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Con la nozione di iperindividualità, Federica Buongiorno interviene a colmare una lacuna teorica lasciata aperta dalla decostruzione del soggetto costituente, avviata nel Novecento nel contesto della filosofia francese – da Henri Bergson a Maurice Merleau-Ponty, fino a Jacques Derrida e Maurice Blanchot, per citare solo alcuni dei protagonisti. Processo che non si esaurisce nel panorama filosofico francese: basti pensare al contributo dei cileni Humberto Maturana e Francisco Varela, ai quali si deve l’introduzione del concetto di autopoiesi; all’idea jamesiana di un’esperienza pura; o ancora, in ambito tedesco, all’estensione del concetto husserliano di Lebenswelt operata da Hans Blumenberg. Se ciascuna di queste prospettive concorre a segnare il passaggio da un paradigma epistemologico centrato sul soggetto trascendentale a uno fondato sull’impersonalità della genesi del senso – radicata nell’esperienza percettiva e nella sedimentazione temporale –, non sempre è riuscita a fornire una nuova teoria della soggettività.

Decentrato e spossessato da sé, il soggetto moderno diviene oggetto di una radicale pars destruens, che mette in crisi la sua centralità epistemica, senza tuttavia approdare a una definizione alternativa. La necessità di una pars construens resta dunque aperta e trova una formulazione decisiva nel volume Iperindividualità. L’individuazione nel presente tecnologico (Meltemi Editore, 2025). Questa impresa si dimostra tutt’altro che  incasellabile in un unico orizzonte disciplinare, poiché chiama in causa approcci eterogenei, necessari per osservare da prospettive differenti un soggetto sempre più lateralizzato – in quanto svincolato dal rapporto frontale con l’oggetto e dal punto di cominciamento del processo conoscitivo –, con l’obiettivo di includere all’interno della sua descrizione quanti più lati possibili. È precisamente questo il percorso che Buongiorno sviluppa nel suo saggio, articolato in tre capitoli corrispondenti a tre punti di osservazione differenti, integrando una riflessione teoretica e concettuale con una particolare sensibilità per le implicazioni politiche e sociali riguardanti il tema della soggettivazione nell’era tecnologica.

Gli strumenti concettuali che Buongiorno utilizza per costruire la nozione di iperindividuo, quale definizione del soggetto operante nella realtà attuale iperconnessa, derivano da tre combinazioni filosofiche, alle quali l’autrice risulta legata fin dalle sue pubblicazioni precedenti: la fenomenologia, la psicoanalisi e la filosofia della tecnica, in particolare quella di ascendenza francese. A loro volta, tali filoni teorici offrono tre concetti operativi – per dirla con Fink (2006) –, utili per tracciare i contorni della figura dell’iperindividuo: l’eccedenza intenzionale, sviluppata per mezzo di una radicalizzazione della fenomenologia husserliana; l’ambivalenza primaria, che si appoggia su una nozone di duplicità pulsionale non dicotomica, riprendendo la lettura proposta da Lyotard della psicoanalisi freudiana; e, infine, la contaminazione tecnologica, quale «regime economico e politico proprio del capitalismo digitale» (p. 141), per come tale nozione viene introdotta da Donna Haraway.

Tale volume risulta una sorta di punto di incontro tra i risultati ottenuti da Buongiorno nei suoi studi svolti precedentemente in modo più settoriale, a cominciare dalla tesi di dottorato, dedicata al tema del precategoriale nella fenomenologia di Husserl (Buongiorno 2014), fino al suo interesse per un ampliamento delle maglie di quest’ultima, nella direzione di una sua ibridazione con altre discipline, in primis la psicoanalisi, la filosofia della tecnica, in particolare quella di Gilbert Simondon, Bernard Stiegler, fino al femminismo post-umano di Karen Barad, Rosi Braidotti e Donna Haraway. L’esito si rivela, infine, «ultra-fenomenologico» (p. 69), in quanto consiste nel portare la fenomenologia oltre se stessa, proseguendo lungo la strada aperta da Husserl – primo ad aver messo a tema il «paradosso della soggettività» (Husserl 2002, p. 206), a un tempo empirica e trascendentale –, evitando al tempo stesso di volerlo risolvere, sforzo che rappresenterebbe il «vero scacco di Husserl» (p. 67).

Attraverso i molteplici riferimenti citati che formano il retroterra concettuale privilegiato dall’autrice – rispetto al quale l’elenco sopracitato non risulta affatto esausitivo – è bene allora chiedersi: come si arriva all’idea di un iperindividuo? La prima cosa che è importante specificare, e che la stessa autrice ha cura di disambiguare fin dalle battute introduttive del volume, è l’accezione controintuitiva del termine che, con il prefisso superlativo “iper”, rischia di rimandare a una sorta di amplificazione o rinforzamento delle proprietà soggettive, replicando le sorti infelici che già avevano interessato l’oltreuomo nietzschiano, troppo spesso confuso con l’idea di un superuomo. Dall’altra parte, tale concetto si distanzia anche dalle accezioni più vicine alla contemporaneità, come per esempio la nozione di “iperoggetti” proposta da Timothy Morton, distinzione sulla quale l’autrice dedica una breve sezione, intitolata Nota sull’iper, collocata nelle ultime pagine del volume [1].

A differenza di quanto potrebbe sembrare, l’iperindividualità proposta da Buongiorno non rimanda affatto a un potenziamento verticale di qualche tratto soggettivo, quanto piuttosto a una sua estensione orizzontale, verso l’altro e verso il fuori. Con il prefisso “iper”,  Buongiorno intende effettivamente un di più, che non ha però la forma di una maggiorazione: rappresenta piuttosto un’eccedenza, una condizione che da un lato estende il raggio d’azione del soggetto e, dall’altro, lo limita, frastagliandone i confini con l’esterno e, così facendo, minacciandone l’integrità.Più che unità e più che identità”: è, infine, tale formula simondoniana a determinare il carattere iperindividuale quale entità mai pienamente individuabile. Ma facciamo un passo indietro, per mostrare brevemente in che modo i concetti di eccedenza intenzionale, ambivalenza primaria e contaminazione tecnologica offrono un vocabolario adatto a trattare tale nuova condizione soggettiva, che interessa in modo specifico il nostro essere soggetti nella realtà attuale, interessata da una tecnologia onnipervasiva.

Per quanto riguarda l’idea di intenzionalità, tale concetto deriva da una radicalizzazione della fenomenologia husserliana, la quale sarebbe incapace di rendere esplicita la duplice eccedenza caratterizzante la correlazione soggetto-oggetto. Tale duplicità si dà dal lato dell’oggetto come un continuo rimando oltre i lati attualmente afferrati per Abschattungen, secondo la teoria fenomenologica della percezione e, in un’estensione di quest’ultima, coinvolge la stessa natura degli oggetti ideali, mai del tutto evidenti sotto lo sguardo di una descrizione eidetica pura. Dal lato del soggetto, invece, tale eccedenza riguarda quel rinvio strutturale oltre sé, ossia quella spinta desiderante (Trieb o drive) tesa a un riempimento intenzionale continuamente differito. In questo senso, sottolinea Buongiorno, intenzionalità e desiderio condividono la stessa struttura incompiuta, in quanto la «”coscienza di qualcosa” è in primo luogo “desiderio di qualcosa”, di determinazione ulteriore. Al fondo dell’intenzionalità vi è, perciò, una precisa economia libidinale» (p. 41).

Questa duplice eccedenza si inserisce in un confronto con Husserl già avviato da Merleau-Ponty e teso a sostituire alla tesi di un soggetto costituente, fautore principale del processo di conferimento di senso (Sinngebung), l’idea di una genesi istituente, per la quale ogni oggettività ideale sarebbe frutto di una doppia sedimentazione, percettiva e simbolica [2]. Passando dall’idea di una costituzione soggettiva del senso a una sua istituzione temporale e intersoggettiva – quindi a una concezione di intenzionalità necessariamente più-che-individuale, nel senso di «situata e contestuale» (p. 67) –, è possibile per Buongiorno proporre una prima definizione di iperindividualità quale coscienza intenzionale che, nel suo eccedersi, si presenta come pulsione e desiderio, non afferra e non possiede mai l’altro, proprio in quanto non lo “costituisce” nel senso husserliano, non gli dona un senso anticipato, ma riconosce l’irriducibile co-implicazione dell’oggetto sempre differito e dell’intenzione mai conclusa (p. 48).

Connessa all’idea di un’eccedenza intenzionale, determinata sia dal lato del soggetto desiderante sia da quello dell’oggetto mai del tutto evidente –  nel senso husserliano di un riempimento intuitivo –, emerge la teoria di un’ambivalenza primaria. Nella sua derivazione freudiana e, in particolare, nella lettura che di tale concetto offre Jean-François Lyotard, il concetto di ambivalenza non ha a che fare con l’idea di un dualismo tra due polarità distinte ma, piuttosto, con quella di una duplicità interna a un’unica pulsione [3]. A partire dall’accezione freudiana di “tabù”, è infatti possibile rintracciare l’idea di un’ambivalenza come compresenza di due tendenze opposte in seno a una «comune radice indifferenziata» (p. 81). Se dalla prospettiva di Buongiorno, Freud prediligerà, nel complesso della sua opera, una definizione più dicotomica di ambivalenza, per la quale le pulsioni di vita e di morte sarebbero sostanzializzate in «due potenze tra loro indipendenti e in conflitto» (p. 81), è possibile recuperare, tramite Lyotard, una processualità relazionale propria di tale nozione, intesa come dimensione anteriore a una netta differenziazione. In quest’ottica, l’ambivalenza caratterizzante l’individuo «non esclude, quindi, la polarità, ma la struttura all’intero della relazione e del processo, e non al di fuori o “prima” di essi» (p. 81).

Sotto il nome di ambivalenza primaria è quindi possibile ritrovare quell’unica energia pulsionale originaria che, nel saggio L’Io e l’Es (1923), lo stesso Freud definisce indifferenziata e spostabile. Tale energia ambivalente funge da sfondo rispetto a ogni investimento libidico particolare, che è quindi sempre più che sé stesso; rinvia, cioè, costantemente all’altro da sé. Definita anche con il nome di narcisismo primordiale – categoria freudiana che sarà ripresa in particolare da Bernard Stiegler, quale antidoto alla miseria simbolica che caratterizza la società digitalizzata [4] –, è proprio questo doppio fondo di energia libidinale indifferenziata a rappresentare la seconda caratteristica propria dell’iperindividuo. Mantenendo attiva la sua tensione interna, caratterizzata in senso psicoanalitico dalla compresenza di pulsioni di vita e pulsioni di morte, «l’iperindividuo è sempre “più” che la sua provvisoria unità e identità, è associato indissolubilmente all’altro da sé secondo uno schema non dicotomico e oppositivo, bensì di indifferenza primaria e di compresenza delle pulsioni» (p. 85). Tale indifferenza originaria – associata da Buongiorno alla nozione di preindividuale introdotta da Gilbert Simondon [5] – sta alla base del processo di individuazione, determinandone il carattere sempre inconcluso e, quindi, ripetibile, tale da attribuire allo stesso individuo il carattere di processo: «l’iperindividuo è il proprio processo di individuazione [… in quanto] il “di più” che ne motiva preindividualmente il divenire non viene del tutto esaurito da nessuna identificazione, ma residua strutturalmente» (pp. 125-126). Di nuovo, l’eccedenza propria dell’iperindividuo si configura come scarto o residuo, piuttosto che come raddoppiamento o potenziamento, estendendo i confini del soggetto verso l’esterno e, in tal modo, rendendolo manchevole rispetto a una struttura unitaria e sostanzialistica.

L’idea di un prolungamento del campo soggettivo verso il mondo circostante, naturale e artificiale, ci permette di introdurre brevemente l’ultimo elemento del percorso delineato da Buongiorno, ossia quello di contaminazione tecnologica. Tale concetto permette a Buongiorno di sprigionare tutta la valenza politica del suo discorso, chiamando in causa, al fianco di Donna Haraway, autrici quali Karen Barad e Rosi Braidotti.

In questo terzo capitolo, l’obiettivo polemico di Buongiorno, rispetto al quale il concetto di iperindividualità offre un’alternativa, non ha più i contorni di una prospettiva teorica, come avviene nel primo capitolo in riferimento a una certa deriva soggettivistica della fenomenologa husserliana e, nel secondo, riguardo a una lettura ortodossa della psicoanalisi freudiana, che svierebbe dalla tematizzazione di un’originaria ambivalenza del processo di individuazione, offerto da quest’ultima. Nel capitolo conclusivo, facendo dialogare la filosofia della tecnologia con tematiche della tradizione femminista e marxista, Buongiorno prende di mira piuttosto un sistema politico, ossia quello neoliberale. È chiaro infatti, dalla prospettiva dell’autrice, che riscoprire l’iperindividualità «vale a dire la radice ambivalente, indifferenziale, indeterminata, pre-individuale, dietro o al di là della maschera della soggettività moderna e contemporanea», rappresenta un pericolo «per un sistema economico, politico e sociale, come quello neoliberale, improntato alla gestione di corpi e individui ben identificabili e conclusi, o al massimo relegabili in forme controllate e assimilabili di fluidità» (p. 129).

Come già osservato da Judith Butler e Paul B. Preciado [6], il neoliberalismo attua un’esaltazione dell’individuo individuato, rispetto al quale l’iperindividuo si colloca in netta contrapposizione. Il concetto di contaminazione (pollution) è allora utile per indicare quel «regime economico e politico proprio del capitalismo digitale» (p. 141), secondo cui «la crescente personalizzazione dell’offerta digitale si fonda, in realtà, sulla progressiva disindividuazione degli (iper)individui» (p. 147).  La logica sottostante al sistema neoliberale sarebbe infatti isolante e tipicizzante al tempo stesso: estremizzando l’illusione di un’autoaffermazione soggettiva, essa porterebbe alla cessione completa della spinta individuale desiderante, sotto il falso nome di un libero consenso. L’esito drammatico di tale processo consiste in una sotterranea omologazione degli impulsi libidinali soggettivi, permettendo così un maggior controllo delle sue decisioni future, rese sempre più prevedibili. Secondo Buongiorno, è proprio l’elemento di non-prevedibilità a costituire il «punto su cui insistere per introdurre un elemento di dis-automatizzazione», senza pretendere di ridurre del tutto la tendenza tipizzante della macchina capitalistica, ma immaginando delle possibili vie di fuga, date dall’«intreccio iperumano di individuazione psichica e tecnica». È, infatti, «solo in questo intreccio, non nel suo oltre, che il desiderio potrà essere anche una resistenza alla dis-individuazione» (p. 202).

Il prefisso “iper” diventa allora simbolo di un’eccedenza che è al tempo stesso negazione, negazione di una sostanzialità persa dal soggetto neoliberale che, a discapito della sua pretesa di essere massimamente individuato e sovrano di se stesso, confonde i suoi confini tra sé e l’altro. Contro la standardizzazione del desiderio e  dello sfruttamento capitalistico dell’energia libidinale, risulta necessario recuperare  l’idea di un  iperindividuo quale «sistema aperto e imprevedibile – non calcolabile né anticipabile nella sua interezza» (p. 169), che a sua volta rimanda a un diverso tipo di «neutralità della coscienza: non quella che immunizza l’individuo come spettatore disinteressato, bensì quella che rintraccia anche in quest’ultimo la matrice ambivalente della dinamica intenzionale» (p. 172)

Alla base della proposta di Buongiorno, che si configura come una nuova antropologia per la società neoliberale e digitalizzata, è possibile ritrovare un’ontologia di tipo processuale, per la quale l’essere, incluso quello del soggetto, non si presenta come identità fissa o unità individuale, ma assume la forma di individuazione: processualità sempre in divenire, mai del tutto compiuta.

In conclusione, è possibile riconoscere al presente volume, che si impegna in ultima istanza a «ripensare la questione del postumano in senso iperumano» (p. 191), non solo un contributo decisamente innovativo nel panorama del dibattito filosofico attuale – del quale è testimonianza ulteriore l’assegnazione del “Premio Nicola Russo per gli studi filosofici”, avvenuta lo scorso settembre –, ma anche l’introduzione di un nuovo dispositivo filosofico destinato a perdurare. La nozione di iperindividualità, infatti, segna un importante passo in avanti verso la comprensione del soggetto quale processo di individuazione, mai assolutamente com-prensibile, ossia mai del tutto circoscrivibile concettualmente, ma che una filosofia che si voglia politica e reattiva nei confronti di ciò che la circonda ha il compito di provare continuamente a descrivere, di volta in volta e attraverso gli strumenti che ha a disposizione.

Marta Gailli

Note

[1] Tiene a precisare Buongiorno che «il concetto di “iper” proposto in questo libro si differenzia fondamentalmente da quello di Morton in quanto presuppone, sul piano filosofico generale, che idealismo e realismo […] commettono il comune errore di intellettualizzare la percezione (e, di conseguenza, la cognizione), […]  misconoscendone la natura primariamente esteriorizzata e sovradeterminata tecnicamente» (pp. 184-185).

[2] «È Merleau-Ponty ad aver colto e sviluppato appieno questo tema ben al di là delle intenzioni husserliane, sostituendo il paradigma dell’istituzione a quello della costituzione fenomenologica» (p. 47), avanzando, nei corsi su L’istituzione, la passività, la tesi di un inconscio come duplice sedimentazione di campi percettivi e di matrici simboliche (cfr. Merleau-Ponty 2023).

[3] Cfr. Lyotard (2021). Con Lyotard, infatti, «le pulsioni fondamentali (di vita e di morte) non sarebbero due, ma un’unica pulsione duplice» (p. 41).

[4] Cfr. Stiegler (2021, p. 29). Come sottolinea l’autrice, Stiegler è tra i primi ad annoverare tra i rischi dell’industria digitale quello della perdita da  parte degli individui del «narcisismo primario, ovvero di attaccamento estetico a delle singolarità –  la propria singolarità e quella degli oggetti con cui sono in relazione» (p. 177).

[5] Cfr. Smondon (2021).

[6] Ricorda Buongiorno che già Judith Butler, riprendendo Michel Foucault, «aveva osservato come l’identità, che si applica all’essere in quanto determinato, ha la funzione di connotare gli individui secondo standard di intelligibilità che istituzionano e rinforzano l’impianto normativo, in particolare quello di genere. Dal canto suo, Preciado osserva come il neoliberalismo si serve di una specifica tecnologia psicopolitica – “la programmazione di genere” – allo scopo di produrre soggettività» (p. 129).

Bibliografia

Buongiorno, F. (2025). Iperindividualità. L’individuazone nel presente tecnologico. Milano: Meltemi Editore.

Id. (2014). Logica delle forme sensibili. Sul precategoriale nel primo Husserl. Roma: Edizioni di storia e letteratura.

Fink, E. (2006). Concetti operativi della fenomenologia husserliana, in Prossimità e distanza. Saggi e discorsi fenomenologici. Pisa: ETS.

Husserl, E. (2006). La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, Milano: Il Saggiatore.

Lyotard, J. F. (2021). Economia libidibale. Milano: Pgreco edizioni.

Merleau-Ponty, M. (2023). L’istituzione, la passività. Corso al Collège de France (1954-1955). Milano-Udine: Mimesis.

Simondon, G. (2021). L’individuazione psichica e collettiva. Roma: DeriveApprodi,.

Stiegler, B. (2021). La miseria simbolica. Vol. 1. L’epoca iperindustriale. Milano: Meltemi Editore.

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