l’originale rilettura di Cicerone, Grozio e Smith, il saggio di Nussbaum apre forse più questioni di quante non riesca a risolverne. Se alcune tesi di fondo risultano convincenti, come l’equiparazione tra doveri di giustizia e doveri di aiuto materiale, o il superamento dell’orizzonte antropocentrico nella direzione di un riconoscimento trasversale della dignità, la sua proposta normativa sconta però tutti i limiti della teoria morale, in un certo senso inevitabili. Senza prospettare una futura Cosmopolis, Nussbaum non auspica neanche un ritorno unilaterale alle sovranità nazionali: in quella terra di nessuno, in effetti la sola terra a nostra disposizione, esitiamo tuttavia ad affidarci alla sua bussola.
Note
[1] «Chi sostiene queste tesi è sicuramente ispirato dalle migliori intenzioni, ma rischia di limitarsi a una esibizione di scrupoli morali. Ciò che questi autori sembrano ignorare è che le società moderne sono caratterizzate da una netta differenziazione funzionale fra il codice politico e il codice delle interazioni personali» Zolo D., (1995). Cosmopolis. La prospettiva del governo mondiale. Milano: Feltrinelli, p. 92.
Nel film Blue Velvet (1986), il protagonista Jeffrey (alias Kyle Maclachlan) intravede nell’erba un orecchio mozzato. Il ritrovamento macabro rappresenta una chiave di volta nello svolgimento del film, poiché innesca un’inattesa accelerazione della storia. Il regista David Lynch, interrogato a proposito del significato di questo episodio, commenta così: “non so perché doveva essere proprio un orecchio. Doveva essere un punto aperto del corpo, un buco che porta in qualcos'altro (corsivo nostro). L'orecchio si trova sulla testa e finisce direttamente nel cervello, era perfetto”.
Immaginiamo quest'orecchio rubato, come se fosse un'appendice estraibile, protetica. Nella pellicola lynchiana, l’orecchio è il segno per qualcos’altro, un rapimento, una violenza. Esso non ha alcuna funzione uditiva, sensoriale; è un lembo di carne qualsiasi, sprovvisto della sua funzione per assumerne un’altra: quella di una minaccia. Non una minaccia qualsiasi. Mozzare un orecchio è quanto basta per minacciare di morte, ma non così tanto da garantirla. Quanto basta per umiliare, ma anche per lasciare un margine di speranza, come ad indicare che “si poteva essere ben più scorretti”. Questo perché l’orecchio è, implicitamente, non vitale. La nostra sopravvivenza non necessita della presenza di entrambe le orecchie. In effetti, come reagiremmo al fatto che qualcuno minacciasse di tagliarcene uno? Certo, una mutilazione desta sempre scalpore. Ma di certo saremmo più spaventati di perdere un occhio. Una faccia senza occhio rimanda direttamente a ciò che è sotto-dentro la pelle: il teschio. Rimanda cioè al destino inevitabile, al rosicchiamento eterno. Se perdessimo un orecchio, non perderemmo interamente l’udito, saremmo solo deformati.
Ripensiamo certamente all’auto-mutilazione di Van Gogh. Questo gesto si è fissato nella storia europea quasi come la mutilazione per antonomasia. Anche in questo caso, l’orecchio rubato segna un cambiamento, è un taglio che taglia l’esistenza: “la necessità […] di gettare qualcosa fuori di sé rimane il principio di un meccanismo psicologico o fisiologico che può in determinati casi non avere altro esito che la morte” (G. Bataille). Potremmo pensare che Van Gogh abbia operato un suicidio anticipato, concentrato. Che abbia suicidato una piccola parte di sé, per poi, diciotto mesi dopo, togliersi completamente la vita. Artaud definisce questa lacerazione come logica (A. Artaud, Van Gogh). Fu logico che Van Gogh decise di mutilarsi proprio l’orecchio, il senso che stabilisce la nostra posizione spaziale, quello che regola lo stare vicino agli altri.
Guardiamo l’orecchio, come se fosse la prima volta che ne vediamo uno; se lo si osserva a lungo, la sua morfologia comincerà a sembrarci bizzarra. Le sue forme possiedono qualcosa di antico, di primitivo. L’orecchio sembra essere una fenditura nel terreno, una grotta (doppia e simmetrica) posta nella nostra testa. Questo buco “porta il mondo dentro il sé, mentre l’occhio “lo respinge piuttosto all’esterno” (De Le Breton, Il sapore del mondo)
A. Valsalva, De Aure Humana Tractatus, Tav. X (1704)
Dal punto di vista anatomico, per arrivare ad una descrizione accurata dell’orecchio si dovette attendere Antonio Maria Valsalva, allievo di Malpighi, che all’orecchio dedicò il primo trattato della storia occidentale, il De Aure Humana Tractatus (1704). Nella Prefazione, Valsalva affermava che una delle ragioni per le quali si fosse interessato all’orecchio era il fatto di dubitare “che tale organo sia stato fin qui abbastanza studiato”
Le orecchie, infatti, sono tutt’ora a margine. A margine di ogni discorso (ma sempre nel discorso), a margine del capo. Bisogna fare uno sforzo per ascoltar(l)e, nonostante le orecchie siano fessure perennemente aperte, sempre impossibilitate a non sentire; è necessario però «metterci in ascolto», il che corrisponde ad una posa corporea, quasi come se esistesse in noi un «interruttore» che sia in grado di azionare questa postura spirituale.
L’orecchio “è lì, immobile, bloccato, eretto, come un animale di vedetta” (R. Barthes). Esso è un segno della nostra animalità. Come scrive Joachim Ernst-Berendt, “inconsciamente, al suono reagiamo sempre come uomini primitivi, per i quali un suono forte era sinonimo di pericolo. […] La parola “allarme” viene da all'arme, la chiamata alle armi. Quando sentiamo un rumore, siamo costantemente – ma inconsciamente - «chiamati alle armi»”
In tal modo, l'udito è in tutto lo spazio. Posso girarmi, avvicinarmi ad una fonte sonora per provare a discernerne meglio i particolari, posso chiudere gli occhi per concentrarmi meglio, per eliminare ulteriori distrazioni. Ma, in un senso generale, le nostre orecchie permettono di arrivare a percepire un rumore anche in posti remoti, nascosti alla vista. Nel vagone di un treno, se accade qualcosa dietro di me (se accade qualcosa di sonoro) la mia attenzione è immediatamente richiamata verso la fonte sonora; lo stesso vale per tutti gli altri viaggiatori.
Vi è un senso comunitario, nell'udito, che è in qualche modo inevitabile. Pur considerando le differenti caratteristiche di ogni individuo, siamo tutti chiamati a voltarci a individuare l'origine del rumore. Nel momento in cui succede qualcosa, in cui avvertiamo un rumore, siamo tutti chiamati a rispondere.
Al contempo il rumore non richiede una totale partecipazione da parte nostra, al contrario è quasi impossibile fermare il suo potere invasivo. Siamo infatti sempre divisi tra una forma passiva di ascolto e una forma attiva. L'udito è un senso che lavora senza interruzioni, è il basso continuo nella nostra vita.
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Georg Simmel pubblicava nel 1907 un breve testo, l’Excursus sullaSociologia dei sensi, che assieme al saggio sulla Metropoli e la vita dello spirito e a quello sullo Straniero, forma un trittico incredibilmente pregnante ancora oggi. In questi testi emergono infatti osservazioni sull’esperienza urbana di grande rilievo per l’interpretazione del comportamento della società attuale.
Simmel afferma che l'equilibrio psico-fisico dell’individuo moderno è sconquassato dal frastuono e dal marasma sensoriale della vita urbana. A causa delle sue caratteristiche fisiche e spaziali, lo spazio della metropoli non permette più il normale utilizzo dei sensi; gli individui trovano tuttavia una scappatoia dall'ipersensibilizzazione della realtà mediante l'astrazione dei propri sensi: essi possono cioè rifugiarsi nell'indifferenza del proprio ego per preservare la continuità della loro vita interiore. La vita metropolitana ha così come conseguenza essenziale quello di assottigliare progressivamente le differenze soggettive tra gli individui fino a raggiungere un’atrofia oggettiva comune, quello che per Simmel è l’atteggiamento blasé. Si tratta di una strategia protettiva che conserva l'energia della reazione agli stimoli: “l'uomo moderno viene urtato da innumerevoli impressioni, innumerevoli situazioni gli appaiono insostenibili ai sensi, mentre esse sono accettate senza alcuna reazione del genere da modi di sentire più indifferenti e più robusti” (G. Simmel, Excursus sulla Sociologia dei sensi).
Simmel non solo teorizza in tal modo una corrispondenza diretta tra il caos urbano e l'aumento dello stato «nervoso» dell'individuo, ma anche un progressivo e inevitabile impoverimento dell’esperienza sensoriale stessa.
In particolare è la vista che, nell’economia delle facoltà sensibili, acquisisce un ruolo di primaria importanza a discapito dello sviluppo degli altri sensi: “il traffico che vi si svolge [nella metropoli], confrontato con quello della piccola città, mostra una preponderanza smisurata del vedere sull’udire gli altri; e ciò non soltanto perché gli incontri per strada nella piccola città riguardano una quota relativamente grande di conoscenti con i quali si scambia una parola o la cui vista ci riproduce l’intera personalità, non solo quella visibile, ma soprattutto per effetto dei mezzi di trasporto pubblici. Prima dello sviluppo degli omnibus, delle ferrovie e delle tramvie nel secolo XIX, gli uomini non erano assolutamente nella situazione di potersi o doversi guardare tra loro per minuti o per ore senza parlarsi.” (Ibidem)
H. Daumier, Nell'omnibus (1864)
Ma il predominio della vista è anche una conseguenza di una superiorità dell’occhio sull’udito. La peculiarità dell’Excursus simmeliano risiede in una descrizione dei cinque sensi in base alla loro “prestazione” nel mondo sociale; in particolare, è il concetto di Wechselwirkung – effetto reciproco – che è alla base di tale classificazione. L'idea fondamentale che Simmel afferma nella Sociologia dei sensi è che la sensorialità consente relazioni sociali e influenza anche la comunicazione tra individui. Questa capacità è diversa per ogni senso e dipende dal contesto storico e sociale. I nostri sensi influenzano infatti le situazioni sociali; secondo le reazioni che suscitano in noi le impressioni sensoriali applichiamo implicitamente una vera gerarchizzazione sociale che ci allontana o ci avvicina a determinate persone o gruppi sociali. Secondo Simmel, la vista e il tatto rappresentano i sensi della reciprocità totale, vale a dire che sono i sensi che, con un solo atto, rendono possibile dare e ricevere allo stesso tempo; non è infatti possibile incontrare lo sguardo di qualcuno senza essere allo stesso tempo guardato, quindi senza diventare noi stessi un oggetto di conoscenza.L’udito è invece più ingannevole dell'occhio; se tramite il volto di un individuo noi abbiamo accesso ad una conoscenza «geologica» dello stesso, ovvero una conoscenza che anticipa le sue azioni e ne è in qualche modo indipendente, attraverso l'ascolto della sua voce possiamo intendere il suo stato d'animo, che tuttavia è fuggevole e temporaneo.
La nostra vita sociale è strutturata sulla dialettica tra occhio e orecchio, poiché «se al nostro orecchio non sfuggissero immediatamente le parole udite che in compenso esso ritiene nella forma della memoria, se al senso della vista ai cui contenuti manca questa forza di riproduzione, non si offrisse la permanenza del volto e del suo significato, la nostra vita inter-individuale si fonderebbe su una base assolutamente diversa» (ibidem) Simmel nel suo Excursus offre una delle testimonianze occidentali della presenza di una metafisica della vista: si associa cioè alla vista l’implicito significato della permanenza, della stabilità. Questa metafisica ha fatto sì che l’udito e il fenomeno sonoro passassero in secondo piano.
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La negligenza nei confronti delle nostre orecchie è evidente nella terminologia stessa che associa il termine “suono” sia al fenomeno sonoro stesso che alla vibrazione fisica che è causa del suono. Come scrive Michel Chion, bisogna ammettere che in questa scelta terminologica vi è qualcosa di più di una semplice pigrizia o di un’ignoranza, ma si tratta “di un fatto culturale degno di interesse in sé…e che il suono è anche questa confusione.” (Ibidem) Inoltre, la dissimmetria fondamentale – e la sua conseguente gerarchizzazione- che esiste tra il senso visivo e quello dell’udito deriva direttamente dalla natura fisica dei segnali sonori, che si disperdono nello spazio; i fenomeni visivi sono affetti invece da una “spazialità ordinata” (Michel Chion, Le son, Nathan Université, p. 32), e se la natura del suono ci impedisce di concentrarci su una parte di esso ignorando i suoni ad esso contigui, al contrario un oggetto “visibile sulla mia sinistra non disturba la percezione di quello che appare invece alla mia destra” (p. 35).
Dove porta l’orecchio? Se a partire dalla pubblicazione di The tuning of the world (1977) di Murray Schafer l’attenzione nei confronti del fenomeno sonoro, soprattutto nei paesi anglofoni, si è finalmente destata, non si può dire lo stesso in ambito italiano.
È necessario mettere in discussione questa tradizione, che vede nell'orecchio l'anello debole dei sensi per il fatto che non si possa decidere di attivarlo a nostro piacimento. Il nostro obiettivo è quello di stabilire una discussione su qualcosa che è a margine. L’orecchio è un labirinto, e come tale non si potrà seguire un percorso lineare. Ciò che ci spinge a questa presa di posizione è innanzitutto la teoria dell’intimità di Peter Sloterdijk, che nel primo volume della sua sferologia, seguendo le tesi di Thomas Macho, formula una critica alla teoria freudiana delle fasi.
L’orecchio è, tra gli organi, il primo a instaurarsi, giacché esso è già presente nei primi giorni del concepimento e si sviluppa con una velocità impressionante, tant’è che dopo soli quattro mesi esso è già un organo completamente funzionante. Il feto ha in tal modo un’iniziazione psico-acustica all’interno del mondo sonoro uterino. Secondo Macho, la voce materna che il feto (intra)sente attraverso le pareti uterine costituisce “il germe mediale di qualsivoglia costituzione di comunità”.
Se l’individuazione, la “storia delle comunicazioni del soggetto in divenire con sé stesso e con le proprie estensioni vocali”, è fondata sull’udito e non sulla vista, ne consegue la necessità di una ridiscussione della tradizione occidentale. L’orecchio rubato è quindi un orecchio represso. Come possiamo ridonargli corpo?
Significativamente inserito all’interno di una collana intitolata “Filosofia e vita quotidiana”, il libro di Marco Menin (Il fascino dell'emozione, Il Mulino, Bologna 2019) aspira a sottoporre a trattazione filosofica uno degli elementi più quotidiani e onnipervasivi della nostra esperienza umana, ossia le emozioni.
Oggetto di studio proteiforme, resistente ad ogni classificazione univoca, le emozioni sono infatti presenti in quasi ogni ambito della nostra vita, risultando quindi dotate di un ambiguo doppio status filosofico: se da una parte esse sono state fin dall’antichità oggetto di interesse e di teorizzazione, da un’altra la loro natura misteriosa e magmatica ha fatto in modo che solo recentemente sia stato ad esse assegnato un ruolo di spicco nel quadro generale della vita umana.
Senz’altro utile è per questo l’approccio adottato da Menin, storico della filosofia per formazione, che può quindi tenere fisso lo sguardo sull’evoluzione diacronica del pensiero pur senza disdegnare le discussioni contemporanee sul tema.
Interessante è la scelta di un approccio multidisciplinare, con l’apporto di diverse ricerche scientifiche (psicologiche in primis ma anche biologiche, neuroscientifiche, antropologiche e sociologiche), che non serve solo a “dare corpo” a teorie filosofiche antiche, ma anche a stimolare riflessioni filosofiche attuali e contemporanee.
Il risultato è senz’altro quello di ben comunicare al lettore la natura sfaccettata e complessa dell’emozione, ma anche di mostrare come in tempi recenti il suo funzionamento e il suo ruolo siano stati sempre più oggetto di interesse e di ricerca.
Tale approccio multidisciplinare accompagna il lettore in ognuno dei capitoli del libro, ciascuno programmaticamente dedicato ad una tematica di interesse filosofico.
Il primo capitolo verte soprattutto sull’analisi diacronica dell’emergere della riflessione filosofica sulle emozioni dall’antichità fino all’epoca contemporanea.
Saggiamente accantonate le pretese definitorie dell’emozione, così come le distinzioni tra emozioni e sentimenti, l’autore inizia la trattazione proponendo una panoramica delle principali teorie storicamente succedutesi nel pensiero filosofico occidentale a riguardo della natura dell’emozione.
Menin distingue qui tre macro-teorie ideali, filoni di ricerca non omogenei al loro interno ma senz’altro testimoni di alcuni atteggiamenti radicati nella storia del pensiero, che l’autore chiama teoria dell’emozione come valutazione, teoria dell’emozione come percezione e teoria dell’emozione come motivazione.
La teoria valutativa dell’emozione assimila la risposta emotiva al risultato di un’inferenza valutativa: la persona dà un’interpretazione di una situazione e da tale valutazione scaturisce la risposta emotiva.
Pur nella sua apparente semplicità, tale teoria ha prodotto nell’antichità le più diverse valutazioni del fenomeno emotivo: dalla condanna delle passioni in Platone e negli stoici fino al più moderato e neutro giudizio di Aristotele, degli epicurei e di alcuni filosofi medievali, soprattutto tomisti.
A tale tradizione si affianca in epoca moderna una trattazione filosofica più aperta al ruolo biologico del corpo nel determinare emozioni e sentimenti: la feeling tradition o teoria dell’emozione come percezione, iniziata da Cartesio e proseguita con James e Damasio, vede nell’emozione una risposta anatomica ad uno stimolo, assimilandola dunque ad una semplice percezione organica.
Se da un lato la teoria valutativa sembrava assegnare spesso valori morali alle emozioni, la teoria percettiva può sottrarre l’emotività all’etica ed alla teologia per metterla in mano alla fisiologia ed alla psicologia sperimentale, fino alle moderne neuroscienze.
Ultima in ordine cronologico ad apparire sulla scena filosofica è la teoria dell’emozione come valutazione, di ascendenza darwiniana, che vede nell’emozione soprattutto una reazione di adattamento all’ambiente.
Dal pionieristico studio di Darwin sulle emozioni nell’uomo e negli animali fino alla riflessione deweyana sul concetto di arco riflesso, gli esponenti di questa tradizione vede nell’emozione un approccio all’ambiente circostante informato da processi di adattamento, esplorazione, valutazione, prova e risposta.
Il ruolo cognitivo dell’emozione è dunque decisamente rivalutato rispetto alla tradizione percettiva, pur inserendo alcune osservazioni della teoria valutativa in un più moderno framework darwinista.
In conclusione, questo primo capitolo si rivela prezioso in virtù della sua efficace ripartizione delle diverse teorie in categorie “aperte”, non stringenti ma euristicamente efficaci, capaci di dare un ordine a duemila anni di riflessione senza forzare le peculiarità dei singoli autori.
Mentre il primo capitolo è soprattutto un’opera di sistematizzazione all’interno della storia della filosofia, il secondo capitolo si presenta invece come un serrato dialogo tra filosofia, antropologia, psicologia e sociologia.
D’altronde, trattando di un tema quale la diversità culturale delle emozioni, il riferimento è obbligato.
Spaziando dalla disputa settecentesca sulla naturalezza del pudore, in cui all’interesse etnografico si mescolavano polemiche anticlericali o apologie del cristianesimo, fino alla decennale querelle psicologico-antropologica sull’universalismo delle emozioni, negato dai costruzionisti seguaci di Margaret Mead e fortemente difeso da Paul Ekman.
Se il confronto tra universalismo e costruzionismo sembra essere soprattutto dominato da altalenanti fortune storiche, l’autore mostra chiaramente come ben prima della psicologia moderna già autori come Spinoza e Rousseau avessero prodotto teorie dinamiche dell’emozione, mettendola in relazione, nel caso di quest’ultimo, con il contesto sociale.
Non sorprende dunque che proprio Rousseau sia il trait d’union tra filosofia moderna e scienze sociali contemporanee: dalla psicologia sociale di George Herbert Mead, alla sociologia durkheimiana fino all’antropologia culturale di Ruth Benedict, l’emozione è stata pervasivamente contestualizzata in una teoria delle relazioni sociali, mostrando come essa sia al contempo collante sociale e prodotto dell’interazione stessa.
Stranamente però l’autore non fa riferimento alla ricca tradizione di sociologia delle emozioni, che si dipana dall’opera di Arlie Hochschild e Peggy Thoits fino ai più recenti contributi.
Tale filone di ricerca, attivo anche in Italia grazie all’opera di Gabriella Turnaturi e di Massimo Cerulo, arricchirebbe senz’altro la panoramica sull’emozione di notevoli valide prospettive.
Una trattazione interdisciplinare, esplicitamente rivolta con interesse alla sociologia, avrebbe infatti molto da guadagnare dall’inserimento dei risultati di queste ricerche nel suo quadro teorico.
Tale confronto sarebbe ancora più interessante in vista della trattazione che Menin dedica all’opera di William Reddy, originale proponente di una teoria storico-sociale dell’espressione emotiva, capace di superare le dicotomie tra universalismo e costruzionismo indagando le specifiche modalità di espressione (emotives) che comunicano sentimenti privati in una sfera pubblica.
Molto pregnante è la trattazione che l’autore riserva alla relazione tra genere e dimensione emotiva, ricorrendo ad un autore a cui ha già dedicato numerose riflessioni, ovvero Rousseau.
Nei romanzi epistolari del filosofo ginevrino, il pianto emotivo viene slegato dalla tradizionale associazione con la femminilità, per divenire emblema e simbolo di una sensibilità nuova e capace di andare oltre alle barriere di genere.
Ammirevolmente coeso al suo interno, pur nel fiorire di prospettive e tematiche affrontate, il secondo capitolo introduce molti dibattiti e teorie che verranno in seguito riproposti, mostrando, come detto, la capacità dell’autore di inserire approcci diversi all’interno di un discorso uniforme e coerente.
Tema principale del terzo capitolo è la relazione tra emozioni e linguaggio: l’atto di esprimere emozioni in forma linguistica suscita infatti molte riflessioni, innanzitutto concernenti il divario che intercorre tra la concreta esperienza empirica dell’emozione e le ridotte possibilità espressive che la lingua mette a disposizione.
L’inevitabile “appiattimento” semantico della ricchezza emotiva in una descrizione comprensibile linguisticamente ma impoverita è uno degli argomenti in favore di chi nega che le emozioni possano essere pienamente tradotte in parole.
Ulteriore sviluppo di questa teoria lo si può riscontrare guardando ai vocabolari emotivi delle diverse culture, che presentano una pletora di vocaboli intraducibili usati per esprimere situazioni affettive ed emotive.
D’altronde, le emozioni sembrano avere radici pre-linguistiche molto più profonde delle nostre abilità verbali, come evidenziato da Jaak Pankseep e dal campo di ricerca da lui iniziato, la neuroscienza affettiva.
Se dunque la cultura di appartenenza gioca un ruolo chiave nello strutturare le espressioni emotive, l’universalismo emotivo sembra quantomeno avvalersi di un parziale vantaggio rispetto a teorie del tutto culturaliste: la discrepanza tra sentire ed esprimere il sentimento mette continuamente in gioco le nostre risorse linguistiche, trovandole spesso bisognose di nuovi mezzi espressivi o addirittura carenti di risorse verbali, ma nonostante questo le emozioni persistono anche in circostanze in cui il ruolo del linguaggio è minimo o assente.
La natura pre-linguistica delle emozioni è di fondamentale rilevanza quando si indaga l’emotività di chi difetta proprio della parola: ammirevolmente, Menin inserisce nel capitolo una trattazione sull’emotività animale, a lungo negata in passato e ora importante fattore nel garantire l’estensione di diritti fondamentali anche a molti animali.
Tornando rapidamente alla relazione tra linguaggio ed emozioni dopo il breve excursus sull’emotività animale, abbiamo qui una panoramica sulla funzione persuasiva del linguaggio: se il capitolo si è aperto osservando come l’emozione fatichi ad essere efficacemente contenuta dal linguaggio, ora essa è obiettivo, scopo dell’atto linguistico.
Come si sa fin dall’antichità, la retorica non può prescindere dall’emozione suscitata nell’ascoltatore.
Questa lezione antica, che annovera il movere ed il delectare tra gli obiettivi del discorso retorico, è stata ben recepita dalla pubblicità, che ha fatto di essa ampio uso nello sfruttare il sentimento innescato nello spettatore a fini commerciali.
Se dunque è possibile innescare reazioni emotive nell’interlocutore tramite processi linguistici, è tuttavia anche possibile che tale procedura conduca ad esiti spiacevoli.
Il caso del fraintendimento emotivo, in cui l’interpretazione non già dell’emozione altrui, chiara e manifesta, ma della causa di essa, porta a incidenti comunicativi di diversa portata, culminanti nel tragico caso dell’Otello shakespeariano, è paradigmatico della fragilità delle interazioni emotive.
All’interno della moderna psicologia, proprio la questione del fraintendimento è stata affrontata da Paul Ekman, già citato nel capitolo precedente, che ha elaborato un sistema di riconoscimento di microespressioni facciali capace di individuare le finzioni emotive.
Tuttavia, ci tiene a precisare Menin, non tutte le azioni simulate sono false: molte possono essere finte ma non falsate a scopo di dolo.
Emblematico è il caso dell’attore, che si adopera per comunicare emozioni allo spettatore pur non essendo realmente nello stato d’animo rappresentato.
Allo stesso modo, anche i personaggi fittizi delle opere d’arte, che spesso ci commuovono e ci emozionano, sono finti ma non per questo falsi o meno apprezzati.
In conclusione, questo capitolo affronta molte questioni diverse, spaziando dall’antropologia linguistica alla questione animale, dalla retorica persuasiva alla psicologia e alla riflessione sull’arte teatrale di Diderot.
Il risultato si presta a giudizi ambivalenti: personalmente ho apprezzato la varietà e la ricchezza degli stimoli, a mio avviso non caotici, ma comprendo che effettivamente essi possano risultare troppo eterogenei in un capitolo così breve e coinciso.
L’intera riflessione sul tema dell’emozione animale ben si inserirebbe in una cornice antropologico-filosofica, come quelle tracciate da Gehlen e Plessner.
Ovviamente, non è possibile sviluppare tali tematiche in un paragrafo, e l’autore fa bene a trattare il tema come una interessante appendice al più ampio tema dell’espressione linguistica dell’emozione.
Sarebbe però interessante approfondire una questione così attuale e feconda di spunti in una trattazione più estesa e dedicata unicamente a tale argomento.
Allo stesso modo, anche il tema dell’emozione nell’arte, adombrato nella trattazione sulla retorica, l’arte ed il teatro, si presta ad una riflessione maggiormente approfondita.
Come detto, il capitolo è denso di tematiche, riconducibili in senso lato al tema sterminato dell’espressione dell’emozione.
Tuttavia, il capitolo terzo, insieme al precedente, potrebbe essere letto soprattutto come un tentativo di mediazione intellettuale: tra gli eccessi del riduzionismo biologico-psicologico, che racchiude l’intera sfera emotiva all’interno di processi spontanei, e del costruzionismo radicale, che dà spazio unicamente alla dimensione sociale dei sentimenti, l’autore è fautore di un approccio equilibrato e moderato, a mio avviso davvero ammirevole e necessario.
Questo è forse lo spunto di riflessione più significativo non solo di questi capitoli, ma dell’intera opera.
I capitoli quarto e quinto ritornano in pieno nell’alveo della tradizione filosofica, vertendo uno sulla relazione tra morale ed emozione e l’altro su quello tra ragione e morale.
Primo punto di riferimento per sviluppare il tema del quarto capitolo è senz’altro David Hume.
Il pensatore scozzese, fautore di una teoria del contagio emotivo, è il primo a dare corpo ad una “scienza delle emozioni”, non valutativa ma ispirata ai principi della scienza descrittiva.
Osservare la genesi delle passioni senza giudicarle vuol dire soprattutto darne una descrizione nel processo di azione morale come farebbe un anatomista (esempio di Hume), senza voler incitare le persone al comportamento virtuoso.
Sulla scia di Hume si collocano molti altri illuministi scozzesi, tra cui Adam Smith, tutti concordi nell’assegnare alla simpatia (emotiva) un ruolo fondamentale nell’azione morale.
Anche le neuroscienze contemporanee sembrano avvallare alcuni assunti humeani, tuttavia alcune prospettive risultano paradossali per una riflessione filosofica sul tema dell’etica.
Alcune prospettive neuroetiche, poggiando sulla scoperta dei neuroni specchio, fondamentale nello spiegare la riproduzione di comportamenti osservati, sembrano privare gli esseri umani del libero arbitrio, riducendo la loro condotta morale ad una reazione posteriore ad azioni istintuali.
Tali prospettive, discusse animatamente da neuroscienziati e filosofi, sembrano troppo eccessive, tuttavia le etiche fondate sull’empatia non richiedono affatto simili riduzionismi.
La teoria dell’empatia morale di Hume e Smith, con notevoli varianti, è ancora oggi favorevolmente accettata da molti.
Tale corrente, sfociata nel sentimentalismo etico contemporaneo, è affrontata da Menin facendo riferimento ad alcuni autori più o meno recenti: dalle etiche della cura, fino alle teorie di filosofia sperimentale in autori come Nichols e Prinz, molti ritengono il sentimento condizione necessaria per la condotta morale.
Tuttavia, nota Menin, le emozioni sono state giustamente anche ritenute dannose per la condotta morale: se una posizione kantiana può apparire eccessiva, è evidente che alcune “cattive emozioni” non sono facilmente inseribili in una vita morale.
Il caso della rabbia, oscillante tra passione dirompente e lecita ribellione all’ingiustizia, è forse il più paradigmatico di questa schiera di emozioni ambigue moralmente.
Il passaggio tra il capitolo quarto e il quinto è più sfumato che altrove, poiché il tema della razionalità delle emozioni coincide ampiamente con quello della riflessione etica.
Il capitolo quinto inizia infatti opponendo due tradizioni di pensiero a riguardo delle emozioni e della loro relazione con la ragione.
Se molti autori antichi e moderni le hanno a lungo represse e ritenute “mali dell’anima”, da sottomettere alla ragione, sarà Pascal a mostrare che il “cuore”, ovvero la sensibilità umana, ha le sue “ragioni”.
Per il pensatore francese, l’emozione non è solo importante o di aiuto nel ragionamento: essa è vitale, base e fondamento dell’inferenza (“i principi si sentono, le proposizioni si dimostrano”, ebbe a dire), ma anche garante dell’accettazione di una credenza: se non si dà l’assenso “con il cuore”, ogni ragionamento è vano.
Sarà Hume a radicalizzare il rapporto tra volontà razionale ed emozioni, rendendo la ragione “schiava delle passioni”, ovvero atta solo a muovere i suoi passi a partire da stimoli emotivi, non di ostacolo ad essa ma unico autentico motore.
Da qui, come detto, si ritorna alla discussione etica, aperta da due varianti di sentimentalismo etico.
Esse sono l’emotivismo, che partendo dalla riduzione dell’enunciato morale a mera espressione emotiva, più o meno soggettiva, operata da Ayer, ritiene il lessico morale una semplice comunicazione di uno stato emotivo causato da un’azione.
Altri autori, cognitivisti (non razionalisti etici) associano all’emozione una valutazione cognitiva, restando all’interno della tradizione sentimentalista pur senza essere emotivisti.
Alcuni, come Solomon, ritengono che le emozioni siano risultato di valutazioni assiologiche, ovvero di conferimento di particolari valori negativi o positivi a qualche stato di cose, passibile, come le credenze, di verifica e revisione.
Concludendo l’excursus sull’etica iniziato nel capitolo prima, l’autore nota come, al di là delle singole teorie, sia l’emotivismo che il cognitivismo abbiano mostrato l’inadeguatezza di una riflessione morale razionalista, che volesse prescindere in campo morale dalle emozioni.
L’ultima parte del capitolo, e del libro, è dedicata al tema dell’intelligenza emotiva.
Dalla difesa della razionalità delle emozioni, che secondo Martha Nussbaum informano i nostri processi cognitivi orientando la nostra ragione verso il mondo e portandoci ad interpretare, valutare e validare le nostre credenze, prendono le mosse coloro che vogliono mostrare non tanto la non mutua esclusività di ragione ed emozioni, ma la loro totale interdipendenza.
Anche in campo psicologico abbiamo assistito ad una presa di coscienza circa il ruolo delle emozioni nella nostra vita.
Alcuni autori hanno infatti proposto una sorta di “educazione all’emotività” volta ad insegnare ai bambini a riconoscere i loro sentimenti e a saperli incanalare in modo costruttivo nella loro vita, nelle loro relazioni e nelle loro interazioni sociali.
Purtroppo, emerge proprio qui, quasi come un fulmen in clausula, la critica più grande, forse l’unica che posso sinceramente rivolgere, all’opera di Menin, assolutamente slegata dalla sua riflessione sulle emozioni e legata bensì al suo acritico (a mio avviso) utilizzo degli indicatori del quoziente intellettivo (QI) con eccessivo slancio.
Tali strumenti standardizzati sono stati da anni criticati, non solo metodologicamente ma anche a livello concettuale, per la loro dubbia utilità e per l’effettiva misurazione di qualche disposizione psicologica individuale stabile.
Alcune affermazioni categoriche dell’autore, che sembra ascrivere ad alcuni individui elevate doti cognitive in quanto “misurate” da tali test, sono secondo me decisamente fuorvianti e “stonano” con l’impianto generale dell’opera, comunque decisamente apprezzabile e notevole.
Concludendo, l’opera di Marco Menin risulta assai piacevole da leggere in virtù della sua approfondita e varia trattazione, non solo filosofica, della tematica emotiva.
La sua trattazione si configura come un doppio viaggio che si snoda lungo due assi: quello diacronico, sempre presente e visibilmente informato dall’approccio dello storico della filosofia, e quello tematico, svolto ponendo l’emozione in relazione alle dimensioni del linguaggio, della morale, della razionalità e di ognuno degli argomenti sopra citati.
Sarebbe stato forse opportuno, anche se non necessario, allegare un ulteriore capitolo dedicato all’estetica, branca della filosofia (ora anch’essa sempre più interdisciplinare) che con l’emozione ha sempre avuto a che fare.
Inoltre, il rapporto tra etica, estetica ed emozione, unite inestricabilmente nella vita umana, sarebbe forse campo di indagine privilegiato per una riflessione globale sull’emotività, in cui il sentimento fa, per così dire, “da ponte” tra la riflessione morale e quella estetica.
Tuttavia, la riflessione di Menin nel corso dell’opera appare decisamente esaustiva, ben oltre il livello di una introduzione minima al tema.
Come detto sopra, il saggio è dunque attento sia alla ricostruzione storica sia alla trattazione specifica di alcuni peculiari campi di applicazione della riflessione sull’emozione.
Questo doppio approccio, storico e tematico, è impreziosito dal taglio esplicitamente multidisciplinare, forse l’aspetto più gradevole del libro.
La molteplicità di approcci all’oggetto di studio, che emerge spesso purtroppo nel dibattito contemporaneo come una conflittualità di visioni intellettuali, si mostra qui invece decisamente improntata alla compatibilità, forse, mi pare il caso di dirlo, grazie soprattutto alla cornice filosofica, capace di ospitare al suo interno le diverse prospettive antropologiche, biologiche, psicologiche, neuroscientifiche e sociologiche.
La sintesi filosofica, pur non sistematica, emerge qui come utile strumento per orientarsi nella variegata riflessione che in molti campi del sapere si produce a riguardo delle diverse tematiche, in questo caso specifico l’emozione.
Accessibile come stile, il saggio di Menin è per di più arricchito da riferimenti a referenti culturali contemporanei e mainstream (film, serie tv, romanzi), sempre ben contestualizzati, in equilibrio tra trattazione filosofica ed esigenze divulgative, senza mai essere sintomo di un cedimento a logiche di “popolarizzazione” fine a sé stessa.
Essi risultano infatti un buon esempio di quel binomio, “filosofia e vita quotidiana”, che orienta programmaticamente la stesura dei saggi della collana.
In conclusione, la lettura di questo libro è forse, si spera, la prima avvisaglia di una maggiore sensibilità intellettuale per il tema delle emozioni, a lungo ritenuto marginale per la riflessione filosofica.
La vastità dei campi toccati da Menin in questa sua opera dovrebbe infatti quantomeno mostrare come la cosiddetta “affective turn”, la svolta emotiva, abbia recentemente reso disponibili al ricercatore molti promettenti campi di ricerca.
Una riflessione filosofica sul tema, aperta alla multidisciplinarietà e alla sintesi, è dunque senz’altro utile e gradita.
È stato lo stesso Derrida a spiegare le circostanze che lo hanno condotto a incontrare Valerio Adami e ad avviare con lui un buon rapporto: «Un giorno, il mio amico Jacques Dupin, che lavorava per Maeght, mi propose di collaborare con un pittore a un’opera in comune, una serigrafia che mescolasse il tratto, la pittura e la scrittura. […] Qualche mese più tardi, Jacques ha avuto l’idea di associarmi a Valerio Adami. […] Nel 1975, Dupin mi ha portato dei cataloghi e io sono rimasto subito colpito dalla forza, dall’energia del tratto, ma anche da un richiamo nel disegno – e anche nella pittura – ad altri tipi di scritture: letteraria, politica, “storica”. Assai presto ho notato l’esistenza, nella sua opera, di un certo rapporto sincopato con l’evento letterario o politico, con gli scritti di Joyce o Benjamin, con le rivoluzioni europee di questo secolo, la rivoluzione russa, quella di Berlino, ecc. Il tutto colto in modo ellittico, sincopato, in un tratto dalla forma molto singolare»
Com’è noto, il volume XI della Husserliana 1 (1966) raccoglie i manoscritti che Husserl dedica al problema delle sintesi passive tra il 1918 e il 1926. In realtà, la più recente pubblicazione dei Bernauer Manuskripte nel volume XXXIII (2001), a cui Husserl lavorò con Edith Stein nelle estati 1917 e ’18, mostra come la tematica della passività fosse latentemente presente già da molto tempo, in quanto strettamente connessa con il problema – «il più complesso di tutti i problemi fenomenologici» (Husserl 1966a, 276) – della coscienza interna del tempo. E se si considera che quest’ultimo tema occupa Husserl almeno fin dai corsi sulla percezione del 1905-’08 (raccolti in Hua X e XVI), è lecito almeno supporre che la fenomenologia genetica “covasse” nel laboratorio fenomenologico husserliano molto prima degli anni Venti.
Anno più anno meno, un secolo fa. Un secolo in cui si è tentato dapprima di archiviare la fenomenologia husserliana, per fare spazio alle grandi ondate culturali esistenzialiste, strutturaliste e post-strutturaliste, per poi ridarle nuova linfa innestandola su tradizioni di pensiero anche molto lontane dalle sue origini. La storia della fenomenologia nell’ultimo secolo è dunque caratterizzata dalla sua continua ibridazione con altri modelli filosofici – iniziata ben prima della morte di Husserl: si pensi al § 7 di Sein und Zeit, dove troviamo in nuce il concetto di “fenomenologia dell’inapparente” (Heidegger 1976, 59) – e, soprattutto, con intenti teorici molto frequentemente in aperto contrasto con lo spirito fenomenologico che ha da sempre animato le ricerche husserliane.
Nel testo di recente pubblicazione per Quodlibet, Postcritica. Asignificanza, materia e affetti, Mariano Croce si inserisce nel dibattito contemporaneo sul tema della postcritica, ambito trandisciplinare degli studi umanistici, che coinvolge non solo la riflessione filosofica, ma anche l’antropologia, la sociologia, la critica letteraria, la linguistica e i cultural studies. Il termine postcritica fu coniato negli anni Cinquanta da Michael Polanyi, scienziato e filosofo; esso designa una posizione teorica che si propone di andare oltre l’orientamento della filosofia critica, il cui paradigma epistemico coincide con la ricerca di un rapporto obiettivo con la realtà e più nello specifico con la lettura, possibile solo nella misura in cui si utilizzano le lenti del dubbio e dell’epoché, scavando nelle profondità occulte e nascoste del reale e dei testi. La postcritica supera quest’esigenza “paranoide” che culmina nella cosiddetta “ermeneutica del sospetto”, presentandosi piuttosto come un’attitudine di incontro con il mondo e la lettura, che ne metta in luce gli aspetti fenomenologici, estetici ed affettivi. Come nota Eve Kosofsky Sedgwick in Paranoid Reading and Reparative Reading, uno dei testi fondativi della postcritica: «il sospetto guarda solo al generale, ai grandi apparati nascosti e affoga il singolare, le relazioni locali, contingenti in un episteme che ritiene onnicomprensiva» Sedgwick, 2003, pp. 123-151). Allo stesso modo per Rita Felksi, Elizabeth S. Anker, Bruno Latour o Laurent de Sutter, esponenti di spicco del movimento postcritico, gli strumenti critici “hanno esaurito il loro vapore”, secondo un’incisiva espressione di Latour (Latour, 2004, p. 225), lasciando il posto ad una diversa immagine della lettura e della nostra interazione con la realtà. Per gli autori sopracitati in quest’ottica non c’è nulla da indagare oltre e al di sotto degli a/effetti che il mondo e l’esperienza dell’incontro con i testi producono.
ll libro di Croce si presenta come un contributo originale rispetto alla letteratura del campo nella misura in cui offre al lettore tre nuovi strumenti concettuali per fare postcritica. Attraverso le nozioni di asignificanza e materia, nonché tramite una specificazione del concetto di affetto, l’autore segue infatti un percorso logico-argomentativo che porta a definire lo spazio pratico, poietico e vitale della postcritica. Essa si mostra come un esercizio, un movimento o un’attitudine. Scrive Croce: «vorrei poter dare un senso di ciò che la postcritica fa anziché ciò che dice. Il mio dire sarà quindi un mezzo per fare postcritica» (p. 7).
Il primo capitolo del testo si apre tramite una riflessione da parte dell’autore sul concetto di asignificanza, tesa a dimostrare l’importanza di un ripensamento dell’idea di matrice logocentrica in base alla quale la realtà risulta accessibile solo nei suoi effetti epifenomenici linguistici e nelle sue trame segniche. Croce sostituisce a questa visione l’ipotesi di una fuoriuscita dal regime della significazione, per approdare ad «un linguaggio asignificatorio che tracci connessioni e crei legami tra le cose, anziché imporre loro un significato» (p. 20). Per l’autore la fascinazione profondamente antropocentrica per il significante si correla all’esigenza di un apparato critico, dal portato normativo. Criticare, seguendo l’etimo greco di krino, è infatti sempre sinonimo di creare confini rigidi, stabilendo crinali non oltrepassabili e giudizi che sanciscono limiti monolitici. Se tutto è significazione, parola, linguaggio e non si dà nulla oltre un fitto reticolo segnico, resta tuttavia un’esigenza quasi paradossale ed ossessiva (e ad avviso dell’autore nociva), di scavare al di sotto del logos per scorgere «una realtà più profonda, tacita, opaca, sede di meccanismi più pervasivi» (p. 14). Così l’ostinazione per il segno, (che si configura come una necessità imprescindibile di denominare e circoscrivere tramite la parola oggetti, vissuti ecc.), si coniuga ad un’attitudine critica, tesa a decrittare le verità che la significanza di fatto occulta e rende opache. Viene dunque esplorata l’ipotesi di un contatto con gli “effetti di superficie” che l’asignificanza produce, in contrapposizione all’inabissamento nelle profondità che avviene ad opera della critica. Croce, sulla scia di Deleuze, Latour e De Landa, definisce i presupposti teorici di un’“ontologia piatta” e immanente, un piano di consistenza orizzontale dove la vera profondità coincide con la superficie e gli oggetti non sono nient’altro che gli a/effetti che essi producono. Il processo di significazione perde quindi la primazia di unica condizione dell’esperienza, dando spazio alla realtà minuta degli interstizi topografici del non-linguistico. Ad avviso dell’autore tra lingua e topografia intercorre una distanza radicale: fuori dal linguaggio ci sono luoghi, tragitti e relazioni da mappare. La topografia del non-linguistico è letteralmente nella sua radice etimologica (“topos”, luogo e “graphein”, scrivere), una “scrittura di luoghi”, una cartografia delle relazioni e delle connessioni che gli enti intrattengono, al di là dei confini della parola. Da questo punto di vista, se il logos de-limita una zona sostanziale propriamente umana, l’affetto invece, presentandosi come un possesso non eminentemente antropocentrico e personalistico, attraversa gli enti secondo una direttrice transpecifica e transfrontaliera, eccedendoli e precedendoli in un senso non trascendente, ma topologico e trans-individuale. L’affetto intrattiene un rapporto stretto con l’impersonale e l’anonimo, è un tramite, un vettore di scambio che intesse mediazioni connettive e disgiuntive. L’affettività è quindi un costrutto topografico, che elude il perimetro del linguaggio, nella misura in cui veicola relazioni e congiunzioni. Per sfuggire alla trappola del segno occorre in definitiva collocarsi in un regime affettivo ed asignificante, non negando in toto la funzione del linguaggio, ma facendo breccia fra i suoi intervalli, fendendolo, balbettandolo e «piegandolo ad usi non significativi» (p. 21).
Il secondo capitolo del libro è dedicato ad un itinerario attraverso varie figure letterarie che “scrivono il movimento puro” (p.49): dai romanzi di Alain Robbe-Grillet, basati su un passaggio da un uso denotativo del linguaggio al linguaggio delle cose stesse, passando per le significazioni “tentacolari” di Giorgio Manganelli, per arrivare agli esercizi di stile di Raymond Quenau, Croce traccia una cartografia di una letteratura minore, dall’eco deleuziana. Il riferimento più affascinante contenuto nel testo tuttavia è forse quello dei romanzi di Clarice Lispector, che mettono in scena, in alleanza con Spinoza, una vera e propria poetica degli affetti e del movimento. È la stessa scrittura a divenire, a prendere forma in segni che più che di voci hanno i caratteri di gesti e vibrazioni: dire significa tracciare linee, unendo enti, situazioni e cose. Per Lispector usare la parola non comporta nessuna rinuncia alla componente materica del reale nella misura in cui attraverso di essa non si dice ciò che accade, ma si producono eventi. Gli autori citati rappresentano per Croce esempi di scrittura postcritica poiché “dissodano il linguaggio” (p. 38), scoprendo nuove alleanze tra le parole e l’esperienza, dando voce alle cose stesse, nella loro relazionalità. Ciò ad avviso dell’autore è possibile grazie all’utilizzo di procedure poetiche e narrative, quali figure retoriche come omoteleuti, onomatopee, lipogrammi etc. (nella fattispecie in Quenau) che disarticolano il linguaggio, frammentandolo e moltiplicandolo, orientandolo verso l’asignificanza, tramite enunciati che implicano l’evocazione di realtà materiche (aptiche, visive, gustative, nel caso di Lispector) o ancora, ad esempio, attraverso le “inerzie iperdescrittive” (p. 38) di Robbe-Grillet. Lo spazio che l’autore ritaglia alla letteratura è di ausilio nel definire una filosofia composta da relazioni, movimenti e flussi. Come nota Deleuze: «scrivere è una questione di divenire, sempre incompiuto, sempre in fieri» (Deleuze, 1993, p. 13). La letteratura permette inoltre di soffermarsi ulteriormente sul tema dell’asignificanza, sondandone i meccanismi e gli effetti.
Raymond Queneau - photomaton (circa 1929)
Nel terzo capitolo, dedicato alle operazioni della materia, l’autore mette a tema, sulla falsariga di Karen Barad, (una delle più rilevanti teoriche femministe dei “nuovi materialismi”), la nozione di intra-azione e di agentività, ampliando il suo intento di definire nuovi strumenti concettuali per esercitare la postcritica. Per Croce, lettore di Barad, l’intra-azione si presenta come l’assenza di una preesistenza dei termini sulle relazioni. Barad sostituisce al concetto di inter-azione, da intendersi come l’entrare in rapporto di termini (di individuazione, nella fattispecie) già stabiliti, la nozione di intra-azione, che implica il costituirsi dei termini in seno a dei rapporti e non al di fuori di essi. La materia si presenta cioè come uno snodo reticolare, come un dinamismo processuale e genetico; essa ospita relazioni che producono intra-attivamente termini (Barad 2017). Nell’universo della materialità-flusso, simultaneamente psichica e somatica, i termini non vengono prima delle relazioni, ma ne sono gli “effetti di superficie” (p. 9) e le increspature: essi si presentano come delle agglutinazioni sempre revocabili e in divenire. L’individuazione è in questo senso una composizione, una sezione intra-attiva della materia che la delimita in maniera aperta senza mai circoscriverla definitivamente. Per Croce: «l’individuazione prende corpo sul piano o superficie in cui le cose si compongono, scompongono e ricompongono» (p. 66). Il ricco vocabolario di Croce, intessuto di suggestioni icastiche e immagini evocative, ci dice sicuramente qualcosa del tentativo filosofico e argomentativo dell’autore: la parola si piega al non-linguistico, facendosi strada attraverso l’asignificanza, cercando di restituire “blocchi di sensazioni ed affetti”, per usare dei termini deleuziani. Dopo aver definito il concetto di intra-azione, Croce riflette sulla nozione di agentività, offrendo un percorso logico teso a mostrare come le due nozioni contribuiscono a ridefinire lo spazio di un “nuovo materialismo”. L’agentività, in questo senso non va intesa (nel senso classico socio-cognitivo) come la capacità di agire attivamente e trasformativamente di un singolo soggetto né tanto meno come un attributo che si predica di un individuo isolato, quanto piuttosto come l’energia emergente di un campo di forze metastabile e materiale, che esorbita i confini dell’Io. Croce prende a prestito dal pensiero di Gilbert Simondon il concetto di metastabilità. Per sistema metastabile quest’ultimo intende un campo di forze né stabile né instabile, sospeso in uno stato di equilibrio ricco di potenziali, che si conserva fintantoché non viene fornito allo stesso un quantitativo di energia che ne perturbi l’omeostasi. Punto d’arrivo della riflessione di Croce in questo capitolo è l’idea che l’attività agentiva ed intra-attiva della materia si presenti come un dinamismo di forze pre-personale, pre-individuale e metastabile in continua riconfigurazione, trasformativa ed affettiva.
Nell’ultimo capitolo del testo Croce mostra come gli incontri fra gli enti rispondano a dinamiche energetiche di “chemiotassi affettive”. L’autore mutua il concetto di chemiotassi dalla biologia, dove per il termine si intendono i fenomeni con cui organismi multicellulari o unicellulari direzionano i loro movimenti, a seconda della presenza di alcune sostanze chimiche. L’intento di Croce è quello di delineare (seguendo contemporaneamente la riflessione di Spinoza sulle affezioni e gli affetti) una mappatura degli incontri, nocivi o vantaggiosi, che compiamo giornalmente. “Taxis”, dal greco, è disposizione, relazionalità, ma anche allo stesso tempo, schieramento o contrappunto. L’Etica di Spinoza, nella fattispecie nella lettura che ne offre Deleuze, per Mariano Croce, si riferisce in fondo a situazioni minute e circostanziate, a grattacapi, malesseri o incontri favorevoli che accrescono la nostra potenza di agire: «un buon caffè come un amore, determinano un passaggio dello stato di potenza» (p. 79), così come, al contrario, se «ho preso un caffè in un brutto posto con una persona triste» (p. 66) non posso che intristirmi, facendomi attraversare da forze che agiscono a detrimento della mia potenza. Affettare ed essere affetti è dunque una scienza delle composizioni, “un’alchimia” delle connessioni, non antropocentrica, ma orizzontale: «che si tratti di un libro, di una pianta, di un minerale, di un individuo, di un gruppo di individui, di una comunità - si forma un’alchimia affettiva che elimina qualsiasi pretesa di distanza e neutralità» (p. 24). La dimensione affettiva della realtà materica implica dunque un concetto di ontologia che ospiti fra le sue pieghe un nuovo lessico, composto da termini aperti e smarginati, che rispecchino l’operatività energetica e sempre diveniente dell’essere metastabile. Per Croce connettori, reagenti, tensori, torsori, vettori (e,e,e…) abitano il piano di immanenza, popolandolo di molteplicità, intensità e variazioni.
In definitiva l’autore presenta la necessità di risemantizzare i termini tradizionali dell’ermeneutica, ridisegnandone i confini: al segno corrisponde il dominio dell’asignificante, all’atteggiamento interpretativo una collocazione affettiva, mentre la materialità orizzontale sostituisce le profondità di un atteggiamento critico. È in quest’ottica e da questo vertice osservativo che occorre attraversare il testo di Croce, misurandosi con una lettura che sia anch’essa affettiva, seguendo in ciò Deleuze, per il quale è necessario restituire «un’immagine pratico-affettiva della lettura, trasversale e non intellettualistica» (Deleuze e Guattari, 1972, p. 156). L’auspicio è dunque che l’impatto con il testo si configuri esso stesso come un’ermeneutica dell’incontro.
di Silvia Zanelli
Bibliografia
Barad, K. Performatività della natura (2017), ETS,
Pisa
Deleuze, G. & Guattari, F. (1972). L’anti-Edipo. Capitalismo e Scizofrenia. Torino: Einaudi
Deleuze, G. (1993). Critica e clinica. Milano: Raffaello Cortina
Latour, B. (2004). Why Has Critique Run out of Steam? From Matters of Fact to Matters of Concern, Critical Inquiry 30, N.2
Sedgwick, E. (2003). Paranoid Reading and Reparative Reading, or, You’re so Paraoid, You Probably Think This Essay Is About You, Durham: Duke University Press
In un film di qualche anno fa, Predestination (Australia 2014), i registi e fratelli gemelli Michael e Peter Spierig mettono in scena un vecchio racconto di fantascienza di Robert A. Heinlein, …All You Zombies… (1959), il cui protagonista è, al contempo, maschio e femmina, genitore e figlio/a, amante e amato/a. È la linearità (presunta) delle azioni che si susseguono nel tempo omogeneo a essere così, innanzitutto, radicalmente sovvertita. Una escogitazione narrativa originale, quella di un organismo nato all’interno della possibilità stessa di viaggiare nel tempo, autorizza un gesto che la metafisica si è sempre trattenuta dal compiere fino in fondo: elevare l’esperienza, con la sua radicale imprevedibilità, ad assoluto. Lo spettatore del film, come il suo protagonista (Jane/John), scoprono progressivamente un destino che nessuno ha scritto e che anzi si scrive, in maniera per forza di cose impersonale, attraverso il suo continuo accadere. Se si dovesse perciò trovare un’esemplificazione di quel che Federico Leoni affronta nel suo nuovo libro, L’automa. Leibniz, Bergson (Mimesis 2019), si dovrebbe, con ogni probabilità, fare ricorso a una figura analoga a quella al centro del film degli Spierig.
Anche l’automa, come la vicenda di Jane/John, è l’emblema di un divenire che si sottrae per definizione a ogni prevedibilità, come a qualsiasi pretesa di sovrana padronanza: che sfugge, in breve, alla calcolabilità dell’algoritmo. In fondo, il tema principale di questo piccolo ma importante libro, risiede nella differenza di natura che l’automa (spirituale o incorporeo, come lo definisce Leibniz) deve poter affermare rispetto alle macchine, e in particolare, in relazione alle molte macchine ‘pensanti’ con le quali oggi si tenta di strappare il divenire delle nostre vite alla sua radicale imprevedibilità. L’automa, insomma, è la figura di un organismo senza confini, di un essere che esiste tutto nel suo trasportarsi attraverso di sé, nel suo raggiungersi alla fine del proprio futuro come al principio del proprio passato, facendo così saltare per aria le paratie con le quali siamo soliti proteggerci dalla fatalità a cui ogni vita dovrebbe accordarsi. Imprevedibilità, in effetti, non significa né contingenza, né necessità, ma, piuttosto, continua ridefinizione del necessario come del possibile. Significa, in una parola, alterazione progressiva e cangiante delle stesse categorie con cui il pensiero tenta – tenta solamente – di irreggimentare l’automa.
L’argomentazione di Leoni prende due strade che, intrecciandosi l’una nell’altra come le due anime di una stessa corda, diventano progressivamente un'unica via. Il saggio, partendo dalla vicenda di Joë Bousquet, il poeta ferito di guerra paraplegico che già Gilles Deleuze eleggeva a simbolo della sua etica dell’evento (etica consistente per intero nel saper essere “all’altezza di ciò che ci accade”), mescola registro soggettivo e registro ontologico, determinando così quella indiscernibilità tra tempi distinti che fa appunto dell’automa la messa fuori gioco reiterata di tutte le opposizioni del pensiero metafisico. Una vita si scrive sempre in uno spazio che sfugge a ogni qualificazione nei termini della logica modale, vera e propria superficie di trascrizione ritmica e dialettica del divenire, allo stesso modo in cui il reale del mondo non si lascia acciuffare dalla scansione metafisica di sostanza e accidente, sostrato e accadere, soggetto e predicato. E viceversa, una vita non è un supporto al quale si aggiungono eventi, come il mondo non risponde alla distinzione di possibile e impossibile, contingenza e necessità. L’automa consiste tutto in questa ritrosia fondamentale, in tale riottosità del reale nei confronti dei nostri, umani troppo umani, schemi concettuali. La macchina, insomma, non è l’automa, perché l’automa è piuttosto la matrice informale e illocalizzabile di ogni macchina. Quel che l’automa, correttamente inteso, rivela è quindi l’impossibilità definitiva di calcolare e padroneggiare tecnicamente il divenire. Attraverso il suo situarsi sempre un passo al di là, o al di qua, di ogni concettualizzazione, come di tutte le prassi di adattamento tecnico del reale ai nostri bisogni, nel mentre che tutte le circoscrive e le include, l’automa offre la manifestazione di un’assoluta e crescente indisponibilità del reale. Reale è qui ciò che, come appunto l’automa, si muove da sé e non tollera quindi alcun genere di ingerenza, senza prima averla riassorbita.
Fritz Lang - Metropolis (1927)
Il paradosso di fronte al quale ci mette Leoni è infatti il seguente: il destino esiste solo fin quando vi si acconsente. Ogni manovra diversiva apre per ciò stesso una deviazione, istituisce “nuovo” destino, a sua volta imprevedibile. Leoni propone una sorta di psicoanalisi della metafisica, in cui la struttura nevrotica degli schemi concettuali tràditi diventa l’occasione di un lavoro decostruttivo che non può non essere, altresì, lavoro ricostruttivo. Emerge così qualcosa come una ontologia senza metafisica – un’ontologia della non invarianza dell’ontologia. Un’ontologia della perversione che dà luogo a un’ontologia che si perverte senza sosta. L’utopia, nel senso letterale della parola, è quindi costituire i prodromi di una «scienza del divenire» (p. 13), ovvero di ciò di cui, a detta di Aristotele (e con lui, di tutta l’episteme occidentale), non si dà scienza. Che il divenire sia isomorfo all’individuale è infatti fuor di dubbio: «Non esiste il movimento in generale» (p. 26). Il divenire è sempre singolare – e anzi, il divenire è il singolare. «Se si assume questo schema, scrive Leoni, la filosofia è possibile solo nella forma dell’esplorazione della propria impossibilità, è possibile solo come infinita rivisitazione della propria aporia» (p. 13). Ma la filosofia consiste proprio in questa sfida: occorre saper tramutare una impossibilità, quella della filosofia come scienza del non qualsiasi o del non generico, in effettività. Come fa, d’altronde, ogni creatore. Ogni creatore che si rispetti deve fronteggiarsi infatti con un compito impossibile – trasformare un fraintendimento in una risorsa. Harold Bloom, nel suo celebre L’angoscia dell’influenza, lo ha mostrato in relazione all’emergere di quanto definisce un «poeta forte». Ma il discorso vale vieppiù a proposito della vicenda filosofica. Anche in questo caso ne va della conversione di un travisamento inevitabile in un altrettanto inevitabile progresso, che si legittima à rebours quale correzione di quanto in passato era rimasto disatteso o, soltanto, era stato equivocato. La storia dell’automa coincide quindi con la storia della filosofia, come serie continua di tentativi riusciti proprio perché falliti. L’ontologia che Leoni lascia balenare nella sua istruttoria sull’automa registra questo fatto, elevandolo a cifra stessa del reale – di ciò che nel reale si presenta come l’essere qualsiasi. Paradosso ulteriore, quindi: il modo d’esistenza del singolare, ovvero del non-qualunque, è di essere, appunto, affatto qualsiasi. Di non avere scelta, per dir così.
Ecco allora che, nell’ultimo capitolo, L’inconscio, una storia di fantasmi, l’autore tira le fila del suo discorso con una mossa apparentemente inattesa: l’automa diventa un avatar, a sua volta, del fantasma. Lo scenario è vertiginoso e la batteria di concetti evocati vorticosa. Tutto non è altro che immagine, immagine in sé. Sono le celebri e difficili tesi del primo capitolo del bergsoniano Materia e memoria (1896), portate però qui al loro sviluppo più radicale. L’automa non è una macchina, dicevamo, ma ogni macchina è una forma, o un organo, dell’automatismo dell’automa. Pensare l’automa non significa considerare le connessioni di parti in esteriorità con cui ci si presenta il mondo notomizzato dall’intelligenza pragmatica; non è questione di funzionamenti di oggetti, ricavati dalla giustapposizione di realtà accomodate l’una all’altra secondo il loro profilo materiale. Pensare l’automa è pensare l’intramatura con la quale ogni lacerto di mondo, anche il più insignificante e infinitesimale, si installa e fugge al contempo in e da ogni altro. È vedere il mondo quale ribollio incessante di proliferazioni, di frattali in reciproca e diveniente ristrutturazione. Lo statuto dell’automa è lo statuto dell’esempio, di ciò che, senza scarti di alcun genere – senza la mediazione di una generalità interposta –, è il proprio stesso dover-essere. Di ciò che appunto è singolare: unico nel suo genere. «Ogni cosa è una ragione […] Ogni monade è insieme di un solo elemento, ma quel solo elemento non è un elemento solo, è sempre anche il proprio insieme» (pp. 44 e 74). Nell’atto di leggere Bergson e Leibniz, Leoni si precipita perciò al di là di loro – si spinge oltre il dualismo di tendenze che ancora caratterizza il dettato bergsoniano, come già Deleuze aveva notato, e il contingentismo che Leibniz fatica, malgrado tutto, a ricusare come a giustificare (significativo è che Leoni decida di non tematizzare direttamente la teodicea leibniziana). L’automa si presenta quindi come una meditazione sulla necessità di ontologizzare quanto si sottrae, in apparenza, a questa stessa eventualità: l’immaginazione – quella «funzione senza organo» (Georges Canguilhem) che, secondo il Kant della Critica del giudizio, può guadagnare in alcuni casi le prerogative di un «libero gioco» in cui non è più l’intelletto, con il suo quadro presupposto di categorie, a dettare le condizioni. Ecco che cosa vuol dire pensare una ontologia rescissa dai suoi vincoli metafisici: «E in questo senso ci sono solo nature al plurale, e ogni divisione produce una natura differente, ovvero la natura si divide producendosi in ogni divisione come un altro modo di essere natura, come un altro modo di naturare, un’altra genesi continua di discontinuità. In altre parole, tutto è artificiale, non c’è che artificio» (p. 17).
Il lavoro di Leoni, e non solo in questa occasione, ha come esito, dunque, una definitiva messa in mora della tentazione meccanicista che pure da sempre caratterizza una certa filosofia, intenta a cercare una clavis universalis con cui risolvere una volta per tutte i problemi della conoscenza e della vita. Speranza, d’altronde, dello stesso Leibniz che, con la sua characteristca universalis, immaginava di ridurre ogni controversia a un puro esercizio di calcolo. Fa notare l’Autore: «Ogni macchina contiene un appello alla trascendenza» (p. 51). Si tratta invece di lavorare a un concetto e una prassi conseguente di immanenza integrale. La suddetta chiave, sembra dirci infatti Leoni, semplicemente non esiste, perché deriva, al contrario, da un effetto interno a una potente tecnologia, che fa tutt’uno con quella alfabetica – la grammatica indoeuropea di soggetto e predicato, che struttura notoriamente gran parte della tradizione filosofica occidentale, almeno sino alla soglia del Novecento. Se pensiamo di poter ricostruire l’evento con i risultati della sua analisi (ricostruzione in atto già nella distinzione del flusso linguistico in parti del discorso), finiamo per cadere in una serie di perniciose aporie – tra le quali, e non per ultima, l’idea di un divenire che si aggiunge dall’esterno all’essere senza potersi mai davvero comporre con esso, di una molteplicità che si fa uno o di un’unità che si fa, non si capisce come, molteplice. Quel che va pensato, allora, è qualcosa che è «più di uno e meno di due» (p. 52), che resiste in questo bilico. Occorre solcare il paradosso senza cadere nell’aporia.
Fare filosofia ha sempre significato volersi cimentare con un compito inattuabile: trasformare la vita in un processo automatico. Perché si tratti di alcunché d’irrealizzabile, è presto detto: l’automa è la figura che rende impraticabile questa strada, nella stessa misura in cui la impone come inaggirabile. «Ogni automa è la macchina di ogni altro» (p. 59). La filosofia si identifica alla memoria, perenne perché ogni volta da rinnovare, di questa eccedenza o di questa sottrazione originaria, le quali rimandano entrambe, però, alla totale immanenza con cui l’automa prende forma, aderendo perfettamente solo a se medesimo. Perché di questo si tratta, di un prendere forma che resta tale – che resta in progress. L’automa, insomma, non è calcolabile. Tutto si può fare, tranne divenire-automi, se “divenire” significa passare dalla potenza all’atto. Semmai, si dovrà tornare a esserlo – tornare a essere quel che non si è mai cessato di diventare. L’unico vero automa, in altre parole, non è digitale, ma analogico. Nessun dio ci può salvare, va infine detto. Nemmeno quel dio minore che è il filosofo. Per fortuna.
Quella proposta da Einaudi con la riedizione de La fine del mondo di Ernesto De Martino, è un’operazione editoriale coraggiosa e assolutamente singolare. Pubblicato inizialmente nel 1977, il volume ci consegna riflessioni che De Martino (1908-1965) fu costretto a interrompere da una morte prematura, e che andavano allora concentrandosi sul tema escatologico della fine del mondo, inteso tanto nella sua dimensione storico-culturale – le “apocalissi culturali” di cui fa menzione il sottotitolo – quanto nel suo angoscioso orizzonte individuale – proseguendo il tema, già lungamente indagato in precedenza dall’autore, della “crisi della presenza”. Più che un libro, quello edito già allora da Einaudi era un cantiere nel quale il lettore veniva invitato a intrufolarsi e rovistare, prezioso archivio a cielo aperto del confronto corpo a corpo tra De Martino e il tema angoscioso su cui egli era giunto a concentrare le proprie ricerche – corpo a corpo del quale Clara Gallini, sua allieva a Cagliari, si sarebbe sobbarcata il compito decennale di selezionare e raccogliere le carte sparse, dando alla luce nel 1977 la prima edizione del volume (riproposta poi nel 2002 corredata da una nuova introduzione). Oggi, la casa editrice torinese ci presenta, volta all’italiano, la traduzione francese del volume pubblicata nel 2016 dalle edizioni dell’EHESS. Sarebbe estremamente riduttivo, tuttavia, parlare di quella francese come di una mera traduzione del testo originale italiano – e a farlo si perderebbe di vista la menzionata unicità di questa nuova Fine del mondo. I curatori – Giordana Charuty, Daniel Fabre e Marcello Massenzio – ne hanno piuttosto disposto una riedizione, accompagnata passo a passo da una serie di seminari, che li ha visti reimmergersi nell’archivio demartiniano per ricomporre nuovamente questo libro impossibile, rivedendo il canone istituito dalla prima edizione, con l’obiettivo di farci tutti, così, “divenire suoi contemporanei” (Charuty 2019, 29).
Una consapevolezza ha accompagnato la cura de La fine del mondo sin dalla prima edizione: non sarebbe stato possibile ‘completare’ il progetto per cui De Martino aveva cominciato gli scavi, e portare a compimento le intenzioni dell’autore; si poteva solo presentarne gli appunti, invitando il lettore, per così dire, a navigarli. Ed è questa consapevolezza che si trova riproposta, e rivendicata, anche in questa nuova edizione, che fa tesoro della storia del volume e ne segna una nuova decisiva tappa. Il setaccio della traduzione, la lingua nuova a cui è stato proposto di ospitare l’intricato testo demartiniano, è colta quale occasione per rilavorare le struttura del volume, reinterrogando i criteri che avevano soprinteso alla prima selezione dei materiali, e rinnovando in tal modo l’attualità dell’opera. Non, come si diceva, al fine di chiudere il cantiere, presentarlo in forma finalmente definitiva, risolverne gli enigmi e le contraddizioni: quanto piuttosto per manifestarne nuovamente l’evento e proporci d’incontrarlo daccapo.
Gli scritti sparpagliati – appunti, note di lettura, piani di progetti futuri, che talvolta evolvono in paragrafi più consistenti di cui l’edizione curata da Gallini ci presentava le faticose riscritture successive – raccolti in questo volume trovano sistematicità nella radicalità del tema che li chiama a raduno: la fine del mondo. Mondo e crisi sono temi su cui De Martino aveva lavorato sin dagli anni Quaranta: dapprima su fonti etnologiche di seconda mano, nel Mondo magico (1948), nel quale la consistenza del mondo è indagata là dove essa è il prodotto del sortilegio; e poi etnograficamente, con la trilogia meridionalista (Morte e pianto rituale, del 1958; Sud e magia, del 1959; e La terra del rimorso, del 1961), per raccontare un mondo, al cuore del nostro – le “Indias de por acá” –, che recalcitrava ad arrendersi di fronte al progetto razionalizzante della modernità. A questo mondo, De Martino guardava non con la nostalgia di che innervava in quegli anni tanta antropologia, bensì con la ferma decisione di non sottrarsi al dramma – esistenziale e politico al tempo – di questo stentato finire. “Carmela balla. Venite” (De Martino 2013, 115) è il grido, impossibile da sopire, che aveva animato l’intrufolarsi di De Martino nei mondi agonizzanti, e che pur parevano resistere alla traiettoria lineare della modernizzazione, della magia del Mezzogiorno italiano; un grido che lo aveva investito dell’urgenza e della responsabilità del suo ruolo di ricercatore, e sulla scia del quale anche il progetto incompiuto de La fine del mondo è da comprendersi.
Questo progetto, cui sarebbe toccato agli eredi dell’etnologo napoletano dar forma, conduceva De Martino lontano da scene esotiche, vicine o lontane che fossero da un punto di vista strettamente geografico, per aprire invece una breccia al cuore della modernità occidentale stessa, al fine di mostrare come il dramma dell’apocalisse risieda anche lì. Esso vi risiede, anzi, in una condizione che, nel panorama etnologico scandagliato dall’autore, ha dell’eccezionale: credendo di assicurare il mondo, i moderni ne hanno invece, da un lato, moltiplicato le capacità distruttive (aprendo il campo, che da allora ha saputo solo ampliarsi, della “fine del mondo come gesto tecnico della mano” [De Martino 2002, 119]), mentre dall’altro deridevano – o alternativamente “tolleravano” (Stengers 2005) –, credendo di ‘spiegarli’, i molteplici dispositivi di cui le comunità umane non occidentali – e “nonmoderne” (Latour 1995) – si erano dotate per avervi a che fare. L’analisi conduceva De Martino a una conclusione: l’apocalisse dei moderni è apocalisse senza eschaton, priva di un orizzonte di reintegrazione possibile. Nelle parole dell’autore: “il momento dell'abbandonarsi senza compenso al vissuto del finire costituisce innegabilmente una disposizione elettiva della nostra epoca” (De Martino 2019, 355). Di fronte a questa constatazione, tuttavia, l’autore non cercava un posizionamento che della modernità tentasse di disfarsi. Anche i tratti che del pensiero demartiniano sono stati tacciati d’intrattenere un flirt con l’irrazionalismo, in questo senso, sono da apprezzarsi in realtà quali esperimenti – esistenziali e scientifici al tempo – realizzati lungo il percorso che doveva condurlo a elaborare la proposta di un nuovo umanesimo, “etnografico”, di cui l’etnologia veniva proposta quale animatrice fondamentale.
Insomma, davanti alla crisi che investiva il mondo moderno e occidentale, e che nel proprio nel presentarsi “nuda e disperata” trovava il suo carattere specificamente moderno, De Martino non si arrendeva alla contemplazione. Lo sforzo in cui l’autore si produceva nel progetto de La fine del mondo era piuttosto clinico, terapeutico: il compito che gli si parava dunque di fronte – e di cui gli scritti consegnatici rimangono, pur nella loro densità e ampiezza di respiro, esercizio preliminare – era quello di “individuare l’esatto significato dei sintomi, l’estensione del contagio, il condizionamento della malattia, le forze della guarigione” (De Martino 2019, 356). Nei preparativi a questo compito, freudianamente “impossibile”, de Martino convocava risorse molteplici: l’antropologia, certo, e con essa la filosofia e la storia delle religioni, al crocevia delle quali l’autore si era formato sin dagli inizi della propria carriera intellettuale; ma insieme a quelle anche la psichiatria fenomenologica di marca tedesca, la psicoanalisi, la storia, la riflessione marxista, cui gli appunti raccolti ne La fine del mondo sono costellati di rimandi puntualissimi. Così, il volume letteralmente emerge dalle letture dell’autore; commenti fugaci, note di lettura, osservazioni a caldo si sviluppano in paragrafi densi, che approcciano il tema escatologico nei contesti più disparati: nel fragile mondo sorretto dal celebre campanile di Marcellinara, in Calabria, per esempio; nella filosofia della storia marxista, di cui De Martino individua una vera e propria apocalittica; nei movimenti millenaristici in diffusione all’epoca nel Sud del mondo, di cui De Martino coglieva appieno la portata anticoloniale; oppure nelle “apocalissi psicopatologiche”, di cui il documento clinico, minuziosamente analizzato da De Martino, dischiudeva l’originalissimo campo d’analisi.
Come accennato, l’edizione curata da Gallini esponeva la fatica di quel labor limae, impossibile da ridurre a mero sforzo stilistico, tramite cui De Martino rinegoziava minuziosamente, nelle scritture successive, il proprio posizionamento di fronte ai problemi che di volta in volta lavorava. Questa nuova versione, invece, rinuncia all’apertura sinottica sugli strati successivi dello scavo, preferendo selezionare di volta in volta una singola versione di ciascun paragrafo. Il beneficio, da lettori, è evidente: abbiamo a che fare con un testo che ci si presenta come definito, ‘deciso’, e il suo procedere risoluto di fronte ai temi trattati si staglia con più nettezza rispetto al contesto di provvisorietà e parzialità da cui il progetto, bruscamente interrotto dalla morte di De Martino, rimane caratterizzato. Una scelta, questa, che va compresa all’interno della storia di questo volume; scelta, cioè, che non ‘corregge’ la precedente, producendo un’edizione finalmente definitiva di questo testo travagliato; ma che la supplementa, invece, predisponendosi per ereditarne nella maniera più proficua. Rimane infatti lungo l’insieme della sua storia – storia inevitabilmente aperta – più che in ciascuna delle sue singole versioni editoriali – nella vicenda, cioè, di una sintesi che, pur necessaria, non può mai compiersi per davvero – che la potenza speculativa de La fine del mondo può dispiegarsi appieno.
Archivio Ernesto De Martino
È sufficiente leggere qualche paragrafo de La fine del mondo per rendersi conto di come il corpo a corpo che De Martino vi intrattiene con l’apocalisse, il suo rischio e le sue lavorazioni esistenziali e culturali non rimanga confinato al solo piano intellettuale. De Martino – che sempre si muove, proprio come pretendeva di essere trattato dai suoi interlocutori, da “persona intera” – si pone di fronte al rischio della fine (al “rischio di non poterci essere in nessun mondo culturale possibile”, secondo una celebre formula che ricorre più volte nel libro) con tutto il suo corpo: lo avverte e lo combatte, lo analizza e vuole disinnescarlo. La lucidità dell’argomentazione non cede mai il passo ai vezzi di una prosa pure a tratti barocca e per il lettore odierno antiquata, e soprattutto non deriva all’autore dallo sforzo di allontanare da sé l’oggetto della propria ricerca, quanto piuttosto dal riconoscerne e accettarne l’intima prossimità – una prossimità di cui, si è ipotizzato, era forse complice l’epilessia di cui soffriva, che costante gli ricordava la fatica della presenza e il perenne rischio della sua crisi.
Crisi del mondo e crisi della presenza sono infatti una crisi sola: crisi di quella soglia, ogni volta rinegoziata, che presenza e mondo istituisce come realtà distinte, piano di consistenza – “magia” avrebbe detto De Martino (1948; cfr. Leoni 2012) – che si spezza. Ecco allora che l’intimità di questa crisi, la precarietà di questa soglia, forza l’autore a una prosa lontana da quelle “equivoche castità del sedicente discorso oggettivo” (De Martino 2002, 91) che pretendono il mondo sia là fuori, solido, risolvibile, garantito. Per la persona intera che De Martino è, insomma, il mondo è affare indistinguibilmente epistemologico ed esistenziale: ‘ontologico’, a voler trovare una parola sola, non priva, per gli antropologi, di un’eco contemporanea.
Sotto la scorza di un gergo evidentemente influenzato in maniera decisiva da Heidegger, e proprio perciò a lungo ritenuto obsoleto, allora, si celano in realtà, nelle pieghe del discorso demartiniano, intuizioni perfettamente contemporanee, e che nella loro contemporaneità ancora attendono di essere sviluppate appieno: il mondo è fatto, istituito, patchy – ha bisogno di cure. A seguire queste intuizioni, l’avventura intellettuale cominciata con Il mondo magico e che si compie, pur senza compiersi, con La fine del mondo sembra invocare, naturale, una messa in dialogo con studiose e studiosi che in anni recenti hanno eletto la questione ecologica a sfida politico-esistenziale-epistemologica decisiva del presente, e che proprio sotto il segno della sua essenziale precarietà hanno iniziato a interrogare la consistenza del mondo (per esempio Stengers 2009; Tsing 2015; Danowski e Viveiros de Castro 2017; Latour 2019).
Quelle che condurrebbero a questo dialogo, sono tracce che, dobbiamo constatare, rimangono inesplorate anche nei pur validissimi testi critici che corredano questa nuova edizione. La fine del mondo, però, l’abbiamo già detto, è un testo che non si lascia leggere passivamente; se questi nuovi testi introduttivi – insieme a quelli classici di Clara Gallini e Marcello Massenzio che avevano accompagnato le edizioni precedenti del volume – sono essenziali nel porgerci questo libro-archivio nella sua viva complessità, rendendoci possibile incontrarlo, essi ci ricordano anche che, con un calembour, un’altra Fine del mondo è possibile – e spetta a noi immaginarla.
Opere citate:
Charuty, G. (2019), “‘Tradurre’ La fine del mondo”, in De Martino (2019), 5-29. Danowski, D. e Viveiros de Castro, E. (2017), Esiste un mondo a venire? Saggio sulle paure della fine, Nottetempo, Milano. De Martino, E. (1948), Il mondo magico. Prolegomeni a una storia del magismo, Einaudi, Torino. De Martino, E. (2002), Furore Simbolo Valore, Feltrinelli, Milano. De Martino, E. (2013), La terra del rimorso, il Saggiatore, Milano. De Martino, E. (2019), La fine del mondo. Contributo all’analisi delle apocalissi culturali, a cura di G. Charuty, D. Fabre e M. Massenzio, Einaudi, Torino. Latour, B. (1995), Non siamo mai stati moderni. Saggio di antropologia simmetrica, elèuthera, Milano. Latour, B. (2019), Essere di questa terra. Guerra e pace al tempo dei conflitti ecologici, a cura di N. Manghi, Rosenberg & Sellier, Torino. Leoni, F. (2012), “La magia degli altri, e la nostra. Ernesto de Martino e le tecniche della presenza”, in Paradigmi. Rivista di critica filosofica, XXXI, 2, 67-78. Stengers, I. (2005), Per farla finita con la tolleranza, in Id., Cosmopolitiche, Luca Sossella Editore, Roma, 599-729. Stengers, I. (2009), Au temps des catastrophes. Résister à la barbarie qui vient, Les Empêcheurs de penser en rond/La Découverte, Paris. Tsing, A. (2015), The Mushroom at the End of the World: On the Possibility of Life in Capitalist Ruins, Princeton University Press, Princeton (NJ).
Donna Haraway continua a popolare di mostri il mercato editoriale italiano. Dopo la nuova edizione Feltrinelli del Manifesto Cyborg e la recente traduzione di Cthulucene per NERO Editions, DeriveApprodi ha tradotto e pubblicato Le promesse dei mostri. Il testo originale del 1992, apparso sulla rivista Cultural Studies, è accompagnato da un’introduzione di Angela Balzano, la curatrice e traduttrice del volume, e da una postfazione di Antonia Anna Ferrante. In che modo un testo del 1992 può continuare a interpellare il nostro presente? Anzitutto, il testo contribuisce a una generale riconfigurazione nel campo delle scienze umane e sociali: entrano con lentezza nel dibattito alcuni snodi concettuali cruciali nel nascente ambito disciplinare delle environmental humanities; basti pensare a Essere di questa terra, una recente curatela di articoli di Bruno Latour, le cui tesi sono ampiamente discusse in Le promesse dei mostri. Spostandoci dall’editoria italiana al dibattito internazionale, è evidente che l’elaborazione di nuovi paradigmi ecologici stia dando un impulso rilevante alle ricerche sul concetto di natura nelle scienze umane e sociali, che si dimostrano capaci di siglare alleanze transdisciplinari feconde con le scienze dure. Questo rinnovato interesse per la natura reagisce insieme a dei mutamenti epistemologici - ecocriticismo, studi su scienza e tecnologia, epistemologia femminista, nuovo materialismo, etnografia multispecie, studi biopolitici su razza e genere - e a tempi di catastrofi quotidiane, che colpiscono comunità e territori a velocità variabili. È in questo paesaggio teoretico che va collocato questo testo della Haraway.
Le promesse dei mostri abbozza una mappa geografica e mentale di conflitti locali e globali relativi alla natura, cercando di «rendere più ibridi i Science and Technologies Studies, contaminandoli con i Cultural, i Gender e i Postcolonial Studies» (p. 24). Questo tentativo di contaminazione si nutre della convinzione che sia necessario scandagliare i contesti culturali e sociali di sviluppo delle scienze, e le relazioni di potere alle quali saperi e pratiche scientifiche hanno partecipato: in altre parole, si tratta di porre in evidenza la politicità di qualsiasi epistemologia. Cultura, genere, razza e colonialità offrono quindi la possibilità di interrogare le scienze come prodotti sociali che emergono dalla storia della modernità, con il suo portato criminale e traumatico, ma anche con le sue possibilità di ricomposizione. Questa cartografia viene suddivisa in quattro quadranti che insieme compongono un “Quadrato Cyborg”, ispirato al quadrato semiotico di Greimas: A. Spazio Reale: Terra; B: L’Altro Spazio o l’Extraterrestre; Non-B: Lo spazio interno: il corpo biomedico; e infine Non-A: Lo Spazio Virtuale: Fantascienza.
Questo schema può fornire ancora oggi alcuni riferimenti chiave nel modo in cui le scienze umane e sociali possono parlare di natura secondo almeno tre prospettive: una ontologica, una epistemologica e una politica. Tuttavia, questi tre sguardi non possono essere separati: la Haraway li snoda e annoda costantemente esplorandone le geometrie di rapporto, proprio come nel gioco del ripiglino, una delle figure-guida Cthulucene. Il nome con cui la Haraway chiama il proprio approccio, cioè l’artefattualismo dinamico, ci fornisce alcune note essenziali rispetto a questo groviglio di traiettorie. Secondo l’artefattualismo dinamico, sia le posizioni realiste sia le tesi postmoderne sul mondo naturale dicono qualcosa di vero ma parziale: la natura non sarebbe solo un insieme di dati bruti e di oggetti che risiedono “fuori da noi”, ma neppure un mero avvicendarsi di labirinti di segni senza via d’uscita verso la realtà, di trompe l’oeil semiotici nei quali gli enti sono simbolicamente sublimati senza rimedio. La Haraway è certamente disposta a sostenere sia che gli agenti naturali resistano e non si riducano alle sole pratiche di rappresentazione umane, sia che la natura sia costruita. Occorre però domandarsi chi costruisca la natura, quell’oggetto concettuale impossibile, femminile, coloniale, passivo che tuttavia, secondo la Haraway, non possiamo non desiderare. È nella nozione di sympoiesi che gli sguardi si possono annodare: se il limite del realismo moderno – nel senso in cui Bruno Latour intende la modernità – è di scommettere eccessivamente sulla capacità scopica di un osservatore disincarnato, di un occhio assoluto capace di elevarsi al di sopra del mondo, e se il postmoderno radicalizza questo atteggiamento scomponendo l’oggetto scientifico in una infinita mise en abyme di rimandi sui quali lo sguardo non può mai soggiornare stabilmente, allora l’artefattualismo dinamico tempera entrambe le posizioni, sostenendo che la natura è co-costruita: gli enti naturali e gli oggetti scientifici sono fatti e costruiti discorsivamente da un groviglio di attori umani e non-umani, che collaborano alla costruzione della natura come luogo comune. In altre parole, attrici e attori non si esauriscono in "noi" (p. 46).
Una simile prospettiva sulla natura richiede dunque un nuovo modo di concepire le scienze. In La nuova alleanza, Ilya Prigogine e Isabelle Stengers sostenevano che la scienza fosse un dialogo sperimentale fra l’uomo e la natura, e non – come Koyrè – il monologo che gli umani recitano usando la natura come palcoscenico. Per la Haraway entrambe le metafore sono insufficienti. Oltre il monologo e il dialogo, Le promesse dei mostri propone una scienza materialmente compromessa con il mondo che studia, appassionata partecipante a un chiassoso consesso di agenti umani e non-umani. Ogni scienziato ha dunque a che fare con dei collettivi ibridi, che solo una complessa operazione di purificazione consente di stabilizzare come modelli e dati. Queste considerazioni sono debitrici della lezione di Bruno Latour: citandolo in La vita delle piante Emanuele Coccia ci rammenta che le macchine usate da scienziate e scienziati sono “protesi cosmiche” della sua stessa sensibilità. Esse intensificano e amplificano la capacità di percepire consentendo la costruzione di nuovi modi di relazione con gli attori che popolano il mondo. Natura e Società sono dunque risultati storici del movimento degli attanti, schiume prodotte da onde di azione. Tuttavia, nella tesi di Latour, le coppie oppositive – natura-cultura, soggetto-oggetto, ambiente-tecnica – e i binarismi non scompaiono, ma sono presi in un pozzo gravitazionale che ne fa evaporare i tratti trascendentali. Non ci sono punti di osservazione assicurati una volta per tutte, ma attanti imprevisti e favolosi, nuove storie e relazioni effettuali che fanno e disfano mondi – dato che, come ci ricorda Katie King, le epistemologie sono storie che i saperi raccontano.
Sulle specifiche delle relazioni che gli scienziati intessono con i non-umani vanno però fatte delle importanti precisazioni, che pongono in attrito le tesi della Haraway e di Latour. Se Latour reputa che gli attanti che costellano le sue reti siano anzitutto frutto di un’operazione semiotica, e che dunque agiscano in quanto sono rappresentati, la Haraway invece sostiene che la natura non sia solo un network simbolico, per almeno due ragioni: in primo luogo, gli agenti non-umani non lo sono solo in senso semiotico ma anche in senso pienamente materiale e dinamico; in secondo luogo, Latour sembra voler parlamentarizzare e testualizzare quella che in fondo è un’assemblea disordinata senza principi di ordine netti e dati una volta per tutte: l’azione dei non-umani è invece “negativa”, imprevedibile, ferina, selvatica. Pone in questione obiettività, controllo, disposizioni, ordini e gerarchie. Queste critiche potrebbero essere compresse in un mutamento di lessico: se Latour insiste sulla rappresentazione, la Haraway preme sull’articolazione. Secondo la Haraway «la rappresentazione si fonda sul possesso di una risorsa passiva, l’oggetto silenzioso, l’attante ridotto all’osso» (p. 91): guardare le scienze considerando solo la prospettiva rappresentativa significa esporsi al rischio di confondere nomi e cose, di ripetere l’antropocentrismo adamitico della nominazione originaria, per cui l’ambiente acquisterebbe senso solo al tocco dell’uomo. Inoltre, per lo sguardo che rappresenta la distanza dall’oggetto rappresentato è una virtù: l’altro non è mai ingaggiato nella sua presenza viva, ma è tutelato infinitamente, testualizzato, trattato come un «docile elettore» (p. 91) di cui sono sufficienti le tracce registrate da chi lo guarda. Le relazioni in questo caso sono asettiche, si danno solo sotto la vigenza di una separazione sterile. L’articolazione invece scommette sulla capacità generativa ed energetica degli attori, sui loro movimenti: gli agenti sono tali in quanto scaturigini di azioni, senso e perché formano collettivi. Inoltre, una volta posta la natura semiotica degli attori fra altre caratteristiche, viene a cadere anche la messa in sicurezza della rappresentazione. Ogni articolazione è quindi al contrario sempre precaria, fallibile, e pertanto richiede attaccamenti forti, cura, manutenzione e coinvolgimenti appassionati. In conclusione, una scienza mostruosa non può porsi come osservatrice trascendentale disincarnata al di sopra della mischia, ma come fonte di responsabilità concreta nei confronti del mondo con il quale scienziate e scienziati hanno a che fare.
Lynn M. Randolph e Donna J. Haraway Cyborg
Non c’è quindi più spazio né per la modernità né per la post-modernità: i cyborg e i mostri della Haraway sono figure amoderne, che stanno nel mondo in senso critico ma senza oltrepassarlo verso un esterno che le metta al riparo: di qui, il grande interesse della Haraway per alcune lotte chiamate in causa in Le promesse dei mostri. Nel testo si può richiamare in particolare l’esempio dei Kayapo (p. 94), un gruppo indigeno brasiliano. Messi in pericolo da deforestazione e attività minerarie, i Kayapo fecero un uso massiccio dei mass-media per salvaguardare le proprie terre e per guadagnare potere politico, richiamando l’attenzione della comunità internazionale. L’immagine di Paulinho Paiakan di fronte alle telecamere potrebbe far leggere in senso paradossale la scena, come un cozzo fra un registro estetico “primitivo” – i vestiti tradizionali Kayapo, il richiamo alla tutela di un modo di vivere “autentico” legato indissolubilmente alla foresta pluviale – oppure, secondo la proposta della Haraway, come l’effetto di una nuova articolazione: il collettivo in cui i Kayapo si sono mossi ha avuto l’effetto di una nuova produzione di mondo, fatta di indigeni, scienziati, videocamere, foreste, animali, pubblici vicini e lontani. Si potrebbe leggere questo esempio insieme ad altri testi recenti che approfondiscono le cosmopolitiche amazzoniche, come La caduta del cielo di Davi Kopenawa e Bruce Albert; Esiste un mondo a venire? di Eduardo Viveiros de Castro e Deborah Danowski; o Earth Beings di Marisol de la Cadena.
Sembra ovvio che un testo che si muove di figura in figura si concluda con un’immagine: Cyborg, il dipinto realizzato da Lynn Randolph in collaborazione con la Haraway. Una donna indigena è circondata da un paesaggio cosmico, accompagnata da uno spirito animale, con le dita poggiate alla tastiera di un computer. Questa figura chiude il libro materializzando l’implosione dei registri tecnici, testuali, organici, mitici e politici «nel pozzo gravitazionale della scienza in azione» (p. 57) di cui la Haraway non cessa di parlare. Cyborg e mostri dunque promettono alle scienze umane e sociali nuovo alimento, richiedendo però in cambio lo sviluppo di nuove arti dell’attenzione, laddove la cura per gli oggetti di studio diventa un atto politico verso i collettivi in cui si è coinvolti. I mostri della Haraway ci esortano: ibridate i saperi, riannodate il nesso fra scienza e società, tenete i binarismi sotto costante minaccia. In uno slogan, “cyborgs for earthly survival!”.
Una fotografia raffigura Jean-Pierre Brisset mentre, il 13 aprile 1913, stando di fronte al basamento della celebre statua di Rodin Le penseur (allora situata di fronte al Panthéon, a Parigi), si rivolge alla folla. L’occasione è data del fatto che, pochi giorni prima, un gruppo di scrittori burloni (tra cui Jules Romains, Georges Duhamel e Max Jacob) ha avuto l’idea di conferirgli il titolo di Principe dei Pensatori, organizzando festeggiamenti in suo onore. Brisset, però, non ha colto l’intento scherzoso dei promotori dell’iniziativa. Nella foto, ci appare come un piccolo uomo anziano, dalla barba bianca, che indossa un paltò e ha un cappello a cilindro sul capo. Gli astanti lo osservano incuriositi e, a giudicare dall’espressione di alcuni di essi, con divertito stupore. Ne hanno motivo, visto il carattere alquanto bizzarro delle idee esposte da questo singolare linguista autodidatta. Spetta soprattutto a scrittori e artisti in vario modo legati al surrealismo il merito di aver valorizzato le sue opere, in apparenza destinate ad un rapido oblio. Così nel 1934 Raymond Queneau include un’ampia scelta di passi di Brisset nella propria raccolta (apparsa postuma) di scritti dei cosiddetti fous littéraires, mentre nel 1946 Marcel Duchamp dichiara grande ammirazione per l’autore, ricordando che «l’opera di Brisset era un’analisi filologica del linguaggio – analisi condotta attraverso un’incredibile rete di giochi di parole». Lo stesso capofila del surrealismo, André Breton, nella nota con cui introduce, nell’Anthologie de l’humour noir, alcune pagine di Brisset, ne giudica l’opera «notevole fra tutte» e segnala il paradosso per cui, se essa «merita di essere esaminata nel suoi rapporti con l’humour, non può in nessun modo passare per umoristica la volontà che la informa. Infatti in nessuna occasione l’autore si discosta dall'atteggiamento più serio ed austero».
Giuseppe Zuccarino è critico e traduttore. Ha pubblicato vari saggi:La scrittura impossibile, Genova, Graphos, 1995; L’immagine e l’enigma, ivi, 1998; Critica e commento. Benjamin, Foucault, Derrida, ivi, 2000; Percorsi anomali, Udine, Campanotto, 2002; Il desiderio, la follia, la morte, ivi, 2005; Il dialogo e il silenzio, ivi, 2008; Da un’arte all’altra, Novi Ligure, Joker, 2009; Note al palinsesto, ivi, 2012; Il farsi della scrittura, Milano-Udine, Mimesis, 2012; Prospezioni. Foucault e Derrida, ivi, 2016. Tra i libri da lui tradotti figurano opere di Mallarmé, Bataille, Klossowski, Blanchot, Caillois e Barthes. Ha inoltre curato un fascicolo monografico della rivista «Riga» (n. 37, 2017) dedicato a Maurice Blanchot.
Il numero 383 di aut aut, Niklas Luhmann. Istruzioni per l'uso, apparso questo settembre e curato da Giovanni Leghissa, esce a distanza di un ventennio dalla morte del sociologo di Lunemburgo; un numero che, come recita il titolo, ambisce a fornire le “istruzioni per l’uso” per chi voglia addentrarsi nel corpus di un autore oramai ai margini di qualsiasi dibattito, estraneo a qualsivoglia wave attualmente in voga e vivo solo dentro gli angusti confini di un risicato manipolo di ricercatori che, a discapito di tutto, prosegue il suo lavoro. L’obiettivo del volume è chiarito nella premessa: «non si è voluto tentare un’operazione monumentalizzante-storicizzante – del tipo: ciò che è vivo e ciò che è morto della teoria di Luhmann. Più modestamente, si sono volute indicare alcune piste di ricerca che mostrino a cosa può servire, oggi, la teoria dei sistemi se usata in un certo modo» (pp. 3-4). Cosa farsene di Luhmann? A cosa (e a chi) potrebbe servire? Perché dovrebbe valere la pena sottoporsi a un vero e proprio tour de force per addentrarsi in un edificio teorico ostico, totalmente arroccato su se stesso e per giunta poggiante su fondamenta instabili, sui cirri del paradosso e sui nembi dell’autoreferenza? Come scrive Andronico nel suo contributo, «leggere Luhmann non è facile, si sa, e per molti è persino noioso. Ma è necessario. Oggi più che mai, verrebbe da dire» (p.111).
A rendere poco agevole la lettura di Luhmann, oltre a una scrittura contratta che richiede di essere districata pazientemente, è l’assenza di punti fissi all’interno della sua teoria dei sistemi: con facilità ci si perde nei suoi meandri e non di rado si è soggetti a spaesamento e vertigine. Si prenda, come esempio, la distinzione tra sistema e ambiente, chiave di volta del suo edificio. I due termini, lungi dal rimandare a referenti stabili, assumono un valore meramente posizionale e funzionale: il sistema S1 è nettamente distinto dal suo ambiente (tutto ciò che non è S1); al contempo, nell’ambiente è possibile selezionare altri sistemi S2, S3,…, Sn, rispetto ai quali S1 costituirà parte dell’ambiente. La distinzione tra sistema e ambiente è dunque in funzione della peculiare selezione operata da un osservatore che circoscrive un sistema intorno al quale permarrà un non-circoscritto (l’ambiente) che costituisce il residuo di un’operazione di selezione, ciò che non è stato (ancora) selezionato.
Un secondo motivo di inciampo risiede nel carattere ricorsivo della teoria dei sistemi: la distinzione tra sistema e ambiente può applicarsi al sistema stesso, nel quale può essere distinto uno spazio circoscritto da uno non-circoscritto. Come per il triangolo di Sierpiński, che può essere diviso in quattro triangoli ognuno dei quali può essere diviso in quattro triangoli e così all’infinito, la teoria dei sistemi produce un frattale in cui una stessa operazione si ripete su di un’infinità di livelli. Ma ogni distinzione prodotta sarà posizionale e funzionale, e in tal modo il sopra e il sotto, l’inizio e la fine, il dentro e il fuori, il centro e la periferia, ecc., non rimanderanno a referenti fissi, ma a una precisa e contingenziale operazione di osservazione.
Come se non bastasse, allo spaesamento va aggiunta una sensazione di claustrofobia, perché se è vero che entrare nella “fortezza” di Luhmann non è facile, ancora meno facile è uscirne una volta dentro. L’auto-referenza che caratterizza la teoria dei sistemi istituisce uno spazio paradossale che ricorda alcune litografie di Escher, come Cascata o Salita e discesa: più si sale e più ci si ritrova in basso, più ci si approssima alla fine e più ci si ritrova in prossimità dell’inizio. In tal modo, più tentiamo di avvicinarci al fuori di quest’inland empire e più ci scopriamo vicini al suo cuore pulsante.
Detto ciò, diventa lecito chiedersi perché mai la teoria dei sistemi dovrebbe essere, oggi più che mai, necessaria. Cosa farsene di una mappa della società così complessa da richiedere di essere mappata da altre mappe? In che maniera la teoria dei sistemi può aiutare a orientarsi nel presente se essa stessa, al suo interno, non garantisce punti di orientamento stabili? Leggendo Luhmann si può provare uno sconforto simile a quello suscitato dalla scena di Stanlio e Ollio nel labirinto, quando Stanlio si imbatte nel cartello segnaletico che indirizza verso l’uscita e ha la bella idea di sradicarlo dal suolo e di muoversi nel labirinto portandoselo appresso: come ritrovare l’uscita se ogni punto di riferimento è andato perduto?
Date queste premesse, il numero di aut-aut non può che presentarsi come una vera e propria sfida: si tratta di rimettere in circolo la teoria dei sistemi e di testare la sua portata rispetto a questioni percepite dagli autori come urgenze (teoriche, politiche ed etiche). Il numero si compone di nove contributi, tra cui la prima traduzione italiana dell’articolo di Luhmann dal titolo Deconstruction as Second-Order Observing (1993), nel quale l’autore mostra le affinità tra l’operazione decostruttiva derridiana e la funzione svolta nella teoria dei sistemi dall’osservazione di second’ordine. Gli altri contributi vertono su: la relazione tra senso e paradosso nella teoria dei sistemi (Alberto Giustiniano) e la messa a fuoco di tale relazione nella produzione poetica (Cary Wolfe); la possibilità di utilizzare la teoria dei sistemi come cornice operativa per una teoria post-umanista della società (Maria Cristina Iuli); la funzione attribuita da Luhmann ai diritti umani e il loro rapporto con la modernità (Edoardo Greblo); le implicazioni politiche della teoria dei sistemi, in special modo rispetto al codice del potere e alla produzione di legittimità (Alberto Andronico); la tensione tra sguardo assoluto e sguardo situato condotta mettendo in risonanza Luhmann con Cusano (Gianluca Cuozzo); la ridefinizione (o meglio, la ricollocazione) del soggetto trascendentale alla luce della teoria dei sistemi (Giovanni Leghissa).
Non potendo, per ragioni di spazio, rendere conto di ogni singolo contributo, ci limiteremo a rapide incursioni con l’obiettivo di sondare alcuni dei tanti sentieri percorribili all’interno del volume. Ci concentreremo essenzialmente sulle implicazioni epistemologiche della teoria dei sistemi messe in luce in alcuni dei contributi, che ci sembrano costituire il nocciolo duro del volume, e proveremo a ricavarne alcune implicazioni etico/politiche.
Prima di iniziare la nostra ricognizione potrebbe essere opportuno fornire un quadro di alcuni postulati fondamentali della teoria dei sistemi, enucleati da Cary Wolfe nella maniera seguente (pp. 52-53): (1) la sostituzione delle dicotomie ontologiche proprie dell’umanesimo (natura/cultura, spirito/materia, mente/corpo, ecc.), le quali rimandano a referenti fissi, con la distinzione funzionale tra sistema e ambiente, i cui referenti sono instabili e contingenti; (2) l’asimmetria tra sistema e ambiente in termini di complessità, data dal fatto che qualsiasi sistema opera in un ambiente che gli è infinitamente più complesso; (3) la conseguente mancanza di varietà necessaria da parte del sistema per potersi rappresentare il mondo punto per punto, che lo costringe a filtrare la complessità dell’ambiente attraverso i propri codici autoreferenziali, cioè tramite operazioni di riduzione selettiva; (4) la coincidenza tra la riduzione della complessità esterna e l’aumento della complessità interna; in altri termini, la riduzione, per opera dell’autoreferenza del codice sistemico, della complessità ambientale è in grado di aumentare la varietà delle irritazioni tollerate dal sistema, dunque di renderlo maggiormente robusto rispetto a perturbazioni ambientali inedite.
Con questo bagaglio di assunzioni possiamo iniziare a tracciare un sentiero attraverso il volume.Pocanzi abbiamo accennato alla topologia paradossale cui i concetti chiave della teoria dei sistemi rimandano, ed è proprio dal paradosso che vogliamo cominciare. Per Luhmann si ha un paradosso quando un’osservazione si rivolge a se stessa. Un sistema che osserva, come abbiamo già accennato, circoscrive uno spazio di osservazione (chiamiamolo A) che in tal modo sarà distinto da uno spazio non-osservato (chiamiamolo non-A). L’osservatore può continuare a operare o sullo spazio di osservazione (applicando ricorsivamente la stessa distinzione) o sullo spazio non ancora osservato (inaugurando una distinzione inedita, dunque circoscrivendo un nuovo spazio di osservazione), ma non potrà operare sui due spazi contemporaneamente. Cosa accade nel momento in cui l’osservazione prova ad applicarsi a se stessa? Cosa succede, in altri termini, se l’osservatore cerca di osservare A e non-A nello stesso momento? Si genererà un cortocircuito paradossale, dato che l’osservatore applicherà la propria distinzione alla distinzione stessa, rendendo problematica un’allocazione di valori: la distinzione tra A e non-A è A o è non-A? Tale questione è per l’osservatore indecidibile: qualsiasi risposta dia i due valori saranno inclusi, in quanto la scelta di A implicherà non-A e la scelta di non-A implicherà A. A questo punto l’osservazione si blocca. Come si esce da questa impasse? Da una parte si può sbarrare completamente la via all’autoreferenza, dall’altra si può introdurre un’asimmetria – aggiungendo un livello di osservazione – capace di rendere l’autoreferenza non paradossale. Ma in questo secondo caso, come scrive Giustiniano nel suo contributo, il paradosso non diventa «un’eventualità da evitare ma indica un salto di livello, l’aggiunta di un osservatore che sarà in grado di osservare la distinzione, la ‘macchia cieca’ dell’osservatore sottostante e che a sua volta potrà essere osservato in quanto operazione a un altro livello» (p. 52).
Delineare il profilo dell’osservatore di second’ordine è forse il centro focale del presente numero di aut-aut. L’osservatore potrebbe essere definito, in maniera minimale, come qualunque sistema (umano, animale, macchinico, sociale) in grado di ridurre l’incertezza del suo ambiente tramite operazioni di selezione e di distinzione. Ogni osservatore può vedere solo ciò che le sue distinzioni gli permettono di vedere. Riprendendo un’espressione di Heinz von Foerster, un osservatore «non vede che non si vede ciò che non si vede» (cit. da Giustiniano, p. 53). In ogni osservazione vi è un punto cieco, che è dato dal non poter vedere, nello stesso momento, ciò che cade dentro e ciò che cade fuori il proprio spazio di osservazione. Il paradosso che risulta dal provarci può essere svolto solo da un osservatore di second’ordine, il quale osserva l’osservatore di prim’ordine (e le operazioni da questi compiute). Tuttavia, lo stesso osservatore di second’ordine non può vedere contemporaneamente i due lati della distinzione che la sua osservazione produce, i quali potranno essere visti solo da un altro osservatore, e così via all’infinito. Per quanto si moltiplichino gli “ordini di osservazione”, non si perverrà mai a una osservazione senza una propria macchia cieca, cioè a un’osservazione in grado di essere fondamento stabile per ogni altra osservazione. È su questa base che Leghissa, nel suo contributo, ricolloca nel mondo il soggetto trascendentale husserliano trasformandolo in un osservatore di second’ordine; ed è sulla stessa base che Cuozzo, mettendo in risonanza Luhmann con Cusano (l’unico riferimento filosofico costante del sociologo), mostra le implicazioni dell’incolmabile asimmetria tra l’absoluta visio di Dio – che può cogliere la verità semplice – e la parzialità, dovuta all’isolamento prospettico, di ogni conoscenza umana. Riprendendo un’efficace immagine di Cusano, quella del poligono tracciato nel circolo (dove il circolo è simbolo della conoscenza divina e il pentagono della conoscenza umana), Cuozzo mostra come tanto per Cusano quanto per Luhmann la possibilità di osservare tutte le osservazioni (quindi la capacità di vedere la propria macchia cieca) pertiene alla sfera teologica: ogni angolo del poligono è un punto di vista sull’assoluto, ma per quanto i punti di vista vengano moltiplicati all’infinito essi non potranno mai essere trasformati in absoluta visio, il poligono non potrà mai diventare circolo.
La teoria dei sistemi, dunque, conduce all’idea che il fondamento del sapere si trovi disperso in una molteplicità di osservatori, i quali possono vedere ciò che gli altri non vedono e possono essere visti da altri osservatori in ciò che essi non vedono. La conseguenza principale è che tutte le descrizioni del mondo diventano contingenti, in quanto qualsiasi descrizione prodotta da un osservatore potrà essere revocata da un altro osservatore. Per tale ragione Luhmann considera isomorfe l’osservazione di second’ordine e l’operazione di decostruzione. All’origine vi è una differenza: l’osservatore risulta da una differenza (quella tra sistema e ambiente) e produce differenze (le varie distinzioni che costruirà a partire da un unmarked space). Ma qualsiasi distinzione prodotta da qualsivoglia sistema che osserva (e ogni sistema in grado di operare una distinzione è, per Luhmann, un sistema che osserva) potrà essere revocata (cioè decostruita) da un altro sistema che osserva, il quale può essere in grado di vedere i due lati della distinzione prodotta dal primo sistema: in tal modo esso potrà scegliere di accettarla o dismetterla (in questo caso Luhmann fa riferimento alleoperazioni transgiuntive di Gotthard Günther, vedi p. 17) ; non potrà però esimersi dal produrre ulteriori distinzioni (come osservatore non può far altro), le quali potranno essere accettate o dismesse da altri osservatori.
Questa rete di osservatori non produce gerarchie lineari e fisse ma eterarchie o “gerarchie ingarbugliate” (si veda il contributo di Andronico, pp. 124-126). Sebbene le espressioni “osservatore di prim’ordine” e “osservatore di second’ordine” rimandino a un’asimmetria di livelli, la distinzione tra un primo e un secondo ordine è sempre posizionale e funzionale, rimanda a un ruolo che è possibile occupare solo in maniera transitoria. Può infatti darsi il caso che l’osservatore A sia di second’ordine rispetto all’osservatore B, che l’osservatore B sia di second’ordine rispetto all’osservatore C, e che l’osservatore C sia di second’ordine rispetto all’osservatore A. Nessuno dei tre osservatori potrebbe occupare la cima di una scala gerarchica.
A questo numero di aut-aut bisogna dare il merito di mettere a fuoco tali questioni (non è cosa da poco, specie in una stagione filosofica segnata dalle waves realiste, nella quale prendere sul serio il più radicale tra tutti i costruttivisti radicali espone al rischio di attirare su di sé risate di scherno). La teoria dei sistemi ci costringe a pensarci come sistemi che osservano tra sistemi che osservano, ognuno dei quali ha uno spettro di osservazione limitato e può operare su una ristretta porzione di mondo. Sul piano sociale essa ci invita a intendere la società, venuta a profilarsi con la modernità, come una rete eterarchica, dove ogni organizzazione o sottosistema sociale, essendo operativamente chiuso, riproduce le sue operazioni in maniera autopoietica e autoreferenziale, istituendo partizioni d’ordine funzionali alla propria sopravvivenza. In quest’ottica nessun sistema sociale gode di un privilegio sugli altri: la società non si compone di un livello strutturale e di uno sovrastrutturale e in essa diventa impossibile ravvisare un unico centro di integrazione tra sottosistemi.
Ciò, da una parte, può gettarci nello sconforto, producendo un senso di impotenza e schiacciamento rispetto a sistemi sociali che, portando avanti la loro autopoiesi, fanno il loro corso indifferenti alla volontà degli individui: dinnanzi alle crisi che il presente ci pone (in primis la crisi ecologica) l’individuo non può che sentirsi impotente e per giunta sbigottito dal fatto che chi dovrebbe occuparsene non se ne occupa, provando l’amara sensazione, sempre tanto lesiva del nostro narcisismo, di non avere il controllo su niente. D’altronde, chi dovrebbe occuparsene? Quale sottosistema sociale dovrebbe farsi carico della crisi ecologica? Il sistema politico, naturalmente. Ma il sistema politico, che per Luhmann è un sottosistema sociale tra tanti e non gode di nessun privilegio, ha i suoi problemi, dati dall’esigenza di riprodurre le proprie operazioni specifiche, e la crisi ecologica solo adesso si affaccia in maniera seria nella sua agenda. In ogni caso, il sistema politico, pur auspicando al suo interno una green turn, non potrebbe imporre le sue operazioni agli altri sistemi sociali, potrebbe solamente “irritarli”: ma il modo in cui qualsiasi sistema sociale reagisce a un’irritazione ambientale non può essere previsto e dunque controllato.
Dall’altra parte, l’individuo alle prese con la tossicità del contesto in cui vive, potrebbe volgere in positivo questa impossibilità di controllare le cose e di poterle rivoluzionare. Accettare che non esiste un osservatore in grado di esercitare un controllo assoluto, dischiude un vero e proprio spazio etico. Si potrebbe allora imparare dalle strategie adottate da chi vuole assolutamente liberarsi dalla tossicità vissuta sulla propria pelle per continuare a vivere (la pletora degli addicted di ogni tipo – rispetto a questo tema, non si smetterà mai di imparare dallo scritto di Gregory Bateson La cibernetica dell’“io”: per una teoria dell’alcolismo). Non ci possiamo liberare da una dipendenza senza prendere coscienza che la “sostanza” di cui siamo dipendenti è più forte di noi. In tal senso l’auto-controllo serve a poco (in quale sottosistema di quel sistema che chiamiamo “persona” risiederebbe il centro di controllo?). Accettare di non avere il controllo assoluto, che il corso delle cose non dipende da noi, può permettere di spostare l’attenzione su ciò che veramente possiamo fare, qui e ora, nei nostri angusti limiti. La teoria dei sistemi invita a questo, e in essa ci sembra riecheggiare la Preghiera della Felicità che i membri degli Alcolisti Anonimi recitano quotidianamente: “Mio dio, concedici la serenità per poter accettare le cose che non possiamo cambiare, il coraggio di cambiare le cose che possiamo cambiare, e la saggezza per riconoscere la differenza”.
In quel distanziamento della prospettiva che si fa disorientante si coglie la vertigine, lo sguardo scavalca lo spazio reale ed effettivo per assurgere a vette basse, collocate in una profondità che si potrà toccare soltanto dopo lo schianto. Vicinanza e lontananza si deformano, creando un doppio sguardo che nella sua dualità bipolare alterna rischio, tentazione, paura e slancio; sintomi di un capogiro che vorticando su se stesso si autoalimenta senza arrestarsi mai. La vertigine, però, non è soltanto l’effetto di una distorsione visuale provocata dal timore dell’altezza, non va quindi ristretta al solo campo ottico, essa incarna anche la tendenza dell’essere a superarsi e a ritrovarsi - o a smarrirsi - in quello sguardo duplicato che, per forza di cose, interroga l’altro, e nella presenza dell’alterità si risolve. Vertigine è dunque quello stato che permette all’identità di rappresentarsi in una forma che richiede incertezza e la continua messa in discussione. Tale concezione della vertigine che si manifesta sia come sintomo psico-fisico che psicologico/ filosofico è ben rappresentata nel film del 1958 di Alfred Hitchcock, Vertigo (o La Donna che visse due volte) e che Andrea Cavalletti ha preso come punto di riferimento per sviluppare le proprie riflessioni inerenti la vertigine e raccolte nel suo ultimissimo libro edito da Bollati Boringhieri: Vertigine. La tentazione dell’identità. Questo libro difatti tratta il fenomeno della vertigine rendendolo strumento necessario per realizzare una vera e propria lettura dell’identità, in cui la perdita e il ritrovo di se stessi giocano ruoli fondamentali. È tale vertigine, dunque, il fulcro essenziale del testo che per l’autore, proprio per la sua natura malferma, incerta e cinetica, serve come supporto per intercettare e spiegare i nodi di un’identità che non trova (e non troverà) mai compimento in una forma definitiva. Tale “tentazione e ricerca” dell’identità è affrontato nel testo da punti di vista che fino ad ora erano stati esplorati in maniera separata e parziale e mai interconnessi tra di loro, cosa che Cavalletti fa, attuando un vero e proprio dialogo tra teorie scientifiche, psicologiche, filosofiche e artistiche; realizzando una mappatura intertestuale in cui il tema della vertigine resuscita in una nuova luce.
Il volume è diviso rispettivamente in sei capitoli, ognuno dei quali affronta l’argomento sotto profili tematici diversi, ma tenuti assieme da un fil rouge che permette una lettura unitaria e quantomai interessante e innovativa. Nel primo capitolo intitolato effetto–vertigo, come già anticipato, Cavalletti per introdurre il fenomeno della vertigine si rifà al film, mettendolo a confronto con i due libri a cui esso è ispirato: ossia D’entre les morts di Boileau e Narcejac del 1954 e Bruges la morte del 1892 a firma di Georges Rodenbach. L’autore non si limita a una semplice comparazione delle opere, ma radica la propria riflessione rintracciando nelle trame intime della storia elementi che superano il piano narrativo, per approdare a campi concettuali di natura prevalentemente filosofica, essenziali per iniziare un’analisi sull’identità e le sue strutture. Vertigo è per eccellenza il racconto in cui l’inganno è espresso da ogni angolatura, e non è un caso, dunque, se nel primo capitolo Cavalletti rimanda al termine Schwindel a cui si associano contemporaneamente sia i significati di inganno e tentazione, sia di malattia e trucco, o di raggiro stando al saggio del 1948 Das Manifest der Kommunistischen partei di Marx ed Engels. Vocaboli che, specialmente nel film, si manifestano sia sotto forma registica attraverso espedienti tecnici, che in forma contenutistica ad esempio tramite l’impersonificazione della defunta Madeleine da parte di Judy.
A proposito Cavalletti ricorda come il famoso effetto vertigo (dolly zoom) sia stato risolto da Hitchcock grazie alla combinazione di uno zoom in avanti e di una carrellata indietro, o di uno zoom all’indietro e una carrellata in avanti, mantenendo invariata la dimensione del soggetto, permettendo così al pubblico di assumere la prospettiva di Scottie, interpretato da James Stewart, e immedesimandosi in lui. Tale meccanismo cinematografico è un trucco inteso per svelare un altro trucco sostanziale: ossia smascherare Judy attraverso un atto di dis-velamento che fa letteralmente “morire” Madeleine. L’artificio insito nella settima arte, sottolinea Cavalletti citando Walter Benjamin, di conseguenza si sporge aldilà dei propri espedienti artigianali per raggiungere il senso intrinseco della storia e la sua trama controversa.
Sempre in questo capitolo, riprendendo gli studi psichiatrici, ad esempio di Max Simon e del neurologo Charcot, Cavalletti descrive come la vertigine, specie nel’800, sia stata vista come una nevrosi, un’anomalia del sistema nervoso o un sintomo di isteria. Un’isteria che secondo La Mettrie, Esquirol e Simone Weil (tutti autori presenti nel testo) è destinata a diventare collettiva, in quanto l’intera società è affetta da un senso di vertigine stimolata da un sentimento di paura e sopraffazione psicologica e, proprio come asseriva la Weil in Réflexions sur les causes de la liberté et de l'oppression sociale: l’avvento della “macchina” cinemaservirà alla macchina sociale come strumento di massa per divulgare ideologie politiche propagandistiche e aizzare le folle. Il panico/vertigine di Scottie, dunque, può anche essere letto come la paura, ma al contempo necessaria volontà, di ribellarsi dei popoli soggiogati contro gli inganni dei loro governanti che in questo caso hanno il volto di Judy. Tale rapporto intersoggettivo rimanda al secondo e terzo capitolo del libro, intitolati Non siamo qui e Abito, maschera.
In questi capitoli entra in scena un concetto filosofico fondamentale per la disquisizione di Cavalletti: l’idea di habitus. Chiamando in causa i contributi, in particolar modo, di Husserl e del teorico dell’arte Robert Klein, all’interno del libro l’autore tessa un’indagine sulla vertigine che si posiziona ad un livello intersoggettivo. Se secondo Husserl l’habitus è ciò che è proprio del soggetto, ossia ciò che si possiede in quanto entità pensante e individuale. È interessante notare come Klein colga nella vertigine la possibilità di riscattare “l’abitudine” attraverso l’instaurazione di unarelazione con un’entità esterna che si frappone, facendogli così raggiungere la dimensione dell’inappropriabile. La vertigine, perciò, secondo Klein provoca una dislocazione dell’io, in quanto lo sguardo altrui ci conquista, sottraendoci alla nostra coscienza riflessiva.
Cavalletti molto intuitivamente e sempre in riferimento a ciò, cita anche il carattere di reversibilità diMerleau-Ponty. Egli ricorda infatti come il filosofo francese in Phénoménologie de laperception e in Le visible et l’invisible precisa come le azioni dell’altro si riflettano in noi, in quanto quando l’essere si manifesta, esso esprime la presenza dell’altro - o dell’altro in me, urtando così la componente soggettiva. E la prospettiva del mondo, intrecciandosi inesorabilmente con quella dell’altro, viene attirata in un vortice in cui il mondo non è più pensato come proprio, perché appunto si viene influenzati da ciò che si verifica esternamente. E tale concezione, volendo, richiama anche alle recenti teorie sui neuroni specchio, in cui il gioco della reversibilità si attua ad un livello neurale. Cavalletti tramite un’analisi che coinvolge i maggiori pensatori della filosofia moderna, pone la vertigine come strumento intersoggettivo, ribadendo come la spinta tentatrice a gettarsi nel vuoto consista in realtà in una doppia percezione che ci fa sentire contemporaneamente qui e là. Facendo intervenire ancora Klein, l’autore nomina l’Eigenheit, ossia il rimbalzo tra rimorso e ricordo che stimola il soggetto a concepire il laggiù come un qui, e il qui come un là. Ricordandoci come sul precipizio si diviene un altro, evocando, così, l’ambivalenza data della presenza di Judy e Madeline che nel momento prima della caduta dalla torre coesistono entrambe.
Sempre attenendosi al contributo dei pensatori moderni, Cavalletti negli ultimi tre capitoli (Un singolare trasporto, Baratro, e Superficie) fa emergere questioni che, come in precedenza, amalgamano l’ambito cinematografico con quello filosofico. Compaiono quindi i concetti di: análogon, lapsus e Sterben (il morire). Seguendo le orme tracciate da Aristotele e successivamente da Hobbes, il lapsus non viene definito come un inganno dell’inconscio – lapsus che in questo particolare caso si esprime nell’atto volontario di Judy di indossare il collier appartenuto alla defunta Madeline – ma come un’azione compiuta in stato di veglia. Una volontà, potremmo dire sintetizzando, che permette alla maschera di cadere, richiamando ancora in causa il fenomeno della vertigine, quale esperienza stessa della messa in causa dell’identità. “L’ego è essenzialmente afflitto dalla vertigine, se questa consiste – nel compiere il passo che non si vorrebbe compiere, in un solecismo, in una contraddizione o in un lapsus dell’intentio(se potessimo non presupporre con questa parola il centro i l’identità che è forse la vertigine stessa a produrre)” (p. 97). Cavalletti in merito fa un ulteriore passo in avanti, portando come esempio l’esperienza attoriale di travestimento e smascheramento citando il famoso caso di Mary Pickford e il suo disorientamento vertiginoso nel guardarsi con gli occhi di un’altra senza essere la stessa, e riconoscendo nell’altro unanálogon senza vita.
“Nella vertigine cinematografica la vertigine dell’identità viene annullata, e l’attrice potrebbe finalmente guardarsi con gli occhi di un’altra senza dover essere la stessa, senza dover aderire alla propria maschera colmandola di vita”(p. 148). Un senza vita che ci rimanda inesorabilmente al tema della morte (Sterben) e del baratro che, stando alla filosofia di Heidegger (autore che domina il capitolo quinto), è inclusa nella questione dell’Essere; in quanto l’essere esiste proprio a partire dalla sua possibilità di morte che non può per nessuna ragione venir rimandata. L’essere, di conseguenza, si determina anche grazie ad un’anticipazione di un non esserci più, perché in tale potenzialità l'esserci sovrasta se stesso, rimandando così al proprio poter-essere più proprio. E proprio in questo anticipo di poter essere che l’esserci, sempre secondo Heidegger, si apre alla sua condizione più estrema: la morte.
Ed è in base ai principi fino ad ora esposti, che Cavalletti ribadisce più spesso, anche durante il suo intervento del 22 Maggio presso la libreria Libre di Verona, quanto sia fondamentale il concetto di fissare la vertigine; fissarla appunto in quanto essa permetterebbe all’essere di rivelarsi nelle sue espressioni più autentiche, concedendo all’identità di formarsi e definirsi proprio in base a tale sbilanciamento vertiginoso. Da questo excursus si intuisce come Vertigine sia un’opera che apra un dialogo in cui le tematiche filosofiche e cinematografiche, congiungendosi tra loro, formano idee e principi che inquadrano il fenomeno della vertigine all’interno di una prospettiva nuova, in cui la spinta alla discussione e all’interrogazione dei vari quesiti non è mai data per scontata, ma sempre stimolata a superarsi e a oltrepassare i propri limiti; esattamente come l’uomo che dall’alto rivolgendo in basso il proprio sguardo si reincontra e si perde nel medesimo istante.
Nel 2008 Paul Humphreys e Mark Bedau curano un’originale antologia dal titolo Emergence: Contemporary Readings in Philosophy and Science. Nell’introduzione al volume, che riunisce contributi sul tema da parte di filosofi e scienziati, vengono forniti alcuni esempi di fenomeni (apparentemente) emergenti che spaziano dalle proprietà di certi sistemi fisici ai passaggi di fase, dal fenomeno della vita a quello della mente e della coscienza, fino ai comportamenti dei gruppi sociali (Bedau & Humphreys 2008, 1-2). Come evidenziato da Humphreys e Bedau, la nozione di emergenza sembra comparire in diverse discipline filosofiche e scientifiche e questa pervasività ne rende difficile la definizione. Poco più di vent’anni più tardi, lo scenario non sembra troppo diverso, se non per l’ulteriore diffusione del termine e del concetto di emergenza:
Since the nineteenth century, the notion of emergence has been widely applied in philosophy, particularly in contemporary philosophy of mind, philosophy of science and metaphysics. It has more recently become central to scientists’ understanding of phenomena across physics, chemistry, complexity and systems theory, biology and the social sciences.
Questa è l’affermazione che introduce, dalla quarta di copertina, il Routledge Handbook of Emergence, pubblicato nel 2019 a cura di Sophie Gibb, Robin F. Hendry e Tom Lancaster, rispettivamente professori di metafisica, filosofia della scienza e fisica della materia condensata presso l’Università di Durham. Il termine e il concetto di emergenza sono oggi più che mai al centro del dibattito filosofico e scientifico e non a caso, negli ultimi anni, le pubblicazioni dedicate a essi si sono moltiplicate esponenzialmente. In questa introduzione vorrei fornire una breve contestualizzazione del dibattito sull’emergenza poiché, storicamente, è possibile riconoscere due diverse ondate di interesse che sono radicate, tuttavia, in circostanze storiche e motivazioni teoriche differenti. La prima ondata vede protagonisti quei pensatori che Brian McLaughlin ha definito Emergentisti Britannici:
This tradition began in the middle of the nineteenth century and flourished in the first quarter of this century. It began with John Stuart Mill’s System of Logic (1843), and traced through Alexander Bain’s Logic (1870), George Henry Lewes’s Problems of Life and Mind (1875), Samuel Alexander’s Space, Time, and Deity (1920), Lloyd Morgan’s Emergent Evolution (1923), and C. D. Broad’s The Mind and Its Place in Nature (1925) (1992, 49).
Nonostante sia per molti versi appropriato riunire questi pensatori sotto un’unica etichetta, l’uso che essi fanno del concetto di emergenza è molteplice: come attestato dall’articolo di Joel Walmsley, mentre Mill e Lewes sviluppano una nozione di emergenza che può essere definita epistemica perché legata a un’insufficienza della nostra conoscenza del mondo naturale, Morgan e Alexander propongono una visione propriamente ontologica dell’emergenza, enfatizzando la capacità dei fenomeni emergenti di esercitare poteri causali nuovi e autentici. Il lavoro di Broad, infine, può essere considerato una via media fra queste due concezioni, che verranno ampiamente analizzate e discusse nei contributi qui proposti. Ciò che accomuna gli Emergentisti Britannici, d’altro canto, è un monismo metafisico di sostanza per il quale il mondo non sarebbe composto da materia fisica da un lato e materia non fisica (entelechie, spiriti o altre entità metafisicamente contestabili) dall’altro, ma sarebbe invece totalmente costituito di materia. Ciononostante, questa materia presenterebbe, per gli Emergentisti, caratteristiche speciali a seconda della complessità della sua organizzazione e della sua struttura, e tali caratteristiche non sarebbero esplicabili tramite le leggi e le spiegazioni causali che governano e spiegano livelli più semplici di organizzazione.
La diffusione delle teorie emergentiste a cavallo fra Ottocento e Novecento coincide significativamente con un periodo storico in cui fisica, chimica e biologia vivono esistenze parzialmente autonome e la loro unificazione – per quanto auspicata – non sembra profilarsi all’orizzonte. È esattamente la possibilità di questa unificazione, che diviene concreta negli anni Venti del Novecento, a rappresentare la causa principale della caduta dell’Emergentismo Britannico: secondo McLaughlin, lo sviluppo della meccanica quantistica, la spiegazione delle proprietà chimiche tramite l’elettromagnetismo e la scoperta della struttura molecolare del DNA aprirono la via alla tesi generale per cui per ogni fenomeno naturale più o meno complesso, sarebbe disponibile una “microspiegazione”, dove con questo termine si intende «the explanation of the behavior of macro-systems in terms of the behaviour of their micro-constituents» (Hüttemann 2004, 24). La presunta disponibilità di spiegazioni micro-fisicaliste per ogni macro-fenomeno coincise, dunque, con l’abbandono dell’ipotesi emergentista. Il dibattito che vedeva protagonisti gli emergentisti britannici si giocava quindi su un terreno prettamente empirico: dati alcuni fenomeni naturali non spiegabili dalla fisica, sembrava ragionevole ipotizzare l’esistenza e l’efficacia causale di nuove forze naturali fondamentali ed emergenti. Tuttavia, come abbiamo visto, le scoperte scientifiche dei primi decenni del Novecento fornirono buone ragioni per supporre che le cause di questi fenomeni potessero essere ricondotte a quelle più classicamente fisiche, infliggendo un duro colpo ai presupposti teorici dell’emergentismo. È significativo, a questo riguardo, che l’ultimo lavoro chiaramente riconducibile al movimento emergentista, The Mind and Its Place in Nature di Broad, risalga al 1923, mentre già a partire dal 1922 Niels Bohr proponeva alla comunità scientifica un nuovo ed efficace modello atomico e suggeriva come esso potesse rivelarsi in grado di spiegare le proprietà chimiche degli elementi della tavola periodica.
Se nell’Ottocento e agli inizi del Novecento il progredire della scienza aveva dunque sottratto forza ai filosofi emergentisti, fu proprio la scienza a favorire un ritorno e un irrobustirsi della nozione di emergenza a partire dagli anni Settanta del Novecento. Come testimoniato da numerosi dibattiti scientifici, di cui questo volume presenta una selezione, la nozione di emergenza si sta dimostrando utile per descrivere e comprendere una serie di disparati fenomeni naturali e la troviamo infatti impiegata per concettualizzare l’origine dello spazio-tempo, la correlazione quantistica, i comportamenti macroscopici delle molecole e degli insiemi chimici, così come le caratteristiche dei sistemi biologici. Accanto a questi fenomeni naturali, inoltre, l’accento sull’emergenza viene posto anche nel campo della psicologia, delle scienze cognitive e dell’arte.
Nonostante l’uso estensivo del concetto di emergenza in tutti questi campi, tuttavia, non esiste una sola definizione che si adatti a tutti i contesti. Come testimoniato da Gibb, Hendry, e Lancaster, sembra quindi che i filosofi e gli scienziati stiano utilizzando lo stesso termine per riferirsi a cose diverse (2019, 2). Quel che è certo, insomma, è che di emergenza si può parlare in vari modi e che una definizione semplice e univoca non sembra in grado di catturarne la complessità.
Il presente volume di Philosophy Kitchen è la prima pubblicazione in Italia che si ponga come obiettivo quello di offrire una visione d’insieme del dibattito emergentista contemporaneo. Il volume si apre con l’articolo di Joel Walmsley, che offre una ricostruzione teorica dell’Emergentismo Britannico, e con quello di Erica Onnis, che propone un’analisi dei criteri e delle tassonomie elaborate nel dibattito filosofico contemporaneo. Quindi, viene presentato un modello non standard di emergenza, il modello diacronico “piatto” di Olivier Sartenaer, ripreso successivamente da Karen Crowther che sfrutta la nozione di emergenza per affrontare il tema dell’origine dello spaziotempo nella fisica quantistica. Il contributo successivo, quello di Marina Paola Banchetti-Robino, suggerisce che la nozione di emergenza si contrappone alla mereologia classica husserliana che si rivela inadeguata a descrivere i sistemi chimici. Le implicazioni della nozione di emergenza per la biologia sono invece esaminate da Luciano Boi e Isaac Hernandez: il primo analizza le caratteristiche dei sistemi complessi biologici, mentre il secondo si concentra sull’emergenza dell’individualità biologica. Segue l’articolo di Alfredo Paternoster, che indaga la possibilità che nelle scienze cognitive l’Embodied Cognition implichi qualche forma di emergenza e quello di Micheal W. Stadler, che analizza il problema della intuizione immediata (insight) in psicologia chiedendosi se l’emergenza sia un buon modello per concettualizzare questo processo. Segue l’articolo di Alessandro Bertinetto, che applica il concetto di emergenza alla filosofia dell’arte e al problema dell’interpretazione delle opere d’arte. L’articolo di Maurizio Ferraris, infine, riassume la sua visione metafisica dell’emergenza, basata sulle teorie della traccia e della registrazione da lui formulate, mentre Maria Mancilla Garcia e Tilma Hertz propongono una nuova visione dell’emergenza contestualizzata nel quadro concettuale della filosofia del processo, in riferimento a James, Deleuze e Whitehead.
All’interno delle opere che contribuiscono ad arricchire il panorama letterario sul neoliberalismo, alcune si occupano di individuarne la genesi o di circoscriverne l’attuale fenomenologia (dalla governamentalità flessibile alla gestionalità operante tramite eccezioni e stati di crisi), altre si dedicano a una ricostruzione della sintomatologia che affligge le soggettività in perenne (dis)equilibrio tra imprenditorialità di sé e precariato, poche – dopo aver obiettivamente constatato lo stato di reale crisi in cui versa il presente – azzardano, oltre alla diagnosi, una possibile cura. In questa direzione si muove invece Per la critica della ragione europea. Riflessioni sulla spiritualità illuminista, di Giovanni Leghissa, pubblicato quest’anno da Mimesis per la collana “Spiritualità senza Dio?” diretta da Luigi Berzano.
Se l’autore presenta la proposta teorica contenuta in questo breve saggio come un manifesto, il lettore non stenterà a riconoscere in esso, oltre ai tratti dichiaratamente utopici o critico-polemici che lo connotano, la continuazione sistematica di quel progetto politico che già si intravvedeva all’interno della Conclusione Provvisoria contenuta in Neoliberalismo: un’introduzione critica, (Mimesis 2012). La necessità di interrogarsi sul tema della responsabilità in un contesto teorico in cui sembra non esserci più spazio per le teorie globali della giustizia, l’urgenza di mettere in risalto gli elementi – anche emotivi – che orientano le scelte umane all’interno di uno scenario contemporaneo che aumenta progressivamente di complessità e incertezza, e l’importanza di riflettere sulle capacità razionali che caratterizzano la conditio humana in quanto tale diventano, in questo testo, la cornice di senso – per usare un’espressione cara all’autore – all’interno del quale postulare la fondazione di una collettività d’appartenenza europea che si riconosca nella sua comune matrice culturale e, conseguentemente, politica.
L’idea di Europa, da intendersi non tanto come luogo geografico, ma come principio di legittimazione politica, consente all’autore, che da tempo si dedica allo studio del sistema neoliberale e delle sue criticità (Cfr. Leghissa & Becchio 2017), di proporre una tesi fondativa: la sovranità europea, all’interno dello scacchiere geopolitico, è a rischio e, con essa, quella concezione del mondo che, derivataci dall’Illuminismo, ha garantito per secoli la prosperità di un modo di vivere associato basato su ideali quali la libertà, la giustizia e l’uguaglianza di fronte alla legge. In quest’ottica, la proclamazione della necessità urgente di prassi politiche che ci conducano alla costituzione di una federazione europea e l’appello culturale a una “mitologia della ragione” di stampo hegeliano si pongono non semplicemente come rimedi ai sintomi di una crisi che imperversa un continente popoloso ma ormai in declino, come quello europeo, quanto come soluzioni che hanno visualizzato la crisi nella sua eterogeneità e che hanno evidenziato nell’assenza di un mito fondativo a cui radicare la propria appartenenza la causa della deriva culturale e politica insieme del continente.
All’interno della digressione sul presente che si dipana a partire dalla riflessione kantiana sull’ Aufklärung, Foucault attribuisce alla filosofia, in quanto pratica discorsiva dotata di una propria storicità, la necessità di collocarsi all’interno della propria attualità, per «dirne il senso» (2014, p .118), ma anche per sondare la modalità d’azione esercitabile all’interno di questa attualità. Facendo tesoro del monito foucauldiano, la proposta contenuta nella Critica per la ragione europea interroga il presente e, così facendo, entra nel discorso politico da un lato, producendo un’architettura del reale alternativa rispetto a quella nota, la costituzione degli Stati Uniti d’Europa, dall’altro, suggerendo un’altra modalità secondo cui costituire la soggettività e il rapporto che essa intrattiene con la sua attualità, per mezzo di una spiritualità autenticamente atea. Secondo il principio per cui ogni trasformazione, individuale o collettiva, è data dalla combinazione originale di elementi dati, il richiamo all’Illuminismo e al suo specifico uso della critica e della riflessività in quanto paradigmi fondativi del pensiero moderno, ma anche come principi d’indagine teorica, consentono all’autore di individuare preventivamente e di riflettere sulle inevitabili debolezze del suo manifesto e di renderlo così collocabile entro un orizzonte di possibilità perseguibili.
Se nella lettera a Erodoto Epicuro insisteva sulla necessità di «cogliere quello che sta a fondamento delle parole» al fine di poter giudicare su fenomeni la cui problematicità è ancora irrisolta e di radicarsi al raziocinio per l’indagine dei fenomeni, Leghissa compie un’operazione simile all’interno del suo saggio compiendo un’attività di demistificazione dei significati a carico di complessi concettuali spesso usati impropriamente. Aldilà delle similitudini di metodo, la capacità di critica, cui l’autore sembra auspicare come principio generale per la lettura del presente testo, all’interno del saggio diventa quindi il mezzo per ridefinire alcuni termini della questione europea (solo per citarne alcuni: globalizzazione, p. 68, laicità, p. 88, ragione, p. 119, spiritualità p. 139) e la ricollocazione semantica che attua, mira a liberare il lettore da un mostro a tre volti, ognuno dei quali incarna le paure che immobilizzano attualmente la cittadinanza europea, con intento analogo a quello che animava il tetrafarmaco epicureo.
La paura è un tratto emotivo facilmente riconoscibile nella moltitudine che anima la nostra società; Leghissa intravede in questa paura la causa della presente crisi europea e, all’interno del primo capitolo della Critica si occupa diarticolare i vari volti della paura in sezioni tematiche che, se connesse, si riducono di complessità. La paura dello straniero, della globalizzazione e della guerra diventano inaggirabili a meno che non si abbia la capacità di articolare intorno a queste un discorso unico e significativo. Vedere lo straniero in termini di risorsa o di pericolo da includere o escludere dalla propria comunità politica; leggere nella globalizzazione un dispiegamento assoluto e totalizzante della ragione economica pronta a invadere le vite dei cittadini, abbandonati in stati d’eccezione perenne in cui la legge è sospesa; immaginare la guerra come uno scenario pericoloso, ma da cui difendersi non nominandolo sono tutte strategie che consentono di avere sempre delle risposte che appagano l’emotività ma non risolvono in alcun modo lo stato di crisi che tutti sperimentiamo quotidianamente. Comprendere la correlazione tra mito e politica e assumersi la responsabilità (individuale quanto collettiva) di ergere la propria mitologia di derivazione illuminista a fondamento ineliminabile della propria cultura comporterebbe un posizionamento identitario che da un lato, non avrebbe più motivo di temere il confronto con un’altra realtà religiosa – che, con l’ausilio della critica e della ragione, verrebbe identificata come una narrazione significativa tra le tante possibili – dall’altro consentirebbe un’affermazione politica originale in un terreno geopolitico tendenzialmente aggressivo. Ancora, vedere la globalizzazione come una molteplicità collettiva di attori variamente costituita e distribuita su differenti livelli di gerarchizzazione che ridisegna lo spazio in cui si muove attraverso il controllo e la gestione di flussi (di denaro, di merci, di individui etc.) consente di tener presente un aspetto che depotenzia enormemente la teoria di un dominio inarrestabile dei mercati; ogni interazione si origina a partire da una cornice statale e istituzionale e ogni mediazione viene salvaguardata dalla condivisione di modelli mentali da parte di coloro che sono a capo delle organizzazioni. In altre parole, ogni interazione – per quanto disseminata sul piano globale – è normata e tende al successo, nella misura in cui «ogni istituzione, o organizzazione, persegue un unico fine: sopravvivere» (p. 45). Infine, intendere le azioni militari compiute dagli eserciti europei nei diversi scenari del pianeta e gli atti terroristici che immobilizzano le nostre città per quello che sono realmente, ossia atti di guerra, consentirebbe di volgere la discussione pubblica sulla possibilità di una comune difesa europea che renda tangibile quel senso di comunità che i membri dell’Unione Europea si ostinano a difendere almeno verbalmente e che affermi l’esistenza politica dell’Europa aldilà dei suoi confini.
E. Isgrò, Preghiera all'Europa, 2016
La seconda sezione del testo – La laicità e le forme della condivisione – si apre con una digressione riguardante il processo di decision making: essere consapevoli del fatto che le scelte vengono fatte da parte di individui razionali all’interno di «cornici di senso e istituzionali» che orientano la scelta e che «tali cornici hanno un impatto sulla sfera emotiva degli individui» (p. 75) aiuta a comprendere il perché sia importante un orientamento collettivo volto a valorizzare il terreno simbolico intorno al quale gravita la cultura europea. Nessuna scelta, per quanto razionale, viene perseguita in nome della razionalità e le argomentazioni nulla valgono di fronte a sistemi di credenze, magari erronei, ma consolidati: questo è il motivo per cui non basta indicare una via razionalmente perseguibile per uscire dalla crisi attuale e le politiche dell’inclusione non sono mai servite a scalfire l’inclinazione razzista che compare periodicamente in ogni paese. Un cambiamento rilevante si avrebbe invece riconoscendo la forza del legame che intercorre tra la sfera affettiva dell’individuo e il suo vivere politico e ponendo in primo piano la narrazione mitica in luogo dell’argomentazione razionale. In questo senso, la laicità atea che, pur consapevole dell’importanza della componente religiosa nell’esperienza umana, si impegna a spiegare i comportamenti religiosi in termini storici, può farsi mito e principio fondativo del vivere comune da far valere come fondazione politica degli Stati Uniti d’Europa «in grado di rendere inutili le controversie su chi è europeo e chi no sulla base dell’adesione a questo o quel sistema di credenze religiose» (p.98).
È possibile che una laicità atea di matrice materialista venga a costituire il mito fondativo intorno a cui articolare una modalità di vivere propriamente europea, ma è davvero possibile considerare l’ateismo una forma di religiosità? Nell’ultima sezione del saggio, Il materialismo come esperienza spirituale, l’autore indaga la relazione tra materialismo – su cui articolare una mitologia della ragione (p.125) – e il mondo degli affetti dell’individuo, consapevole di quanto non sia la persuasione cognitiva a render conto dell’agire morale o dell’attitudine spirituale dell’uomo. Forte dei risultati provenienti dalla biologia evolutiva, Leghissa rassicura tanto sulla possibilità di interazioni simpatetiche e altruistiche tra sapiensanche all’interno di un orizzonte finito e vulnerabile, come quello materialista, tanto sulla possibilità del materialismo stesso di entrare in risonanza con la sensibilità umana a tal punto da orientare significativamente il suo sguardo sul reale e costituirsi, in un’ultima analisi, come spiritualità.
Ragione, ateismo, laicità, storicità, scientificità del metodo, stato di diritto, norme, uguaglianza, libertà sono alcuni dei termini che costituiscono una rete concettuale a cui ogni europeo, a partire dalla modernità, farebbe riferimento nel tentativo di esplicitare il senso di appartenenza che lo radica al suo continente; la proposta contenuta in Per la critica della ragione europea suggerisce di articolare questa rete in una narrazione mitica che, risuonando nella sfera affettiva dell’uomo, sia in grado di dare statuto a questa appartenenza, salvaguardarla e fondarla politicamente tramite la costituzione degli Stati Uniti d’Europa. La realizzazione, spetta a noi.
di Evelina Praino
Bibliografia
Leghissa, G., Per una critica della ragione europea. Riflessioni sulla spiritualità illuminista, Mimesis, Milano-Udine 2019.
Leghissa, G. Becchio, The Origins of Neoliberalism. Insights from economics and philosophy, Routledge, London-New York 2017.
Foucault, M., Il problema del presente. Una lezione su “Che cos’è l’illuminismo?” di Kant, In Poteri e Strategie, Mimesis, Milano-Udine 2014, p. 115-126.
Giorgio Agamben ha talvolta dedicato dei saggi ai simbolisti francesi dell’Ottocento, benché mai, specificamente, a Mallarmé. Questo non significa che il filosofo attribuisca al poeta una minore importanza, anzi i frequenti e significativi rimandi agli scritti mallarmeani che si incontrano nei suoi libri dimostrano l’esatto contrario. Tuttavia, dato che si tratta di passaggi brevi e allusivi, per poterli comprendere in maniera adeguata occorrerà cercare di contestualizzarli meglio e, per così dire, sciogliere le abbreviazioni. Già in uno dei primi volumi di Agamben, Stanze, emerge il ruolo determinante che egli assegna a Mallarmé nello sviluppo della poesia moderna. Quest’ultima viene posta a confronto non con la produzione degli antichi, ma con la lirica medioevale. A giudizio del filosofo, nella poesia amorosa in lingua d’oc e d’oïl, così come nei testi dei siciliani e degli stilnovisti, si realizza qualcosa di raro e ammirevole: «Il vincolo pneumatico, che unisce il fantasma, la parola e il desiderio, apre infatti uno spazio in cui il segno poetico appare come l’unico asilo offerto al compimento dell’amore e il desiderio amoroso come il fondamento e il senso della poesia». In tale perfetta circolarità, la lirica amorosa del Medioevo «celebra, forse per l’ultima volta nella storia della poesia occidentale, il suo gioioso e inesausto “unimento spirituale” col proprio oggetto d’amore».
Giuseppe Zuccarino è critico e traduttore. Ha pubblicato vari saggi: La scrittura impossibile, Genova, Graphos, 1995; L’immagine e l’enigma, ivi, 1998; Critica e commento. Benjamin, Foucault, Derrida, ivi, 2000; Percorsi anomali, Udine, Campanotto, 2002; Il desiderio, la follia, la morte, ivi, 2005; Il dialogo e il silenzio, ivi, 2008; Da un’arte all’altra, Novi Ligure, Joker, 2009; Note al palinsesto, ivi, 2012; Il farsi della scrittura, Milano-Udine, Mimesis, 2012; Prospezioni. Foucault e Derrida, ivi, 2016. Tra i libri da lui tradotti figurano opere di Mallarmé, Bataille, Klossowski, Blanchot, Caillois e Barthes. Ha inoltre curato un fascicolo monografico della rivista «Riga» (n. 37, 2017) dedicato a Maurice Blanchot.
Nota di lettura di P. Amoroso, Pensiero terrestre e spazio di gioco, Mimesis, 2019.
Il libro di Prisca Amoroso, Pensiero terrestre e spazio di gioco. L’orizzonte ecologico dell’esperienza a partire da Merleau-Ponty, edito per Mimesis, è un testo che si presta ad almeno due piani di lettura possibili. Per un lato, si tratta di una monografia attenta ad alcuni sviluppi del pensiero di M. Merleau-Ponty che, ad oggi, restano per lo più ai margini dalla critica esegetica (sia detto a titolo indicativo: la centralità dei corsi dedicati all’apprendimento nel bambino, gli influssi di alcuni inediti husserliani, i rapporti laterali con la psicoanalisi di Winnicott, etc.). D’altro lato, ci troviamo di fronte al tentativo di dare consistenza ad un percorso di pensiero originale. Si tratta quindi, tanto di un libro su, quanto di un cammino con Merleau-Ponty. Vorremmo partire da questo particolare intreccio di esegesi critica e costruzione concettuale per restituire alcuni aspetti che ci sembrano maggiormente rilevanti nel tentativo di inserire questo lavoro in contatto con alcuni dibattiti attuali, come quelli dell’ecologia filosofica e del problema della vita (Cfr. Iofrida 2012; Barbaras 2008). A tal fine, vorremmo prendere l’avvio dal capitolo intitolato Vincoli e improvvisazione (pp. 131 - 135), che si situa nel cuore dell’argomentazione dell’autrice. Questi concetti ci offrono uno spaccato interessante del lavoro svolto nel libro e restituiscono alcune cifre della posta in gioco del tentativo di Amoroso. Il particolare interesse di questo capitolo è dato da una sorta di case study, se è lecito esprimersi in questi termini, riportato dall’autrice e citato dal Merleau-Ponty (2010: 46) de La struttura del comportamento: si tratta degli studi del neurologo tedesco Kurt Goldstein(2010, 198 - 199) sullo scarabeo stercoraro. L’interesse per questo case study deriva dal fatto che tanto Goldstein, quanto Merleau-Ponty - e, con loro, Amoroso - considerano questo animaletto come un esempio di adattamento che potremmo definire contingente. Andiamo con ordine.
L’obiettivo - del capitolo come delle sue fonti - è quello di criticare le concezioni meccanicistiche del vivente, dell’animale e del corpo. Secondo Amoroso, in linea con lo spirito merleau-pontyano, in tali modi di pensare al vivente «non c’è spazio per l’improvvisazione» (p. 131). A partire da questa constatazione, Amoroso sottolinea che l’animale non è assimilabile ad una macchina meccanica in quanto, a differenza di quest’ultima, «non possiede un dispositivo prestabilito» (p. 131) di gestualità e azioni, cioè di forme a priori di comportamento. L’animale non è un oggetto (ma potremmo dire, altresì, che non è un noema), piuttosto è espressione di una variegata capacità d’azione in riferimento ad una serie di contesti. «In altri termini, la vita è caratterizzata da una certa forma di ambiguità, di apertura di fronte allo stimolo, dunque di capacità di improvvisare di fronte al domandare, continuamente rinnovato, del reale» (p. 131).
Vediamo emergere, in questi passaggi, una relazione ambientale che restituisce, almeno in parte, la cifra ecologica di queste analisi. Ma emerge altresì una presa di posizione specifica in merito alla questione del vivente. La vita, ma come vedremo è più consono dire l’atto del vivere, è qualcosa che si situa nell’intermondo (cfr. Merleau-Ponty 2008, 147-148) tra le istanze problematiche sollevate dall’ambiente e le capacità di risposta del vivente, capacità che sono sempre aperte e allo stesso tempo vincolate da una specifica topologia, ad una situazione. Vivere consiste nell’essere situati in questo spazio di gioco, mondo intermedio (Iacono 2010, 67-87) tra le urgenze dell’ambiente e le capacità (o plasticità) del vivente.
Ora, è in questa doppia cattura, in questo chiasma per riprendere la concettualità di Merleau-Ponty, che si pone la questione della vita, ed è qui che diviene centrale il lavoro di Goldstein. Amoroso mutua dal neurologo tedesco una peculiare nozione di adattamento: «[q]uesta idea è tematizzata da Goldstein come venire a patti (coming to terms) del soggetto con la situazione: l’organismo riorganizza continuamente se stesso e il proprio mondo in funzione delle proprie possibilità e necessità» (p. 133). Questo modo di concepire l’adattamento esprime l’idea che tra l’ambiente (il quale, in riferimento a von Uexküll, viene declinatodall’autrice nei termini di Umwelt) e l’individuo non si diano mai relazioni univoche e che nessuno dei due termini possa avere un privilegio ontologico sull’altro. In quest’ottica, l’idea di adattamento è interpretata in chiave non riduzionistica. Riprendendo alcuni aspetti del pensiero francese novecentesco (ma non solo: molti i richiami nel libro a Huizinga, Winnicott, etc.), Amoroso vuol evidenziare che l’adattamento e il chiasma tra individuo e ambiente mette in risalto che è la relazione ad aver valore d’essere, la quale è irriducibile ad uno solo dei due poli: nessuna priorità ontologica dell’ambiente sull’individuo, né dell’individuo sull’ambiente.
Per un verso, infatti, «l’organismo contrae il mondo per adattarlo alla propria condizione» - nel duplice senso del termine contrarre: ridurlo ai dintorni, ma anche assumerlo come abitudine -, mentre per un altro, «il vivente si adatta esso stesso al proprio ambiente, si riorganizza nel proprio rapporto con esso» (p. 134). Per evidenziare questo chiasma tra attività e passività (dell’organismo come dell’ambiente), Amoroso si richiama allo scarabeo analizzato da Goldstein, il quale «deambula, quando è sano, sempre con un’andatura ambiale, e, nel caso di amputazione di una o più falangi, usa alternativamente l’ambio e il trotto, a seconda dell’ambiente in cui si trova» (p. 135). L’esempio è utilizzato, come detto, anche da Merleau-Ponty (2010, p. 46) il quale sottolinea che tale capacità «non si verifica che sotto la pressione delle condizioni esteriori».
Questo doppio vincolo, questa relazione di continui feedback tra individuo e ambiente, è espressione della capacità dell’organismo «di far valere la propria libertà rispetto ad un limite […]. Rispetto ad un problema cui non era destinato dalla propria natura, l’animale dimostra una capacità quasi inventiva, di riassestarsi. Un vivente così pensato non è macchina almeno quanto esso non si costituisce come libertà assoluta» (p. 135).
Torneremo a breve su quest’ultimo passaggio. Per il momento è opportuno sottolineare che la capacità inventiva del vivente è espressione di un processo di adattamento basato su una negoziazione continua tra il dentro e il fuori, tra l’individuo e l’ambiente. Insomma, in primissima istanza vivere è una relazione che si basa sul venire a patti con l’ambiente, con un continuo risolvere problemi o, per dirla con Merleau-Ponty (2003, 293-318), rispondere alle avversità dell’esistenza.
In un’ottica di tal fatta viene a cadere l’idea di un ambiente come Natura Originaria, ovvero come principio Naturante (si tratta dunque di una posizione ecologica e non naturalistica, in quanto predilige le relazioni alle cose [Sachen]). Ma viene meno anche l’idea di un individuo isolato, dato che esso è sempre determinato dai processi di individuazione. Quella tra individuo e ambiente, così, è una relazione ambigua e avversativa che mette in atto processi di individuazione vivente.
Trattandosi di una posizione non naturalistica, la relazione vitale non è qualcosa di naturale, ma va sempre giocata e istituita: essa non è data ma è sempre da farsi. Vivere si presenta così come una prassi e non come l’oggetto di un sapere particolare o un noema: più che al Bìos, vivere rimanda ad un piano agonale, a qualcosa da fare piuttosto che a una mera cosa [Blosse Sache]. La vita, insomma, va praticata.
Con quest’ultima considerazione ci spostiamo su un altro riferimento centrale del libro di Amoroso: il biologo olandese Frederik J. Buytendijk, anch’egli tra le fonti di Merleau-Ponty. L’autrice mutua dallo scienziato l’espressione scandalo biologico dell’allegrezza, che dà il titolo ad un capitolo di poco successivo al primo commentato (pp. 151 - 155). Questa formula esprime l’idea che se il vivere è una prassi - attiva quanto passiva - e non un dispositivo prestabilito comportamentale, allora l’atto del vivere si presenta come una molteplice e variegata ricchezza di espressioni vitali, spesso anche del tutto inattese (mostruose, fuori natura e finanche pericolose per il vivente stesso). Proprio in questa multiforme varietàinattesa consiste lo scandalo della vita: essa non è riducibile ad un meccanismo, ma, mediante la doppia cattura, non è neppure uno slancio vitale, pura libertà assoluta, come abbiamo avuto modo di accennare.
Nell’ottica di uno slancio vitale, infatti, la vita non avrebbe altro senso se non se stessa, riproponendo nuovamente un dualismo tra qualcosa che ha un fine in sé e qualcosa che ha un fine fuori di sé. Si tratta di una prospettiva nella quale la vita ha un valore in sé, come un nuovo imperativo categorico e non ci sarebbe spazio per i singoli viventi poiché avrebbero il fine fuori di sé e dunque sarebbero solo mezzi attraverso i quali la vita esprimerebbe se stessa.
Lo scandalo del vivere, al contrario, è che vi sia la possibilità, nonostante tutto, di una vita. Lo scandalo consiste nel fatto che vivere non è che un continuo processo di indeterminazione e individuazione e che non ci si possa rapportare a questo vivere se non, per riprendere il lessico di Mille piani di Deleuze e Guattari (2015, 51), nella modalità della sottrazione, dell’ N-1. Ecco lo scandalo del vivere: si deve sempre strappare una vita dalle avversità, dalle contingenze, dalle istanze problematiche, perché vivere non è qualcosa che è esente dal fare dei singoli viventi. Vi sono infinite vite possibili e non una Vita Infinita: molteplici viventi infinitamente variegati, affetti in infiniti modi.
Un vivente, una vita è situata sempre nel mezzo dell’attivo e del passivo, dell’azione e della passione, è sempre aperta ai rischi e a forme di resistenza che ne ostacolano lo sviluppo: una vita, un vivente è sempre un paradosso esistenziale. Contro l’imperativo categorico della Vita Infinita, Amoroso tenta di giocare la carta della finalità senza scopo del vivente (pp. 195 ss), un finalismo che determina la dimensione contingente e paradossale di una vita. Vivere non è mai dunque un sostantivo, ma, di nuovo, un verbo, un agire, una pragmatica. Una vita non è che un continuo venire a patti con ciò che c’è, con e dentro l’esistente: un continuo attuare equilibri metastabili. Vivere, quindi, non è che creare delle resistenze nell’esistente.
Radicalizziamo ancora la tesi: vivere significa costringere l’esistenza a trasformarsi. Ciò fa sì che non si vive mai semplicemente contro la morte, vivere non è questione di mera sopravvivenza. Se vivere è un processo di adattamento continuo, questo adattamento non sarà, quanto meno in prima istanza, una lotta per la sopravvivenza (la quale presuppone, come argutamente sottolinea Amoroso, un ultimatum dell’ambiente all’organismo, p. 153), ma una lotta per trasformare l’esistente. Dal venire a patti allo scandalo dell’allegrezza, quindi: riecheggia, nel libro di Amoroso, l’idea che è solo attraverso l’allegrezza che si può vivere, ovvero trasformare l’esistenza.Sono le spinoziane passioni gioiose che aumentano lo spazio di gioco nelle avversità di una vita. Spinoziane, certamente. Ma anche profondamente merleau-pontyane (cfr. Merleau-Ponty 2008, 148 ss; 2003, 277-293): vivere non è la lotta a morte tra rivali, che condurrebbe ad una concezione competitiva della vita, ma la cooperazione tra viventi per trasformare lo stato di cose.
Ecco quindi tre concetti chiave del lavoro di Amoroso: vita, esistenza e trasformazione. Tutti e tre questi concetti necessitano di uno spazio di gioco (Amoroso mutua il termine husserliano Spielraum, pp.127-130) ove far crescere le relazioni, unico oggetto possibile dell’ontologia (la domanda ontologica, merleau-pontyanamente, non riguarda l’Essere, ma l’atto di creazione delle relazioni). Inevitabile, così, che tali riflessioni approdino al problema della soggettività e, con essa, alla critica di alcuni sviluppi della filosofia cartesiana. Con Merleau-Ponty, Amoroso tenta di delineare un’etica della contingenza (pp. 211 - 215), ovvero concepire la soggettività come potenza d’agire e non come interiorità cosciente e pensante: tentare di sostituire all’Ego Cogito, un Ich Kann, un Io posso. Un soggetto non è altrocosì da una vita che si pratica nei meandri delle avversità dell’esistenza.
Queste ultime considerazioni ci riportano al capitolo del libro di Amoroso dal quale siamo partiti, Vincoli e improvvisazione. Qui l’autrice connette la già commentata idea di Goldstein al lavoro del poeta Paul Valèry. Strana unione tra Scienza e Poesia, tra Ragione e Sentimento che ci limitiamo a segnalare e che nei lettori più avveduti non può che risuonare con il lavoro di Merleau-Ponty. In particolare, però, Amoroso rilancia l’importanza della nozione di Implexe «che esprime [la] fondamentale eventualità della vita» (p. 132). L’Implexe, infatti, è per il poeta francese «ciò per cui io sono eventuale» (p. 133). Amoroso fa giocare questa nozione contro l’idea di soggetto come cosa pensante, o, per essere più precisi, contro una concezione sostanzialistica della soggettività. L’autrice rilancia l’idea che una soggettività, in quanto qualcosa che può, non è identificabile col pensiero - non nei termini del Cogito, quanto meno - ma con l’eventualità.
Essere viventi, essere al mondo, divenire una vita significa essere sempre in relazione con qualcos’altro che c’è già, un qualcosa che ci precede e che ci supera. Essere una vita, inoltre, non è mai una condizione solipsistica: si vive sempre in una molteplicità, mai per sé. Una vita è pur sempre un’esistenza collettiva e intersoggettiva, mai meramente individuale. Ma ciò implica anche che, mentre la soggettività non è un per sé, il qualcosa non è neppure un in sé: non è un quid meramente indeterminato, ma un piano di esistenza avversativo che richiede la nostra vita, la nostra opera, la nostra incompiutezza. Essere viventi significa essere eventuali. Ma quest’ultima determinazione ci dice anche che vivere non è un pratica tra le altre. Vivere è una vera e propria ars inveniendi. In questa prospettiva si apre uno spiraglio, un cammino possibile verso una noologia di ispirazione merleau-pontyana, con cui vogliamo concludere.
Il pensiero (un pensiero terrestre, nietzscheanamente fatto di carne e nervi), svincolato dalla forma soggettiva, diviene una specie di virtù e in quanto tale occorre imparare a praticarla. Pensare, nella prospettiva di Amoroso, vuol dire apprendere e imparare a costruire insieme agli altri (umani e non) degli spazi di gioco nei quali poter sperimentare l’eventualità di una vita. Ma pensare vuol dire altresì costringere l’esistente a venire a patti con quella scandalosa allegrezza di una vita collettiva, l’unica soggettività capace di resistere alle avversità di ciò che c’è.
di Gianluca De Fazio
Bibliografia
Barbaras, R. (2008). Introduction à une phénoménologie de la vie. Paris: Vrin.
Deleuze, G. & Guttari, F. (2015). Mille piani. Roma: Castelvecchi.
Goldstein, K. (2010). L’organismo. Trad. it. Di L. Corsi. Roma: Fioriti.
Iacono, A.M. (2010). L’illusione e il sostituto, Milano: Mondadori.
Iofrida, M. (2012). Vita natura soggetto, in M. Iofrida (a cura di), Crisi. Condizione e progetto. Modena: Mucchi.
Merleau-Ponty, M. (2003). Segni. Trad. it. di G. Alfieri. Milano: Net.
Merleau-Ponty, M. (2008). Le avventure della dialettica. Trad. it. di D. Scarso. Milano-Udine: Mimesis.
Merleau-Ponty, M. (2010). La struttura del comportamento. Trad. it. di M. Ghilardi e L. Taddio. Milano-Udine: Mimesis.
Nella prefazione a La filosofia dell’Illuminismo (1932) Ernst Cassirer scriveva che per comprendere la filosofia del XVIII secolo non si dovesse tanto far riferimento all’ampiezza della produzione scientifica che aveva caratterizzato il secolo dei Lumi, bensì chiariva quanto fosse più proficuo focalizzare l’attenzione sulla profondità che caratterizzò i sistemi filosofici dell’epoca, nelle diverse sfumature e nella vasta pluralità. Illuminismo. Storia di un’idea al plurale a cura di Massimo Mori e Salvatore Veca, pubblicato quest’anno da Carocci concretizza la possibilità di confrontarsi con uno studio stimolante e approfondito sull’Illuminismo. Questa possibilità è garantita dall’intento dei curatori che anima la realizzazione dell’opera: leggere e interpretare il Secolo dei Lumi, non secondo una visione monolitica, ma, come si evince dal sottotitolo, trattarlo come la storia di una pluralità di idee, ben ancorate alle vicende storiche e culturali del tempo, ma in grado di offrire appigli teorici di grande originalità rispetto alla tradizione.
Il testo è una collettanea a cura di ben undici autorevoli studiosi, i cui interventi trattano gli argomenti più vari. Il volume è diviso in due parti: la prima ha per titolo Problemi e Metodi e la seconda Tradizioni e Prospettive.
Nella prima parte viene costruito il complesso ruolo delle scienze nell’età dei Lumi: le pagine di Paolo Casini, Vincenzo Ferrone e Antonello La Vergata contribuiscono a tessere la tela che ci permette di interpretare l’Illuminismo nei suoi complessi intrecci, da non leggere quindi secondo un’unica chiave interpretativa risolutiva, ma prendendo atto della complessità che lo caratterizza e soprattutto dell’importanza del solco tracciato in esso dalla Rivoluzione scientifica. Questo processo, a sua volta articolato e ricco di variabili, ma certamente di portata storica unica nel suo genere è stato l’evento della modernità che ha lasciato una delle più grandi eredità alla filosofia occidentale. Riguardo l’importanza del rapporto tra Rivoluzione scientifica e Illuminismo, Casini ascrive alla nascita del metodo scientifico il ruolo di aver generato la rottura con l’ipse dixit aristotelico, con la vecchia immagine del mondo, che tuttavia non vede perso per sempre il ruolo della metafisica, la quale viene ridimensionata, sulla scia del Condillac, a scienza che cerca “di vedere le cose come sono”.
L’idea presunta di una asettica razionalità, superiore rispetto ad ogni altra facoltà conoscitiva, ha spesso avuto il suo primato nella considerazione sull’età dei Lumi. Tuttavia essa trova la sua smentita nello scritto di Ferrone, il quale sottolinea l’importanza dell’immaginazione tra le facoltà del nostro armamentario gnoseologico, così come fondamentale fu il ruolo del sogno per una figura di spicco del Settecento: l’enciclopedista D’Alembert.
Gli ultimi due scritti della prima parte, quelli di Mario Ricciardi e Giovanni Filoramo trattano del cruciale rapporto del pensiero illuministico con tematiche di natura etico politica e religiosa, dimostrando ancora una volta la variegata quantità di punti di riflessione sui quali si è focalizzata la sensibilità settecentesca.
Nella seconda parte del testo emergono questioni e problematiche differenti. Il capitolo di Giuseppe Cambiano permette subito di comprendere quanto gli autori del Secolo dei Lumi non siano stati pensatori isolati nel loro tempo storico, avendo risentito fortemente dei grandi classici, nei confronti dei quali si ponevano secondo un approccio talvolta critico, ma rispettoso, facendo così leva sull’impossibilità per i filosofi di far riferimento ai predecessori. Così dalle pagine di Gianni Paganini si può cogliere l’eredità del pensiero libertino e “clandestino”, che si caratterizzò come fonte essenziale di quel principio di autonomia e libertà che animava lo spirito dell’Illuminismo.
Quando si fa riferimento all’Illuminismo come corrente culturale permeante l’età moderna, non si può non considerare l’idea di cosmopolitismo che è stata alla base del pensiero filosofico. Questa idea è ampiamente descritta dal punto di vista storico da Massimo Mori, il quale mantiene viva la lezione degli antichi, confermando ancora una volta l’attenzione degli illuministi nei confronti della tradizione e soprattutto segnalando il valore essenzialmente polisemantico della parola “cosmopolitismo”, la quale nel Settecento aveva una molteplicità di interpretazioni e chiavi di lettura, tanto da poter essere considerata interscambiabile con quella di “filosofo” nell’Enciclopedia.
La filosofia dell’Illuminismo è eurocentrica? Una risposta pertinente e completa, che consente tra l’altro di trovare la via di uscita dai luoghi comuni e dalle errate categorie di pensiero, si trova nell’intervento di Pietro Rossi, nel quale si può notare la grande attenzione che ci fu da parte dei filosofi del XVIII secolo nei confronti dell’Oriente. I riferimenti alle pagine di Voltaire risultano eloquenti a riguardo: la sua opinione sull’Oriente, in particolar modo sulla Cina offre dei risultati più che positivi, fungendo tra l’altro da autocritica nei riguardi dell’Europa del tempo (civile, cristiana e moderna), la quale sembrava aver rinunciato ai principi del cristianesimo, con le sanguinose guerre di religione che avevano investito l’età moderna.
L’Illuminismo è un problema storiografico da relegare entro una stagione della storia conclusa? Oppure è una categoria di pensiero per potersi orientare, un “atteggiamento” adottabile per trovare un senso nella realtà?
Gli ultimi due scritti del testo tentano di rispondere a questa domanda, provando a ripensare l’Illuminismo nella contemporaneità, non soltanto per quanto riguarda i suoi aspetti storico filosofici, che possono essere collocati entro la cornice settecentesca, ma da altri punti di vista e problematiche che irrompono nella cultura contemporanea.
Nello scritto di Massimo Ferrari si rintraccia un’utile costruzione della storiografia sull’Illuminismo tra Ottocento e Novecento, dalla quale emerge quanto gli eventi storici dell’età contemporanea abbiano inciso sulle varie interpretazioni che nel tempo si sono avvicendate sulla filosofia dei Lumi.
L’ultimo intervento è a cura di Salvatore Veca il quale disegna la “silhouette” dell’Illuminismo nella cultura filosofica contemporanea. Egli non si sofferma soltanto sulla famigerata lettura negativa di Adorno e Horkheimer contenuta in Dialettica dell’Illuminismo, bensì sui tentativi di recupero dei valori trainanti dell’età dei Lumi rintracciati nelle riflessioni di Abbagnano, Putnam, Williams e Foucault. Emerge un’interessante interpretazione volta a valorizzare l’Illuminismo come “atteggiamento” nel nostro quotidiano confronto con il reale. Non si tratta di operare in favore di una fede cieca nel progresso, ma di essere mossi e di agire in virtù della credenza nella «possibilità del progresso» del genere umano verso il meglio. La ragione diviene quindi una bussola che permette di non perdersi nel mare del disorientamento postmoderno o addirittura nella negazione del pensiero come vera peculiarità dell’essere umano. Così per Veca resta valida quella che si definisce una vera e propria «educazione al pensiero», quindi all’Illuminismo stesso come ideale della ragione. A tal proposito è esplicito il riferimento a Jean Amery con il quale si chiude il capitolo: nella condizione di prigioniero ad Auschwitz aveva affermato che «chi rinnega l’Illuminismo, rinuncia all’educazione del genere umano».
Illuminismo. Storia di un’idea al plurale offre dunque al lettore l’opportunità di confrontarsi con varie interpretazioni e aspetti della filosofia e più in generale della cultura del secolo XVIII. Ogni capitolo può essere la solida base per molteplici spunti di riflessione e ulteriori ricerche, sia per lo studioso che per lo studente. Tutto ciò è permesso soprattutto dalla ricca bibliografia presente alla fine di ogni capitolo, la quale dimostra la perizia e l’attenzione che ogni studioso ha impiegato nella realizzazione del proprio intervento.
Tra le più originali e acclamate filosofe della scienza degli ultimi anni, Susan Haack, è ben nota nel mondo anglosassone. Nonostante tale ambiente culturale sia solitamente rappresentato come dominato egemonicamente da approcci analitici, la Haack ha fondato il nucleo concettuale del suo pensiero su basi diverse, operando una rielaborazione critica del Pragmatismo originario di Peirce, James e Dewey. Inglese per nascita e per formazione, avendo studiato ad Oxford con maestri della filosofia oxoniense quali Dummet e Ryle, ha in seguito abbracciato questa americanissima corrente di pensiero, sviluppandola e applicandola estensivamente in campi quali l’epistemologia e la filosofia della scienza.
Purtroppo, ben poche opere dell’autrice sono disponibili in italiano, lingua in cui sono reperibili solo le opere dedicate alla logica, altro settore a cui essa ha contribuito significativamente. Nonostante il grande apporto dato ad altri settori della filosofia, riteniamo che l’aspetto più interessante dell’opera dell’autrice sia quello legato alla filosofia della scienza.
Il testo che rappresenta la summa di tali riflessioni è il suo Defending Science - Within Reason, pubblicato nel 2003 per Prometheus Book. L’anno di pubblicazione non è irrilevante: il testo arriva a conclusione di un lungo periodo di dibattito e di fermento culturale, passato alle cronache americane come il tempo delle science wars.
Il dibattito aveva visto contrapposti i fautori di un realismo scientifico intransigente, nutrito della filosofia della scienza neoempirista, e il nascente studio storico-sociale della pratica scientifica, incarnato dalle teorie costruzioniste e sfociato a volte in un relativismo culturale anti-scientifico.
Largamente esauritosi con l’inizio degli anni ‘2000, il dibattito riecheggia tuttavia in ogni pagina del libro della Haack, a cominciare dal sottotitolo, “between scientism and cynicism”, descrizione piuttosto fedele degli orientamenti polarizzati che erano emersi dalla discussione degli anni precedenti.
Sul tema l’autrice, che nel titolo di un altro suo lavoro si definirà «a passionate moderate», è incredibilmente misurata, attenta e, appunto, moderata. Il testo si propone infatti di difendere la pratica scientifica dagli attacchi dei suoi critici e al contempo di esaminarne i limiti e le specifiche. Come in una Critica kantiana, l’autrice osserva fino a che punto può spingersi la scienza, come può funzionare così bene e come può incontrare ostacoli nel processo conoscitivo, la sua metodologia e la sua specificità, nonché il suo rapporto con altre sfere di attività umana come il diritto, la religione e l’etica. Compito della riflessione è offrire un quadro il più accurato possibile di ciò che la scienza è, al di là di posizioni troppo deferenti nei confronti di essa oppure troppo critiche. I deferentialists sono identificati come i rappresentanti della filosofia della scienza classica, empiristi logici o popperiani, caratterizzati da un acritico entusiasmo per la scienza, mentre tra i cynics troviamo sociologi della scienza reduci dall’esperienza del “programma forte” e alcune filosofe femministe, a cui l’autrice imputa un immotivato astio verso la scienza. Ad entrambi Susan Haack oppone la sua specifica concezione della scienza, a partire dall’analisi metodologica e dalla definizione di cosa essa sia.
Nei primi capitoli troviamo infatti una disamina delle peculiarità del metodo scientifico: esso non è inerentemente migliore di altre forme di indagine umana né radicalmente diverso da altre forme di indagine di senso comune. Riprendendo il critical common-sensism di Peirce, la filosofa pone in continuità i meccanismi che attiviamo per rispondere a questioni nella vita comune e ciò che facciamo nella scienza. Non c’è nessuna forma logica della scoperta scientifica, nessuna metodologia rigida e univoca, ma tutto si basa sulla qualità delle prove addotte a supporto di una teoria e sulla forza che esse ricevono da altre credenze che consideriamo solide.
Come analogia la Haack porta un cruciverba, in cui ogni entrata è fortemente interrelata con quelle già presenti, che fuor di metafora possono essere rappresentate da altre teorie, ulteriori dati o conoscenze di senso comune. La teoria trae la sua forza da due fonti: la fondatezza che essa trae dai dati e la sua coerenza con altre buone teorie, in un approccio che l’autrice chiama foundherentism, rifacendosi alla distinzione epistemologica tra fondazionalismo (foundationalism) e coerentismo (coherentism).
Solo ponendo ogni forma di indagine in un continuum è possibile spiegare veramente la concreta natura della ricerca scientifica, oltre formalizzazioni logiche astratta e impratiche nell’applicazione, come quelle dei “deferenzialisti”. Chiaramente ciò concede qualche punto ai “cinici”, ma la Haack ribadisce l’oggettività della scienza, il cui essere storicamente e socialmente situata nulla toglie alla potenza esplicativa delle buone teorie.
Non potendo qui soffermarci a lungo su queste questioni, basterà ricordare alcune delle conseguenze più rilevanti che sono tratte da questa osservazione.
Prima di tutto, il problema della demarcazione appare ora triviale: non c’è limite definito tra ciò che è scienza strictu senso e ciò che non lo è, bensì una distinzione pragmatica tra buone teorie, sostenute da dati e inferenze convincenti, e cattive teorie, che mancano di quella rete di sostegno sopra accennata. Secondariamente, notiamo come la scienza non abbia nessuno “statuto onorifico”, ma solo una particolarità epistemologica. Velata ma non tanto è la critica all’uso onorifico si scienza, per dare legittimità a campi che in termini strettamente epistemologici scientifici non sono. Molte forme di ricerca sono valevoli ma non scientifiche, molte pratiche umane non sono neanche forme di indagine in senso stretto, ma sono comunque apprezzabili, pur non avendo metodologie scientifiche. Equiparare “scientifico” a “buono” vuol dire misconoscere che la scienza è senz’altro diversa da altre forme di conoscenza, ma non inerentemente migliore. Per terza cosa, le scienze naturali e quelle sociali risultano accomunate da una natura condivisa, che le lascia libere di perseguire il loro oggetto di studio senza imporre o adottare acriticamente metodologie di ricerca inappropriate. Esse sono forme di indagine che si avvalgono di specifici strumenti, come le scienze naturali, ma non allo stesso modo, vista la diversa natura dell’oggetto di studio.
Nella parte centrale del volume, l’autrice inizia a osservare criticamente i legami tra scienza e altre branche di riflessione umana. Particolarmente tranchant è la parte sui rapporti tra scienza e religione, a cui la Haack imputa una radicale inconciliabilità. Tutt’altro che irenica, la filosofa nota come la religione non sia in continuità con la vita comune, a differenza della scienza, ma si fondi su esperienze religiose, credenze di fede e riflessioni speculative. Essa ha anche lati positivi, ma il suo impatto sulla vita umana non è esente da contraddizioni e contrasti.
Detto ciò, la religione, come visione del mondo, non può essere relegata a “magistero non sovrapponibile” e innocuo, con autorevolezza solo nella sfera dei valori: essa accampa pretese su come è fatto il mondo, come la ricerca scientifica, ma in modo decisamente diverso. Il conflitto esplicativo che ne consegue vede la scienza come alternativa migliore, per una maggiore affidabilità epistemologica rispetto alle credenze religiose. Forse un po' eccentrico rispetto al resto delle discussioni sul tema, delle critiche humeane alla religione, questo capitolo offre senz’altro un originale punto di vista sull’argomento.
Ben diverso è invece il rapporto tra la scienza e il diritto, a cui la essa presta le sue scoperte. Esso presuppone nella scienza un’affidabilità che non può però fondarsi su riflessioni metodologiche troppo stringenti: così, ciò che entra in tribunale come “prova” scientifica è oggetto di riflessioni giuridiche confuse e poco accurate epistemologicamente, principalmente basate su assunti della filosofia della scienza classica riarrangiati in sintesi contraddittorie.
Distanziandosi dai miscugli popperiani-hempeliani proposti (che l’autrice scherzosamente chiama Hopper-Pempel) l’autrice mostra come le conseguenze della nuova concezione della scienza da lei proposta si offrono a nuove applicazioni in campo giuridico. Analizzando alcuni casi giudiziari in cui è emersa la questione della testimonianza scientifica, la Haack supera alcune pedanterie metodologiche per proporre nuovi approcci all’uso di evidenze scientifiche in tribunale.
Il tema del rapporto tra etica, inclusività e scienza è un altro punto forte della difesa della scienza operata dalla Haack, in questa parte del libro. Senza nulla togliere alla peculiare natura storica della scienza, caratterizzata da fattori storici e culturali, essa nega che la ricerca scientifica sia un’impresa occidentale o colonialista, difendendone la natura inclusiva, oggettiva e aperta al contributo di tutti. La scienza è sempre più globalizzata, come il resto della vita umana, e sarà in futuro sempre più aperta a contributi non occidentali. Essa non è neanche maschilista, perché per quando per secoli dominata da scienziati maschi la scienza non è inerentemente biased: ben venga l’apporto dello specifico punto di vista femminile, escluso dalla pratica scientifica per secoli, ma distinguendo tra la maggiore inclusività e l’idea che ci sia una “scienza al femminile” e una maschile. Chiaro è il distacco da epistemologhe femministe come Sandra Harding, che invece hanno un approccio critico nei confronti della scienza “patriarcale”.
Il capitolo si chiude con una riflessione sulle conseguenze delle scoperte scientifiche e delle loro implicazioni morali, che per la Haack non sono imputabili alla ricerca scientifica in sé ma alla moralità di chi la sfrutta. Strizzando l’occhio all’etica delle virtù, pur non citando specificamente alcuna posizione etica, la filosofa sottolinea l’intersezione significativa tra virtù epistemiche, necessarie alla ricerca scientifica, e virtù morali, necessarie alla vita etica. Tali virtù non combaciano e non sono sempre necessarie in ogni contesto, ma come detto c’è un positivo overlapping tra di esse.
L’ultima parte del libro è la più speculativa, trattando del futuro della scienza e della sua eventuale conclusione come processo conoscitivo. A tale proposito, l’autrice non esclude che in futuro la scienza raggiungerà qualche “teoria generale” onnicomprensiva, ponendo effettivamente fine al processo di ricerca scientifica, ma ci ricorda comunque come molte volte in passato la “fine della scienza” sia stata annunciata per essere seguita da grandi rivoluzioni concettuali, che hanno aperto nuovi campi e rilanciato grandemente la pratica scientifica. Facendo sua l’immagine di Popper, per cui la scienza sarebbe come una montagna nebbiosa, durante l’ascesa della quale ogni volta che si pensa di essere arrivati si scopre che la strada continua, l’autrice chiude il libro con uno sguardo ottimista al futuro della scienza, ben lungi dall’essere priva di limiti, ma capace di auto-correggersi e di varcare ogni volta nuove frontiere.
Il libro di Susan Haack raggiunge decisamente lo scopo che si prefigge, cioè trattare la scienza “nei limiti della ragionevolezza” (within reason nel titolo), senza esaltazioni o critiche ma con grande chiarezza e accuratezza. Per quanto scritto in un periodo storico e culturale ben preciso, quello dopo le sopra ricordate science wars, il libro mantiene ancora oggi la sua attualità e la sua freschezza, offrendo una delle più sistematiche e complete trattazioni del fenomeno-scienza nella sua multiforme e sfaccettata natura. Ciò che traspare è una difesa appassionata ma coerente della bellezza della pratica scientifica, inserita però nell’umanissimo contesto in cui essa è nata e si è sviluppata, retta dalla consapevolezza che la scienza non è un sapere perfetto e infallibile, ma è forse uno dei migliori che abbiamo a disposizione.
Il volume che presentiamo raccoglie i contributi del Corso di Eccellenza Schema. Verso un dizionario filosofico-architettonico che si è svolto presso il Dipartimento di Architettura e Design del Politecnico di Torino nell’estate del 2018. Il volume è il risultato del lavoro condiviso tra esponenti di due discipline: filosofia e architettura. Durante un simile lavoro si è cercato, da un lato, di chiarire gli assunti che stanno alla base dei discorsi e delle pratiche delle due discipline, pertanto peculiari a ciascuna; dall’altro lato, di individuare le aree di indecisione o indeterminatezza ai bordi delle discipline stesse, aree in cui le rispettive identità tendono a sfumare reciprocamente. Il linguaggio è stato assunto come dispositivo ‘problematico’ e ‘di problematizzazione’ allo stesso tempo: ‘problematico’ dal punto di vista della condivisione di un vocabolario transdisciplinare, pertanto comune (in senso convenzionale) tra architettura e filosofia; ‘di problematizzazione’ nei termini, invece, di una operatività orientata ad affrontare, e problematizzare, tematiche affini. Si è quindi partiti da quelle parole o lemmi che sono condivise tra le due discipline, anche se utilizzate in modi e con fini differenti; parole che nel caso dei filosofi sono nozioni e leve per la teoria e nel caso degli architetti sono strumenti concettuali dell’agire progettuale. Più precisamente, l’ipotesi di avvio è stata quella di individuare il lemma di un ipotetico dizionario filosofico-architettonico. Tra le varie proposte, il lemma ‘schema’ si rivela essere un buon intercessore transdisciplinare: per la filosofia, soprattutto dopo Kant, esso diventa un termine specifico, e uno dei terreni di battaglia prediletti dalla gnoseologia e l’epistemologia, ma anche dall’ontologia; in architettura, la schematizzazione rappresenta, invece, una forma specifica del pensiero progettuale e uno strumento convenzionale che interviene nel dialogo con le altre discipline, nonché nella traduzione dei loro specifici apporti in figure progettuali. Per articolare maggiormente la discussione sul lemma si è deciso di declinarlo in quattro varianti o sotto lemmi: ‘algoritmo’, ‘configurazione’, ‘diagramma’ e ‘mappa’.
A cura di Veronica Cavedagna e Andrea Alberto Dutto
FORME DELLA LIBERTÀ. LE CORBUSIER E LA PIANIFICAZIONE TOTALE
Tra i grandi architetti dell’epoca moderna, nessuno è più celebrato di Le Corbusier: i suoi testi radicali e controversi sono manifesti scritti e disegnati che hanno modificato il modo di guardare e pensare l’architettura, più ancora che l’architettura costruita. Può sorprendere allora che i suoi studi su La Ferme radieuse et le Centre coopératif, elaborati per il terzo CIAM del 1930 e riuniti nel novembre del 1940, abbiano atteso fino al 2015 una pubblicazione, tanto più che si tratta di testi che consentono di guardare la sua opera sotto una luce diversa e più ambigua. La pubblicazione italiana da parte di Armillaria – La Fattoria Radiosa e il Villaggio Cooperativo, a cura di Sante Simone – ha quindi un valore non comune, anche perché arricchita da un prezioso saggio di Laurent Huron a chiudere la pubblicazione. Sintetizzando, potremmo dire che la Fattoria Radiosa è la sorella minore della ben più celebre Città Radiosa: pur essendone non solo il complemento ideale, ma addirittura la precondizione realizzativa. Se infatti la Ville Radieuse rappresentava la città autenticamente moderna, con la sua geometrizzazione funzionale di grattacieli, gli ampi spazi verdi e la circolazione dedicata ai vari utenti, essa tuttavia non era autosufficiente: non nasceva per vivere in un mondo solitario, ma per essere parte di un più ampio organismo in cui erano centrali i luoghi della produzione, e in particolare quella del cibo e dei beni primari. Cioè quelle campagne che i giovani, invece di coltivare, sempre più abbandonano in quel fenomeno che si chiama urbanesimo.
La soluzione lecorbusiana per rivalutare la vita in campagna è, com’è facile immaginare, completamente votata al nuovo mondo macchinistico. «Risparmiamoci il romanticismo!» (p. 95): i giovani saranno di nuovo felici in campagna solo se questa sarà efficiente, ordinata, finalmente pulita. Cioè quando essa si adatterà alla loro modernità, liberandoli dalla corruzione del denaro, dalla sporcizia del letame, dalle inefficienze della parcellizzazione e dell’individualismo: allora sì, che vorranno vivere in campagna (passando dalla Ville Radieuse a una Vie radieuse). L’ispirazione programmatica è il «programma di ricostruzione agraria» (p. 47) che Norbert Bézard, lavoratore agricolo (o meglio osservatore del mondo contadino), propone a quello stesso CIAM del 1930: un programma teso a trasformare le fattorie in moderni «strumenti di civiltà» (p. 65). La rivoluzione non è solo nelle forme: Bézard fonda su basi corporativiste e antistataliste un nuovo ordine sociale che abolisce la proprietà terriera, unendo gli sforzi dei singoli in un sistema cooperativo il cui simbolo è il silo comune. Nessuna parcellizzazione potrà rompere l’armonia del sistema cooperativo, e nessuna ricchezza ne turberà la serenità: Bézard si spinge a proporre persino la nuova «moneta del Piano» (p. 81) che servirà per tutti gli scambi interni e con l’esterno. La Fattoria Radiosa traduce questi principi in quella peculiare economia di segni e perentorietà dei toni che è propria di Le Corbusier: che disegna villaggi e fattorie distribuiti razionalmente sul territorio e collegati da un sistema di moderne autostrade. Ogni unità è compiuta nelle sue parti, e integra il silo, la cooperativa, la scuola, la piscina, un ufficio postale, le abitazioni con servizi e spazi comuni, l’orto e il club: tutti costruiti sfruttando i sistemi di produzione standardizzata, con sistemi a volte prefabbricate su cui si ritmano architetture modulari. Nel rispetto delle specificità dei luoghi e per ridurre i costi, ai muratori comuni – i murondins (p. 85) – viene affidato il compito di terminare le opere di finitura. Il risultato sarà un centro cooperativo organizzato e perfettamente efficiente, dove tutti avranno accesso alle merci fatte arrivare attraverso le strade. Non rimane nulla del vecchio mondo agrario, sporco, disordinato: domina la nuova immacolata purezza, e si affida «al tempo la responsabilità di fissare poco per volta lo stile di un nuovo folklore rurale» (p. 85).
Ma questa chiarezza espositiva tradisce una profonda incoerenza. Infatti il centro cooperativo è sì moderno e pulito, ma propone un modello di piccola comunità assolutamente tradizionale: aggrappato tenacemente a valori antichi, alla solidarietà perduta dopo la rivoluzione industriale (ma sarà poi vero?), al dare valore ai piccoli piaceri della vita, al mettere radici per la propria «stirpe» (p. 63). Se cioè la visione architettonica proposta è figlia del mondo macchinista, la vita ch’essa ospita vorrebbe essere intrisa di quel romanticismo che tanto viene avversato. Un romanticismo che vede la natura come espressione di «poesia» (p. 67), i figli come naturali prosecutori del lavoro dei padri e le mogli intente a scambiarsi pettegolezzi nella «sala per le signore» (p. 107). Insomma, è sì il futuro, ma visto con gli occhi del presente: un po’ come in quei film di fantascienza in cui astronavi solcano lo spazio e il tempo ma gli schermi sono ancora a tubo catodico, le vere rivoluzioni non possono essere davvero immaginate prima che accadano. Così, come internet non era ipotizzabile da scrittori e sceneggiatori impegnati a immaginare androidi e velocità-luce, allo stesso modo Le Corbusier e Bézard non possono nemmeno concepire il ’68, le rivoluzioni sociali, la globalizzazione. La Fattoria Radiosa potrà allora risolvere solo i problemi di allora – il fango, la fatica, il letame, l’isolamento: ma sarà sempre imbrigliata nei presupposti concettuali che ne costituiscono l’ossatura più profonda, a livello sociale come tecnologico.
Emerge qui la duplice natura dell’architettura su cui Le Corbusier ha costruito il suo mito. Da un lato, «l’architettura è il gioco sapiente, corretto, magnifico dei volumi sotto la luce» (diceva in Verso un’architettura), cioè è la capacità plastica di manipolare la forma, e di definire la bellezza «tramite il gioco della proporzione e dell’invenzione» (p. 95). Dall’altro, questa ipotetica neutralità della forma si inserisce in progetti del tutto programmatici, in cui la forma dell’abitare è strettamente legata all’organizzazione della società. Sapendolo, Le Corbusier si sforza di dimostrare, attraverso i disegni, la bellezza delle nuove fattorie (p. 91): accuratamente evitando di indagare fino in fondo l’incoerenza cui abbiamo accennato. Che si svela, invece, quando si guardi alla Fattoria Radiosa al passare del tempo: ingessata nel suo equilibrio, precario perché perfetto, essa mostra infatti una debolissima resilienza. Non vi potrà essere alcuna flessibilità: che vi vive dovrà rimanervi, chi vi nasce dovrà morirvi, pena la caduta non solo della Fattoria, ma dell’intero mondo con tanta cura pianificato.
Ma l’unico modo per garantire questa rigidezza è un ordine forte, deciso, imperativo: scrive Sante Simone nella sua introduzione «L’ideologia corporativista rivendicata dai redattori di Plans e Prélude, tra i quali compariva Le Corbusier, era molto popolare negli Anni ‘30 e risultava profondamente antiliberale. Riuniva simpatizzanti di estrema destra e socialisti non marxisti che, attraverso la pianificazione, richiedevano l’ordine della società guidata da un potere forte, in cui gli ingegneri illuminati svolgevano un ruolo nodale» (p. 8). E il prezioso saggio di Laurent Huron – Le Corbusier e Norbert Bézard, dal Faisceau al regime di Vichy – indaga proprio nella direzione di capire quanto estrema sia la destra di una simile posizione: rilevando vicinanze e reciproci apprezzamenti tra Le Corbusier e una serie di personaggi vicini, se non appartenenti, al partito francese di ispirazione mussoliniana, da Pierre Winter, a Philippe Lamour, a Hubert Lagardelle. Legami che si concretizzano anche nelle pubblicazioni di Bézard e Le Corbusier sulle riviste di stampo fascistoide Plan e Prélude. Non che questo basti automaticamente a bollare Le Corbusier come fascista: potremmo vedere nella sua ammirazione per le grandi bonifiche italiane (p. 97) l’apprezzamento di una grande opera di ingegneria più che del regime che l’ha resa possibile; allo stesso modo, in quelle riviste dove i piani per la Fattoria Radiosa vengono accolti con entusiasmo, potremmo vedere solo il plauso politico di un progetto che valorizzava l'opportunità (o meglio l’obbligo) per gli individui di contribuire alla grandezza e alla concordia nazionale. Senza voler qui arrivare a dare un giudizio definitivo, varrà la pena allora guardare al rapporto, nella Fattoria Radiosa, tra libertà individuale e dimensione collettiva: dando così coordinate più chiare alle condizioni sociali necessarie per l’utopia moderna.
Usando il discusso, ma efficace, dualismo tra libertà negativa (la libertà da) e positiva (la libertà di) delineato da Isaiah Berlin, nella Fattoria Radiosa le persone vengono liberate da una serie di piccoli e grandi problemi. Spariscono il fango, il letame, l’organizzazione del tempo libero, e soprattutto la preoccupazione della sopravvivenza: gli individui non saranno più soli davanti alle incertezze dell’inverno, isolati dal mondo culturale, perché potranno guardare con fiducia e serenità alla grande famiglia cooperativa – quasi un «convento civile», dice Bézard (p. 75). Così i giovani saranno liberati da tutti i motivi che li spingono ad andarsene, se ne dedurrebbe. Ma in effetti, che cosa le persone saranno libere di fare, di essere, di avere? Come in un alveare, saranno libere di fare, essere e avere tutto ciò che servirà a un bene superiore, quello della comunità e poi dello Stato.Dunque la felicità tratteggiata, con suadente tono paternalistico, è quella di essere come si dovrebbe essere: i lavoratori agricoli, in città, non sono altro che «pesi morti» (p. 109) che appesantiscono inutilmente la radiosità della vita, mentre in campagna, in queste moderne fattorie, davvero potrebbero realizzarsi come individui. Se solo sapessero! Invece quegli individui pare si ostinino a non accettare la loro natura contadina: infatti «rimane un problema psicologico: gli uomini chiamati a vivere là, passando bruscamente da uno statuo individuale al contratto collettivo, saranno in grado di abituarsi senza gravi traumi a questo nuovo stato di gerarche?» (p. 77).
Ecco, nella nonchalance di questa domanda c’è tutta l’essenza anti-democratica del pensiero di Bézard messo in forma di Le Corbusier. La sacralità dell’ordine supera il prezzo necessario a raggiungerlo, cioè la libertà di realizzarsi dei singoli, la libertà di non rispettare quanto pianificato dall’illuminato sapere ingegneristico: una previsione diventata normativa. E se la Città Radiosa, originandosi nell’utopico Plan Voisin per Parigi, aveva una dimensione visionaria e utopica, al contrario la Fattoria Radiosa è (apparentemente) ben più concreta, persino futuribile. Per questo, con gli occhi del contemporaneo, questo progetto è esemplare nel mostrare la vera rottura portata dal postmodernismo in architettura. Una rottura non tanto di stile o di forme, quanto invece della relazione che abbiamo visto tra forma e significato, tra progetto e programma: nel postmodernismo divampa la liberta di attribuire significati personali alle forme, e quindi di realizzarsi e progettare di là da ogni ordine sovraimposto. La rottura del legame forma-significato passa attraverso la dimostrazione della parzialità di qualsiasi ordine, che nulla può davvero avere di assoluto: la regola sarà costruita attingendo a ogni possibile sistema di regole per costruirne altre, sempre nuove.
Certo questo comporta incertezza, disordine, caos: un fardello pesante per l’architettura, che vede crollare le regole su cui si era basata per millenni. Ecco, leggere oggi Le Corbusier, e soprattutto questo Le Corbusier, ci ricorda allora il valore di quel fardello: la libertà di, e le infinite potenzialità che ne derivano. Evitare quel peso significa accettare, anzi promuovere, l’ordine dell’alveare: come quello della Fattoria Radiosa, in cui i contadini «non dovranno mai credere di essere sviliti» (p. 91). Potranno esserlo, cioè, purché sia a loro insaputa, così che vivano con ignorante gioia il loro contribuire a un bene più grande: quello del Piano Totale.
«Non sono giochi di parole. I giochi di parole non mi hanno mai interessato.
Piuttosto, sono dei fuochi di parole: consumare i segni fino alla cenere»
J. Derrida, Posizioni
È un atto di audacia leggere oggi Derrida. Oggi, in un momento storico in cui, sul piano filosofico, tutto sembra portarci lontano da Derrida e giocare contro di lui. Nel tempo della filosofia come conceptual engineering e iper-specializzazione logico-linguistico-matematica1, del dominio dell’argomentazione come unico viatico di rigore e chiarezza, e della stessa chiarezza-esattezza come assoluto contrassegno di razionalità, non può più esserci posto per un filosofo come Derrida. E così gli atteggiamenti più diffusi nei confronti dell’autore della Grammatologie sono due, esattamente inversi: la diffidenza e l’esclusione dal campo filosofico – con l’inclusione in quello letterario e retorico – o la caricatura, la ripetizione, il banale scimmiottamento di uno stile. Ma rifiutare o adorare Derrida, in realtà, sono solo le due facce del medesimo malessere che vive la filosofia oggi. Derrida è il pensatore dell’effrazione, del rinvio, dell’altrove. Altrove, rispetto a ogni classificazione professionale e istituzionale: ermeneutica, filosofia del linguaggio, filosofia della mente, comunicazione, linguistica, logica, psicologia, ecc. Altrove, rispetto alla scrittura stessa. Leggere testi inaccessibili come Glas, Tympan, La carte postale o La vérité en peinture, distillandone il contenuto propriamente filosofico, è un’operazione molto complessa, una sfida alla filosofia e alla nostra stessa capacità di scrivere e di leggere, che non può essere formalizzata nello spazio di un sillogismo, di una solida connessione di premesse e conclusione. Perché richiede qualcosa di più, l’audacia di abbandonare ogni tutore, ogni appoggio concettuale e la violenza, appunto, di «consumare i segni fino alla cenere».
Per questo motivo, la recente ripubblicazione della traduzione italiana di La disseminazione (a cura di Silvano Petrosino, Milano, Jaca Book) è un evento degno di nota. Rileggere testi come “La farmacia di Platone”, “La doppia seduta” e “La disseminazione” – scritti tra il 1968 e 1970 – significa non soltanto chiedersi che cosa ne è oggi della “decostruzione”, precisamente nel senso che Derrida attribuiva a questa espressione, ma anche cercare di collocare storicamente questa domanda. Collocarla storicamente, non soltanto nel quadro della filosofia francese contemporanea – ammesso che tale espressione indichi una reale continuità di pensiero e non un semplicemente un gruppo di autori o un “clima”, ma questo è un altro problema –, bensì rispetto alla profonda trasformazione che la società occidentale ha subito negli ultimi quarant’anni con lo sviluppo della tecnologia digitale, quella che è stata definita la softwarizzazione della società. Evento, questo, connesso alla scrittura nel suo senso più proprio, cioè la trace, la messa in questione della linearità della scrittura alfabetica e quindi della metafisica della presenza, del logocentrismo e del fallo-logocentrismo.
Ma guardiamo al libro, anzitutto. Leggere La disseminazione è un’operazione complessa, che richiede tempo e fatica, nonché il coraggio di fare i conti con un pensiero molteplice, in cui sfugge il punto di inizio. «Nessun inizio offre le garanzie necessarie di neutralità» scrive Sollers in Dramma, frase collocata da Derrida nel cuore del saggio “La disseminazione”, tessuto di citazioni a metà strada tra il commento e il testo originale, autentico “avvenire” della decostruzione che si riflette in uno stile preciso. La decostruzione si presenta come lavoro sul testo che viene dal testo, che “avviene” nel testo, «una fase indispensabile di capovolgimento» (p. 50). Non è concettualizzazione selvaggia, insensata, fantasiosa. È un paziente scavo nel testo scritto, a contatto con la scrittura come esperienza del linguaggio che mette in questione il linguaggio stesso. Attraverso tale scavo ogni elemento del testo è animato da «una rotazione velata» (p. 353) che ne sprigiona l’energia nascosta, cioè il mitogramma, citando l'antropologo Leroi-Gourhan, autore molto importante per Derrida. Questo significa risalire, nel testo, dalla scrittura alfabetica al mitogramma come scrittura non-lineare ma radiale, polinodale, visiva, spaziatura, «una grafica che agisce nella stessa sequenza detta fonetica, elaborandola, traducendosi in essa ancor prima di comparire, di lasciarsi infine riconoscere, nel momento in cui cade in coda al testo, come un resto e come una sentenza» (p. 362). L’operazione derridiana assomiglia così a quelle «radiografie che scoprono, sotto l’epidermide dell’ultima pittura, un altro quadro nascosto: dello stesso pittore o di uno diverso, poco importa, che avrebbe, non disponendo di altre tele o ricercando un nuovo effetto, utilizzato la base di un vecchio dipinto o conservato il frammento di un primo schizzo. […] un’altra geometria futura» (p. 363-370).
La scrittura come «altra geometria futura» sfugge alla rappresentazione e si afferma quale condizione di ogni verità e di ogni pensiero. È questo il filo conduttore di “La farmacia di Platone”, così come di un altro testo, ormai anch’esso un classico, “La doppia seduta”, lungo “braccio di ferro” con Platone, e dietro di lui Hegel, e con il concetto di mimesis a partire da Mallarmé, dove l’obiettivo della lettura non è più “una semplice rilevazione di concetti o di parole», bensì «ricostruire una catena in movimento, gli effetti di una rete e il gioco di una sintassi» (p. 218). Anche qui Derrida guarda verso un'altra scrittura, non lineare, ovvero la mimique del Pierrot di Mallarmé, «un intaglio che apre ancora su un altro testo e pratica un’altra lettura» (p. 227) poiché «il Mimo […] non rappresenta niente, non imita niente, non deve conformarsi a un referente anteriore in un disegno di adeguazione o verosimiglianza. […] [Il Mimo è] un doppio che non raddoppia alcun semplice, che non è prevenuto da nulla, nulla che non sia già in ogni caso doppio» (p. 228).
Mi fermo a queste poche citazioni. Di che cosa ci sta parlando Derrida? Del movimento della significazione, la semiosi essenziale all'essere umano, quella necessità di dare un significato che rende possibile il linguaggio, il pensiero, la coscienza e infine la presenza stessa. Questo movimento è la materialità e l'iterabilità della traccia: il “fuori” è nel “dentro”. Il che non significa affatto affermare il primato della retorica sulla logica, come sosteneva Habermas in un celebre saggio. Derrida ci spinge invece a guardare oltre la logica e la retorica, oltre il “fuori” e il “dentro”, interrogandosi sulla contaminazione essenziale e originaria tra i due poli, «la complicità essenziale dell'empirismo e del formalismo» (p. 55). Questa è precisamente l’operazione trascendentale che la decostruzione ci insegna: mostrare la complementarietà dinamica degli opposti. Non c’è presenza piena o essere pieno o coscienza piena: la différance, nella sua mancanza di sonorità, è questo perenne movimento di superamento, questa oscillazione tra presenza e assenza, identità e differenza, rinvio infinito, ammissione dell’impossibilità della genesi, dell’origine assoluta. Su questa tesi Derrida costruisce il nodo teorico essenziale del suo pensiero, destinato a ripetersi secondo modalità sempre diverse, fino agli scritti più recenti sul dono, sull’ospitalità, sull’universalità, sulla pena di morte o sulle «politiche dell’amicizia».
Se questo è il punto nodale di La disseminazione, tracciarne un bilancio critico è cosa molto più difficile e certamente non può essere fatto in poche pagine. È una banalità dirlo, ma in questo caso è vero: siamo ancora troppo storicamente vicini all’opera del filosofo algerino per poterne avere una visione completa, apprezzandone la complessità in modo positivo – e anche in modo diverso da come Derrida stesso ha l'ha pensata. Dobbiamo procedere per tentativi. Uno di questi – a mio avviso – può essere quello di cercare di far fruttare la creatività del pensiero di Derrida mettendola a contatto con la filosofia analitica, con l'informatica e con le scienze cognitive. Può essere una strada utile non solo per rinnovare le chiavi interpretative che applichiamo a Derrida, ma anche per “disarmare” questi due ambiti, in un senso propriamente filosofico, cioè abituandoli alla torsione concettuale e linguistica della decostruzione che è «l’esporsi – come ha detto Derrida in un'intervista alla fine della sua vita – a ciò di cui non ci si può appropriare: a quel che c’è, prima di noi, senza di noi; c’è qualcuno, qualcosa che (ci) avviene, e che non ha bisogno di noi per avvenire». Compiere un'operazione di questo tipo significherebbe rispettare anche un'altra dimensione cruciale per Derrida: la destinazione, l'invio, la tensione, l'apertura del segno verso il futuro. Leggere Derrida come una lettera inviata alla filosofia futura.
Recensire questa ristampa de L’architettura della città scritta da Aldo Rossi e pubblicata in prima edizione nel 1966, per noi architetti, implica grossomodo lo stesso sentimento misto di timore e noia che potreste provare voi di fronte a Essere e tempo o lo Zarathustra. Cosa si può dire, o meglio aggiungere, a ciò che è già stato detto in molteplici e svariati modi fino a generare una ciclopica orografia di interpretazioni? Cosa si può dire di più? Ci poniamo quindi di fronte al fatto in sé: una ristampa fedele alla prima edizione del libro. Partiamo quindi da qui, dal 1966, anno in cui la casa editrice Marsilio dà alle stampe questo libro che si colloca nella collana "Biblioteca di architettura e di urbanistica".
Rossi, A. (1966). L’architettura della città. Padova: Marsilio Editori.
Uscire per Marsilio aveva già un significato di per sé importante perché questa casa editrice, nel corso degli anni Sessanta e Settanta, si presentava come un importante veicolo di diffusione della cultura architettonica italiana e del suo dibattito avente come protagonista una nuova figura di architetto: intellettuale prima e professionista poi. Architetti quindi che scrivono e progettano allo stesso modo, senza manifestare una prevalenza tra le due attività. Non è che tutto ciò suoni particolarmente nuovo; anche gli architetti che li avevano preceduti scrivevano libri e trattati (l’attuale interesse per il tema ben si riflette nel recente libro di Marco Biraghi L’architetto come intellettuale, Einaudi 2019). Nonostante ciò, se fino a quel momento scrivere riguardava in primis le poetiche dell’architettura, per gli architetti-intellettuali degli anni ’60 l’obiettivo era un altro e aveva come focus la città. Volumi come La Torre di Babele (1967) di Ludovico Quaroni e La costruzione logica dell’architettura (1967) di Grassi, pubblicati entrambi per Marsilio, esprimevano un tentativo che Aldo Rossi, forse meglio di tutti gli altri, era riuscito ad esprimere, ovvero: mettere in scena l’architettura come un carattere della città fisica che non ha nulla a che vedere né con l’amministrazione urbanistica pianificata dai burocrati, né gli standard edilizi sponsorizzati dall’industria delle costruzioni, e nemmeno le intenzioni (‘quasi sempre’ buone ma altrettanto ‘quasi sempre’ ineffettuali) dei maestri dell’architettura.
A poche righe dall’inizio di questa recensione, ci siamo già spinti troppo in là. D’altronde la storia di questo libro è talmente pregna di aneddoti e vicende da aprire una mole notevole di discorsi che si ripresentano come tutti importanti a tal punto da perdere ogni volta il filo della matassa che si vorrebbe dipanare. In ogni caso, questo groviglio di discorsi non ha alcun legame con l’operatività che ci si attende prosaicamente da un libro di architettura, cioè un libro scritto dagli architetti per altri architetti che (di norma) progettano e che vorrebbero trovare nei libri uno spunto per questa attività. In realtà, qualcuno ci aveva provato a dare un taglio manualistico al libro; ci riferiamo all’edizione del 1978, curata da Daniele Vitale per la casa editrice Clup. Dalle 215 pagine a cui ammontava originariamente, si era giunti a ben 350 pagine, di cui 30 di nuove note e altrettante in cui si raccoglievano le varie introduzioni redatte da Rossi in occasione delle edizioni straniere. Canonizzare questo testo nel vocabolario dottrinale dell’accademia non poteva che avere questo effetto collaterale adiposo. Un appesantimento a cui seguiva, già dall’edizione successiva del 1995, un dietrofront con cui si tornava al numero di pagine originario; e così Il Saggiatore ce lo ripresenta oggi con un’immagine di copertina che non ha nulla dell’originale sapore di collage analogico della prima edizione, con la pianta di una città cinquecentesca sovrapposta a una figura astratta, bensì un dettaglio fotografico della facciata dell’edificio residenziale del Quartiere Schützenstraße di Berlino, realizzazione fedele di un progetto di Rossi degli anni ‘90.
Se il libro è rimasto quello che era all’origine, una montagna di eventi, di pubblicazioni più o meno cerimoniose si sono depositate nella sua immediata periferia. In questi ultimi anni, le occasioni di parlare e pubblicare raccolte di saggi su L’architettura della città non sono mancate. Ci riferiamo per esempio, al collettaneo Aldo Rossi, la storia di un libro: l'architettura della città, dal 1966 ad oggi (2014), curato da Fernanda De Maio, Alberto Ferlenga, Patrizia Montini Zimolo per le edizioni IUAV; o al gruppo di architetti che si è riunito attorno al magazine San Rocco che ha riportato al centro del dibattito una certa fascinazione per l’architetto che scrive oltre a progettare (il volume 14, uscito nel 2018 e intitolato “66”, si ispira proprio a libro di Rossi).
Insomma, di Aldo Rossi se ne è parlato tanto e se ne continua a parlare al punto che sorge spontanea la domanda: non ne avevamo già sentite abbastanza su L’architettura della città? Sì, è evidente, ne abbiamo sentite tante, forse troppe… al punto che lo vediamo come un catino stracolmo che tende a tracimare al solo pensiero di sollevarlo per vedere cosa ci sta sotto.
Quindi, avviandoci a questa recensione abbiamo pensato che fosse meglio lasciar perdere per un attimo tutto ciò che è stato detto sul libro. Altrimenti non avremmo mai iniziato.
Ci siamo posti cioè nell’ottica di guardare al libro con lo stesso spirito con cui Rossi ha guardato alla città e ai luoghi della Pianura Padana, ovvero con una certa simpatia per le cose semplici, un amore spontaneo che accomuna i luoghi fragili alle grandi città. Un approccio che mette da parte per un attimo i pregiudizi e lascia spazio alle intuizioni. D’altronde, dopo tutto quello che altri hanno scritto siamo arrivati a sapere tutto del libro, quali sono stati i suoi riferimenti culturali e le sue ricadute su altre opere. A valle di tutto ciò, ci sembra però di aver perso la ragione della sua lettura; non sappiamo più come usarlo. Davanti a questa ristampa ci siamo fatti qualche domanda e abbiamo provato a rispondere.
1. È un libro di storia della città?
Rossi, A. (1978). L’architettura della città. A cura di D. Vitale. Milano: clup.
No. L’architettura della città non è un libro di storia della città né dell’architettura. Come ricorda Beatrice Lampariello [cfr. Aldo Rossi e le forme del razionalismo esaltato, Quodlibet 2017], Rossi nella sua introduzione parla del libro come di un «abbozzo di teoria» o uno «schizzo di teoria»; teoria urbana, per inciso. Per formulare questa teoria Rossi si avvale di testi che non sono di architettura ma scritti principalmente da geografi che si sono occupati della città tra cui, in particolare: Federico Chabod, Pierre Lavedan e Jean Tricart. Per Rossi l’obiettivo è quello di conferire una operatività al sapere geografico, caratterizzato da una “ricerca rigorosa ma chiusa”, proiettandone gli effetti sulla realtà urbana tramite l’architettura, o meglio «servirsene per la scienza urbana e l’architettura». Così, constatando la diffusione del libro a livello internazionale (iniziata nel 1971 con la traduzione spagnola per Gustavo Gilli), possiamo notare che nell’introduzione all’edizione portoghese del 1977 Rossi afferma: «ho usato di questi testi come si usa un materiale da costruzione [...], ho cercato di forzare questo materiale fino a renderlo assimilabile alla teoria dell’architettura». Rossi ci dice che porsi come obiettivo la scienza urbana non significa fare una cronistoria della sua evoluzione, bensì tentare di mettere in pratica ciò che si ha a disposizione, quindi i testi e le teorie di coloro che precedentemente si sono posti in questa prospettiva; per esempio, i geografi. Chiaramente in tutto ciò, la storia c’entra e Rossi non economizza nel richiamarsi a questo concetto in molte parti del libro. Si tratta però di una storia che dissolve l’istanza scientifica in quella spiritualistica della memoria, ovvero l’anima dei luoghi (e dei suoi abitanti): «l’ame de la cité diventa la storia, il segno legato alle mura dei municipi, il carattere distintivo e nel contempo definitivo, la memoria». Rossi ci propone quindi un’ermeneutica dei luoghi, un’istanza di mediazione tra i fatti della città, che preesistono e perdurano senza doverlo dimostrare, e le proiezioni valoriali di coloro che vivono la città: la cui esistenza (e permanenza) è tutta da dimostrare.
2. È un libro che insegna a progettare la città?
Se si pensa di trovare nel libro indirizzi per la progettazione architettonica si rimane delusi; al contrario, se si ricercano spunti poetici il libro straripa di suggerimenti… Partiamo da una considerazione sulla continuità tra teoria e progettazione, una questione epistemologica annosa in architettura. Se ci concentriamo sui progetti di Aldo Rossi constatiamo che essi non esprimono alcuna continuità evidente e logicamente determinata (sottolineiamo bene questi due concetti: continuità evidente e logicamente determinata) con le proposte teoriche che egli avanza nel libro. Non si tratta di assumere questa discontinuità come constatazione di un fallimento teorico o di una incapacità progettuale dell’autore; al contrario, questa condizione ci aiuta a chiarire che la scienza urbana, nella prospettiva di Rossi, non ha il significato di una ricetta per fare edifici. Il libro è ben lontano da esprimere questo genere di determinismo. E a questo scopo vorremmo sottolineare che la copertina scelta per questa ristampa del Saggiatore sembrerebbe proprio spingerci in questa direzione (sbagliata), che vede nelle parole di Rossi i suoi progetti; progetti, che sottolineiamo essere successivi al libro ma non conseguenti ad esso in senso teorico. Questa scelta, alquanto superficiale in effetti, contribuisce forse a demistificare qualsiasi morbosità bibliofila verso il libro come oggetto, investendo invece proprio sulla spontaneità e contingenza della sua sostanza.
In effetti, la vera priorità per Rossi era un’altra e stava proprio nella premessa al libro, uno studio giovanile intitolato Manuale di urbanistica (1963) dove individuava l’obiettivo essenziale del suo lavoro futuro in cui «studio e progetto si dovranno fondere in un’unità inscindibile». Nell’ottica di Rossi, il ‘manuale’ perdeva il suo significato convenzionale di indirizzo pratico per la progettazione e si riallacciava piuttosto alla tradizione del trattato, ovvero a un genere misto tecnico-letterario in cui il pensiero e l’esperienza dell’architetto fanno tutt’uno; in cui non c’è una priorità tra il fare e il pensare, tra progettare e studiare, poiché entrambe partecipano alla stessa costruzione. L’architettura della città va letta quindi come espressione di un atteggiamento verso l’architettura, che è grossomodo questo: progettare vuol dire porsi nella prospettiva di studio di un luogo. Studiare l’architettura significa porsi nella prospettiva del progetto.
3. Cosa ci dice di nuovo?
Rossi, A. (2006). L’architettura della città. Novara: CittàStudiEdizioni.
Fin qui abbiamo parlato di temi con cui il libro tende a rispecchiare il buon senso di un progettista; temi che per manifestarsi non avrebbero avuto davvero bisogno di L’architettura della città di Aldo Rossi. Ne abbiamo invece bisogno per un altro motivo, che è poi l’apporto suo personale e preziosissimo all’architettura, che consiste nell’individuazione di un vocabolario con cui affrontare la città, da architetto e con quella che egli definisce una «impostazione aristotelica». Il libro invita il lettore a entrare nel dominio ontologico della città attraverso alcune parole tra cui, in particolare: locus, elementi primari, tipo, area, monumento, memoria collettiva. Il lettore ci scuserà se non ci addentreremo sul significato di ciascuno dei termini elencati; ciò che possiamo affermare è che essi hanno il compito di conferire alle cose che si incontrano nella città e che di per sé resterebbero mute, il valore di fatti urbani che si consolidano nella memoria dei luoghi. Il lettore non si aspetti che questi concetti conducano alla scoperta di una prassi progettuale innovativa o alla scoperta di spazi inediti. Leggendo egli potrà constatare che Rossi non parla di una realtà altra rispetto a quella che si dà nel quotidiano; egli non ci dice nulla di veramente nuovo, semplicemente ci mostra come la quotidianità dei luoghi possa diventare dominio di una narrazione. Questa mossa, che può apparire un escamotage narrativo, un intellettualismo gratuito, ha in realtà una ricaduta decisiva nello svelare un moto latente del libro che «riporta [i problemi della] scienza urbana al complesso delle scienze umane»; una scienza urbana di difficile delimitazione di cui Rossi intende delineare la specificità, mostrando come la sua sfera di azione riguardi il dato ultimo di un’elaborazione complessa: l’architettura come fatto costruito. Solo a partire da questo ‘dato ultimo’ emerge chiaramente la portata politica implicita alla proposta di Rossi che trova un timido abbozzo nel capitolo che chiude il libro intitolato La politica come scelta.
4. Perché ha avuto successo?
Questa domanda ha chiaramente tante risposte. Ci interessa solamente una risposta possibile che implica la riformulazione della domanda. A nostro avviso le considerazioni sul libro come bestseller hanno pochissima utilità. È ovvio che il suo successo in termini di vendite sia esito di una congiuntura e che il libro sia figlio del suo tempo, ecc.. Tutto ciò riguarda l’industria culturale e la politica di marketing delle case editrici che ci compete fino a un certo punto. Fatichiamo a pensare ad Aldo Rossi come a un influencer dei nostri giorni, che scrive un libro nella prospettiva della sua diffusione mediatica; e se anche ciò avvenisse sarebbe al limite un effetto e non una causa. Il progetto editoriale del Saggiatore quindi, che come abbiamo detto appare essenzialmente estraneo dai pesi di una importante tradizione scolastica rossiana, può semmai offrire l’opportunità di acquisire il testo per ciò che è, senza giustificarne limiti o contraddizioni.
L’obiettivo di Rossi in effetti non era scrivere un libro, bensì proporre un atteggiamento nei confronti della progettazione architettonica diverso da quello del professionista tradizionale. Pertanto, il successo del libro andrebbe valutato negli effetti che esso ha avuto nell’ambito della professione architettonica. Come abbiamo detto, Rossi ci presenta una figura di architetto che studia e progetta a un tempo e L’architettura della città è un libro che non può essere compreso al di fuori di questa dimensione duplice. Una proposta intellettuale che trova un riscontro personale in un libro successivo intitolato Autobiografia scientifica (1990) in cui, dal confronto con altre figure come Ignazio di Loyola, emerge una dimensione biografica profondamente intrisa da un progetto intellettuale (per approfondimento ci permettiamo di rimandare A.A. Dutto, “The Saint and the Architect”, LOBBY (Bartlett School of Architecture magazine), n. 05 ‘Faith’, pp. 116-119, Aldgate Press: Londra). Il successo della proposta di Rossi non si misura tanto con le vendite ma con la capacità di conferire alla lettura un riorientamento dell’apparato concettuale con cui si guarda la città; città non solo come fatto ma anche come progetto. Un riorientamento quindi del soggetto che legge e non della città, oggetto del libro, che resta lì ferma dov’era.
5. Chi lo leggerà?
Rossi, A. (2018). L’architettura della città. Milano: il Saggiatore S.r.l.
Tutte le osservazioni fatte fin qui ci portano inevitabilmente a questa domanda, a cui tuttavia non abbiamo una risposta. In linea di massima, gli architetti che si interessano di architettura (che costituiscono una parte minima degli architetti abilitati con licenza di uccidere) lo conoscono già, o almeno ne hanno sentito parlare e per quella che è la nostra esperienza lo odiano o lo adorano come fazioni avverse di uno scontro che ha tutti i caratteri di una guerra di religione. Lo leggeranno gli studenti di architettura di alcune università in cui la presenza carismatica di Aldo Rossi si è protratta a suon di conferenze e seminari più o meno celebrativi. Forse, grazie a questa recensione, qualche non architetto ne sarà incuriosito perché ci avrà trovato qualche legame con i filosofi citati o implicitamente richiamati. Sicuramente, il miglior supporto a una futura ristampa lo daranno i profondi odiatori, che a suon di critiche e veti costituiscono di fatto la più autentica e produttiva risorsa pubblicitaria del libro.
Un libro che anche i veri fans devono ammettere che non possa essere che amato e odiato a un tempo. D’altronde chi lo ama solo o chi si ostina a odiarlo non si godrà mai un vero classico.
Cercare di definire la New Media Art è come cercare di circoscrivere l’arte contemporanea: i confini della categoria, le opere e i nomi che potrebbero farne parte in un determinato momento slittano e si trasformano nel giro di pochi anni. La New Media Art è dunque una galassia di riferimenti, spesso interdisciplinari, che necessitano di essere continuamente mappati. Una parte importante del libro di Marco Mancuso affronta proprio questa esigenza e svolge tale compito in maniera esaustiva, almeno fino alle prossime metamorfosi. Nonostante ogni tassonomia sia in parte arbitraria, dieci anni dopo il libro di Deseriis e Marano Net.Art. L’arte della connessione (Cyberpunkline 2008), un aggiornamento era necessario. Mancuso non solo si dedica ad aggiornare la tassonomia, i nomi, le opere, i festival e tutti gli autori che ne fanno parte, ma propone anche una lettura che mette in gioco un nuovo attore: le art industries. «Industrie artistiche e culturali che producono beni, servizi e attività e che hanno la capacità di agire come catalizzatori di questo processo» (p. 13). L’ipotesi di base a sostegno della sua analisi è rinvenibile nella constatazione che tutto il sistema che aveva supportato la New Media Art nell’ultimo decennio è stato fondamentalmente di tipo assistenzialista, e dunque difficilmente sostenibile nel lungo periodo. Le art industries hanno ora assunto il ruolo di sostenitrici del movimento.
L’autore ha utilizzato la piattaforma da lui fondata e diretta - Digicult - come un osservatorio privilegiato dal quale non solo si è limitato a osservare, catalogare e descrivere il campo della New Media Art, ma anche di interagire direttamente con il suo oggetto di studio entrando in contatto diretto con gli artisti e le loro opere, i festival e gli eventi di maggiore interesse di cui tratta nel volume.
Il libro si presenta così è diviso in quattro sezioni: Scenario, Ambiti disciplinari, Case studies e Scenari futuri.
Nel primo capitolo (p.19), l’autore riassume la storia del rapporto tra arte e tecnologia dalla rivoluzione industriale, decade per decade fino agli anni Settanta, per poi focalizzarsi sul caso di Olivetti (un aspetto interessante del libro è quello di contestualizzare artisti e progetti italiani nella complessità del lansdcape internazionale).
In seguito Mancuso analizza la complessità e interdisciplinarietà del suo oggetto di studio: «Il termine New Media Art fa riferimento effettivamente a un ambito artistico ampio e stratificato, strutturalmente contaminato con i più diversi settori della ricerca tecnologica e la relativa industria, i cui albori risalgono ormai a quasi un secolo fa. Al di là delle definizioni, vi si possono ricondurre, come vedremo, una serie di esperienze artistiche che vanno dalla ricerca su linguaggi e codici espressivi, all’analisi su medium e strumenti, alle riflessioni politiche e sociali caratterizzate dall’integrazione di tecnologie, reti e scienze» (p. 31). In questo capitolo quindi l’autore affronta il tema delle art industries (p. 38) mostrando come, in questo momento, esse rappresentino un vero e proprio cambio di paradigma: il modello assistenzialista che finanziava le opere attraverso bandi, fondi comunali o dell’Unione Europea è fallito mentre nel nuovo modello i finanziamenti arrivano direttamente dall’industria (p. 38-40). In questo contesto, si sottolinea, cambia anche il ruolo del curatore poiché l’interdisciplinarietà intrinseca alla New Media Art mette in discussione i principali ruoli del campo dell’arte, e soprattutto quello del curatore, che quando possiede una formazione troppo classica, a volte non è in grado di gestire una tale complessità (p. 41).
Nel terzo capitolo (p. 46), l’autore elenca in maniera esaustiva tutti quei dispositivi che hanno contribuito a sviluppare e sostenere la diffusione e la ricerca sulla New Media Art, da Rhizome e Creative Applications Network (CAN), a festival, premi e residenze come Sonar+D, Collide @CERN o Ars Electronica (p. 49-71). Un aspetto interessante che Mancuso sottolinea è la rilevanza delle gallerie d’arte commerciali che si dedicano, alcune da molto tempo, alla diffusione della NMA, come Bitforms e Postmasters a New York, o DAM Gallery di Berlino; oppure Sedition, una piattaforma per l’acquisto online di opere di arte new media, l’equivalente di quello che oggi è Artsy, e nel passato è stato Artnet, per questo tipo di opere (p. 68-71). Anche se questa pratica, in parte per i motivi elencati sopra, è lontana dal livello di rilevanza commerciale che può avere l’arte cosiddetta “mainstream”, è interessante che l’autore trovi tra i motivi di sviluppo dell’arte Post-Internet, cioè la seconda generazione di artisti nati intorno alle pratiche della net.art a metà degli anni Duemila, l’interesse di essere riconosciuti e di penetrare il mondo dell’arte contemporanea, che comprende ovviamente anche il mercato (p. 78). In questo senso, l’arte Post-Internet è in continuità concettuale con la prima generazione - quella le cui mitiche origini si trovano nella mailing list nettime, e nella famosa mail ricevuta da Vuk Ćosić sul cui testo corrotto permetteva solo di leggere “net.art” a metà degli anni Novanta - pur estendendo il proprio campo d’azione non solo allo spazio pubblico o quello della galleria, ma soprattutto producendo oggetti esponibili e vendibili, e utilizzando la rete come fonte di ricerca. Questa generazione di artisti non fa differenza tra la propria attività online e offline, e in molti casi l’interesse si concentra nel rendere evidente la materialità e le infrastrutture che rendono possibile il funzionamento di Internet e di altre tecnologie, spesso considerate e percepite come “immateriali” dal pubblico più ampio. Nel libro viene citato come chiaro esempio Evan Roth e suoi Internet Landscapes (2016), ma si può anche pensare ai Bahamas Internet Cable System (BICS-1) del 2015 di Trevor Paglen, come anche ad altri suoi progetti con gli obiettivi sopra menzionati.
Nei capitoli successivi, Mancuso continua la sua tassonomia contemporanea della New Media Art dedicando il quinto capitolo a “L’arte del codice” (p.99), il sesto capitolo (p. 119) alle ricerche dedicate al rapporto tra suono e immagine, in cui parla di artisti e collettivi come gli Otolab, o il giapponese Ryoiji Ikeda. Il capitolo sette è dedicato a un approfondimento sulla materialità della New Media Art, e quindi al fabbing e ai makers (p. 143); nel capitolo otto (p. 167) si indaga il rapporto tra spazio, macchine e uomo, ovvero ricerche al limite tra arte new media e architettura, mentre l’ultimo capitolo (p. 201) investiga i rapporti tra arte e scienza, in particolare l’integrazione tra organico e tecnologico, cioè, i moist media.
Evan Roth_ Internet Landscapes_ 2015.
L’autore evita giudizi critici o complessi sviluppi teorici, le parti del libro funzionano infatti come una complessiva guida allo state-of-the-art dell’arte new media rivolta a chiunque sia interessato ad avvicinarsi a questa particolare e forma di avanguardia artistica mettendo a disposizione quell’insieme di informazioni e riferimenti utili per maggiori approfondimenti.
Invece, nella parte intitolata “Case Studies” (p. 233), l’autore utilizza i contatti e l’esperienza ottenuta negli anni attraverso Digicult, e la sua attività di curatore e docente, presentando una serie di interviste a key players del campo della new media art, ognuno dei quali introduce la propria attività con uno sguardo particolare sulla situazione attuale e sul futuro.
Se è vero che il libro non ha una vera e propria conclusione, nell’ultima sezione (p. 243), “Scenari futuri” si presentano una serie di brevi articoli che pongono delle domande su diversi aspetti degli sviluppi tecnologici contemporanei, aspetti trattati dalla New Media Art, ma che non si limitano ad essa. Le domande lasciate aperte vanno dalle nuove possibilità del cyborg contemporaneo: «perché non ipotizzare di comandare una flotta di droni per mezzo di una parte espansa tecnologicamente del nostro corpo» (p. 256), a come cambierà la fruizione, se cambierà, dell’arte attraverso dispositivi come Google Arts & Culture (p. 260), a domande più radicali, che in realtà l’umanità si è posta da sempre ma la cui risposta positiva sembra essere imminente: «sarà possibile vedere il mondo con gli occhi di un’altra persona?» (p. 270).
Queste domande si allacciano in modo naturale alla conclusione di Bruce Sterling che nella sua “Postfazione” al volume scrive: «quando Mancuso parla di art industries e di ‘nuovo paradigma di produzioni’ si sposta ben oltre l’idea del garage buio occupato da hipsters» (p. 277). In effetti, oltre alla sua profonda conoscenza e consapevolezza del mondo dell’arte Mancuso intravede e pone le domande chiave che possono fungere da base per un nuovo paradigma pronto a farsi strada nel panorama artistico italiano - Sterling parla di Milano in particolare - allineato, se non un passo avanti, alle tendenze osservabili a livello internazionale.
Potremmo pensare che filosofi e artigiani facciano due mestieri molto diversi, che hanno davvero poco a che vedere l’uno con l’altro: il primo infatti pensa, scrive e parla mentre il secondo fa, produce e manipola. Forse proprio per questo è poco usuale, per i filosofi, interrogarsi sul nesso tra la loro attività abituale, il pensiero, e il fare che segna tanto il lavoro dell’artigiano quanto la più comune prassi quotidiana. Ed è forse altrettanto poco usuale per un operaio o un artigiano chiedersi in che modo, nella sua attività di produzione, egli stia anche pensando. Eppure si tratta di una questione straordinariamente feconda, ci insegna Tim Ingold nel suo Making, prima opera dell’autore ad essere interamente tradotta in italiano a cura di Gesualdo Busacca per Raffaello Cortina (Milano, 2019, pp. 262). Il testo scaturisce dall’esperienza di un corso universitario tenuto da Ingold a partire dal 2004 nella facoltà di Antropologia dell’università di Aberdeen, intitolato: Le quattro A: Antropologia, Archeologia, Arte e Architettura. Più volte ripreso e messo da parte nel corso degli anni, Making esce per la prima volta nel 2013 e riprende l’ossatura teorica di Being alive (2011), la raccolta di saggi in cui si sviluppa un originale percorso teorico mosso dall’esigenza di riavvicinare l’antropologia alla vita. Ciò che però contraddistingue Making, rispetto a questa raccolta, è l’intimo legame che la riflessione intrattiene con l’esperienza al contempo didattica e di ricerca dell’insegnamento universitario. Ingold intende spingersi ben oltre la trasmissione di nozioni ridotte a rappresentazioni astratte, ferme e chiuse; è piuttosto interessato a coinvolgere i suoi studenti in percorsi di movimento nell’ambiente che aprano ad esso in un atteggiamento di ascolto ed esplorazione. Il gruppo si educa così a una forma di attenzione percettiva che permette di porsi sulle tracce delle cose che abitano il mondo tramite una paziente e scrupolosa raccolta di indizi. Gli studenti, infatti, erano chiamati non solo a seguire lezioni frontali, ma soprattutto a cimentarsi in esperienze di manipolazione di materiali e costruzione di oggetti nel corso di esperimenti e laboratori collettivi sempre accompagnati da momenti di restituzione e discussione. Le quattro A intrecciava dunque attività di produzione ed elaborazione riflessiva, facendole scaturire come momenti di una conoscenza trasformativa che si innesta sui percorsi vitali delle cose e si sviluppa con essi. Questo lavoro dà origine alla pratica di formazione collettiva nella quale prendono corpo le idee che animano il libro. Nell’ambito di un corso universitario, volto comunemente a produrre tramite il pensiero, Ingold e i suoi studenti imparano ad imparare in un altro modo, ossia a pensare tramite il produrre.