Dal momento in cui la pratica discorsiva del filosofo si è imposta come forma di sapere superiore a tutte le altre la metafora è stata vista come un semplice ausilio al quale ricorrere quando la teoria non funziona nel modo in cui è supposta funzionare. Non sono mai mancati, tuttavia, coloro che ritenevano la dimensione del concetto incapace di saturare il senso rendendo possibile eliminare del tutto il metaforico. Sarà Novecento che il discorso filosofico supererà ogni pregiudizio nei confronti della figuratività, dell’iconico, del narrativo integrandoli quali parte integrante dell’argomentazione filosofica. Nel presente numero si farà riferimento ad alcuni autori utili ad illustrare in modo paradigmatico lo scenario appena delineato.
From the moment the discursive practice of the philosopher emerged as a form of knowledge superior to all others, metaphor was seen as a mere aid to be resorted to when theory does not work the way it is supposed to work. There has never been a shortage, however, of those who considered the concept dimension incapable of saturating the meaning, making it possible to eliminate the metaphorical. It would be during the course of the 20th century that philosophical discourse would overcome any prejudice against figurativeness, the iconic, the narrative, integrating them as an integral part of philosophical argumentation. In this issue, reference will be made to a few authors useful in illustrating the scenario just outlined in a paradigmatic manner.
Dal momento in cui la pratica discorsiva del filosofo si è imposta come forma di sapere suprema, in grado di dar conto di se stessa e dei propri metodi, il pensiero metaforico è stato assunto come un procedimento ausiliario al quale ricorrere quando la teoria non funziona nel modo in cui è supposta funzionare – cioè senza buchi e senza sbavature, in grado di cogliere senza residui tutto ciò che c’è e di cui il soggetto fa esperienza. Anche se non sono mai mancati coloro che non ritenevano possibile eliminare del tutto la dimensione del metaforico – coloro per i quali lo spazio discorsivo della filosofia non poteva venir saturato solo facendo ricorso a ciò che coincide con quella forma specifica di cattura del reale che è il concetto – è solo nel corso del Novecento che il discorso filosofico ha superato ogni pregiudizio nei confronti della figuratività, dell’iconico, del narrativo intesi quali parti integranti dell’argomentazione filosofica. Ciò non è accaduto in virtù della volontà di prendere congedo dalla concettualità, bensì in virtù del fatto che quest’ultima, nell’atto del suo porsi, pone anche il proprio altro, di cui il metaforico è attestazione privilegiata. Con ciò, si è resa finalmente obsoleta l’idea secondo cui la metafora servisse al ragionamento filosofico solo quando questo incespica e zoppica, scoprendosi bisognoso di ausili e stampelle. Quattro esempi valgano a illustrare questo scenario filosofico, che costituisce il nucleo teorico del presente call for papers.
Emanuele Tesauro: Il cannocchiale aristotelico, o sia, Idea dell'arguta et ingeniosa elocutione : che serue à tutta l'arte oratoria, lapidaria, et simbolica (1670) - Internet Archive Book Images Flickr [particolare]
Hans Blumenberg non solo ha mostrato che non è possibile scrivere una storia dei concetti senza scrivere anche la storia delle metafore che hanno costellato la discorsività filosofica, ma ha anche offerto un quadro teorico-sistematico generale entro il quale comprendere la necessità del loro intreccio. Generata dal bisogno di tenere a bada la realtà e ciò che in essa resiste a un dominio immediato, la ragione – che co-evolve con Homo sapiens al pari degli altri artefatti di cui questi si serve per plasmare la nicchia ecologica che lo accoglie – produce tanto miti quanto modelli di razionalità e teorie scientifiche, tanto metafore quanto concetti, al fine di rendere più agevole un adattamento che risulta sempre alquanto precario (l’esistenza della specie umana, per Blumenberg, è quanto di più improbabile ci sia nel regno dei viventi). Ne viene fuori non che la metafora compensa ciò che manca al concetto, ma che tutte le misure di prevenzione messe in atto dalla ragione per arginare gli effetti della complessità del reale altro non siano che misure compensatorie.
Jacques Derrida ci ha indicato – una volta per tutte, si potrebbe dire – come la posizione del soggetto che guarda la differenza tra metafore e concetti costituisca la macchia cieca del pensiero: è infatti impossibile dar conto delle operazioni che giustificano tale differenza, essendo questa già da sempre presupposta da ogni pratica filosofica. Il soggetto del sapere filosofico, in altre parole, non si vede mentre opera con – e grazie alla – differenza tra metafore e concetti. Non si può far filosofia se non ipotizzando di sapere cosa differenzi un concetto da una metafora, ma l’articolazione di tale differenza non potrà mai essere maneggiata con i soli strumenti della concettualità. Un residuo metaforico, con tutta la sua impurità, intaccherà sempre la purezza di quella sfera in cui opera la concettualità.
Enzo Melandri, ne La linea e il circolo, ha indicato un percorso sistematico che non solo restituisce piena legittimità alla logica analogica – che non è da vedersi come una logica dimidiata, di secondo ordine – ma ha anche indicato in che senso una teoria dell’analogia aiuti a individuare in modo corretto il posto che il metaforico occupa in seno all’argomentazione filosofica. È vero che gli usi dell’analogia sono pressoché infiniti, ma, come mostra Melandri, le sue funzioni sono ben precise e delimitate: euristica, legata all’inventio, sintetica, quando si passa da un genere a un altro per produrre un sapere unitario e superare pragmaticamente la divisione dei saperi, ed evocativa, quando il valore intensionale o connotativo dell’analogia si autonomizza rispetto al suo valore estensionale e o denotativo. Ora, se si riesce a dimostrare a quali condizioni l’analogia diventi razionalmente possibile tanto come inferenza calcolabile quanto come concettualizzazione dotata di senso – ed era questo lo scopo perseguito da Melandri nel suo monumentale lavoro – allora diviene chiaro che la questione dell’analogia possiede una funzione trascendentale. Si tratta di comprendere non solo in che senso macchie empiriche intacchino sempre la purezza del trascendentale, o in che senso la genesi che conduce all’emergenza del soggetto trascendentale sia sempre una genesi empirica, ma soprattutto di porre a tema la questione della fondazione in termini dialettici, facendo posto al paradosso e alla negatività. Ragionare sull’analogia significa interrogare l’incompletezza del sistema del pensiero, significa cioè indicare come quel negativo che è esteriorità, alterità, rimosso, rientri nel sistema stesso per vie traverse e non dominabili interamente attraverso la concettualità pura.
Nel loro Metafora e vita quotidiana, George Lakoff e Mark Johnson sostengono che la metafora “è diffusa ovunque nel linguaggio quotidiano ma anche nel pensiero e nell’azione”: distinguendo tra tre tipologie di metafora (strutturali, di orientamento e ontologiche), Lakoff e Johnson propongono una teoria complessa la cui tesi fondamentale consiste nell’idea che il linguaggio sia strutturato metaforicamente in quanto il pensiero è strutturato metaforicamente e sottolineano il carattere ambiguo del linguaggio metaforico, che tende a enfatizzare un determinato aspetto concettuale oscurando una serie di altri aspetti non coerenti con la metafora utilizzata. Il meccanismo della metafora fa perno sul nostro essere incarnati, ovvero – ed è un aspetto decisivo – esso è funzione della nostra interazione corporea con il mondo: in questo senso, la metafora riflette la struttura percettiva umana e ritaglia una precisa ed essenziale forma di accesso cognitivo al mondo.
Si sono appena evocati alcuni nomi e autori, ma è chiaro che, evocandoli, lo scopo è quello di circoscrivere possibili aree di pensiero, non di attribuire a questi nomi un ruolo speciale. Grazie a loro, però, si è cercato di isolare il nucleo tematico di questo numero, che consiste nell’isolare, grazie alla messa a tema del ruolo della metafora, quell’oscillazione tra la sfera trascendentale e quella empirica che costituisce il pensiero della fondazione.
A partire da questi snodi il numero intende esplorare il tema della metafora nel discorso filosofico privilegiando i seguenti aspetti:
- l’uso della metafora e dell’analogia nella storia della filosofia: usi, evoluzione, obiettivi;
- crucialità dell’analisi della metafora nel pensiero di Hans Blumenberg nel suo complesso, con particolare riferimento al nesso tra la metafora e l’actio per distans, che Blumenberg individua quale forma precipua di adattamento al mondo;
- centralità della differenza tra metafora e concetto nella decostruzione derridiana della metafisica; valenza trascendentale del discorso derridiano sull’impossibilità di gestire concettualmente l’intreccio tra metafore e concetti;
- rapporto tra metafora e analogia nell’opera di Melandri, analisi degli esiti che assume l’argomentazione trascendentale quando questa ospita al proprio interno un’apertura dialettica nei confronti del metaforico e dell’analogico;
- a partire dall’opera di Lakoff e Johnson, analisi del rapporto tra la metaforicità del pensiero e le attività cognitive in quanto operazioni compiute da un soggetto incarnato, che si orienta nel mondo attraverso costruzioni narrative e concettuali che possono aspirare tanto più all’oggettività quanto più sapranno dar conto del proprio radicamento in una prassi incarnata;
- metafora, analogia e modellizzazione nel pensiero scientifico;
- le relazioni tra metafora e simbolizzazione degli spazi abitati: significati e fenomenologie del monumentale, inteso quale condensazione del metaforico nel linguaggio architettonico;
- rapporto tra funzionamento retorico-semiotico della metafora ed ermeneutica della metafora intesa quale asse portante delle strutture testuali.
Procedura: si prega di inviare, all'indirizzo redazione@philosophykitchen.com, entro il 27 febbraio 2022, un abstract di massimo 6000 caratteri, indicando il titolo della proposta, le modalità in cui si intende sviluppare il tema e l'argomentazione, una bibliografia essenziale e ragionata nonché una breve biografia dell’autore o dell’autrice. Le proposte verranno valutate dai curatori e dalla redazione. Gli esiti della selezione verranno resi noti, via mail, entro il 14 marzo 2022. I contributi selezionati dovranno poi essere inviati entro il 30 giugno 2022 e saranno sottoposti a double-blind peer review. La pubblicazione del volume è prevista per settembre 2022.
Che cosa può motivare la scelta di dedicare un libro al problema del «precategoriale» in Husserl? Il libro di Federica Buongiorno, Logica delle forme sensibili. Sul precategoriale nel primo Husserl, è motivato dalla convinzione che il problema del precategoriale sia un tema inaggirabile della fenomenologia di Husserl, un problema del quale la fenomenologia husserliana può e deve rispondere. In un passo molto chiaro Buongiorno afferma che il «compito della fenomenologia […] è appunto quello di condurre l’anonimo (l’implicito) al categoriale e ricondurre poi quest’ultimo […] alle radici pre-categoriali» (p. 184). La difficoltà – a ragione valorizzata in questo libro – risiede nel fatto che la precedenza del precategoriale non rappresenta il momento iniziale di un processo conoscitivo, bensì quel tratto costitutivamente «anonimo» e «non tematico» dell’«esperienza fondante» (p. XVII). L’Autrice, dunque, evidenzia sin dall’inizio come la differenza tra «categoriale» e «precategoriale» non vada intesa, per così dire, in maniera lineare, cioè come una differenza tra due momenti di un medesimo processo conoscitivo, ma come il problematico opporsi di due livelli irriducibilmente distinti: il «tematico» e il «non tematico». Il precategoriale è un fenomeno rilevante proprio in quanto costituisce quella «esperienza fondante» che si sottrae alla tematizzazione e alla conoscenza tradizionale, e che impegna la fenomenologia nella sua specificità.
Ma non è questo il tema specifico del libro, che tratta, come esplicita il sottotitolo, del precategoriale «nel primo Husserl». Questa restrizione tematica rende ancor più ambiziosa la sfida di questo testo. Mettere a tema il precategoriale nel primo Husserl significa infatti individuare e discutere tale questione al livello metodologico e problematico delle Ricerche Logiche, quindi, prima della «riduzione fenomenologica» delle Idee, prima delle analisi genetiche e prima che Husserl, nella Crisi delle scienze europee, affronti esplicitamente il problema del «mondo della vita». Ma è proprio questa la sfida del libro di Federica Buongiorno, che – sempre consapevole di queste difficoltà – cerca di pensare il precategoriale con Husserl (nello specifico, con il primo Husserl) ma anche oltre Husserl. Per ragioni di spazio, in questa recensione mi concentro su questi due aspetti principali del libro, sebbene esso affronti con precisione filologica moltissime altre questioni; mi limito a ricordare il rapporto con Brentano (cap. I), l’influenza di Bolzano (cap. II) e il confronto con Kant, che l’Autrice valorizza costantemente.
Innanzitutto, vorrei richiamare l’attenzione sul titolo del testo. Che il problema del precategoriale abbia a che fare con qualcosa come una «logica delle forme sensibili» può sembrare, soprattutto per lo studioso di fenomenologia, una cosa ovvia. In realtà questo legame, tutt’altro che pacifico, tra il precategoriale e la logica delle forme sensibili sintetizza la tesi centrale di questo libro. Si tratta dell’idea – lo dico con parole mie – che il problema del precategoriale conduca all’elaborazione di una radicale “logica del sensibile”, a una “logica” che, in quanto “dedotta” dalla sensibilità stessa, di “logico” in senso tradizionale conserva ben poco. Ci si deve innanzitutto chiedere in che misura il primo Husserl ci offra la possibilità di pensare questa “logica del sensibile”, e in che misura questa “logica” sia capace di restituire, nella sua ricchezza e originarietà, il fenomeno del precategoriale.
Nell’“Introduzione”, in un passo molto significativo sul quale tornerò in chiusura, si dice che il carattere «costitutivamente problematico» del precategoriale introduce una «tensione di carattere fondazionale all’interno della teoria husserliana». Il punto è che questa tensione non può «essere risolta richiamandosi alla predelineazione del categoriale nel suo fondamento ante-predicativo, sebbene sia questo il ragionevole orizzonte interpretativo nel quale disporre il problema» (p. XII, corsivo mio). Il problema del precategoriale comporta infatti una strutturale eccedenza rispetto a una certa idea di precategoriale, una idea già attiva a livello delle Ricerche Logiche e definibile come una «predelineazione del categoriale» nella sensibilità. Questa “eccedenza” rappresenta a mio avviso qualcosa di decisivo per questo libro, nel quale l’analisi filologica del testo husserliano, volta a individuare la presenza del precategoriale nel primo Husserl, è costantemente ravvivata dalla consapevolezza della portata filosofica e teoretica del problema. La discussione del problema del precategoriale nel primo Husserl trova il proprio centro nel concetto di «intuizione categoriale», di cui Federica Buongiorno rintraccia le origini (cap. III. 1,2) e di cui ricostruisce – inquadrando la nozione all’interno delle Ricerche Logiche – il contesto problematico (cap. III. 3), per offrirne poi una analisi mirata nella parte finale del libro (cap. IV).
A un primo livello si può dire che la rilevanza dell’intuizione categoriale per il problema del precategoriale risiede nel fatto che, come è noto, attraverso questa nozione diventa possibile pensare il categoriale come dato. Questa nozione – ecco la sfida lanciata a Kant – implica una «profonda riconsiderazione dei rapporti tra sensibilità e intelletto, tra base estetica (precategoriale) e operazioni logico-discorsive» (p. 148). Ma, a mio avviso, Buongiorno coglie un punto fondamentale quando parla di una «duplice vettorialità» dell’intuizione categoriale (p. 136). Questa espressione dà voce al duplice aspetto dell’intuizione categoriale, come atto fondato sull’intuizione sensibile e come atto che offre al tempo stesso un nuovo tipo di oggettualità, una oggettualità eccedente rispetto all’intuizione sensibile. È forse proprio questa duplice vettorialità dell’intuizione categoriale ciò che permette di preservare il carattere originario, sensibile e intuitivo del precategoriale, senza tuttavia ridurre la sensibilità (per dirla con Kant) a una “intuizione cieca”, o (con le parole dell’Autrice) a una “mera sensibilità”, con cui il precategoriale, come giustamente viene precisato, non deve essere mai confuso (p. XVII). È sempre in quest’ottica che nel testo ci si confronta con il concetto fenomenologico di intuizione «in senso ampio». L’intuizione categoriale – l’esempio della copula è emblematico – presuppone proprio la possibilità di intuire (in senso ampio) qualcosa di radicalmente non intuibile (in senso stretto). Come rileva Buongiorno, l’allargamento fenomenologico del concetto di intuizione va di pari passo con l’«ampliamento dell’esistenza alla sfera logico-ideale» (p. 115).
L’insistenza su questa duplice vettorialità dell’intuizione categoriale è inoltre coerente con una prima importante scelta metodologica del testo. Buongiorno individua infatti nella rielaborazione husserliana della teoria brentaniana delle «rappresentazioni improprie» una chiave di lettura per comprendere la specificità della concezione fenomenologica del rapporto tra «intuizione (riempimento)» e «intelletto (intenzione significante)». Se per Brentano «le rappresentazioni improprie e i giudizi su di esse fondati avevano carattere “pseudo-conoscitivo”, […] per Husserl è possibile cogliere intuitivamente gli oggetti ideali» (p. 52). L’Autrice mette in luce il fatto che le rappresentazioni simboliche (intese come rappresentazioni improprie) contengono in sé un rinvio al «pre-logico». È proprio in virtù di questo «presupposto pre-logico» che il rappresentare simbolico, sebbene improprio, non si vede precluso un orizzonte di possibile datità. L’intuizione categoriale viene poi tematizzata in maniera analitica nell’ultimo capitolo del libro, di cui posso ricordare solo alcune pagine. L’Autrice, richiamandosi a Lohmar, distingue tre diversi livelli dell’intuizione categoriale (p. 173). In primis, la percezione semplice o «percezione complessiva» (Gesamtwahrnehmung), che offre un oggetto sensibile «unitario» (per esempio una porta rossa). Successivamente, la «percezione specifica» o «intenzione esplicitante», che è «ancora percezione, dunque un atto semplice», anche se «non ha più un carattere complessivo»; a questo livello «l’atto non è ancora mutato: ci limitiamo a concentrare il nostro interesse percettivo su un momento dell’intero» (nell’esempio, il rosso della porta). Infine, l’intuizione categoriale, dove «le parti esplicitate della Sonderwahrnehmung vengono ricombinate e connesse da un atto categoriale e sintetico» (l’esser-rossa-della-porta, il giudizio ‘la porta è rossa’). Secondo l’Autrice – e qui veniamo a uno snodo fondamentale del testo – il «fenomeno decisivo, sul piano categoriale, avviene già nel passaggio dalla Gesamtwahrnehmung alla Sonderwahrnhemung, le quali rientrano ancora nella modalità intuitiva semplice, sensibile». In questo livello intermedio si mostrerebbe dunque una strutturale e positiva ambiguità dell’intuizione: il momento esplicitante si configura come una «sintesi della coincidenza» che «non è ancora una formazione categoriale, ma non è neppure più o soltanto un contenuto sensibile. […] È proprio in questo discrimine interno alla sensibilità ma già aperto sul categoriale, in questo tratto di scivolosa commistione tra intuizione primaria e secondaria che il precategoriale fa valere il proprio impatto problematico all’interno della Sesta Ricerca» (pp. 175-176, corsivo mio).
Federica Buongiorno può dunque affermare che il precategoriale, costituendo la “radice sensibile” dell’intuizione categoriale, è implicitamente presente nella Sesta Ricerca. Questa tesi non è affatto ovvia. L’Autrice, infatti, riconosce con Lohmar che a livello di quest’opera (nelle quale le analisi genetiche sono lasciate da parte) la percezione è assunta «a-problematicamente». Del resto, già nell’“Introduzione” si legge che il tentativo di tematizzare il precategoriale nel primo Husserl si scontra con un dato innegabile: il carattere statico e non genetico delle analisi delle Ricerche Logiche. Eppure il problema può e deve essere posto, perché tanto il carattere «complessivo» della percezione quanto la «sintesi della coincidenza» risulterebbero difficilmente spiegabili senza presupporre questo riferimento al precategoriale. Ci si può infatti chiedere: «come fa la percezione ad afferrare A come un intero?» (p. 206). È per rispondere a domande come questa che l’Autrice richiama, come «supplemento concettuale indispensabile» (p. 180), la nozione di Typus, che Husserl guadagnerà successivamente, nella quale è possibile individuare quella forma di «schematismo fenomenologico» che costituisce un presupposto implicito dell’intuizione categoriale. Proprio a partire da questo schematismo fenomenologico si rende inoltre apprezzabile la differenza tra Husserl e Kant, sulla quale l’Autrice insiste in vari luoghi ma che emerge molto incisivamente dalla considerazione della Terza ricerca. La «riconsiderazione dei rapporti tra sfera analitica e sintetica» – rendendo pensabile un rapporto che ha carattere essenziale e analitico, pur implicando una sintesi (è il caso del legame essenziale tra qualità e intensità) – permette ad Husserl di «fondare esteticamente l’apriori» (p. 120). Attraverso l’apriori materiale Husserl riferisce la forma «“alle cose stesse”» (p. 125), «sono gli oggetti a fornire il Leitfaden della conoscenza» (p. 127).
Il radicamento dell’intuizione categoriale in una sensibilità “ibrida” e “già aperta al categoriale”, e così l’idea secondo la quale la sensibilità racchiude una “logica degli oggetti”, sono aspetti particolarmente emblematici del modo in cui il primo Husserl pensa il precategoriale. Ma è forse proprio in questa logica degli oggetti che il tentativo husserliano sembra essere attraversato da quella problematicità che rappresenta un aspetto essenziale del fenomeno del precategoriale, il contrassegno della sua “eccedenza” rispetto al categoriale. Si può infatti dire che se da un lato l’intuizione categoriale, esibendo il necessario radicamento del categoriale nella sensibilità, è una condizione per porre il problema del precategoriale, dall’altro si ha l’impressione che in Husserl l’“anteriorità originaria” del precategoriale rimanga limitata a questa predelineazione delle categorie nella sensibilità. Ciò è del resto riconosciuto dall’Autrice in un passo dell’“Introduzione” che ho già citato, ma che voglio richiamare di nuovo. Vi si dice, per l’appunto, che la «tensione» provocata dal precategoriale non può «essere risolta richiamandosi alla predelineazione del categoriale nel suo fondamento ante-predicativo, sebbene sia questo il ragionevole orizzonte interpretativo nel quale disporre il problema» (corsivo mio). Per questo motivo il libro di Federica Buongiorno suggerisce la necessità di pensare il precategoriale non solo «con» Husserl, ma anche «oltre» Husserl.
A mio avviso, le ultime pagine di questo testo possono essere lette come una ripresa e una radicalizzazione della situazione problematica presentata nell’“Introduzione”, dove il precategoriale è indicato come un fenomeno situato «nello scivoloso discrimine tra originarietà e descrittività» (p. XII). Questa radicalizzazione è operata facendo riferimento alla «paradossalità» fenomenologica del soggetto (come soggetto e come oggetto, come costituente e costituito), che rappresenta secondo l’Autrice «la cifra stessa della fenomenologia». In effetti, lo statuto paradossale del soggetto comporta una difficoltà teoretica analoga alla più volte segnalata “problematica anteriorità” del precategoriale. Ma in che senso si può dire che la domanda sul soggetto costituisce una radicalizzazione della domanda sul precategoriale? Leggendo queste ultime pagine la risposta sembra essere la seguente: la commistione tra «passività» e «attività» oppure tra «intuizione» e «pensiero», fin qui affrontata in stretto rapporto all’intuizione categoriale, viene ora pensata come essenzialmente appartenente alla struttura del soggetto. Da questo punto di vista, a essere ambigua non è innanzitutto la sensibilità, come mostra l’analisi dell’intuizione categoriale, ma la stessa soggettività umana. La questione del precategoriale, dunque, comporta non soltanto un abbandono del presupposto antropologico kantiano (la divisione della capacità conoscitiva in sensibilità e intelletto) ma mette la fenomenologia di fronte alla domanda «come è l’uomo?», domanda che secondo l’Autrice è presente nel pensiero di Husserl, pur restando «difficilmente dipanabile» al suo interno.
Per concludere, questo libro, nel suo lato più strettamente husserliano, mostra in maniera filologicamente dettagliata come il problema del precategoriale conduca all’elaborazione di una logica delle forme sensibili che trova – diversamente che in Kant – negli oggetti stessi il proprio filo guida. D’altro canto, le ultime pagine di questo testo, rivendicando una aspirazione teoretica che va oltre il testo husserliano, indicano nella domanda antropologica «come è l’uomo?» una via più radicale per pensare il precategoriale.