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Al di là delle metafore fuorvianti, l’universo digitale è tutto fuorché un continuum apolitico di connessioni libere, bensì una rete nei cui nodi si concentrano forme di potere – da denunciare, ma di cui innanzitutto riuscire a rendere conto. Alla comprensione analitica del network globale contribuisce la nuova monografia di Matteo Pasquinelli, Nell’occhio dell’algoritmo (Carocci editore, 2025) – finalmente disponibile al lettore italiano dopo un’ampia ricezione internazionale.            

Quest’ultimo lavoro conclude – ma insieme rilancia ed amplia – una ricerca più che decennale che l’autore conduce sulle tecnologie informatiche, cercando di reimpostare i parametri di un approccio critico in grado di colmare il gap tra marxismo e algoritmi. Superando una prima presa di misura del rapporto tra potere e digitale che indulge sulla figura del Panopticon e problematiche annesse (sorveglianza, privacy, censura ecc.), Pasquinelli si propone di elaborare un’economia politica dell’algoritmo: cioè una prospettiva che individui le nuove forme di sfruttamento a partire dalla loro genesi dal basso, ovvero dal modo in cui le infrastrutture informatiche investono i corpi nella produzione di valore ed innervano il sistema di governo delle vite che segna il presente[1]. L’assunto di partenza è la dimensione antagonistica della tecnologia e il riferimento metodologico imprescindibile il Frammento sulle macchine di Marx[2]. Collocandosi nel solco dell’operaismo, Pasquinelli recupera una serie di strumenti teorici al crocevia di marxismo e cibernetica che gli consentono di proseguirne l’indagine fino alle forme specifiche del dominio digitale: innanzitutto, le inchieste di Romano Alquati che nella formula «informazione valorizzante» riconosce – già all’altezza degli anni Sessanta – il ruolo attivo dei lavoratori nell’alimentare un sistema di fabbrica che si sostiene sempre più su skills cognitive tradotte in dati computabili[3]; l’ontologia macchinica di Deleuze e Guattari, che inquadra la realtà come campo di produzione, amplificazione e accumulazione di flussi[4]; infine, le indagini neo-operaiste degli anni Novanta alle prese con la società post-fordista del lavoro immateriale, formalizzate nell’ipotesi del capitalismo cognitivo[5]. Ma se tali ricerche colgono la svolta linguistica che ha coinvolto le nuove soggettività e i rapporti di produzione all’alba della network society, mancano nel coglierne la svolta tecnologica. Qui il peculiare contributo di Pasquinelli, che addentrandosi nel funzionamento interno degli algoritmi mette a fuoco la dimensione macchinica del codice digitale che consente di esibire la macchina informatica come macchina in senso marxiano: cioè come dispositivo di cattura, estrazione e accumulazione di plusvalore (di rete, economico, governamentale ecc.)  – matrice dell’inedito scenario biopolitico di una società dei metadati[6].     

Tali guadagni teorici confluiscono in Nell’occhio dell’algoritmo, che entra nel dibattito accademico e militante sul ruolo emergente di quel complesso di ricerche, metodi e dispositivi che cade sotto il nome di Intelligenza Artificiale con una tesi chiara: al cuore delle IA non risiede né la logica segreta della mente umana né la riproduzione della struttura fisiologica del cervello, bensì quella forma di intelligenza che sorge dalla materialità del lavoro collettivo e della cooperazione sociale. La forza analitica del saggio sta senza dubbio nell’illustrare come ciò emerga dal design stesso degli algoritmi che regolano i più avanzati sistemi di deep learning. In quest’ultimo lavoro, Pasquinelli è impegnato nel tracciare un’ampia storia sociale dei sistemi IA, che ricostruisce il ruolo decisivo del contesto storico-culturale e delle dinamiche collettive – e soprattutto: conflittuali – che presiedono la loro ideazione e applicazione. Tale approccio si smarca tanto da una visione tecno-deterministica (susseguirsi endogeno di “invenzioni”) quanto dagli indirizzi storiografici che pur attenti ai fattori sociopolitici (finanziamenti militari, interessi dei colossi IT, impatto sulle minoranze ecc.) ripetono un’ennesima «storia dall’alto» (cfr. pp. 15-19). La genealogia sociale di Pasquinelli non riduce i destinatari della tecnologia ad un insieme bersagli di misurazione e controllo, bensì ne valorizza il ruolo storico attivo di soggetti autonomi, titolari di conoscenze e dotati di intelligenza – quell’intelligenza che l’IA estrae e codifica.       

Il volume si articola in tre parti: una prima introduttiva seguita da due di taglio storico, reciprocamente sull’era industriale e sull’era informatica. Ma nel suo insieme, il testo si compone di una costellazione non lineare di capitoli, ciascuno leggibile come ricerca autonoma sulla genesi «spuria e sperimentale» (p. 20) dell’IA in grado di corrispondere alla molteplicità e parzialità degli interessi, delle temporalità, e delle logiche disciplinari che fanno da sfondo alla motilità categoriale che contrassegna l’evoluzione della tecnologia: nel campo dei possibili, strumento e posta in palio delle lotte.    

La prima sezione punta a decostruire la visione ordinaria dell’algoritmo come sofisticato artefatto appannaggio delle Big-tech e dell’Occidente digitale, restituendolo alla sua dimensione materialistica: una delle numerose «tecniche culturali» (p. 35) radicate nelle pratiche di problem solving e di gestione della vita materiale fin dagli albori (costruzione, commercio ecc.). Con uno sguardo post-coloniale e intercettando studi di etnomatematica e storia delle religioni, Pasquinelli rintraccia nell’antichissimo rituale indù dell’Agnycayana (p. 30) la forma embrionale di quel «pensare algoritmico» che ben prima della sublimazione informatica trova espressione nella metodica procedurale con cui si organizza il lavoro collettivo.     

Come si mostra infatti nella parte prima su L’era industriale, è nelle turbolente officine dell’Inghilterra del XIX sec. che si può fissare un primo stadio della storia dell’IA, in particolare nei progetti pioneristici di Charles Babbage. In una congiuntura che richiedeva la velocizzazione dei calcoli logaritmici – cruciali per l’egemonia imperialistica sui mari – Babbage ideò il primo prototipo di calcolatore meccanico, noto come Difference Engine (1832) e antenato del moderno computer. Ma ben al di là del mito dell’inventore, Babbage ebbe un rapporto più stretto con le officine in quanto luoghi di escogitazione ed intelligenza, che con le accademie scientifiche – comprovato dai suoi manuali industriali e saggi di economia politica. È da questi testi che si ricavano i principi di quella teoria dell’automazione basata sul lavoro che guiderà tutto lo scavo genealogico di Pasquinelli: a) il design di una macchina imita e rimpiazza il diagramma di una precedente divisione del lavoro, assemblando in un medesimo congegno mansioni multiple e i relativi utensili (labour theory of machine) b) tale riorganizzazione implica il calcolo della sua misura e – di conseguenza – la massimizzazione del suo rendimento (principle of labour calcolation) (p. 64). Combinando i due principi, la macchina si definisce come apparato di automazione, misura e controllo del lavoro. Il punto da tener fermo, quindi, è che storicamente l’idea della computazione meccanica non emerse né dall’impresa di replicare la mente umana né dal sogno moderno di creare automi pensanti, ma dalla necessità di meccanizzare il ripetitivo mental labour di innumerevoli impiegati (i computers – spesso donne). Il capitolo dà poi spazio alla coeva Machinery Question (dibattito sulla disoccupazione tecnologica) e alla campagna politica rinominata March of Intellect che, insieme alle ricerche dei socialisti ricardiani Thompson e Hodgkins sull’importanza della dimensione cognitiva del lavoro operaio, testimoniano come fosse l’intelligenza la posta in gioco nascosta della rivoluzione industriale – a differenza di una storiografia che insiste unicamente sulla meccanizzazione termodinamica del lavoro manuale (p.22). In conclusione: ogni automazione del lavoro – dal telaio meccanico all’IA generativa – è in realtà automazione dell’intelligenza collettiva contenuta nel lavoro.

Le linee che segnano l’epoca trovano un punto di condensazione in Marx, precisamente nel tentativo di comprendere il ruolo economico che scienza e tecnologia giocano nell’accumulazione capitalistica. Il Frammento sulle macchine coglie nella fortunata nozione di General Intellect la tensione irrisolta tra la conoscenza cristallizzata nella macchina e la conoscenza come forza viva – giungendo ad esplorare l’ipotesi eterodossa di una crisi del capitalismo innescata dallo sviluppo di tale contraddizione; ma come ricostruisce Pasquinelli, allo spirito visionario del Frammento subentrano le osservazioni analitiche de Il Capitale, con la messa a terra della nozione di General Intellect nel più materialistico Gesamtarbeiter (lavoratore complessivo) che nomina l’assemblaggio macchinico di uomini e tecnologie coestensivo all’intero corpo della produzione sociale: in una prospettiva che eredita e porta a compimento le intuizioni di Babbage, la macchina emerge dalla divisione del lavoro, ne riplasma la composizione tecnica ed opera come strumento di modulazione del plusvalore relativo – con la conoscenza che diventa funzione dei circuiti di valorizzazione (pp. 112-115). Chiudendo la modernità industriale, lo sguardo di Marx si affaccia al contempo in direzione di un’epoca di intellettualità diffusa, saldata ai gangli macchinici di una moltitudine messa al lavoro che prefigura la società dell’informazione. Sebbene il salto d’epoca comporti le immani trasformazioni del XX sec. e avanzi nuovi parametri di misura, la prospettiva di Pasquinelli può indicare una pista di continuità: in che modo si può infatti affermare che la labour theory of machine si adatta ugualmente alla macchina industriale e all’IA – in particolare all’avanguardia dell’IA rappresentata dalle sofisticate tecnologie di apprendimento automatico?

Nella seconda parte della monografia – L’era dell’informazione – l’analisi critica trova il suo fulcro nel percettrone di Rosenblatt (1958), un prototipo di rete neurale artificiale per il pattern recognition in cui si può individuare il primo algoritmo di machine learning. Il progetto del percettrone offriva il banco di prova del connessionismo – paradigma epistemologico e tecnico di IA egemone dai primi decenni del nuovo millennio, rimasto per la maggiore all’ombra del più influente paradigma dell’IA simbolica. L’approccio connessionista germinò nell’alveo di un ampio contesto intellettuale animato – fra gli altri – dai lavori apripista di McCulloch e Pitts, la controversia legata alla Gestalt, la matematica statistica di von Neumann, l’omeostato del cibernetico Ashby, le tesi del neuropsicologo Hebb e il contributo decisivo dell’economista neoliberale Hayek. Muovendosi tra convegni, dibattiti e seguendo la migrazione inter-disciplinare di nozioni e metodi, Pasquinelli inquadra i primi progetti di reti neurali artificiali da una prospettiva inedita, che gli consente di mostrare come il principio che guida le ricerche non fu – contrariamente a quanto gli stessi protagonisti dichiarano – la mimesi della struttura fisiologica del cervello (biomorfismo): l’obiettivo è piuttosto quello di efficientare una rete di calcolo auto-organizzante in grado di riprodurre la capacità di elaborare e trasmettere informazioni testimoniata da sistemi complessi, non centralizzati e composti da una moltitudine di agenti autonomi – insomma, di replicare la logica delle relazioni sociali emerse dalle profonde trasformazioni post-belliche, caratterizzate da pratiche di autorganizzazione, produzione globale di conoscenze e comunicazioni su larga scala (sociomorfismo) (cfr. p. 148). Anche qui, la genealogia sociale liquida sia il mito della partenogenesi delle tecnologie, sia la semplificazione di una «rivoluzione del controllo» innescata da un problema di “gestione” del surplus economico, sia il fantasma degli apparati di stato nell’approntare un sistema di sorveglianza civile-militare (p. 230). Lo sforzo rimane piuttosto quello di riconoscere il ruolo centrale dei conflitti e dell’organizzazione del lavoro, verificando la tesi operaista nell’età degli algoritmi: «le tecnologie dell’informazione sono sempre state una risposta all’autonomia sociale» (p. 153) per cui «è stata essenzialmente l’auto-organizzazione della mente sociale a dare forma e impulso al progetto dell’intelligenza artificiale» (p. 155).         

Come si mostra tutto ciò dall’interno del percettrone? Pasquinelli riconosce che l’espediente risolutivo adottato da Rosenblatt fu l’applicazione della tecnica statistica dell’analisi multifattoriale – ereditata dalla psicometria – alle reti di calcolo che tentavano di automatizzare il riconoscimento di immagini. Convertendo ogni immagine in un punto all’interno di uno spazio multidimensionale, le cui coordinate rappresentano i valori dei pixel che identificano l’immagine stessa, ne consegue che punti vicini corrispondono ad immagini simili; il pattern recognition è tradotto in un problema di ottimizzazione matematica: un’operazione di clustering in uno spazio vettoriale (p. 206). Con l’estensione a dataset non visuali, il percettrone si evolve fino ai modelli attuali (BERT, GPT, CLIP, Codex ecc.) che proiettano architetture algoritmiche capaci di coprire inventari di sapere collettivo di enormi dimensioni, automatizzando svariati compiti intellettivi (generare testi, immagini, comparare valori, riconoscere oggetti e persone ecc.). Ma in realtà, l’intelligenza reificata ed antropomorfizzata nei sistemi IA – conclude Pasquinelli – si risolve essenzialmente in un trucco: ovvero in «un’illusione statistica proiettata dai dati» (p. 222). Sul piano formale, il merito del percettrone fu rompere con la concezione di algoritmo invalsa nella computazione tradizionale, cioè come sequenza di istruzioni astratte ed indifferenti alla passività dei dati input (logica deduttiva, modello top-down – tipici nei motori inferenziali dell’AI simbolica): al contrario, i dati diventano informazioni attive che modificano i parametri di una procedura adattiva che non è più predeterminata (logica induttiva, modello bottom-up – apprendimento automatico dell’AI connessionista). Pasquinelli può perciò concludere che «il paradigma dell’AI connessionista non ha prevalso su quello dell’AI simbolica perché più intelligente o più capace di imitare le strutture celebrali, ma perché gli algoritmi induttivi e statistici sono più efficienti nel catturare la logica della cooperazione sociale» (p.150). La domanda decisiva, infatti, è: cosa automatizza il percettrone? È facile mostrare come persino al livello elementare della percezione, è in realtà all’opera uno specifico lavoro mentale collettivo che mobilita un mondo storico di significati: tassonomie scientifiche, sistemi linguistici-vernacolari, ma anche bias razziali, di genere ecc. – insomma, la conoscenza come processo storico, sociale «e spesso di natura conflittuale» (p. 223). In accordo con la teoria dell’automazione-lavoro, il percettrone è quindi matrice di codificazione della mente collettiva, di un General Intellect globalizzato messo a valore. Questo il maggior risultato del volume, se considerato nell’arco della produzione di Pasquinelli: dopo l’algoritmo PageRank di Google e la macchina di Turing, è con una vasta ricostruzione storica e tecnica alle spalle che il percettrone di Rosenblatt può a ragione essere individuato come il modello empirico più adeguato a descrivere gli intestini del biocapitalismo attuale, mostrandosi – nel suo stesso profilo algoritmico – come «cristallo del conflitto sociale»[7].     
Nell’occhio dell’algoritmo offre così gli strumenti storico-critici per comprendere cosa è in gioco nell’esplosione della dimensionalità dei dati e nei sistemi per processarli, nel monopolio dei GAFAM sul regime estrattivo della conoscenza globale, nel paradigma di governance algoritmica che integra le istanze di misurazione e gestione di differenti istituzioni biopolitiche (clima, logistica, sanità, sicurezza ecc.) – tendenze in cui l’IA riveste un ruolo tecnico decisivo (p. 238). Da qui, i numerosi problemi che il volume apre, molti dei quali si intrecciano proficuamente con altre ricerche in corso. A titolo di esempio: le trasformazioni del mondo del lavoro nell’orizzonte aperto dall’IA. La teoria dell’automazione-lavoro decostruisce il mito della disoccupazione tecnologica (p. 239): l’IA non sostituisce, ma moltiplica i lavoratori – dislocandone le forme e riplasmando le gerarchie delle competenze (come mostrano le mappature sociologiche dei nuovi impieghi precari che sostengono il capitalismo delle piattaforme[8]) ridefinendo i meccanismi di accesso e svolgimento dell’esperienza lavorativa[9], proiettando nuove figure della soggettività al lavoro in un intreccio di livelli normativi dove alla spinta all’autoimprenditorialità neoliberale fa riscontro l’intensificazione dell’asservimento macchinico[10].

Infine, la foce politica del volume è chiara: «al centro della teoria dell’automazione-lavoro vi è, in ultima analisi, una pratica di autonomia sociale» (p.241). Dalla genealogia sociale dell’AI non può che dedursi il principio che «il primo passo della tecnopolitica non è tecnologico, ma politico» (p. 241). Ma tranne l’appello conclusivo ad una «cultura dell’invenzione» (idibem) e alla restituzione al comune della tecnologia, la tematizzazione dei parametri di una prassi in grado di opporsi al dominio digitale – tra rifiuto destituente e accelerazionismo critico, evitando le false alternative del tecnopauperismo e tecnosoluzionismo – esula dal perimetro del volume. Che cionondimeno, nella sua autonomia, rappresenta un punto di partenza inaggirabile.

Alberto Capobianco


[1] Questo il programma a partire da M. Pasquinelli, L’algoritmo PageRank di Google: diagramma del capitalismo cognitivo e rentier dell’intelletto comune, in Sociologia del lavoro, a cura di F. Chicchi e G. Roggero,Milano 2009.

[2] Si tratta dei quaderni 6 e 7 dei Grundrisse di Marx, tradotti e resi noti con questo titolo da Renato Solmi in Quaderni Rossi, 4 (1964), pp. 289-300. Da qui, l’operaismo degli anni Sessanta rovesciò il rapporto tra sviluppo capitalistico e iniziativa operaia, inquadrando l’innovazione tecnologica come fenomeno di risposta ad un momento di crisi aperta dalle lotte. Cfr. M. Tronti, Operai e capitale, Roma 2006, come riferimento paradigmatico.

[3] Cfr. R. Alquati, Composizione organica del capitale e forza-lavoro alla Olivetti, in Quaderni rossi, 2-3 (1962; 1963).

[4] Cfr. G. Deleuze, F. Guattari, L’anti-Edipo. Capitalismo e schizofrenia, vol. 1, tr. it. a cura di A. Fontana, Torino 2002.

[5] Ci si riferisce ai lavori, tra gli altri. Di M. Lazzarato, A. Negri, P. Virno, C. Marazzi e C. Vercellone. Una formulazione sintetica del paradigma del capitalismo cognitivo si trova in A. Negri, C. Vercellone, Il rapporto capitale/lavoro nel capitalismo cognitivo, in Posse (2007), pp. 46-56.

[6] Il riferimento è lo studio M. Pasquinelli, Capitalismo macchinico e plusvalore di rete. Note sull’economia politica della macchina di Turing, in AA.VV., Gli algoritmi del capitale. Accelerazionismo, macchine della conoscenza e autonomia del comune, a cura di M. Pasquinelli, Verone 2014, pp. 81-102.

[7] M. Pasquinelli, Capitalismo macchinico, cit., p. 95.

[8] Cfr. sul tema del click-lavoro, delle microtask appaltate alla moltitudine invisibilizzata dei cosiddetti turchi meccanici ecc., cfr. A. A. Casilli, Schiavi del click, Milano 2020.

[9] Cfr. Antonio Aloisi, Valerio De Stefano, Il tuo capo è un algoritmo. Contro il lavoro disumano, Bari 2020, in cui le nuove pratiche di algorithmic hiring, sistemi di feedback, e dispositivi di sorveglianza da remoto contribuiscono all’erosione del quadro giuslavoristico in atto nei processi di digitalizzazione delle aziende.  

[10] Cfr. su questo tema i numerosi lavori di L. Paltrinieri e M. Nicoli, in particolare il recente Managing the Will: Managerial. Normativity from the Wage Society to the Platform Age in Capitalism in the Platform Age, a cura di S. Mezzadra et. al, Springer Studies in Alternative Economics, 2024.

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