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Philosophy Kitchen

Orecchiare

Una introduzione.

di Artin Bassiri Tabrizi

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Nel film Blue Velvet (1986), il protagonista Jeffrey (alias Kyle Maclachlan) intravede nell’erba un orecchio mozzato. Il ritrovamento macabro rappresenta una chiave di volta nello svolgimento del film, poiché innesca un’inattesa accelerazione della storia. Il regista David Lynch, interrogato a proposito del significato di questo episodio, commenta così: “non so perché doveva essere proprio un orecchio. Doveva essere un punto aperto del corpo, un buco che porta in qualcos'altro (corsivo nostro). L'orecchio si trova sulla testa e finisce direttamente nel cervello, era perfetto”.

Immaginiamo quest'orecchio rubato, come se fosse un'appendice estraibile, protetica. Nella pellicola lynchiana, l’orecchio è il segno per qualcos’altro, un rapimento, una violenza. Esso non ha alcuna funzione uditiva, sensoriale; è un lembo di carne qualsiasi, sprovvisto della sua funzione per assumerne un’altra: quella di una minaccia. Non una minaccia qualsiasi. Mozzare un orecchio è quanto basta per minacciare di morte, ma non così tanto da garantirla. Quanto basta per umiliare, ma anche per lasciare un margine di speranza, come ad indicare che “si poteva essere ben più scorretti”. Questo perché l’orecchio è, implicitamente, non vitale. La nostra sopravvivenza non necessita della presenza di entrambe le orecchie. In effetti, come reagiremmo al fatto che qualcuno minacciasse di tagliarcene uno? Certo, una mutilazione desta sempre scalpore. Ma di certo saremmo più spaventati di perdere un occhio. Una faccia senza occhio rimanda direttamente a ciò che è sotto-dentro la pelle: il teschio. Rimanda cioè al destino inevitabile, al rosicchiamento eterno. Se perdessimo un orecchio, non perderemmo interamente l’udito, saremmo solo deformati. 

Ripensiamo certamente all’auto-mutilazione di Van Gogh. Questo gesto si è fissato nella storia europea quasi come la mutilazione per antonomasia. Anche in questo caso, l’orecchio rubato segna un cambiamento, è un taglio che taglia l’esistenza: “la necessità […] di gettare qualcosa fuori di sé rimane il principio di un meccanismo psicologico o fisiologico che può in determinati casi non avere altro esito che la morte” (G. Bataille). Potremmo pensare che Van Gogh abbia operato un suicidio anticipato, concentrato. Che abbia suicidato una piccola parte di sé, per poi, diciotto mesi dopo, togliersi completamente la vita. Artaud definisce questa lacerazione come logica (A. Artaud, Van Gogh). Fu logico che Van Gogh decise di mutilarsi proprio l’orecchio, il senso che stabilisce la nostra posizione spaziale, quello che regola lo stare vicino agli altri.

Guardiamo l’orecchio, come se fosse la prima volta che ne vediamo uno; se lo si osserva a lungo, la sua morfologia comincerà a sembrarci bizzarra. Le sue forme possiedono qualcosa di antico, di primitivo.  L’orecchio sembra essere una fenditura nel terreno, una grotta (doppia e simmetrica) posta nella nostra testa. Questo buco “porta il mondo dentro il sé, mentre l’occhio “lo respinge piuttosto all’esterno” (De Le Breton, Il sapore del mondo)

Tavola X del trattato di Valsalva sulla natura dell'orecchio
A. Valsalva, De Aure Humana Tractatus, Tav. X (1704)

Dal punto di vista anatomico, per arrivare ad una descrizione accurata dell’orecchio si dovette attendere Antonio Maria Valsalva, allievo di Malpighi, che all’orecchio dedicò il primo trattato della storia occidentale, il De Aure Humana Tractatus (1704). Nella Prefazione, Valsalva affermava che una delle ragioni per le quali si fosse interessato all’orecchio era il fatto di dubitare “che tale organo sia stato fin qui abbastanza studiato”

Le orecchie, infatti, sono tutt’ora a margine. A margine di ogni discorso (ma sempre nel discorso), a margine del capo. Bisogna fare uno sforzo per ascoltar(l)e, nonostante le orecchie siano fessure perennemente aperte, sempre impossibilitate a non sentire; è necessario però «metterci in ascolto», il che corrisponde ad una posa corporea, quasi come se esistesse in noi un «interruttore» che sia in grado di azionare questa postura spirituale.

L’orecchio “è lì, immobile, bloccato, eretto, come un animale di vedetta” (R. Barthes). Esso è un segno della nostra animalità. Come scrive Joachim Ernst-Berendt, “inconsciamente, al suono reagiamo sempre come uomini primitivi, per i quali un suono forte era sinonimo di pericolo. […] La parola “allarme” viene da all'arme, la chiamata alle armi. Quando sentiamo un rumore, siamo costantemente – ma inconsciamente - «chiamati alle armi»”

In tal modo, l'udito è in tutto lo spazio. Posso girarmi, avvicinarmi ad una fonte sonora per provare a discernerne meglio i particolari, posso chiudere gli occhi per concentrarmi meglio, per eliminare ulteriori distrazioni. Ma, in un senso generale, le nostre orecchie permettono di arrivare a percepire un rumore anche in posti remoti, nascosti alla vista. Nel vagone di un treno, se accade qualcosa dietro di me (se accade qualcosa di sonoro) la mia attenzione è immediatamente richiamata verso la fonte sonora; lo stesso vale per tutti gli altri viaggiatori. 

Vi è un senso comunitario, nell'udito, che è in qualche modo inevitabile. Pur considerando le differenti caratteristiche di ogni individuo, siamo tutti chiamati a voltarci a individuare l'origine del rumore. Nel momento in cui succede qualcosa, in cui avvertiamo un rumore, siamo tutti chiamati a rispondere. 

Al contempo il rumore non richiede una totale partecipazione da parte nostra, al contrario è quasi impossibile fermare il suo potere invasivo. Siamo infatti sempre divisi tra una forma passiva di ascolto e una forma attiva. L'udito è un senso che lavora senza interruzioni, è il basso continuo nella nostra vita.

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Georg Simmel pubblicava nel 1907 un breve testo, l’Excursus sulla Sociologia dei sensi, che assieme al saggio sulla Metropoli e la vita dello spirito e a quello sullo Straniero, forma un trittico incredibilmente pregnante ancora oggi. In questi testi emergono infatti osservazioni sull’esperienza urbana di grande rilievo per l’interpretazione del comportamento della società attuale. 

Simmel afferma che l'equilibrio psico-fisico dell’individuo moderno è sconquassato dal frastuono e dal marasma sensoriale della vita urbana. A causa delle sue caratteristiche fisiche e spaziali, lo spazio della metropoli non permette più il normale utilizzo dei sensi; gli individui trovano tuttavia una scappatoia dall'ipersensibilizzazione della realtà mediante l'astrazione dei propri sensi: essi possono cioè rifugiarsi nell'indifferenza del proprio ego per preservare la continuità della loro vita interiore. La vita metropolitana ha così come conseguenza essenziale quello di assottigliare progressivamente le differenze soggettive tra gli individui fino a raggiungere un’atrofia oggettiva comune, quello che per Simmel è l’atteggiamento blasé. Si tratta di una strategia protettiva che conserva l'energia della reazione agli stimoli: “l'uomo moderno viene urtato da innumerevoli impressioni, innumerevoli situazioni gli appaiono insostenibili ai sensi, mentre esse sono accettate senza alcuna reazione del genere da modi di sentire più indifferenti e più robusti” (G. Simmel, Excursus sulla Sociologia dei sensi).

Simmel non solo teorizza in tal modo una corrispondenza diretta tra il caos urbano e l'aumento dello stato «nervoso» dell'individuo, ma anche un progressivo e inevitabile impoverimento dell’esperienza sensoriale stessa. 

In particolare è la vista che, nell’economia delle facoltà sensibili, acquisisce un ruolo di primaria importanza a discapito dello sviluppo degli altri sensi: “il traffico che vi si svolge [nella metropoli], confrontato con quello della piccola città, mostra una preponderanza smisurata del vedere sull’udire gli altri; e ciò non soltanto perché gli incontri per strada nella piccola città riguardano una quota relativamente grande di conoscenti con i quali si scambia una parola o la cui vista ci riproduce l’intera personalità, non solo quella visibile, ma soprattutto per effetto dei mezzi di trasporto pubblici. Prima dello sviluppo degli omnibus, delle ferrovie e delle tramvie nel secolo XIX, gli uomini non erano assolutamente nella situazione di potersi o doversi guardare tra loro per minuti o per ore senza parlarsi.” (Ibidem)

Daumier rappresenta la vita nella metropoli
H. Daumier, Nell'omnibus (1864)

Ma il predominio della vista è anche una conseguenza di una superiorità dell’occhio sull’udito. La peculiarità dell’Excursus simmeliano risiede in una descrizione dei cinque sensi in base alla loro “prestazione” nel mondo sociale; in particolare, è il concetto di Wechselwirkung – effetto reciproco – che è alla base di tale classificazione. L'idea fondamentale che Simmel afferma nella Sociologia dei sensi è che la sensorialità consente relazioni sociali e influenza anche la comunicazione tra individui. Questa capacità è diversa per ogni senso e dipende dal contesto storico e sociale. I nostri sensi influenzano infatti le situazioni sociali; secondo le reazioni che suscitano in noi le impressioni sensoriali applichiamo implicitamente una vera gerarchizzazione sociale che ci allontana o ci avvicina a determinate persone o gruppi sociali. Secondo Simmel, la vista e il tatto rappresentano i sensi della reciprocità totale, vale a dire che sono i sensi che, con un solo atto, rendono possibile dare e ricevere allo stesso tempo; non è infatti possibile incontrare lo sguardo di qualcuno senza essere allo stesso tempo guardato, quindi senza diventare noi stessi un oggetto di conoscenza.L’udito è invece più ingannevole dell'occhio; se tramite il volto di un individuo noi abbiamo accesso ad una conoscenza «geologica» dello stesso, ovvero una conoscenza che anticipa le sue azioni e ne è in qualche modo indipendente, attraverso l'ascolto della sua voce possiamo intendere il suo stato d'animo, che tuttavia è fuggevole e temporaneo.

La nostra vita sociale è strutturata sulla dialettica tra occhio e orecchio, poiché «se al nostro orecchio non sfuggissero immediatamente le parole udite che in compenso esso ritiene nella forma della memoria, se al senso della vista ai cui contenuti manca questa forza di riproduzione, non si offrisse la permanenza del volto e del suo significato, la nostra vita inter-individuale si fonderebbe su una base assolutamente diversa» (ibidem) Simmel nel suo Excursus offre una delle testimonianze occidentali della presenza di una metafisica della vista: si associa cioè alla vista l’implicito significato della permanenza, della stabilità. Questa metafisica ha fatto sì che l’udito e il fenomeno sonoro passassero in secondo piano.

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La negligenza nei confronti delle nostre orecchie è evidente nella terminologia stessa che associa il termine “suono” sia al fenomeno sonoro stesso che alla vibrazione fisica che è causa del suono. Come scrive Michel Chion, bisogna ammettere che in questa scelta terminologica vi è qualcosa di più di una semplice pigrizia o di un’ignoranza, ma si tratta “di un fatto culturale degno di interesse in sé…e che il suono è anche questa confusione.” (Ibidem) Inoltre, la dissimmetria fondamentale – e la sua conseguente gerarchizzazione- che esiste tra il senso visivo e quello dell’udito deriva direttamente dalla natura fisica dei segnali sonori, che si disperdono nello spazio; i fenomeni visivi sono affetti invece da una “spazialità ordinata” (Michel Chion, Le son, Nathan Université, p. 32), e se la natura del suono ci impedisce di concentrarci su una parte di esso ignorando i suoni ad esso contigui, al contrario un oggetto “visibile sulla mia sinistra non disturba la percezione di quello che appare invece alla mia destra” (p. 35).

Dove porta l’orecchio? Se a partire dalla pubblicazione di The tuning of the world (1977) di Murray Schafer l’attenzione nei confronti del fenomeno sonoro, soprattutto nei paesi anglofoni, si è finalmente destata, non si può dire lo stesso in ambito italiano. 

È necessario mettere in discussione questa tradizione, che vede nell'orecchio l'anello debole dei sensi per il fatto che non si possa decidere di attivarlo a nostro piacimento. Il nostro obiettivo è quello di stabilire una discussione su qualcosa che è a margine.  L’orecchio è un labirinto, e come tale non si potrà seguire un percorso lineare.  Ciò che ci spinge a questa presa di posizione è innanzitutto la teoria dell’intimità di Peter Sloterdijk, che nel primo volume della sua sferologia, seguendo le tesi di Thomas Macho, formula una critica alla teoria freudiana delle fasi.

L’orecchio è, tra gli organi, il primo a instaurarsi, giacché esso è già presente nei primi giorni del concepimento e si sviluppa con una velocità impressionante, tant’è che dopo soli quattro mesi esso è già un organo completamente funzionante. Il feto ha in tal modo un’iniziazione psico-acustica all’interno del mondo sonoro uterino. Secondo Macho, la voce materna che il feto (intra)sente attraverso le pareti uterine costituisce “il germe mediale di qualsivoglia costituzione di comunità”.

Se l’individuazione, la “storia delle comunicazioni del soggetto in divenire con sé stesso e con le proprie estensioni vocali”, è fondata sull’udito e non sulla vista, ne consegue la necessità di una ridiscussione della tradizione occidentale. L’orecchio rubato è quindi un orecchio represso. Come possiamo ridonargli corpo?

di Artin Bassiri Tabrizi

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