"Amanti, a voi, che bastate a voi stessi, chiedo di noi"
Rilke
Il discorso amoroso, al pari dell’esperienza amorosa che su di esso si sostiene (beninteso in vario modo e in forme tutt’altro che ovvie), può essere osservato da diverse prospettive. Qui intendiamo prenderne in considerazione tre.
Ketty La Rocca - You (1975)
La prima prospettiva intende mettere a frutto l’incrocio tra storia, sociologia e antropologia. Pare opportuno iniziare da qui in quanto l’amore occupa un posto nella vita affettiva dei singoli individui solo a partire da modelli comportamentali culturalmente codificati, i quali manifestano il peso della loro performatività anche quando il soggetto non cerca l’amore o non ha ancora avuto modo di essere travolto dalla potenza della passione amorosa. Nello specifico, tale prospettiva permette, da un lato, di evidenziare gli invarianti della fenomenologia dell’amore: tanto nei componimenti dell’antico Egitto quanto in quelli dell’antica Cina, non diversamente dalle canzonette di Sanremo, si mostra come la felicità amorosa consista – innanzi tutto e per lo più – nell’amare e nell’essere amati dalla persona amata, mentre non veder ricambiato il proprio sentimento d’amore comporta infelicità, dolore, financo depressione e perdita del senso del sé (ma con ciò non si deve dimenticare la felicità di cui godono coloro che amano senza essere ricambiati, o perché l’oggetto d’amore non c’è più, o abita i cieli, come il dio amato dai mistici, o perché semplicemente l’amato non ne vuol sapere del soggetto amante). D’altro lato, tale prospettiva permette di far vedere come tali invarianti ricevano declinazioni di volta in volta diverse a seconda delle semiosfere in cui si manifestano. La funzione di Beatrice nel discorso dantesco non è identica a quella che ha il sembiante dell’amata nella lirica provenzale, e l’amore della Principessa di Clèves per il Duca di Nemours, descritta da Madame de Lafayette, non è l’amore che Madame Bovary proverà per i suoi amanti. Innamorarsi del futuro sposo – o della futura sposa – nell’Inghilterra vittoriana non è come innamorarsi della persona con cui si corrisponde velocemente attraverso un sito d’incontri (Meetic, Tinder, eccetera). Quindi, in prima battuta, si vorrebbe qui articolare la seguente questione: quali forme e quali codici assume di volta in volta, a seconda delle latitudini e delle epoche, l’esperienza universale dell’amore? A quali canoni espressivi dà luogo tale codificazione? Che rapporto vi è tra la performatività di questi canoni e l’unicità del sentimento d’amore sperimentato e vissuto dagli amanti?
Va subito aggiunto che la prospettiva storico-culturale a cui qui si fa riferimento deve necessariamente ospitare uno sguardo rivolto all’esperienza amorosa che sia capace di interrogare in che modo si sia articolato – e ancor oggi si articoli – il rapporto di potere tra i partner della relazione amorosa. A tal proposito, risultano imprescindibili due considerazioni. La prima è che il discorso amoroso è stato pensato e scritto quasi sempre e quasi ovunque da uomini (per lo più adulti liberi, benestanti, comunque in grado di occupare posizioni dominanti) che si rivolgevano ad altri uomini (e ciò a prescindere dal genere a cui apparteneva l’oggetto del desiderio). La seconda è che i rapporti amorosi sono nati in contesti sociali e culturali marcati in modo onnipervasivo dal dominio maschile e patriarcale. Chiedersi come nasce e muore l’amore tra umani senza chiedersi come e perché il rapporto amoroso possa essere coalescente con la violenza maschile sarebbe privo di senso. Parimenti insensata sarebbe una ricostruzione storico-antropologica delle semantiche e delle retoriche dell’amore che non sapesse porre a tema il modo in cui l’oggetto d’amore sia stato, quasi sempre, un oggetto che viene articolato discorsivamente in funzione di uno sguardo maschile.
La seconda prospettiva da cui partire per osservare l’amore fa riferimento alla triangolazione tra amore, desiderio e godimento sessuale. Non sempre il sesso è segno dell’amore; a volte, tuttavia, lo è; in ogni caso, va rilevato che, anche quando l’esperienza amorosa si presenta scissa dal godimento sessuale, essa comunque si sviluppa e si dispiega quale amplificazione del desiderio. Ciò vale non solo nel caso in cui gli amanti sperimentino un amore impossibile, o una separazione forzata, o l’impossibilità di avere rapporti sessuali a causa di una qualche patologia invalidante. Ciò vale anche quando l’oggetto d’amore è lontano e strutturalmente irraggiungibile, come nel caso dell’amore provato per una divinità. Il discorso mistico, per esempio, attesta ampiamente come l’amore per una figura divina sia tanto intenso quanto quello provato da un umano per un altro umano. In tale contesto, risulta imprescindibile fare riferimento al sapere della psicoanalisi, che si apre a partire dall’opera di Freud e da quella di Lacan. Proprio la psicoanalisi autorizza a istituire un’analogia strutturale tra l’amore tra umani e l’amore che un umano può provare per una figura non umana. L’incontro amoroso, dal punto di vista psicoanalitico, è sempre, infatti, incontro con un fantasma – ovvero con il fantasma del proprio desiderio, con ciò che, mancando al soggetto, gli restituisce da fuori quella completezza immaginaria senza la quale la vita, dopotutto, risulterebbe triste se non invivibile.
Non meno importante è il fatto che la psicoanalisi ponga l’accento sull’impossibilità di porre il rapporto sessuale come ciò che garantisce e stabilizza l’unione amorosa, come ciò che serve a istituire l’unità e la fusione tra amanti. Nella fenomenologia dell’amore il desiderio degli amanti di fondersi e di diventare una cosa sola gioca quasi sempre un ruolo molto importante. Tuttavia, non solo si tratta di prendere atto che proprio tale aspirazione all’unione assoluta a volte nasconde, da parte di uno dei partner, una più o meno consapevole volontà di dominio, ma soprattutto si tratta di far emergere come l’amore “riuscito” sia sempre confronto con la morte, con il lutto, inteso sia come accettazione anticipata della possibile fine della storia d’amore, sia come riconoscimento della radicale estraneità e irriducibilità dell’altro. Ma c’è di più. Il discorso psicoanalitico, nell’evidenziare con insistenza la natura non ovvia di quel “fare sesso” con cui a volte si dilettano gli amanti, pone l’accento sull’impossibilità strutturale di comprendere il sesso come quella componente dell’esperienza umana che servirebbe a conferire una qualche stabilità ontologica al soggetto. Se il sesso ha una qualche rilevanza nella vita cosciente degli individui, ciò accade, invece, proprio perché la radicale estraneità del godimento a qualsivoglia ordinamento, coerenza o legge rende scoperta l’infondatezza ontologica della soggettività.
Da ultimo, si vuole qui convocare sulla scena una prospettiva politica. Non si può dire infatti che l’esperienza amorosa sia una faccenda puramente privata, che si consuma nella sfera più intima e riposta dell’esistenza individuale, di cui il soggetto sarebbe l’unico depositario, intestatario indiscusso di successi o fallimenti. L’esistenza degli amanti e il loro intimo rapporto coimplica le condizioni materiali in cui si dipana la trama delle loro vite. Viene dunque da chiedersi se l’esperienza amorosa non possa essere valutata anche come un campo di pratiche che riguardano tanto l’individuo quanto i collettivi: è possibile sperimentare – contro le diseguaglianze e i rapporti di subalternità che contraddistinguono quasi tutti i modelli della vita amorosa sin qui conosciuti – nuovi modelli di libertà, capaci di valorizzare, pur entro il vincolo amoroso, la proliferazione di differenze e di etiche locali, contingenti, innovative? Può, infine, essere l’amore un modo per definire, pur nella dimensione locale della vita privata, una proposta “ecologica” per riarticolare le relazioni in seno ai collettivi? Di contro a una tradizione che non ha saputo tenere assieme cosmopolitismo e amicizia, e che ha relegato in un vago ideale filantropico il rispetto per i conspecifici, forse è lecito chiedere agli amanti di farsi promotori di una partica di condivisione basata su modelli inediti di sensibilità per l’unicità dell’altro.
In sintesi, gli snodi tematici che vorremmo fossero trattati all'interno di questo numero sono:
- retoriche, codici e semantiche dell’esperienza amorosa
- la rappresentazione delle storie d’amore nell’arte, nella letteratura, nel cinema
- ecologia e politica della scelta dell’oggetto d’amore
- il sogno d’amore, l’amore impossibile e la separazione degli amanti
- vita e opere dei mistici e delle mistiche
- rappresentazione della differenza di genere in funzione dell’esperienza amorosa
- l’amore al tempo dei social media
- libertà sessuale e etica dell’incontro amoroso
- amore, desiderio e godimento sessuale
- pornografia, postporno e pratiche sessuali contemporanee
- la questione dell’amore nel pensiero queer
- amore, sessualità e disabilità
- sex working: diritti, mezzi e rivendicazioni oggi.
Procedura: si prega di inviare, all'indirizzo redazione@philosophykitchen.com, entro il 15 luglio 2021, un abstract di massimo 6000 caratteri, indicando il titolo della proposta, le modalità in cui si intende sviluppare il tema e l'argomentazione, una bibliografia essenziale e ragionata nonché una breve biografia dell’autore o dell’autrice. Le proposte verranno valutate dai curatori e dalla redazione. Gli esiti della selezione verranno resi noti, via mail, entro il 15 settembre 2021. I contributi selezionati dovranno poi essere inviati entro il 31 novembre 2021 e saranno sottoposti a double-blind peer review. La pubblicazione del volume è prevista per marzo 2022.
La pubblicazione degli scritti psicoanalitici di Paul Ricoeur sotto il nome Attorno alla psicoanalisi avviene come una delle tappe di un processo che la casa editrice Jaca Book intende riprendere e portare avanti, alla luce di un ideale antico, circa la trattazione dell’Altro, che la collana Psyché riprende da un suo progetto editoriale risalente agli anni ’60, e tuttavia nuovamente al centro dell’esigenza culturale contemporanea. Non è un caso, nel considerare l’opera complessiva, che il titolo della collana sia lo stesso che Derrida diede a due sue raccolte di scritti incentrati sul tema dell’«invenzione dell’altro». Che si raccolgano molti dei testi psicoanalitici di Ricoeur (attinti dall’omonimo fondo francese) non deve sorprendere in tal senso, poiché proprio la questione dell’emergenza dell’Altro si snoda attraverso essi, divenendo sempre più cruciale.
Tale domanda si pone nel momento in cui Ricoeur s’interroga su cosa sia l’uomo. Domanda centrale e tipica della maturità del pensiero di Ricoeur, dalla cui posizione liquiderà rispettosamente come «fabulatoria» (p. 375) la pretesa foucaultiana della sua morte. L’uomo è sì un sistema metaforico, ma mantiene al tempo stesso una sua dimensione che non viene costruita o decostruita. L’uomo continua a porre e a costituire un problema in quanto tale, che non si può ridurre a un prodotto culturale ottenuto da un certo modo di praticare le forme del sapere. È un problema ancora presente e lo sarà anche in futuro, ancora sempre da analizzare, e che non si trova confinato all’interno di una specifica episteme. Non si riduce solo a un’invenzione enunciativa, ma a un modo di stare al mondo che non può essere decostruito, sebbene, attraverso le sue auto-narrazioni e razionalizzazioni, continui a porre l’esigenza di darsi un senso, agendo sulla causa non propriamente razionale che le motiva.
La raccolta di testi segue un ordine cronologico che risulta efficace per poter seguire il percorso lungo cui si snodano le tematiche e gli interessi di Ricoeur. Ampio e variegato è il lavoro svolto per rendere agibile la fruizione dei testi. Dalla presentazione di Francesco Barale alla postfazione di Giuseppe Martini, nel mezzo di trovano sia scritti della sola penna di Ricoeur, sia discussioni con personalità eminenti, come Enrico Castelli e Jacques Lacan.
La domanda circa l’essenza dell’uomo si trova inizialmente declinata secondo l’ordine di grandezza posto dal fenomeno originario della cultura. La cultura come momento fondativo dell’essere umano. Lo è sia in quanto strumento di difesa contro la natura, sia come particolare e delicato modo di dar forma all’altro, nel momento in cui creazione e rielaborazione di senso tendono a coincidere. Cultura è ciò che risponde, inevitabilmente attraverso la repressione degli istinti, alla gestione simbolica, da parte del soggetto cosciente, delle dinamiche fisico-biologiche che agiscono nell’uomo. Questa trova il suo strumento nel linguaggio (mentre con gli sviluppi successivi alla parola succederà la mera rappresentazione). È l’influenza dello strutturalismo linguistico che gioca la sua presa su Ricoeur, e lo conduce a considerare la questione con il filtro del testo e della parola come elementi primi e irriducibili del senso cosciente di tali forze fisiche. Per come queste si concentrano nell’uomo, configurando desideri e aspettative, azioni e repressioni, ognuna di esse ha in sé il richiamo, rivolto a qualcuno al di fuori da sé, di venir presa in carico, curata e gestita. A tale appello risponde il sistema centrale dato dal Sé, la coscienza.
L’unico espediente che in una prima fase della sua carriera Ricoeur trova adeguato, si è detto essere appunto il linguaggio, il quale si inscrive nelle dinamiche neurologiche, appellandole, e asseconda un dialogo formalizzato e meccanizzato tra i desideri reconditi e il loro centro di gestione cosciente. Il linguaggio è incaricato di dare senso a quanto non ha senso alcuno. Non si tratta di un’imposizione forzata, ma del soccorso dato a una richiesta di senso, di interpretazione. La forza desiderante invoca un riconoscimento dal sistema psichico centrale. Il desiderio è una forza che chiede, invoca di essere presa in carico, ascoltata, «proprio per il suo carattere di indirizzo all’altro» (p. 384). Verso cosa? Verso altro da se stessa. È dunque portatrice di una mancanza costitutiva, e come tale caratterizza il dolore, o quanto meno la condizione bisognosa dell’essere umano.
In tal quadro, l’intero sistema psichico, conscio e inconscio, inizia a funzionare grazie alla moneta corrente costituita dalla parola, e attraverso essa può verificarsi, nei limiti concessi dalle strutture e dalle leggi topiche, una sorta di gestione dell’energia pulsionale da parte dello psichico. In questo assunto trova la sua ragion d’essere la psicoanalisi, che viene intesa, in maniera coerente per tutta la vita dell’autore, come il lavoro tra la forza delle resistenze messe in atto dallo psichico da un lato, e il senso che il soggetto cosciente riesce a dare di se stesso dall’altro, alla luce delle poche conoscenze di sé che può ottenere direttamente. L’altro è sia ciò che va creato sia ciò con cui occorre fare i conti. Non vi è mai univocità nella relazione tra la parola posta e la forza rilevata che domanda ascolto.
Si intuisce dunque come Ricoeur tenti in più modi di attuare una riabilitazione di quel paradigma energetico che tanto ha fatto discutere tra i post-freudiani. L’idea fondamentale è tratta dall’opera freudiana, e occorre rielaborarla. In tal senso vanno le interviste multiple, incluse nell’opera, tra addetti ai lavori di più campi, dalla psichiatria psico-patologica alle neuroscienze, per tentare di ridare spolvero a un paradigma interpretativo che è fruttuoso per certi versi, e pone alcuni problemi ermeneutici per altri. Esso, infatti, non viene ripreso all’interno dello schema più semplice della duplice iscrizione del fenomeno psichico (sia nella mente sia nel corpo), ma come parte integrante e complementare rispetto a quella psichica nello stesso sistema. Si accetta anche la possibilità che si tratti di una metafora, che tuttavia contribuisce a smarcare l’intuizione della nostra archeologia da ogni possibile «idealizzazione» (p. 315 - Questa è l’interpretazione minima che Ricoeur prende in considerazione per concepire l’energetica pulsionale freudiana, che si trova trattata in questa accezione nel testo sulla Tecnica e non-tecnica nell’interpretazione, incluso nella raccolta). La cultura non è dunque un prodotto puro, perché si scopre già da sempre calato nella dinamica reale tra forza e senso. La cultura diviene così la risposta propriamente tecnologica e continua, calata nella carne della neurologia ma declinata diversamente, con cui l’uomo risponde ai bisogni dell’economia energetica. Si tratta di collegare questa ad un sistema simbolico, quanto avviene prima con il linguaggio e in seguito con la rappresentazione.
Non si prenda la presente esposizione come la fotografia teorica di quanto Ricoeur affermi in qualche suo testo. Le questioni si intrecciano e si sciolgono, vengono continuamente riproposte se riconosciute come insoddisfacenti, e approfondite se avvertite come potenzialmente fruttuose. È come se Ricoeur procedesse lungo un sentiero, e si dedicasse ad uno solo dei temi che incontra fino a ritenerlo esausto. Solo a tal punto declina la sua attenzione verso altri sforzi, che approfondiscono e allargano il quadro teorico a cui è pervenuto.
Per quanto concerne lo iato tra «forza e senso», Ricoeur lo disegna e lo pone come punto di opacità del soggetto a se stesso, che viene trattato in diversi saggi. Ne consegue una prese di distanze dall’approccio fenomenologico, da cui pure era partita la sua avventura filosofica, in relazione ai temi della colpa e del perdono. Resosi presto conto dell’insufficienza di una teoria pura della coscienza, Ricoeur non esclude la possibilità di erigere ponti tra fenomenologia e psicoanalisi, mentre viene esclusa in quanto non plausibile ogni teoria idealistica, alla quale tendono ad esempio le Meditazioni Cartesiane di Husserl, colpevoli di non considerare il ruolo specifico dato dall’opacità della coscienza e di non spiegare quindi l’insorgere dell’Altro (p. 368). Ciò nonostante, la fenomenologia rimane sempre un punto di riferimento critico, tendenzialmente oppositivo, con cui confrontarsi per prendere le misure del proprio lavoro (Ciò avviene a partire dal primo dei saggi, su La questione della prova in psicoanalisi, sino al testo dedicato a Kohut). A riprova di ciò, per chi legge il testo di Ricoeur, può risultare affine la critica all’intellettualismo che Merleau-Ponty mosse ai tentativi «intellettualistici» di ridurre la portata ontologica del reale, esterno alla coscienza, a un fattore interno alla coscienza, alla sua relazione con essa. Non è un caso allora che Ricoeur mantenga aperta la finestra del confronto con la tradizione fenomenologica, perché appare evidente una certa somiglianza strutturale nei modi in cui viene trattato il Sé nel rapporto con la forza corporea, che non si riduce a un’emanazione della coscienza.
È così che si trova la possibilità di comunicazione tra i due agenti apparentemente incommensurabili costituiti da «forza e senso», i due veri attori che si trovano in scena nel concerto umano, che si tratti dei sogni, della vita quotidiana o della seduta analitica. Le forze vanno trattate, in sede terapeutica, attraverso il senso che si può loro dare, quindi in forma narrativa. Tale forma non può scindersi dalla caratura emotiva ed empirica che anima le stesse forze, individualizzandole in un contesto storico e concreto. La specificità del tipo di approccio deve allora considerare entrambi i lati della faccenda umana. La forma narrativa, che tende a plasmare le forze che la invocano, si trova al tempo stesso a doversi adattare alla realtà pulsionale, la quale si mostra sempre e soltanto nella sua enigmaticità. Questo senso non si riduce perciò al «segmento intellettuale» costituito dall’analisi razionale del disturbo o della nevrosi, ma indica il punto su cui occorre fare il grosso del lavoro. Un lavoro pratico, fondato su un’intelligenza narrativa che si richiama alla phronesis aristotelica. L’invito è allora indirizzato a un lavoro sporco del soggetto sulle proprie emozioni, a lasciarsi andare all’ermeneutica di sé, per mettere in atto una autentica conversione. Questa è la posta in gioco più alta e decisiva, poiché in questa scommessa, che può essere attuata solo attraverso il dialogo con se stessi e con l’altro da sé, ne va di tutta l’impresa etica, oltre che di quella terapeutica.
Ciò è quanto si trova emblematicamente espresso dal problema della sublimazione, altro grosso tema tipicamente psicoanalitico, e legato al percorso che muove dalla cultura e perviene all’esigenza d ripensare il rapporto tra la gestione delle regole e l’insorgenza del nuovo. La questione si allarga così ad ogni atto umano migliorabile, e quindi si lega direttamente all’antropologia filosofica e al miglioramento di sé. Un esempio è la magistrale trattazione della Monalisa leonardesca, nel saggio luminoso sull’apporto della psicoanalisi all’analisi artistica. In Psicoanalisi e arte, Ricoeur spiega come si tratti di attingere il Nuovo dallo Stesso, attraverso un’ispirazione che al lettore può facilmente richiamare Derrida: nuove forme, un nuovo senso di quanto si crea, senza cadere nel rischio di optare per una genealogia della vita emotiva dell’autore. L’arte non si riduce al percorso analitico che porta alla sublimazione: l’arte è il prodotto libero, in quanto creato, della sublimazione. Ricoeur lo ripete più volte: è l’Altro, inteso come bacino interno di forza e infiniti possibili nuovi sensi da dare al passato in vista del futuro, ciò da cui tenta di attingere l’artista, e ciò a cui è chiamato a rispondere ogni essere umano per tentare di raccontarsi (da leggersi: vivere) sempre meglio. Ciò che viene così prodotto dall’analisi, diventa propriamente la creazione dell’oggetto del desiderio, che si sarebbe voluto trovare tra i propri ricordi, e a cui tende il lavoro dell’immaginazione.
Salvador Dalì - Sogno causato dal volo di un'ape intorno a una melagrana un attimo prima del risveglio (1944)
Innumerevoli sono poi gli spunti che vengono approfonditi di conseguenza. Dalla teoria della civilizzazione freudiana, al nuovo ruolo universalizzabile della psicoanalisi: sia la cultura sia la psicoanalisi agiscono sulla passione dell’uomo, attraverso la gestione «del transfert dai conflitti di forza ai conflitti di senso» (p. 383). Si tratta inoltre dell’autonomia riservata al discorso teologico, proprio grazie ad una presa critica di distanza dall’ateismo di Freud, distinguendo le genesi del fenomeno dal suo fondamento: è il caso del testo L’ateismo della psicoanalisi freudiana. Vi si trova pure un saggio, Il sé secondo la psicoanalisi e secondo la filosofia fenomenologica, che costituisce un unicum, in quanto non ispirato principalmente da Freud, ma dalla Psicologia del Sé di H. Kohut, che viene relazionato a Hegel e a Lévinas nel tentativo di disegnare un discorso sulla dialettica circa la natura della negazione nella dialettica intercalata nell’analisi.
Trattandosi di tutto ciò, il metodo è sempre teso a percorrere a ritroso il cammino fatto dalla lingua e dalla parola per risalire indietro lungo il sentiero costellato su diversi piani di tutti i meccanismi psicologici, fino al gesto creativo. Il non-luogo ove il linguaggio trova il suo insediamento nel desiderio, per nominarlo e per definirlo.
Il percorso ermeneutico conduce da quanto è già psicologico e che ha già un senso, sebbene provvisorio, a ciò che ancora è celato al di sotto del livello della coscienza. Queste due dimensioni rispondono a due sfere dell’umano e del percorso di riconoscimento di se stessi, la prima volta all’esegesi e all’archeologia, la seconda alla teleologia e al suo divenire. Non si possono scindere questi due aspetti, come peraltro Ricoeur stesso aveva fatto nel suo Dell’interpretazione, innalzando il secondo al puro lavoro filosofico. Egli spiega infatti che, come testimonia la terapia analitica, il banco di prova dell’elaborazione meditata del proprio futuro non è esclusiva della filosofia; questa demarche richiede una dinamica spirituale più ampia, che invoca tutto il supporto della psicoanalisi. Sembra in certi punti sentir risuonare il tema del discorso su di sé tipico degli ultimi corsi di Foucault, ma è Ricoeur stesso che si smarca dall’accostamento proposto da Giuseppe Martini nell’ultima intervista presente nel volume, risalente al 2003. Il problema della terapia non può ridursi a una dimensione puramente intellettuale, poiché occorre far sì che il senso del discorso riesca a muovere le montagne poste a protezione dei contenuti e delle dinamiche inconsce. Occorre un paziente e levigato lavoro che consenta all’analizzato, che diventa analizzante in quanto attore, di metter in atto la sua trasformazione di sé, per affrontare le proprie nevrosi o psicosi. Non è una epoché intellettuale, ma un’immersione totale nel vissuto per cercare di raccontarsi altrimenti quanto si riteneva di aver già compreso definitivamente riguardo la storia passata della propria vita. A tal fine, Ricoeur prende prende spesso spunto dalla rilettura di testi più o meno canonici del corpus freudiano, come Analisi terminabile e interminabile, nonché Ripetere, ricordare, rielaborare. Riprendendo la posizione ortodossa freudiana, concorda sul fatto che non vi sia infatti termine possibile all’interpretazione sempre nuova di quanto già si è vissuto, essendo questo costitutivamente aperto alla lettura sotto diverse angolature, e secondo nuovi ritmi o andamenti. Ciò non smetterà mai di fare problema, e Ricoeur continuerà a ripensare i termini di questo problema. Il tema della fine della cura è legato ai motivi presenti nella rielaborazione del vissuto personale, la quale non si definisce mai una volta per tutte.
Ciò ha ampie conseguenze, soprattutto per le conseguenze al di fuori dello stretto campo analitico. L’etica ne viene investita pienamente, e Ricoeur affronta il tema dell’etica e della morale alla luce della psicoanalisi in più saggi.
Il pensiero di Ricoeur muove per decenni alla ricerca di nuove formulazioni di tale operazione ermeneutica. Lungo tutto il percorso di Ricoeur, sono principalmente i tre paradigmi del simbolo, del testo e della traduzione che modificano l’assetto e i metodi di questa sua indagine (Sono ancora la prefezione e la postafazione di Barale e di Martini a riannodare le fila di questi paradigmi). Il fine rimane lo stesso: si richiede che avvenga una sorta di illuminazione retroattiva delle zone non pensate, per riportarle alla luce, intessendole in nuove forme narrative date alla propria persona e al proprio vissuto. Ma il triangolo teorico tra ermeneutica come auto-narrazione, veridicità come chiave dell’accesso al profondo e cambiamento pratico di sé si rielabora ed evolve.
L’accenno alla narrazione e al ruolo costituito dalla traccia non è certo un tema esclusivo degli scritti sulla psicoanalisi, ma si lega con essi inscindibilmente per quella pretesa interminabile del lavoro di rielaborazione del senso e delle dinamiche cui ci si sottopone quasi automaticamente. Si tratta dunque di una lotta contro questi automatismi, e l’unica fonte di innovazione va cercata al di là di essi e delle loro rappresentazioni fantastiche o linguistiche, mirando a ciò che ancora non ha potuto, o non può più venir rappresentato chiaramente alla coscienza. Si tratta di attingere all’intraducibile, che si assume legato alla sorgente del dir il vero su se stessi, per trarre prospettive ed energie nuove per raccontare e vivere altrimenti ciò che rimane chiuso nel segreto della psiche, che è al tempo stesso passato e rivolto al futuro. La veridicità è allora la chiave di tutta la possibilità di mutare forma e abitudini, poiché essa è la capacità che si scopre sempre più in fondo, oltre le barriere, le quali invece tendono a mascherare il vero. E sebbene non si possa pretendere dalla psicoanalisi una morale positiva densa, si può rinvenire in essa, comunque qualcosa di importante. Con le parole di Ricoeur: «un’etica ridotta alla veridicità non è poca cosa: ha in germe nuovi atteggiamenti, frutto della fine della dissimulazione» (p. 190). La veridicità è dunque ciò che apre le porte al cammino etico, ma anche alla conoscenza di sé. Due direzioni che procedono parallele, condizioni l’una dell’altra.
Un mutamento significativo, che può leggersi nel suo graduale verificarsi, è dato dal ruolo dell’immagine, che va acquisendo una centralità sempre maggiore attraverso i vari testi della raccolta, a discapito della mera parola. Ciò implica, per Ricoeur, un ruolo più originario della Vorstellung, della rappresentazione, rispetto alla sua formulazione linguistica. Il senso può trovare un appiglio prima ancora della sua verbalizzazione, e ciò può avvenire attraverso le immagini. Ricoeur, spiegando in vari passaggi i motivi di questo sorpasso della rappresentazione sulla locuzione verbale, sembra prevedere in qualche modo l’immensa fortuna dell’immagine nella società contemporanea. Questo mutamento di registro è indicativo, inoltre, anche perché segna il distacco definitivo dal lacanismo, già iniziato a prodursi dopo la sua partecipazione ad un seminario di Lacan (Distacco motivato nel testo nella Discussione su Du Trieb de Freud et du Désir du psychanalyste). È così che l’immagine si configura come vettore potenziale di senso grazie al quale il soggetto risponde all’appello rivoltogli dalle passioni. Questo è un fattore forse decisivo anche a livello antropologico, oltre che in chiave teoretica e in quella pratica dell’analisi. Infatti, ciò che non è mai possibile fare è allungare, metaforicamente, la mano in direzione delle proprie pulsioni, per catturarle e decidere liberamente cosa farne. Soprattutto, non è possibile farlo solo attraverso il linguaggio. La rappresentazione grafica si scopre più originaria rispetto al segno linguistico, ed è a partire da quella che questo si instaura. In relazione alle pulsioni – che rimangono comunque inevitabilmente inaccessibili in loro stesse, oltre ogni possibilità della traduzione stessa – si tratta comunque sempre o di nominarle o di immaginarle, per scoprire su quali altre metafore si basano, e la scommessa è che sia proprio questa concezione del desiderio corporeo come una chiamata al senso a rendere possibile una sua gestione da parte del sistema centrale costituito dalla coscienza. una gestione di qualcosa che è bisognoso e carente. Molte possibili letture si possono dare di questa gestione della forza, di un non-rapporto, che nel venir preso in carico dal soggetto, assume la caratura di «un processo ontologico fondamentale» (p. 413. È il commento di Giuseppe Martini nella sua chiara Postfazione su la voie longue intrapresa da Ricoeur). Una concezione molto simile è ripresa nella attuale scena psicoanalitica, anche da alcuni lacaniani, come Alenka Zupančič.
Per finire, è proprio questo invito della forza a venir dotata di senso, a cercare un Altro da sé con cui venir relazionata, a porre le basi per la formazione della Psiche, e di conseguenza a consentire di formulare e immaginare una concezione globale dell’uomo. Ricoeur disegna quindi una genealogia di quest’ultima, la quale è al tempo stesso una teleologia della natura, da modificare verso la creazione in forme nuove. Ciò può avere innumerevoli percorsi di sviluppo, poiché innesta tra il linguaggio e le immagini, che costituiscono la base della cultura, e la forza viva e bruta, la possibilità di uno scambio che si mantenga libero e creativo, tale da dover puntare sempre oltre, verso quel dominio né culturale né naturale costituito dal pre-rappresentazionale, dall’illocutorio, da cui trae origine la vita.
Recensione a F. Lolli, Inattualità della psicoanalisi. L'analista e i nuovi domandanti (Poiesis Editrice, Bari 2019)
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Correva l’anno duemilatredici e la politica italiana attraversava una delicata fase di translatio imperii. Da una parte si assisteva al lento ma inesorabile sfacelo di quel mostro tentacolare, di quel partito-piovra-azienda che fu il Popolo della Libertà e, dall’altra, alla marea montante di nuovi (ancorché vecchi e pur sempre ideologicamente ritriti…) partiti populisti che sia da destra che da sinistra, sbracciando e sbraitando, miravano a conquistarsi frange sempre più consistenti di un elettorato quanto mai fiacco, stordito e disilluso. In un tale contesto - segnato tanto dal disorientamento ideologico quanto dall’altissimo tasso di dissonanza cognitiva che cominciava a serpeggiare nelle quotidianità anche più caserecce delle nuove società iperconnesse, smart e quasi completamente digitalizzate… - Massimo Recalcati, gettando uno sguardo retrospettivo sulla figura già in pieno declino di Silvio Berlusconi si esprimeva così:
«È questo eccesso pulsionale ciò che ha affascinato materialisticamente i suoi elettori. È il cardine di una nuova psicologia delle masse. Significa – e questo è ciò che ha dato al berlusconismo la sua forza specifica – affermare un desiderio privo di legge, dunque un desiderio che sconfina in un godimento illimitato che per la psicanalisi è il godimento incestuoso. Per questo l’appellativo ‘papi’ è rivelatore di una tendenza perversa intrinseca al berlusconismo come fenomeno culturale. Il padre non è più simbolo della Legge ma della sua continua trasgressione interna» (2013, p. 57).
L’agile libretto da cui è tratto questo passo, un’intervista in cui al più celebre tra gli psicanalisti lacaniani d’Italia l’editore-giornalista-scrittore Raimo chiedeva - non senza una certa qual dose di sacrale soggezione… - illuminanti e innovative analisi psicopolitiche del contemporaneo, si prospettava già dal titolo come un’operazione editoriale ben pesata, una vera e propria pubblicazione strategica: Patria senza Padri. Psicopatologia della politica italiana.
L’equazione Evaporazione del nome del padre = disagio della civiltà postmoderna alla quale il titolo alludeva, e alla quale ci siamo ormai abituati, ha funzionato infatti per anni come un mantra ed è stata riproposta dal suo gonfaloniere a più riprese e, senza grandi variazioni, nei contesti più disparati. Come i concetti di liquidità o di Nuovo Realismo proposti da Baumann e Ferraris, anche quello di Evaporazione-del-nome-del-Padre è stato al centro di un intenso dibattito (benché meno filosofico che giornalistico, più popolare che intellettualmente raffinato) che ha animato fiere del libro, salotti televisivi, festival della filosofia ed eventi culturali di ogni sorta. Al prezzo di ridurre la complessità intrinseca a materie quali la sociologia, la filosofia e la psicanalisi e correndo il rischio di lasciar scomparire l’identità stessa di queste discipline, il loro vero valore, dietro la bidimensionalità e la superficialità imposte dal “discorso pubblico” e dal senso comune, questi tre esempi ci illustrano chiaramente quali sono le difficoltà che incontrano la divulgazione e l’esportazione di modelli cognitivi “alti”, sofisticati o più semplicemente “tecnici”, in contesti in cui occorre (oltre che vendere più libri possibile…) accattivarsi l’interesse di un pubblico alla ricerca di facili e accomodanti risposte che sollevino da quell’oneroso e sfibrante compito che è il pensare, magari in modo critico, magari in modo autonomo.
Nell’equivalenza concettuale Evaporazione del nome del padre = disagio della civiltà postmoderna proposta da Recalcati, infatti, ciò che più colpisce è l’innegabile semplificazione alla quale è sottoposta la realtà (sia questa sociale, psichica, politica o storica), nonché la paradossale e quasi contradditoria via d’uscita politica che lo stesso Recalcati ha suggerito, per anni, quale soluzione allo stallo ingenerato dalla scomparsa della funzione simbolica incarnata dai padri, ovvero… il recupero della funzione simbolica incarnata dai padri. Come si legge nello stesso testo, infatti:
«Nell’epoca in cui il nome del padre evapora, affinché resti qualcosa del padre, affinché qualcosa del padre sopravviva, è necessario che ci sia una sua reincarnazione singolare. È solo questa incarnazione che può far esistere di nuovo il valore del nome. Questo per me è il passaggio centrale. E ha una forte risonanza politica. Per riabilitare la dimensione simbolica della politica, oggi completamente screditata, c’è bisogno di testimonianza. Il valore della politica non è più garantito ideologicamente dalla forza delle tradizioni, dalla autorevolezza simbolica dei partiti. Per riabilitare la politica non serve il nome ma l’atto. Come accade per il padre della Strada. Testimonianza di come un padre sperduto in un mondo senza Dio sia riuscito a sopravvivere e a non impazzire o suicidarsi. Questa testimonianza può essere la condizione attraverso cui rendere possibile l’evocazione del Nome del Padre. Non dall’alto, ma dal basso» (p. 113).
I brani sopracitati, lungi dal costituire un’estemporanea presa di posizione del loro autore, hanno assunto nel tempo un valore esemplare e a dir poco paradigmatico nella misura in cui riassumono, stilizzandola, quella che è stata la tendenza più in voga adottata, almeno in Italia, dalla letteratura critica di stampo psicanalitico nell’ultimo decennio.
Ora: è anche e soprattutto alla luce di ciò che è incorso all’interno di questo contesto, quello della letteratura psicoanalitica e filosofica mainstream, che una pubblicazione come Inattualità della psicanalisi. L’analista e i nuovi domandanti (Poiesis, Bari 2019, pp. 2014), l’ultima fatica editoriale di Franco Lolli, assume la sua peculiare pertinenza e acquista la sua giusta rilevanza. Ma dall’opera, che almeno nella sua prima sezione si prospetta come un vero e proprio tentativo di sottrarre al parallelismo Evaporazione del nome del padre = disagio della civiltà postmoderna il primato eziologico che vi attribuiscono molti psicanalisti contemporanei, traspaiono anche tanto l’esigenza quanto un intenso sforzo di revisione, di aggiornamento della pratica psicanalitica e di alcuni suoi presupposti dottrinali. Il libro consiste infatti nell’elaborazione di una questione assai complessa, che l’autore, forse, ricapitolerebbe così: «l’estensione dell’applicazione della psicanalisi e le mutazioni socioculturali intervenute negli ultimi decenni impongono una riconsiderazione profonda della tecnica che sia in grado di trattare domande diverse da quelle in risposta alle quali la psicoanalisi è nata» (p. 58). Seguendo la scansione tripartita del testo cecheremo di evidenziare sinteticamente sia le critiche al paradigma recalcatiano sia le istanze di stringente attualità (anche se paradossalmente inattuali…) sollevate da Lolli nel suo accattivante e assolutamente necessario nuovo libro.
Nella prima sezione l’autore, seguendo la ricerca di Zafiropoulos (2019), rileva l’influenza esercitata dalle letture di Bachofen, Durkheim e Horkheimer sul giovane Lacan. Questi, poco più che trentenne, azzardava con la formula “declino sociale dell’imago paterna” un’interessante diagnosi psicopolitica o psicosociale riguardante una mutazione antropologica che all’epoca, agli inizi del Novecento, giungeva a compimento ma che storicamente si innerva nei meandri della modernità. Con “declino sociale dell’imago paterna” Lacan indicava infatti quel precipitato di eventi di lunga durata come la rivoluzione industriale, la rivoluzione scientifica e il conseguente discredito subito dai monoteismi. La formula, quanto mai icastica, individuava una mutazione di non poco conto, quella tra famiglia patriarcale famiglia coniugale:
«Ad entrare in crisi è stata la declinazione storico-immaginaria della funzione paterna (l’organizzazione che le religioni monoteistiche hanno consolidato), non la funzione cosiddetta paterna in quanto tale, da considerarsi, al contrario, la condizione indispensabile al processo costitutivo del soggetto» (Lolli 2019, p. 16).
La presunta eclissi, il tramonto della funzione paterna (che produrrebbe da una parte un’ipertrofia di godimento, una circolazione incontrollata e diffusa di frivoli piaceri a buon mercato e, dall’altra, la scomparsa del desiderio e della progettualità quali possibilità di dare senso a un’esistenza altrimenti impantanata nelle paludi dell’edonismo) non è quindi una diagnosi completamente fuorviante. Vi è del vero, e al netto delle semplificazioni che una tale tesi è stata costretta a subire per poter circolare tra il grande pubblico. Occorre semmai, secondo Lolli, ridimensionare la portata e stemperare il lirismo che ammanta questa efficace formulazione del giovane Lacan.
Occorre, precisamente, distinguere tra quelle che sono le condizioni trascendentali del desiderio, di cui la funzione simbolica incarnata dall’ordinamento patriarcale non è che un esempio storicamente determinato, e le incarnazioni empiriche, appunto, di queste stesse condizioni. Sul primo versante il Lacan più maturo, che ha filtrato la lezione di Levi Strauss e di Saussure, individua la forza propria del significante, il potere generatore e antropopoietico del linguaggio mentre sull’altro polo, al contrario, localizza il ruolo simbolico occupato del genitore, dalla figura parentale materiale e contingente che si trova (molto spesso senza esserne addirittura consapevole…) a occupare lo spazio che è quello del garante formale dell’ordine simbolico. La paternità, dunque, non ha mai coinciso e non è mai stata sovrapposta, per Lacan, all’ordine simbolico (come sembrerebbe dire Recalcati) e i padri, lungi dal costituirsi come gli agenti diretti dello stesso, i suoi facenti funzione, non sono mai stati concepiti come nient’altro che dei presta nome.
Attraverso questo movimento di riconfigurazione e di chiarificazione della terminologia tecnica Lolli ci invita allora a valutare a pieno quella che è la portata della scoperta freudiana ovvero ci invita a rintracciare, al netto delle dinamiche storiche che determinano di volta in volta l’emergenza di nuove morfologie soggettive e identitarie, la dimensione strutturale che si muove carsicamente al di sotto della superficie dei fenomeni. Freud, infatti, ha scoperto che l’uomo, per far sussistere quel progetto millenario che va sotto il nome di “civiltà” (quella Kultur di cui la psicanalisi definisce il costo di produzione nei termini dell’Unbehagen, del disagio), ovvero al fine di porre in essere un ordine, un qualsivoglia assetto civile, ha bisogno di rinunciare al soddisfacimento pulsionale:
«La rinuncia pulsionale non è un’esperienza che l’umano possa evitare: essa è imposta dall’operatività del significante come dato ineluttabile dell’antropogenesi. Il soggetto si genera da tale originaria azione, inevitabile e indifferente ai contenuti socioculturali che il discorso vigente promuove. Il cambiamento delle ‘figure’ dell’Altro (cambiamento che in alcune epoche storiche si rende particolarmente evidente) non deve, in altre parole, indurre ingannevolmente a pensare che la sua funzione di regolazione del godimento possa essere cancellata» (p. 23).
La “rinuncia pulsionale” e la perdita di godimento (o più semplicemente tutto quello che passa sotto il nome di “castrazione”) sono allora la conditio sine qua non sia della civiltà che del suo disagio e indicano l’orizzonte concettuale di ogni analisi critica delle realtà sociali, politiche e soggettive che vogliano fondare i propri presupposti sulla psicanalisi freudiana. Le teorie dei “declinisti” (l’appellativo usato da Lolli per definire chi attribuisce al declino dell’immagine paterna la causazione del nuovo disagio psichico), per contro, sembrano focalizzare l’attenzione su di un aspetto marginale e più che altro formale della questione. Queste teorie, in altre parole, sembrano da una parte rimuovere la persistenza eterna, ubiquitaria, strutturale e per certi versi anch’essa inattuale del disagio, della sofferenza umana. Da un’altra parte, inoltre, le teorie decliniste paiono strumentalizzare questo stesso disagio in modo da far leva su di una tendenza che, nell’epoca del tramonto del simbolico e dell’estensione assoluta del dominio tecnologico sulla comunicazione, mira alla resurrezione di un discorso conservatore, revanscista e tradizionalista. E questo, ovviamente, al netto di quelle dinamiche storicamente determinate e variabili che regolano la patogenesi e le mutazioni morfologiche dei sintomi psichici, in ottemperanza alla distinzione sopracitata tra condizioni trascendentali del desiderio e incarnazioni empiriche di queste stesse condizioni. Su questo tema Lolli tornerà nella terza parte del libro.
Per ora ci basti notare che, una volta gettata luce sulle vicissitudini storico-filologiche del concetto di “declino sociale dell’imago paterna”, risulta più chiaro come la riproposizione post-moderna di questa categoria critico-diagnostica forgiata negli anni trenta del secolo scorso figuri più come una grossolana semplificazione che come una rivoluzionaria e geniale trovata sociopsicologica. Il mantra Evaporazione-del-nome-del-Padre=disagio della civiltà postmoderna, che è stato ripetuto fino allo sfinimento e che in un certo senso ha funzionato più come un martello che come una chiave di lettura filosofico-politica, avrà sicuramente facilitato l’individuazione di alcune tendenze insite alla realtà Italiana di inizio millennio e avrà favorito la comprensione (almeno quella cronachistica) di processi che sarebbero stati altrimenti difficilmente rendicontabili (non da ultimo i capricci di un anziano signore che si trovava a occupare, in quel momento, il ruolo di leader politico, di padre dell’orda…), ma non soddisfa di certo quei criteri che ne farebbero lo strumento-chiave per produrre una cosiddetta “diagnosi epocale”.
Nella seconda sezione (pp. 59-42) Lolli compie un’operazione di ricerca storico-filologica che non ha precedenti nella letteratura che riguarda Lacan. Grazie a un lento e faticoso lavoro archivistico di dissodamento e di certosina ricerca filologica qui Lolli ci consegna finalmente, per la prima volta, un elenco ragionato ed esaustivo di tutte le occorrenze incontrate dal termine “analista” lungo l’intero arco del Seminario. La ricerca merita un’attenzione particolare anche perché attinge, oltre che alle trascrizioni di Miller, ai seminari non pubblicati neanche in francese e reperibili solo on-line, seminari di cui esistono solo annotazioni dattiloscritte, appunti e registrazioni audio. Ogni occorrenza è opportunamente contestualizzata e analizzata e tutta questa seconda sezione va letta come un’esplorazione approfondita dell’intero spettro di significato che si dipana, per Lacan, attorno al significante “analista”.
Riproduco qui l’intero elenco degli epiteti reperiti da Lolli e che Lacan ha evocato per rendere conto della professione che ha praticato per tutta la vita, riservandomi di rimandare il lettore al ricco commento proposto in Inattualità della psicanalisi: analista feccia, Pantagruele, saint homme, fuoco fatuo, analista diviso, traumatico, posto vuoto, soggetto-supposto-sapere, dupe, ignorante, ingannatore, sarto, analista-taglio, sofista, specchio opaco, tecnico, facente funzione, analista-nel-gioco-significante, impostore, retore, ostetrico, ipnotizzato, analista-Verleugnung, analista dell’amore, Tiresia, analista-oggetto-a, sembiante, capro espiatorio, destituito, segretario, analista-nodo, analista ultimo-arrivato.
Ebbene, senza voler riassumere la varietà e l’eterogeneità di una figura proteiforme come quella dell’analista ci basti ricordare, qui, del grande insegnamento metafisico ed epistemologico che traspare dalla lezione di Lacan relativo allo statuto ontologico della sua “figura professionale”. Egli, infatti, con il suo fare da flâneur incallito, attraverso le sue pindariche digressioni e i suoi calembour, forte di un nozionismo sconfinato che elargisce al suo uditorio e ai suoi lettori come si trattasse di caramelle o di canditi e assolutamente preoccupato di farsi intendere (anche se, ça va sans dire, non da tutti…) fin nella più improbabile delle sue intuizioni, ha incarnato un modello certamente problematico e difficilmente replicabile di analista. Questo è fuor di dubbio. Sarebbe pura follia pretendere che tutti gli psicoanalisti si conformassero al suo stile anche perché, a dirla tutta, è uno stile un po' troppo ricercato, barocco, e alla lunga può risultare stucchevole. Altra cosa, però, è cercare di mimare con flemma professorale, moraleggiante e con toni decisamente paternalistici la postura cangiante e le movenze ardite di Lacan. Da parte sua, inoltre, questi non ha mai dato consigli su come vivere, non ha mai istruito le masse in merito a cosa sia più o meno giusto votare alle urne (non ha mai osato accusare gli avversari politici, per esempio, di esser nevrotici per il solo fatto di voler votare “No” a un referendum…) e le poche volte che si è presentato in televisione lo ha fatto per il gusto di non farsi capire…o meglio: per suscitare il gusto dell’incomprensibile. Imperniare l’esperienza analitica su quanto vi sia di indecifrabile, di muto, di inerte e di privo di senso: è questa semmai la più grande lezione che la filosofia e la cultura tout court possono trarre da quella pseudo-scienza, o da quella fanta-scienza, che è in realtà la psicanalisi. Il ruolo dello psicanalista di conseguenza non può che essere definito, diretto e limitato da questo paradossale interdetto. Come afferma Lolli, allora:
«Ogni sapere esibito dall’analista che intende spiegare la ‘sostanza’ delle cose umane diventa […] una farsa che magari, come capita di osservare frequentemente, riscontra favori e riscontri positivi (nell’immediatezza e nelle reazioni emotive che una sua presentazione charmant è in grado di generare) ma che, a lungo termine, non può che avere degli effetti di svalutazione della psicanalisi. Non solo: la riduzione della psicanalisi a ‘sapere dell’uomo’ ne decreta irreversibilmente la fine. Una disciplina che pensa di poter spiegare l’uomo infatti ha cessato di interrogarsi e dimostra, in questo modo, di essere giunta al capolinea della sua evoluzione (teorica e storica)» (p. 140).
Come a dire: dimenticarsi della lezione epistemologica di Lacan equivale automaticamente a esporsi all’accusa di voler occupare il posto del guru, del mâitre à penser (ovvero del maestro dietro la cui figura, spesso, si nasconde quella dell’ammaestratore) e, di conseguenza, di svilire la professione di psicanalista nella misura in cui si disattende ai suoi principi dottrinali.Un rischio, questo, che dovrebbe risuonare alle orecchie di quanti, all’interno della più che nutrita tribù dei filosofi e degli psicanalisti attualmente in auge, fanno leva sul proprio ascendente carismatico e sul fascinum intellettuale con il malcelato intento imbonirsi e infatuare intere platee, amalgami indistinti di telespettatori ed elettorato, in un gioco perverso di specchi, riflessi di fantasmi identitari e identificazioni paterne. Lacan (così come Heidegger, Freud e Sartre, per dirne alcuni…) ha esplicitato meglio di chiunque altro che non c’è nulla da dire, di sostanziale, in merito tutto ciò che l’uomo reputi essenziale per sé stesso, quindi: perché ergersi a maestri di verità e di vita se non per godere del godimento del mâitre?
Tali elucubrazioni trovano nella terza parte (pp. 143-190) del volume di Lolli un’ampia e originale elaborazione. L’ultima sezione, infatti, è dedicata all’annosa questione di come aggiornare la tecnica e la teoria psicanalitiche o, per dirla in altro modo, di cosa significhi essere uno psicanalista oggi. Una considerazione che può valere da banale premessa a questo problema potrebbe essere quella relativa ai mutamenti culturali e antropologici intercorsi tra l’epoca in cui si consuma l’invenzione freudiana dell’inconscio e lo stato attuale delle cose. Mutazioni di ordine economico, politico e storico non indifferenti come l’affermazione del consumismo come sistema etico e la riforma della morale influenzata dall’ormai ubiquitario modello neoliberale hanno infatti mutato, giocoforza, le condizioni materiali in cui l’inconscio si manifesta. Ma anche l’esistenza e il successo stessi della psicanalisi (ovvero la libera circolazione di un discorso critico-analitico che esplora la dimensione pulsionale e che mira a disambiguare l’opacità che si condensa attorno al nucleo scabroso, abietto e perturbante dell’umano) hanno contribuito, e non di poco, alla metamorfosi ontologica del sociale tuttora in atto.
D’altronde già J. A. Miller, durante il quarto Congresso dell’AMP svoltosi a Comandatuba, nel 2004, registrava non senza stupore le trasformazioni che un secolo di psicanalisi hanno impresso nella società e nella cultura contemporanee. Quasi come a voler suggerire l’idea di un effetto quantistico tale per cui la posizione dell’osservatore finisce con il mutare la natura, la struttura dell’oggetto osservato, l’erede di Lacan affermava:
«La psicoanalisi è stata inventata per rispondere a un disagio nella civiltà, a un disagio del soggetto immerso in una civiltà, che potremmo enunciare così: per far esistere il rapporto sessuale, si deve trattenere, inibire, rimuovere il godimento. La pratica freudiana ha aperto la via a quella che si manifestava – metteteci tutte le virgolette che volete – come una liberazione del godimento. […]. La pratica lacaniana, dal canto suo, ha a che fare con le conseguenze di questo successo sensazionale; conseguenze che sono sentite come dell’ordine della catastrofe. La dittatura del più-di-godere devasta la natura, fa scoppiare il matrimonio, disperde la famiglia e rimaneggia il corpo» (2006, p. 27).
È su questo stesso solco che sembra muoversi Lolli. Più che di evaporazione-del-Padre, infatti, sembra che l’autore suggerisca che dai nuovi casi psicopatologici traspaia una vera e propria evaporazione-dell’Io, una sorta di sua regressione generalizzata a quella fase detta “dello specchio” che qualifica tanto il funzionamento della mente psicotica quanto quello, per certi versi, della mente infantile. La psiche in via di sviluppo, infatti, condivide con quella psicotica l’assenza di solidi punti di riferimento simbolici, l’assenza di stabili identificazioni dell’io. In un contesto del genere non è di certo il padre a essere causa, in quanto assente o evaporato, dello sfaldarsi dell’universo simbolico e dello sfibrarsi della tenuta sociale garantita da saldi punti di riferimento. Più che di “declino sociale dell’imago paterna”, forse, converrebbe allora porre l’accento, per quanto riguarda l’eziopatogenesi delle psicopatologie contemporanee, sulle trasformazioni tecnologiche o sullo strapotere esercitato dagli oggetti – dalla fascinazione per lathousa, se volessimo parlare in lacanese. Ciò che qualifica la condizione sociale contemporanea è infatti probabilmente più simile a una sorta psicosi collettiva, una specie di schizofrenia che va a braccetto con le dinamiche di sfruttamento, iper-consumo e iper-produzione come preconizzato da Deleuze e Guattari in quegli stessi, ruggenti anni in cui Lacan teneva il suo seminario. Ma si tratta di una deriva che, se concepita al netto della retorica rivoluzionaria e neanche troppo velatamente celebrativa della quale i due filosofi sopracitati hanno sempre ammantato la psicosi, può essere intesa come un grande processo di infantilizzazione su larga scala, di regressione generalizzata, che elicita quella dimensione ancestrale e neotenica dell’uomo da intendersi quale vera e propria condizione trascendentale dello psichismo. D’altronde Freud e Lacan hanno ripetuto instancabilmente che “Il bambino è il padre dell’uomo” (anche se la citazione è tratta da The rainbow, una poesia di W. Wordsworth). Sembra proprio che sia a partire da qui, allora, che Lolli ci invita a riconsiderare il rapporto che intercorre tra attualità e inattualità della psicanalisi, tra sintomo e struttura del disturbo psichico:
«Quelli che vengono considerati nuovi sintomi sono, in realtà, forme “aggiornate” alle dinamiche storiche contemporanee del medesimo meccanismo. Basta grattare l’involucro del sintomo per vedere apparire, al di sotto della superficie fenomenica, la questione che inquieta l’essere umano da sempre: come conciliare l’esigenza di soddisfazione personale del proprio desiderio (sostenuta – ed è questa la peculiarità che possiamo rinvenire nell’attualità – dall’enunciato del discorso sociale) con le richieste alla rinuncia della piena soddisfazione (sulla quali l’economia capitalistica si regge, per rinnovare infinitamente il circuito di produzione della merce da cui dipende)» (p. 152).
E di qui sorge infine una duplice necessità. Anzitutto occorre aggiornare la pratica psicoanalitica ai nuovi bisogni insorti negli ultimi decenni, bisogni che Freud non poteva assolutamente prevedere. Lolli definisce “Psicanalisi applicata” questo nuovo modo, più attivo e in un certo senso più “interventista”, di condurre la cura. L’analista, per esempio, ora non riceve solamente ma induce la domanda d’analisi in soggetti che, seppur bisognosi, si rifiutano di formulare una richiesta di aiuto. Ma il nuovo analista è anche chiamato ad assume una postura più elastica e non è più costretto nella sua posizione di ricettore imperturbabile dei patemi dell’analizzante: egli partecipa attivamente alla discussione (laddove la psicoanalisi, a differenza di altre strategie terapeutiche, prevede appunto un suo ritiro, una sorta di sua scomparsa) ed è anche a chiamato a farsi carico della costruzione del transfert e del rinforzo dell’Io, indebolito dalla difficoltà che i nuovi analizzanti (i nuovi “domandanti”, come li chiama Lolli) riscontrano, come abbiamo visto, al livello delle possibili identificazioni offerte dai contesti culturali privi di saldi basamenti simbolici. Anche la mutazione del setting, degli orari e della cadenza delle sedute necessitata dalla nuova scansione del tempo imposta dai ritmi produttivi delle società post-industriali è un’altra trasformazione necessaria, così come lo è la necessità di istituire la seduta come luogo di un sapere possibile, valorizzabile, e non come un semplice “muro del pianto”. La professione praticata da Lolli e da ogni psicanalista permette, in breve, di registrare una sorta di atrofizzazione o di occlusione su larga scala delle potenzialità comunemente attribuite al linguaggio, alla comunicazione e al capire. E va da sé che, se è conclamato che l’efficacia e la tenuta dottrinale della talking cure risentono di tali mutazioni antropologiche, gli psicanalisti siano costretti ad aggiornare il loro strumentario e le loro tecniche di intervento.
La seconda necessità che emerge dalla mutazione antropologica in corso, invece, è relativa al versante opposto a questo, più avanguardista e progressista, e concerne la fedeltà ai testi fondativi, al “testamento spirituale” di Freud e alle fondamenta teoretico – epistemiche della dottrina psicanalitica. In una sorta di movimento enantiodromico, infatti, Lolli accosta alla necessità di una riforma della psicanalisi quella di istituire e di rinforzare la continuità con la tradizione. L’accento qui è posto sulla difesa della centralità della sessualità nella patogenesi del sintomo, sull’esistenza di ciò che Freud ha definito Unbewusstein (un sapere, lacanianamente strutturato come un linguaggio, che è posseduto dal soggetto ma del quale l’Io non è al corrente), sul potere terapeutico del Transfert e sull’importanza capitale da attribuire a Thanatos, ovvero alla pulsione di morte. Tutti questi elementi, infatti, definiscono il nucleo concettuale del lascito freudiano e animano la prorompente forza euristica che caratterizza l’analisi dell’inconscio classicamente intesa.
Solo grazie all’appiglio sicuro garantito da questi punti saldi è possibile, infatti, rilanciare la partita terapeutica ed euristica della psicanalisi – e solo grazie alla reiterazione di un gesto inattuale qual è quello del “ritorno a Freud” promosso da Lacan, sembra dire Lolli, è allora possibile rendere attuale quel discorso che mira al fondo oscuro, indecifrabile e opaco del soggetto parlante e che si cura solo della singolarità, dell’eccezione e della verità di ognuno, della verità dell’uno-per-uno:
«L’analista inattuale non vede nella condizione psicopatologica di chi riceve le conseguenze del declino del padre, dell’assenza del limite, dell’educazione permissiva o della scomparsa dell’autorità. Egli vede, piuttosto, un soggetto alle prese con il compito che impegna qualunque essere umano. Con la differenza che, nella specificità dell’epoca storica nella quale l’incontro si svolge, il compito di trovare un accordo possibile tra le esigenze pulsionali e le esigenze della civiltà è reso più complicato dall’inganno fondamentale che sostiene il regime consumistico-capitalistico. Il quale, nella logica perversa che lo contraddistingue, autorizza il cittadino a pretendere il massimo della soddisfazione (affermandone l’assoluto diritto) e, contemporaneamente, progetta e applica programmi di frustrazione del desiderio stesso, necessari alla macchina produttiva affinché la domanda di consumo non cessi mai» (p. 188).
Che cosa è il Sesso? (trad. di P. Bianchi, Ponte alle Grazie, Genova 2018), ultima opera della filosofa slovena Alenka Zupančič, già autrice di lavori su Kant, Nietzche e Lacan, è un testo che raccoglie anni di riflessione sulla psicoanalisi freudo-lacaniana e che si pone la sfida di affrontare la sessualità come una questione intimamente ontologica. Lo scopo di Zupančič non è però quello di “recuperare” la psicoanalisi di Freud e Lacan e dare a essa uno statuto ontologico che nobiliti la disciplina psicoanalitica (che sicuramente ha sempre subito accuse di pseudoscientificità e determinismo sessuale). Quello di Zupančič non è neanche (o non solo) un tentativo di rispondere alle domande della filosofia con la psicoanalisi né una sua difesa acritica; anzi, la posizione della filosofa slovena è conflittuale anche internamente al discorso psicoanalitico, portando al centro una delle questioni che sono state problematiche sin dagli esordi freudiani – appunto, la sessualità. Il sesso di cui ci parla Zupančič non è semplicemente l’insieme di pratiche sessuali, a cui fornire uno statuto ontologico maneggevole che ci risollevi immaginariamente dagli imbarazzi e angosce che questa dimensione ha scatenato nel tempo; piuttosto la filosofa vuole andare a svelare quanto il sesso sia proprio quella faglia o mancanza strutturale che permette al soggetto di diventare tale. Il sesso protagonista di questo libro non è una presunta naturalità che dovremmo accettare, ma è esattamente quella dimensione “disontologica” e “disorientante” che fa che sì che emerga un soggetto e, quindi, un inconscio.
Santa Lucia di Domenico Beccafumi, utilizzato dall’autrice nel testo per mostrare la perversione della pulsione nel cristianesimo
Non è un caso, infatti – e Zupančič lo sottolinea continuamente nel testo – che Freud abbia sempre così insistito sulla centralità del Sesso nella psicoanalisi e che i suoi primi allievi, come Jung e Adler, abbiano sempre e sistematicamente reagito su questo punto. Ancora oggi la questione della sessualità rimane problematica e fa spesso da confine fra le varie correnti psicoanalitiche. André Green, nel 1995, pone una domanda apparentemente banale per la disciplina: “la sessualità ha ancora a che fare con la psicoanalisi?”. La questione, difatti, non è scontata: se in Europa (soprattutto in Francia) le nozioni di sessualità e pulsione avevano continuato a godere di un certo successo, oltreoceano invece la psicoanalisi aveva fatto vertere la propria pratica e la teoria verso concetti come quello di Sé e di Relazione. A dare ulteriore conferma del rapporto problematico della psicoanalisi con la sessualità, è una ricerca di Shalev e Yerushalmi (2009), ripresa anche da Zupančič, dove gli autori intervistano 10 psicoanalisti riguardo la tematica della sessualità in psicoterapia: ne emerge una generale e diffusa rimozione, e addirittura imbarazzo da buona parte dei clinici. La primigenia scoperta di Freud, la sessualità, piuttosto che essere l’elemento unificante delle varie divisioni e diaspore psicoanalitiche, è proprio il seme della discordia.
La domanda “Che cosa è il sesso?” – che, come abbiamo visto, è problematica anche per la stessa psicoanalisi – diventa il fil rouge per affrontare in maniera inedita e “rumorosa” domande classiche dell’ontologia. Non è senza peso che Freud, che aveva sempre cercato di tenersi distante dai riferimenti filosofici, in Endliche und Unendliche Analyse (1937) abbia riconosciuto proprio alla sessualità (come alla questione della pulsione di morte) un’origine filosofica nel dualismo empedocleo fra Eros e Neikos, che, sempre secondo Freud, avrebbe lavorato come criptomnesia inconscia. Ma in che misura il sesso (o meglio, l’interrogazione continua su quel punto di frattura e di inciampo che è il sesso) può funzionare come vettore nella lettura dei problemi dell’ontologia, del soggetto e della politica contemporanei? Non si tratta di ribadire, per Zupančič, semplicemente che il sesso c’è e che nasconderebbe in Sé quel senso e quella verità che tanto gli esseri umani si affannerebbero a cercare. Su questo la filosofa è chiara: il sesso non è “l’ultimo orizzonte del senso e della realtà”, qualcosa che semplicemente si può ritrovare dopo aver grattato la patina delle apparenze, eppure il Sesso è qualcosa di Reale. Ma questo Reale, ricavato dalle elaborazioni di Lacan, su cui tanto insiste Zupančič, non è la realtà dei filosofi, un orizzonte ontologico-epistemologico neutro e quasi rassicurante, piuttosto il Reale è, della realtà, quel nocciolo che resiste a ogni forma di simbolizzazione e ontologizzazione. Il Reale è esattamente ciò che viene tagliato fuori dall’Essere-in-quanto-essere perché sia possibile descriverlo e parlarne, e allo stesso tempo è quella dimensione che curva lo spazio ontologico dell’Essere. Non è un caso che sia Lacan sia Zupančič insistano tanto sulla sessualità di questo Reale, ed è l’inconscio il concetto che permette loro di giustificare questa insistenza. L’inconscio sessuale non è luogo di rimozione di un’istintività animale che “farebbe ritorno” in maniera disturbante, ma piuttosto un gap, un buco strutturale nel soggetto, che lo frattura dall’interno. Questo buco o negatività non è semplicemente un’assenza o uno zero, ma una quantità negativa (di eredità kantiana), inassimilabile e disgregante che funziona come luogo di emergenza del soggetto. Una crepa non è un niente, anzi conta spesso più dei muri, e il sesso è esattamente la crepa che divide i soggetti internamente. È in questo senso che la ripresa delle tavole della sessuazione lacaniana non serve a reiterare la formula della differenza sessuale, bensì a mostrare come essa lavori come operatore simbolico, tagliando il soggetto da dentro, piuttosto che dividendo i soggetti in due sessi o generi determinati fra di loro da un fantasmagorico rapporto sessuale (che non c’è). La sessualità, l’inconscio, il godimento e il Reale sono tutti nomi di ciò in cui il soggetto cartesiano inciampa svelando la frattura che lo domina dall’interno. Zupančič , riprendendo la questione lasciata aperta da Lacan (1973) nel Seminario XI su una sua possibile (para)-ontologia, in cui vi sarebbe una schisi fra l’Essere e il suo Reale, contribuisce a radicalizzare, anche in risposta ai progetti delle Object-Oriented Ontologies, nelle quali il soggetto tende a confondersi neutralmente con gli oggetti in una sorta di democrazia ontologica, l’immagine di un’ontologia dis-orientata agli oggetti, dove, invece, il soggetto continua a essere la frattura e l’alienazione scritta nel tessuto della realtà. Ed è proprio uno dei concetti fondamentali della psicoanalisi, la pulsione, a permettere la costruzione di una topologia del soggetto estimo, in cui i confini fra interiorità e esteriorità si deformano e l’oggetto (il famoso oggetto piccolo a lacaniano) si incista dentro il soggetto. Certo, parlare di pulsioni significa anche riportare all’attenzione antagonismi e conflitti rimossi o appiattiti in seno ai discorsi contemporanei.
Francis Bacon, Lying Figure
Si può dire che ciò che pone le basi del progetto (dis)ontologico di Zupančič sia proprio questa nozione di pulsione. Infatti, Zupančič riprende e rianalizza il Trieb freudiano, le cui vicissitudini di significante lo hanno portato ad essere tradotto e rinaturalizzato come istinto. Invece, ciò su cui insiste, a ragione, la filosofa slovena, è proprio l’innaturalità della pulsione, che poco ha a che fare con eventuali istinti biologico-riproduttivi: essa si produce piuttosto come scarto di godimento nel lavoro del corpo, eccedenza che ritorna sul soggetto, lavorando sui suoi bordi. E non è un caso che Zupančič riprenda quella sezione del Seminario XI dove Lacan parla della pulsione come “farsi vedere”, “farsi cacare”, “farsi masturbare”: pulsione è ritorno del godimento del soggetto, nelle parole di Freud “una bocca che si bacia da sola”. Nel bambino attaccarsi al seno non è semplicemente la soddisfazione di un istinto dell’ordine del nutrimento, ma si produce un resto di godimento, un’eccedenza “libera” nel neo-soggetto. Certo, come dice la filosofa, “con la soddisfazione in eccesso non si può ancora parlare di pulsione” (p. 156) ma è necessario che la soddisfazione inizi “a funzionare, allo stesso tempo, come incarnazione oggettiva […] del negativo e come gap implicito nell’edificio significante dell’essere” (p. 157). Allora la pulsione è proprio il rappresentante di questo negativo interno al soggetto, ne diviene la figura (dis)ontologica centrale. La pulsione è per definizione parziale e frammentaria: non ha un Eden perduto verso il quale tornare né una “teleologia” pulsionale. Non esiste, dunque, un carattere genitale maturo a cui il soggetto dovrebbe tendere. L’impasto pulsionale è sempre un azzardo, un incastro sregolato e polimorfo: “se c’è qualcosa cui la pulsione assomiglia, è a un montaggio” (Lacan, 1973 p. 172). Non c’è sessualità né desiderio normale (ma al massimo normalizzabile) proprio perché queste dimensioni non hanno una forma precisa alle quali le pulsioni si dovrebbero adattare. L’incastro è sempre necessariamente contingente, idiosincratico. E proprio a partire da questa ripresa della pulsione, Zupančič apre una possibilità (psicoanalitica) di ricucire la ferita aperta fra i queer studies e la psicoanalisi, mostrando il volto “anarchico” e “polimorfo” delle pulsioni e cercando di sollevare la psicoanalisi da quella posizione “normalizzatrice” di cui spesso è stata accusata (e di cui di fatto è stata responsabile in molti casi).
Altro merito della filosofa è quello che, seguendo il percorso della pulsione sessuale, fra Freud, Lacan e Deleuze, viene ritrovata la tanto temuta pulsione di morte. Come sostiene Lacan stesso: “Come stupirsi che il suo termine ultimo sia la morte? Poiché la presenza del sesso nel vivente è legata alla morte” (Lacan, 1973 p. 180). L’essere umano non è la lamella lacaniana, il mitico essere scissiparo e immortale: per noi la condizione della divisione sessuata implica la morte del soggetto individuale. L’equazione è questa: dove il soggetto è sessuato, significa che il soggetto deve morire. Allora, di nuovo con un gioco topologico, una condensazione si verifica: cercando il sesso sul nastro di Möbius, questo viene incontrato nel luogo della morte. Non solo, la pulsione di morte, primaria rispetto al brulichio delle pulsioni sessuali ci appare proprio come quell’incrinatura, quella contraddizione, “singolarità unificante” dalla quale le pulsioni emergono e alla quale ritornano: “Presa a questo livello, la sessualità è davvero sinonimo di pulsione di morte e non è un suo opposto come Eros con Thanatos.” (p. 176)
Se il lavoro di Zupančič è proprio quello di svelare filosoficamente le contraddizioni inerenti il soggetto (il sesso, la morte, l’inconscio, il Reale), allora proprio questo soggetto è “l’incarnazione oggettiva di questa contraddizione nella realtà” (p. 185). Per la filosofa incontrare la paradossalità della contraddizione non significa, però, doversi abbandonare a un atteggiamento scettico o cinico; si tratta, piuttosto, di accettare la contraddizione proprio come quel Reale accessibile al pensiero, di pensare la contraddizione, come gli stessi matemi lacaniani hanno fatto, portando la logica ai suoi punti di frattura e rendendo disponibile al pensiero, paradossalmente formalizzata, la contraddizione.
Francis Bacon, Three Studies for Figures at the Base of Crucifixion 2
What is Sex? è un libro originale, radicale e coraggioso per la forza con cui l’autrice invita a affrontare, pensare e concepire la contraddizione e il conflitto (e l’invito non è rivolto solo a filosofi e psicoanalisti, poiché la filosofa ha la capacità di sciogliere nodi intricati con battute immediatamente comprensibili). Chi volesse cercare qui una risposta alla domanda “cosa è il sesso” nel senso più rassicurante e definitivo di certo si troverebbe deluso, perché questo interrogativo diventa piuttosto l’intelaiatura di una riflessione filosofica che vuole prendere di petto tutte quelle contraddizioni, quei conflitti e quelle fratture che la psicoanalisi ha saputo riconoscere (e che, in molti casi, ha saputo anche dimenticare e rimuovere) nel soggetto, nella sessualità, nella morte, nell’inconscio e nell’ambiguità del legame sociale. In questo senso Che cosa è il Sesso? è anche un testo esplicitamente politico, che ci porta nuovamente di fronte quell’antagonismo strutturale che anima e agita la società dal suo interno, facendoci guardare con sospetto dove e quando il Rapporto (sessuale) e la Relazione sono state scritte con la R maiuscola, ponendo proporzioni “sacre” e determinate fra classi, sessi, popoli. Alenka Zupančič ci insegna a guardare con diffidenza chi istituisce questo rapporto in maniera ferrea (come i sistemi dittatoriali), ma anche chi tende a nascondere il conflitto insito nella relazione, neutralizzandolo nell’Etica. La filosofa, infatti, leggendo in chiave politica il famoso ed enigmatico detto di Lacan “non c’è rapporto sessuale”, ci restituisce l’immagine di un rapporto senza prototipo o modello ideale, ma che può sorgere, ogni volta nuovo e da ricostruire, sotto la “necessità” della contingenza, dell’idiosincrasia degli incontri fra i soggetti e nei conflitti che si generano dentro e fra i soggetti. Insomma, una prospettiva che ci fa assumere la responsabilità della contraddizione, piuttosto che negarla o rimuoverla, della frattura che ci domina da dentro e che noi incarniamo nel mondo anche in una dimensione autenticamente politica e trasformativa.
di Lorenzo Curti
Bibliografia:
Freud, S. (1937) Analisi terminabile e interminabile.Trad. it. R. Colorni. OSF Vol. XI. Torino: Bollati Boringhieri
Green, A. (1995) Has sexuality anything to do with psychoanalysis? International Journal of Psychoanalysis78: 871-883
Lacan, J (1973). Seminario: Libro XI. I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi. Trad. it. S. Loaldi e I. Molina. Torino: Einaudi, 1979
Shalev, O. & Yerushalmi, H. (2009) Status of sexuality in contemporary psychoanalytic psychotherapy as reported by therapists. Psychoanalytic Psychology, Vol. 26, No. 4, 343–361
Zupančič, A. (2018) Che cosa è il sesso?. Tr. it. P. Bianchi. Milano: Ponte alle Grazie.
“C’è sempre un motivo storico reale per la lotta sulle interpretazioni del pensiero di Marx”. La frase, presa nella sua superficiale assolutezza, suona forse un po’ apodittica; essa risente di tutto il marxismo irriflesso, e inevitabile, del suo autore. Agli occhi estranei a una concezione materialistica della storia questa affermazione potrebbe risultare in effetti problematica, per due ordini di ragioni fondamentali, che danno però il senso generale della prospettiva di fondo del testo nel quale questa frase appare: la causa strutturale, potremmo definirla, della storia delle interpretazioni marxiane, e la loro competizione pratica, ovvero la loro lotta nell’agone dialettico della storia. Al di là dell’apparente problematicità, che eventualmente riconsidereremo più avanti ma che per noi, è bene dirlo, non sussiste, queste due ragioni hanno il merito di collocare e circoscrivere con precisione l’intenzione teorica del volume Marx eretico, recentemente pubblicato per il Mulino da Carlo Galli. Esse indicano, a nostro avviso, il contesto e il confine attraverso cui poter pensare ancora Marx, e con Marx. Fare di Marx, per come esso empiricamente si presenta nella storia del pensiero, la pietra di paragone non tanto tra lui e ciò che l’ha, di volta in volta, completato, corretto, criticato, smentito più o meno parzialmente, sublimato o riscoperto (i vari marxismi del ventesimo secolo), ma piuttosto tra, semplicemente e essenzialmente, lui e il suo sistema, tra la sua integrità teorica e la sua storica incompiutezza (il motivo storico della citazione), nella consapevolezza delle quali è racchiuso il cuore pulsante della sua intima, attuale, eresia. Il termine eresia, non a caso, indica, nel suo significato etimologico, il gesto di una scelta, un’inclinazione o una proposta, congiunto all’atto pratico dell’afferrare, del cogliere; è in questo preciso senso che si può intendere il significato di ciò che abbiamo chiamato competizione pratica, in riferimento allo scontro tra le interpretazioni che di Marx si sono succedute: esse sono sostanzialmente eresie di un pensiero eretico, incompiutezze di una compiuta incompiutezza, mille modi di interpretazione per una teoria critica, che ha avuto il beffardo destino di essere eretta artificiosamente a dogmatica. Ma l’eresia, nel senso suggeritoci da Galli, non è solo successione storica di deviazioni o fraintendimenti, essa è attuale, proficuamente attuale, poiché consente a lui, e a noi, di scegliere e afferrare Marx al di là dei limiti costitutivi della lotta fra interpretazioni e dei suoi motivi storici reali, cioè di ciò che abbiamo chiamato la competizione pratica e la causa strutturale, e ciò proprio attraverso questi ultimi e alla loro potenzialità euristica: essi, da limiti interpretativi dell’interpretazione, si superano, dialetticamente, in opportunità analitica, in forza della quale una lettura del pensiero di Marx sarà sempre non solo possibile, ma anche sempre immune, almeno potenzialmente, da quella pretesa dogmatica che ogni volta l’ha minacciato e costretto: poiché è Marx stesso che ci dice che anche per lui, e non solo per tutto il marxismo fattosi legittimamente o meno suo portavoce, valgono, anche qui, di nuovo, come limiti ma anche come criteri, la storia e la lotta: la storia come condizionamento storico-sociale necessario, come basamento strutturale sottostante la teoria, la lotta come processo dialettico, (del tutto hegeliano o meno, comunque dialettico), costitutivamente aperto alla contraddizione; in una parola: il materialismo storico.
L’interpretazione, data da Galli, di Marx come pensatore intrinsecamente eretico, e della categoria di eresia come strumento ermeneutico per la sua opera, sembra collocarsi proprio su questa linea argomentativa, nella quale quella compiuta incompiutezza del sistema, quella “coerente contraddizione” viene messa in evidenza in tutte le sue potenzialità teoriche. Da un lato, infatti, egli sottolinea chiaramente, sin dall’introduzione, il presupposto “fallimentare” dell’operazione teorica, ovvero la strutturale scissione tra utopia e scienza soggiacente a tutto l’impianto concettuale di Marx, scissione che altro non sarebbe se non il riflesso nella teoria della pretesa coincidenza di pensiero e realtà, per cui «il pensiero non è una teoria da realizzare, un dover essere da imporre al reale […] ma è una logica immanente alla Cosa, che si vuole trasformare in prassi senza residui di astrazione e senza cesure» (p. 19). Dall’altro lato, nonostante e in virtù di questa “zavorra” metodologica di fondo, intende rilevare e caratterizzare ciò che, all’interno del sistema, si rivela ancora in tutta la sua cogenza e lucidità critica. Eccolo allora delineare, dapprima, il profilo di un Marx teorico del sospetto (secondo la nota definizione data da Paul Ricoeur), smascheratore e fugatore delle false verità e delle contraddizioni della società capitalistica, impegnato nell’obiettivo di «identificare il punto che spiega radicalmente l’intero processo sociale non come vuole presentarsi ma come veramente è» (p. 25), attraverso le armi riaffilate della critica dialettica (anche qui, sempre con e contro Hegel). Qui Galli sembra aderire alla contrapposizione canonica, benché agita su un piano pressoché esclusivamente filologico, tra un Marx umanista, critico della religione, dello Stato e della filosofia, e il Marx scienziato, maturo critico dell’economia politica (pag. 29), salvo poi mettere esplicitamente in chiaro che l’obiettivo fondamentale, unico, dell’analisi marxiana, in contrasto, sottolinea Galli, sia con le tendenze conciliatrici della dialettica hegeliana sia con le presunte derive nichilistiche del pensiero critico decostruttivo e negativo (p. 44), consiste nella sola determinazione della Verità come contraddizione concreta (p. 33) del reale capitalistico.
Successivamente, nel secondo e nel terzo capitolo, il tema della ricongiunzione possibile, al di là del presupposto metodologico del sospetto, tra pensiero e realtà, tra teoria e prassi, viene sviluppato illustrando quelle che Galli definisce essere le certezze epistemiche della critica marxiana; esse vanno a costituire la base dell’evoluzione teorica che conduce il Marx filosofo, innovatore della dialettica (quello, in sostanza, delle Tesi su Feuerbach), sul terreno empirico della «scienza immanente della contraddizione» (pag. 78), ovvero della critica all’economia politica classica. Queste sono ravvisate, in sequenza, nel rifiuto del materialismo tradizionale, in favore di un nuovo materialismo che colga la materialità «nella dialettica della realtà storica e sociale a partire dal basso, dal luogo in cui si genera, dai processi storici» (pag. 49), connesso alla coppia concettuale struttura- sovrastruttura, e nella delineazione del proletariato come categoria storico-sociale nella quale risiede la contraddizione strutturale della società capitalista, come sintomo, per usare il linguaggio lacaniano, di «quella contraddizione, perché ne è prodotto, perché la esprime con una potenza che è, appunto, potenziale ma che è destinata a divenire attuale» (p. 51). Su questo preciso versante si consuma, conseguentemente, il passaggio tra certezza filosofica e analisi scientifica: «per il fatto» spiega Galli «che esiste una contraddizione reale tra la potenza potenziale proletaria e il potere reale dei capitalisti, fra ricchezza della produzione […] e miseria della società, quella contraddizione può e deve essere tolta, con la rivoluzione, da un soggetto che da quella contraddizione è generato» (p. 68). Il punto della questione consiste però nel fatto che, nell’evolversi della teoria di Marx, non è tanto attraverso l’enunciazione dottrinaria del comunismo, come superamento autoevidente e immediato del sistema capitalistico-borghese, che questa contraddizione tenta di essere risolta, quanto, invece, per mezzo della sua inscrizione nel luogo originario della sua riproduzione (il trauma, per continuare la metafora psicoanalitica), cioè il capitale. Ecco la scienza della contraddizione, cui abbiamo fatto riferimento prima, mettersi in moto: “le stringenti logiche di svolgimento del capitale” (p. 78) vengono rese evidenti nel momento in cui si mostra che quest’ultimo «mette quindi in moto processi ambivalenti e, nel presente, contraddittori, razionali quanto al metodo ma irrazionali in sé e anche quanto alla consapevolezza che ne hanno gli stessi capitalisti» (p. 88). È, questo, il passaggio che consente alla critica dell’economia politica di tenere insieme “scienza” e “politica” (tema del quarto capitolo); l’intrinseca contraddizione non pertiene più solo, infatti, al sistema capitalistico in quanto modello economico o sistema di produzione, ma anche, e soprattutto, al tipo di rapporto che questo sistema produce tra economia e politica. La politica, precisa Galli, è per Marx proprio il frutto della contraddittorietà e conflittualità emerse dalla verità, pratica, dell’analisi del capitale: essa è l’effetto coessenziale della produzione, del processo di valorizzazione, e delle loro contraddizioni, «l’economia è politica […] in quanto ha in sé la politicità» (p. 88-89).
Da qui l’autore si muove per sviluppare alcune considerazioni conclusive almeno due delle quali meritano, tra le altre, di essere rilevate. Una prima, più circoscritta, è data dalla specificazione che Galli si premura di fornire rispetto all’eventuale rigidità che il binomio struttura-sovrastruttura potrebbe innescare applicato alla coppia corrispondente economia e politica; egli ci allontana dal pericolo riduzionista “alleggerendo” la portata euristica della dicotomia affermando che «la determinazione ultima delle diverse posizioni politiche, certo, è data dalla loro collocazione rispetto al rapporto antagonistico fra operai e capitale, ma la centralità dell’economico risulta più un’istanza di concretezza analitica che non un dogma meccanico, né si riduce alla formula astratta struttura-sovrastruttura» (p.118). La seconda, di portata più generale e di più ampio spessore teorico, riprende la questione dell’uso eretico di Marx, inteso come valore interno alla sua eredità. Fra gli spiragli del sistema lasciati aperti dal filosofo, sostiene Galli, ve ne sono soprattutto due che sembra abbiano occupato, e siano destinati a occupare ancora, la scena teorica contemporanea, proprio nella veste di prosecutori eretici della sua opera. Da un lato, vi è la prospettiva, figlia della tradizione poststrutturalista e proposta soprattutto da Pierre Macherey e Jacques Bidet, che congiunge la riflessione marxiana e foucaultiana al fine di interpretare il capitale come un immenso dispositivo biopolitico, produttore non solo di merci, ma di uomini e donne, di soggetti, a un tempo assoggettati e capaci di agire e resistere (p. 98). Dall’altro lato, infine, da un’angolazione strettamente neomarxista, vi è la posizione, portata avanti dallo stesso Bidet, di una rilettura metastrutturale di Marx, inteso come teorico della modernità, interamente appartenente al suo paradigma, ma nello stesso tempo scopritore delle sue contraddizioni economiche; rilettura il cui esito pare coincidere perfettamente con ciò che Galli ritiene essere il cuore vivo del pensiero di Marx: la sua capacità, eretica, di smascherare l’ultima teologia dogmatica della storia, il neoliberismo, e, congiuntamente, l’opportunità di organizzare, ancora e sempre grazie e nonostante lui, una nuova teoria critica (p.151).
Après coup è la traduzione francese del vocabolo tedesco Nachträglighkeit: entrambi sono termini tecnici utilizzati in psicanalisi e servono a rendere conto della temporalità che qualifica i processi psichici inconsci. L'après coupè, orientativamente, il nome che indica il tragitto a ritroso che un soggetto entrato in analisi è indotto a percorrere e che, in quanto traversata della fantasia inconscia, conduce (quantomeno nelle intenzioni degli analisti...) a riformulare la struttura di quel rapporto estimo, più che intimo, che questo stesso soggetto – evidentemente bloccato, evidentemente osteggiato da una ripetizione mnestica che lo invischia in un godimento indesiderato e che lo induce, appunto, ad entrare in analisi... – intrattiene con il Reale.
Ma l'après coup, da intendersi più nello specifico quale effetto della temporalità retroattiva tipica del significante (sulla quale è imperniato tanto il lavoro del sistema inconscio quanto quello della direzione della cura) o quale effetto logico-strutturale, secondo la lettura di Lacan, non è un semplice precorrimento o una forma di veggente anticipazione in quanto (sempre nelle intenzioni degli analisti...) l'esperienza psicoanalitica che lo consente e che scommette su questo iternon è mera ricapitolazione, ricezione passiva degli eventi passati ma, al contrario, presuppone per definizione la costruzione e la ricostruzione incessanti della biografia del soggetto. Vi è quindi una dimensione evidentemente costruttivista, creativa, che appartiene alla logica dell'après coupe che traspare tanto dal lavoro onirico, dalla struttura del sintomo e degli atti mancati, quanto dalla effettiva possibilità di elaborazione e rielaborazione dei traumi. È infatti proprio la dinamica della temporalità après coupche permette, grazie all'analisi, il riassetto di questi stessi traumi nell'economia psichica del soggetto. Va da sé, allora, che un tale processo di rielaborazione, riconfigurazione e riscrittura dell'esistenza dell'analizzante non possa, giocoforza, che attingere e mobilitare quelle risorse soggettive, singolari e non replicabili (non oggettivabili da nessuna pratica scientifica così come da nessuna ermeneutica) che fanno di una vita un'esistenza, appunto, singolare ed unica. Il ricordo, il ritorno après coupdel passato e la rielaborazione di eventi unici che demandano un'interpretazione retroattiva o reclamano una nuova ed inedita rielaborazione, per quanto tardiva, di ciò che è avvenuto sono, in un certo senso, il cuore pulsante di uno psichismo in atto che è evento singolare, evento irripetibile e soggettivo.
Ricondurre l'après coup a un'esperienza generalizzabile, riconducendone la portata soggettiva (non rendicontabile da nessuna filosofia ed inassorbibile da nessuna Weltanschauung) e sussumendo la ricchezza, l'imprevedibilità e l'aleatorietà che un tale tragitto verso il futuro anteriore del soggetto implica entro le categorie dell'universale filosofico è quello che Alessandra Campo si propone di fare nel suo ultimo libro, Tardività (Mimesis, 2018).
Un libro, sia detto per in inciso, di difficile lettura. È un testo specialistico, riservato agli “addetti al mestiere”, che non a caso è la pubblicazione rivista e raffinata della colossale tesi di dottorato in Filosofia dell'autrice. È inoltre un testo scritto in una prosa poetica, alata, che riempie pagine intense, ricche di commozione e di quell'apprensione per l'Assoluto che traspare da un lirismo singolare, dall'inesausta ripetizione dei concetti chiave, dalla minuziosa attenzione dedicata alla dimensione squisitamente tipografica del testo (corsivi, trattini e parentesi giocano un ruolo fondamentale nello stile espressivo dell'autrice) e culminante in sentenze granitiche, definitive: “Ogni concetto è espressivo, ma ogni concetto è tale solo se è unitrino, ovvero se indica, contemporaneamente, la Cosa, la sua rappresentazione e il loro ‘rapporto’. In questo senso ogni concetto è erotico, intermediario tra l'umano e il divino, il somatico e lo psichico. Ogni concetto è erotico perché ogni concetto è terzoe ogni concetto è terzo perché ogni concetto per l'intervallo, ovverosia: per i movimenti dietro la Cosa. Quindi ogni concetto è un après-coup: nient'altro che il risultato di uno sforzo intellettuale” (p. 49).
Ora, tra la ridda di concetti erotici ed unitrini che incedono nella storia della psicanalisi Campo ne elegge uno, quello di Nachträglighkeitappunto, e si propone di ascriverlo alla regia classifica di quei concetti fondamentali in grado di operare, come un tornello girevole, sulla soglia che divide la filosofia dalla disciplina freudiana: “Per Freud, la Nachträglighkeitnon è un concetto metapsicologico. Lo saràtuttavia stato, speriamo, agli occhi di chi avrà avuta la pazienza di leggere queste pagine” (p. 28).
L'operazione, delicatissima e insieme mastodontica, è svolta dall'autrice con flemmatica e instancabile acribia, con puntigliosa meticolosità bibliografica, e progredisce sul solco teoretico tracciato da Rocco Ronchi nel suo Canone Minore(Feltrinelli, 2015) – libro rispetto al quale Tardivitàsi prospetta come una specie di sequel, di compendio o di tardivoimplemento. Campo, infatti, evoca a sé quelli che Ronchi definisce i “filosofi del processo” (Whitehead, Bergson, Deleuze) e, forte di una conoscenza enciclopedica della loro opera, si propone di ripensare il rapporto temporale che sussiste tra coscienza e inconscio in modo da tradurre la trovata freudiana in una sorta di esperienza contemplativa ed estatica, lasciando così trasparire la possibilità di spiegare l'essenza dell'Estramite il ricorso a testi che, a tutta prima, non hanno nulla o ben poco da spartire con la tradizione psicoanalitica in quanto mancano, ad esempio, di quell'apprensione terapeutica e clinica che è fondamentale sia per Freud sia per Lacan.
L'intento sembra, infatti, quasi quello di sottrarre la psicanalisi agli psicanalisti per farne, anche attraverso gli strumenti offerti dalla teologia speculativa di Cusano, Bruno e Spinoza, una branca specifica di una filosofia altrettanto specifica: quella che, insensibile tanto al conturbante richiamo dell'antropologia filosofica quanto alla perturbante (e non necessariamente malinconica) elaborazione lacaniana della mancanza ontologica, mira a ricostituire quell'ideale di compattezza e di completezza (ontologica, per l'appunto...) che si impone, ad oggi – e proprio laddove non ci si aspettava di trovarla: nella letteratura che ibrida la tradizione filosofica con quella psicanalitica! – come una sorta di nuovorealismofilosofico. Una nuova filosofia che, fregiandosi del titolo di “minore”, rilancia la partita della teoresi pura e sceglie di mirare direttamente al Reale ambendo, inoltre, a dirne il più possibile, a comprenderne il più possibile nel tentativo di ripensare, per rivitalizzarla, l'esperienza della trascendenza classicamente intesa.
È infatti proprio verso una nuova definizione di inconscio che l'autrice si propone di condurci, una definizione a dir poco rivoluzionaria e pionieristica che sembra voler rinnovare dalle basi la tradizione filosofica contemporanea poiché, secondo l'autrice, “l'inconscio ignora il '900 filosofico, il quale, a sua volta, ha ignorato l'inconscio ignorando Dio che, come das Es, non conosce contraddizione, morte e tempo” (p. 273).
La posta in gioco è evidentemente alta e l'autrice si premura di definire i termini entro i quali la sua interpretazione dell'inconscio freudiano andrà a svilupparsi:
L'Assoluto [...] non è supremo né grammaticale: l'ideadi espressione contrasta sia con la speranzache l'Assoluto sia l'Ente-eminente, l'anello sempre mancante, perché eternamente trascendente, della grande catena dell'Essere, che con la credenzaper cui l'Assoluto non è altro che il significato prodotto, per effetto retroattivo o accumulazione progressiva, dalle nostre pratiche di scrittura e simbolizzazione. L'Assoluto è espressivo: che si con-verta incessantemente in segni che, pure, lo di-vertiranno significa che esso non è il segno che lo esprime, pur non essendo altrove che lì, in quel segno, pur essendo, in altre parole, il suo atto, e quindi il suo essere, quella stessa generazione indefinita di segni da cui, come tale, come assoluto semplice, infinito e perfetto, per natura differirà. Questo significa univocità del reale. (p. 37)
L'inconscio di cui parla Campo è quindi espressivo, è un inconscio che traspare quale mera constatazione del fatto naturale che esiste, nonostante Freud e Lacan abbiano esplicitamente negato quest'ipotesi, una signatura rerum in fondo inequivocabile, innegabile, e che inoltre esiste presso questa scrittura originaria un significato, a portata d'uomo, decretabile definitivamente. Esiste, quindi, un senso universale essenzialmente disponibile non tanto alla razionalità, alla concettualizzazione o alla matematizzazione, quanto a quella forma di intuizione intellettuale che “è intuizione della soddisfazione del mondo (genitivo soggettivo e oggettivo), intuizione della sua ragione, che è sempre ragione dei misti” (p. 413). In pagine davvero intense e con il trasporto mistico che contraddistingue il suo stile, Campo si dedica allora alla smisurata operazione di correzione, di ricalibratura e di aggiustamento delle interpretazioni che, nell'ultimo secolo, sono state date dell'inconscio freudiano. Dalla logica del supplemento si passa così a una logica dell'incremento (ferale è la critica indirizzata all'opera di Derrida, pp. 238-256), da una concezione analogicadell'inconscio si giunge a una concezione espressivadello stesso e dalla posizione sostenuta da Lacan nel seminario sull'Etica della psicanalisi, quella che si spiega l'esistenza dell'ente ricorrendo all'idea di creatio ex nihilo, si giunge a una metafisica della creatio ab intrinseco. Tematizzando i concetti di bidirezionalità (p.58) e simultaneità (pp. 163, 164) Campo conduce così il lettore verso una concezione di inconscio come pura processualità:
L'inconscio ‘è, né più, né meno’, ed è superficiale. La sua memoria non è una memoria del sottosuolo, come quella di Derrida, né il suo essere è l'Essere heideggeriano, obliato ma comunque intriso di tempo. L'inconscio è ed è atto, Mouvant, processo, puro differenziale di potenziale. Perciò non differisce ma agisce, non soffre, ma gode, non nega, ma afferma, non ha tempo, ma è atemporale (p. 244).
E Après coupsi rivela essere così, nelle mani di Campo, una nozione veramente omniesplicativa: è l'oggetto (a), è l'Assoluto, è l'Unheimliche, è Das Ding, ed è anche l'inconscio stesso, pur non essendo nessuna di queste cose e allo stesso tempo nulla se non in esse: “Come il Dio della teologia speculativa l'inconscio è trans-immanente, ovunque e in nessun luogo. Non è in nessuno dei cogitata(le rappresentazioni o figure), pur non essendo altrove che là. E la Nachträglighkeit, in quanto concetto dettato dall'inconscio cogitans, eredita da questole sue caratteristiche” (p. 169). Come potrebbe, d'altronde, essere altrimenti per un concetto che è assunto quale immagine mediatrice dell'inconscio, sua “forma inapparente” (p. 169), rappresentazione eminente di una coscienza colta nel suo partecipare direttamente a quell'economia dell'assoluto di cui si scopre immancabilmente (anche se un po' in ritardo...) paladina e, insieme, esecutrice inconsapevole?
Immagine tratta dal film “Arrival” (2016) di Denis Villeneuve
“Tardività è” allora, secondo l'autrice, “la ragione del fondamento” (p. 33) in grado di risolvere quel soggettivismo relativistico che, da Kant in poi, impedisce a ogni speculazione filosofica di fondare un sapere universale e necessario, di raggiungere quella verità ultima e definitiva che, nell'arco più che bimillenario interessato dallo sviluppo del pensiero occidentale, è supposta migrare, quantomeno da una certa tradizione storicista, dal campo religioso monoteistico a quello più razionale e rischiarato della riflessione filosofica. Ciò che si prospetta, in queste pagine, è allora niente poco di meno che la vera e propria resurrezione del divino, un suo ritorno après coupdi cui Campo e Ronchi, dietro di lei, si fanno araldi. Risurrezione intempestiva, tardiva, che trova proprio nella concettualizzazione freudiana della retroazione temporale un'inaspettata e imprevista idea-alleata capace di esibire, a un tempo, sia la struttura della psiche sia quella del divino: “La Nachträglighkeitè l'idea adeguata dello psichico reale, adeguata perché lo coglie, grazie a un'intuizione intellettuale, come unico processo di ascesa e discesa, progresso e regresso; come lo ‘stupendo moto di reciproca espressione (admiranda in invicem progressio divina)’ in cui, per Cusano, si esprimel'essenza della vita divina” (p. 178).
Sulla scorta di tali premesse e attraverso una miscela sapientemente dosata di immanentismo, teologia speculativa e “canone minore” Campo ha quindi buon gioco nell'evidenziare come, nonostante tutto e nonostante soprattutto il ventesimo secolo, sia non solo possibile rinvenire da Parmenide a Deleuze una forte e poderosa tendenza del pensiero occidentale a rimarcare l'univocità dell'essere, ma sia anche evidente come una certa continuità con questa tradizione (lungi dal prospettarsi come teoreticamente reazionaria...) sia essenzialmente auspicabile e lasci trasparire la possibilità di intrattenere un rapporto di familiarità, di intimità e di vicinanza con quell'Assoluto che, da quanto traspare dal testo, sembra costituirsi quale conditio sine qua non della filosofia, se non del pensiero stesso.
La temporalità dell'inconscio che si profila in Tardivitàè allora una temporalità fantastica, a dir poco fantascientifica, così come la si incontra ad esempio in film quali Arrival(2016) o Signs(2002). Ed è la stessa autrice ad ammettere una certa continuità tra il “tempo favoloso” (p. 41) prospettato da Deleuze nel suo corso su Kant e l'interpretazione dai lei offerta della Nachträglighkeit. Continuità o coincidenza che, forse, trovano proprio nella sceneggiatura cinematografica il loro analogon più efficace in quanto è soprattutto (se non esclusivamente...) nelle storie narrate al cinema da Villeneuve o Shyamalan che è possibile fare esperienza di una realtà univoca il cui senso è, in un certo modo, assicurato da un Assoluto espressivoe garantito da una “Übercausälitat”(p. 355: quella causalità di ordine superiore, aionica ed eterna che Campo vuole rilevare nel suo studio) che sembra cogliere i protagonisti alla sprovvista salvo poi, in un attimo di estatica elevazione fuori dai cardini del tempo soggettivo, proiettarli al di là di sé, verso una trascendenza che assicura loro una conciliante rivelazione: “l'universo non è arbitrario né malvagio: l'ordine immanente nascosto ‘dietro’ le intricate e spesso enigmatiche interconnessioni che lo strutturano è per Freud, come per Einstein, essenzialmente degno di fiducia, perché unitario e coerente nella sua intellegibilità. Dio è nascosto, ma è buono” (p. 355).
Ed ecco che allora oltre alla creazione di una temporalità fantastica è anche verso l'invenzione di un Freud “minore”(p. 25) che l'autrice si volge, in un operazione a dir poco coraggiosa e non priva di originalità: un Freud “fantastico” come il tempo deleuziano-bergsoniano, un Freud che da medico positivista diventa filosofo della processualità pura e teorico dell'eterna coincidentia oppositorum. Quello che scopriamo, assieme a Campo, è un Freud inedito, un inconsapevole teologo speculativo:
L'intuizione intellettuale è l'intuizione dell'hen kai pan(‘Allenheit’ in tedesco), dell'Uno-che-è-Tutto e del Tutto-che-è-uno. Ma, se questo è vero, come principio ontologico e ragione dei misti, ossia delle sfumature, la Nachträglighkeitè visione diDio (genitivo soggettivo e oggettivo), di un Dio soddisfatto perché sufficiente e sufficiente perché soddisfatto. In quanto acto simplicissimo in sé contemplaturomnia simul sine successione, la percezione secondo l'immediatezza causale non è, infatti, nient'altro che un colpo d'occhio su Dio, totum simul atque perfectum, e sulla sua bontà (p. 416)
Quello di Campo è quindi un Freud che pare aver intuito e poi abbandonato ingenuamente o come se fosse stato colpito, lui stesso, da rimozione (Verdrangung), l'equivalenza e l'omogeneità sostanziale tra l'Inconscio (la sua creatura), l'Assolutointeso quale spontanea e naturale gemmazione di significato, e il Dio neoplatonico, l'Uno totum simul atque perfectumcelebrato da Cusano, Bruno e Spinoza nelle loro opere. E l'identità unitrinadi questi tre elementi è proprio ciò che Tardivitàsi propone di ricongiungere, di riannodare après coup, indicando nell'intuizione intellettuale tanto la via regia da percorrere quanto il metodo per condursi, attraverso la speculazione, presso questa beatifica visione dell'eterno.
Ma è un metodo, quello adottato da Campo, che forse nasconde un pericolo e solleva qualche impasse per quanto riguarda il progetto ermeneutico promosso in Tardività. L'insidia teoretica celata nel concetto di intuizione intellettuale, un concetto euristicamente a dir poco onnipotente, consiste nella possibilità di istituire una sorta di koinè concettuale omologante e giocoforza acritica che, pur di raggiungere quell'unità tanto agognata di soggetto e oggetto e pur di elicitare l'identità trascendentale, aspaziale e atemporale che accomuna tutti gli enti nell'eterno entanglementdivino, lascia da parte o non conferisce il giusto peso a quelle aporie e a quelle differenze essenziali che intercorrono tra gli autori, tra le filosofie e soprattutto tra i concetti, correndo così il rischio di travisarne il contenuto. Un rischio, questo, che Campo corre consapevolmente e che si assume con l'obiettivo, per nulla modesto, di elaborare una teoria metafisica dell'Assoluto, unitaria e coesa, che spazia da Deleuze alle isteriche della Salpêtrière, da Lacan a Nishida Kitaro passando per Carlo Rovelli, Einstein, Roland Barthes e Giordano Bruno, in un détourcolto e nozionistico, lirico e salace. Per decidersi in merito alla effettiva riuscita di questo progetto rischioso, imponente e decisamente ambizioso non possiamo che rimandare il lettore alla lettura completa di Tardività e ci solleviamo, per parte nostra, dall'esporre un giudizio definitivo. Più interessante, in questa sede, è rilevare – per concludere – i risultati che emergono dalla monumentale ricerca di Campo.
Aion (dio del tempo, nel cerchio in altro) e Gaia (dea della terra, in basso)
Freud e Lacan non si sarebbero accorti o non avrebbero pienamente compreso, in breve, che la temporalità non-lineare, frantumata e “impazzita” che qualifica quell'inconscio detto appunto “Zeitlos” (senza tempo) non sarebbe altro che il profilo, la sagoma di quel dio neoplatonico e cusaniano, di quell'ente sommo, perfettissimo e necessario che nella storia della filosofia passa sotto il nome di “Uno” e di cui la formula “hen kai pan” traduce il modello ontostatico, eterno ed infinito.
Il risultato teoretico della ricerca di Campo è allora una sorta di panacea teologico – speculativa per la psiche, una specie di medicamento universale per lo spirito che riscuoterà di certo il meritato successo e troverà modo di essere speso nei contesti intellettuali più svariati (nelle pratiche filosofiche o di counseling, nei convegni e nei festival) ma che, molto probabilmente, non potrà fungere in nessun modo da supporto o da strumento esplicativo per la teoria - pratica psicanalitica. Anzi, forse non farà altro che divaricare la distanza che separa la filosofia dalla creazione di Freud. Quest'ultima, infatti, ha storicamente istituito la sua identità ed ha fondato la sua legittimità proprio marcando la distanza dall'universale filosofico, dal presupposto metafisico di una coincidentiatra l'umano e l'assoluto che fosse accessibile dall'intuizione intellettuale (nota è l'avversione nutrita da Freud per ogni “sentimento oceanico”) e guarda con sospetto ogni costruzione metafisica forte, in grado cioè di spiegare definitivamente la realtà, priva di mancanze e per giunta intesa come totalità o univocità, nei suoi tratti salienti. Le aporie che sgorgano dal disturbo mentale quale evento e le perturbanti prospettive dischiuse dalla psicopatologia sembrano infatti non trovare posto, non avere il giusto rilievo nell'inconscio così come Campo lo definisce.
L'attenzione posta al soggetto, all'evento singolare e al destino psichico dell'analizzante assumono infatti, nel campo psicoanalitico, la preminenza rispetto a qualsiasi sistematica rendicontazione ontologica, a qualsiasi speculazione cosmologica e a qualsiasi riabilitazione dei modelli gnoseologici invalsi in occidente prima della rivoluzione scientifica – siano essi medievali, tardomedievali o moderni. Quando Campo afferma, a proposito dell'inconscio come causa assoluta
che la causalità processuale è una causalità materiale e formale, efficiente e finale perché l'inconscio è causa, ma non come una cosa (soggetto, substrato, sostanza) che causa. L'inconscio è causa come un processo, come un verbo, un'azione: causare. L'inconscio è causazione in atto. La sua azione – causante – è il suo essere – causa –, perché quando il sostantivo si verbalizza, la Sostanza diviene Processo e la Cosa si attiva, si anima (p. 273)
sembra infatti sposare il modello gnoseologico tomista dell'actus essendi, attribuendo così ai processi primario e secondario il ruolo di intelletto possibile ed intelletto attivo e facendo risorgere, questa volta per davvero, in questa bizzarra sovrapposizione, uno stile di pensiero a dir poco datato. Uno stile di pensiero (quello medievale, che verrà poi progressivamente smantellato nell'arco della modernità, in seguito allo sviluppo del metodo scientifico) che si fonda su di un'aprioristica complicità tra il soggetto e l'oggetto, tra l'uomo e il mondo, e postula una coappartenenza fondamentale e naturale tra gli opposti garantita ed assicurata dall'ipostasi divina. L'intuizione intellettualeche Campo invoca quale metodo della sua filosofia è evidentemente a questa mistica coincidenza che dovrebbe mirare. Ma è stato proprio Lacan, psicoanalista navigato e fine pensatore aduso alle resistenze del soggetto, ad affermare con caustica ironia: “E' difficile sottrarsi all'idea che non sia un pensiero a governare il mondo” (Lacan, 1979, p.143). E una tale istanza sembra valere anche e soprattutto se questo pensiero fondamentale e genetico, inteso quale aeterna nativita se intemporis generatio (termini che Campo preleva da Cusano e innesta sul testo freudiano), è identificato con l'inconscio in quanto tale. Sempre Lacan, poi, ha insistito fino allo sfinimento nel dire che l'inconscio è un concetto nato (o abortito?) dallo sviluppo della scienza moderna, come una sorta di impellenza scabrosa che insiste e ritorna a ogni passo (a ogni inciampo?) con l'urgenza di un atto mancato:
Il passo della scienza è consistito nell'escludere ciò che implica di mistico l'idea di conoscenza, nel rinunciare alla conascita[conaissance], e nel costituire un sapere che è un apparecchio sviluppantesi a partire dal presupposto radicale che noi non abbiamo a che fare con nient'altro che con apparecchi maneggiati dal soggetto, e, più ancora, che quest'ultimo può purificarsi in quanto tale, fino a non essere nient'altro che il supporto di ciò che si articola come sapere ordinato in un certo discorso, un discorso separato da quello dell'opinione e che se ne distingue come quello della scienza (Lacan, 2006, p. 280)
Risulta quindi problematico, per Tardività, affermarsi quale vero e proprio punto di connessione tra la psicanalisi di stampo freudo - lacaniano e filosofia immanentista in quanto, a tal riguardo, è necessario sottolineare che tanto la questione epistemologica quanto il cosiddetto “discorso della scienza”, così come la minaccia meccanicistico – deterministica che in esso è annidata, sono temi sistematicamente elusi dalla trattazione. L'insistenza sul carattere aionico del tempo così com'è declinata da Campo sembra assimilare indiscriminatamente, in un certo senso, le scuole freudiana e lacaniana a quella dell'eretico Jung, più proclivo a una certa deriva misticheggiante della pratica psicanalitica, più sensibile all'idea di un inconscio vaticinante, espressivoe intarsiato dalla signatura rerum, e inoltre teorico di quella “sincronicità” che nell'argomentazione di Campo riveste un ruolo pivotale (per quanto dissimulata sotto le mentite spoglie della “simultaneità”). È forse Jung, allora, il personaggio che nella storia della psicanalisi meglio si attaglia alla lettura della Nachträglighkeitproposta in Tardività. Freud e Lacan, per parte loro, l'inconscio l'hanno esplorato e compreso, né hanno eluso le questioni del sacro e della trascendenza: le hanno risolte, semmai, a modo loro (in un modo, per altro, che prescinde esplicitamente dal ricorso a una teoria metafisica quale è quella elaborata in Tardività).
Detto questo, e posto che le intenzioni dell'autrice sembrano invece altre, ovvero sembrano tendere verso un'assimilazione della psicanalisi freudiana alla proposta filosofica di Ronchi in modo da annoverare anche Freud tra la ridda di autori “minori”, è assolutamente necessario riconoscere e ammirare l'originalità e l'audacia dell'opera. In quanto ardito e coraggioso tentativo di ripensare la positività della trascendenza, o di riformularne i tratti essenziali in modo da ritrovarne la concreta possibilità nell'esperienza comune, Tardivitàsi qualifica come un libro di filosofia genuino, verace, che non mancherà di stimolare la fantasia e l'interesse di quanti siano alla ricerca, ancora oggi, di un'idea somma, assoluta e definitiva da eleggere a termine ultimo ed insieme a principio universale (d'altronde: prima = dopo) per il loro modo di pensare e di filosofare.
di Filippo Zambonini
Bibliografia
Campo A. Tardività, Mimesis, Milano – Udine 2018
Lacan J., Alla scuola Freudiana, in Lacan in Italia 1953 – 1978 – En Italie Lacan, a cura di G. B. Contri, La Salamandra, Milano 1979
Lacan J., Le Séminaire. Livre XVI. D'un Autre à l'autre, a cura di J.-A. Miller, Seuil, Paris 2006
L’intento di questa raccolta, che prende il titolo di “Soggettivazioni”, è stato quello di aprire una riflessione attorno alla teoria della soggettivazione lacaniana, così per come ce l’ha lasciata in eredità Lacan, a singhiozzi, nei testi stabiliti a partire dai suoi trent’anni di insegnamento orale. Cosa può dirci una psicoanalisi asistematica, distante dalle istituzioni universitarie rispetto a problemi di una concretezza innervata di realtà? Chi frequenta i dipartimenti di Psicologia e assieme l’insegnamento lacaniano sa che è incommensurabile la distanza che intercorre tra la specificità e la settorializzazione degli strumenti istituzionali a confronto con l’universalità dei concetti larghi e volontariamente mai definiti dello psicoanalista parigino. Tra l’estremamente particolare (l’ad hoc della psicologia contemporanea) e l’estremamente universale (il concetto, unità sintetica della filosofia) si rischia di incorrere in un deragliamento del punto focale, causato da uno scontro di metodi epistemologici che si sono stabilizzati ai bordi opposti l’uno rispetto all’altro. Nella scelta di prendere in considerazione un tema vasto e generale come la teoria della soggettivazione c’era l’interesse, da parte nostra, di porlo in dialogo con il campo altrettanto vasto e generale del presente. Speriamo che questa prima ricerca possa costituirsi come un’indagine (sebbene parziale) sullo statuto del soggetto in quanto campo epistemologico aperto: attingendo dalla teoria psicoanalitica e dal dibattito che ne è scaturito, il presente volume segue molteplici sentieri analitici e sottolinea di contributo in contributo la difficoltà di giungere a un’idea organica di soggetto, per la varietà di ipotesi spesso contrastanti in merito alla sua rappresentazione, formalizzazione e interpretazione. In questa raccolta crediamo che i punti maggiormente messi in rilievo da chi ha collaborato riguardino il problema della genesi, lo statuto della trasformazione, e infine un’attenzione specifica è stata rivolta al registro del Reale e ai suoi effetti.
Che questo bel libro di Federico Leoni si ponga al crocevia di discussioni vitali nel moderno dibattito filosofico lo si intuisce già dal titolo, Jacques Lacan. L’economia dell’assoluto(Orthotes, 2016); e nondimeno si rimane sorpresi alla conclusione della lettura dalla quantità di spunti che esso offre. Se ci si aspetta d’altronde un’opera lineare e saggistica nel senso classico della parola, si rimarrà delusi. Ma proprio qui sta l’interesse di questo libro, difficile, che tratta questioni difficili. Anche perché la filosofia contemporanea ci ha dimostrato, attivamente o passivamente, come la semplicità e la linearità corrano spesso il pericolo di risultare noiose e poco produttive, oltre che fuorvianti. Da buon ed esperto interprete Leoni non ci trascina infatti, né trascina se stesso, nel tentativo di ricostruire ciò che Lacan avesse intenzione di dire con precisione filologica; l’autore si chiede piuttosto cosa abbia Lacan da dire, a noi odierni, che forse non hanno fatto tesoro della lezione dello psicanalista-filosofo. Il motivo è che non vi abbiamo prestato orecchio; o forse, sembra suggerire Leoni, che ve ne abbiamo prestato troppo. Ma vediamo di chiarire cosa ciò voglia dire.
Già dall’introduzione l’autore dichiara il fine di rintracciare in Lacan la fase del «pensiero dell’Uno». La riflessione del nostro, spiega difatti Leoni, ha conosciuto uno sviluppo da una fase centrale «dialettica e riflessiva», fino all’approdo finale ad una “riflessione dell’immanenza”, che Leoni tenterà di descrivere più come un approdo piuttosto che una ripresa. In che senso intendere tale ripresa, e l’Uno stesso intorno a cui ruota, è il fil rouge dell’intero libro. Leoni rintraccia in Lacan il ripresentarsi di una scissione del pensiero che risale già a Platone. Ma per presentarci tale scissione, l’autore ricorre inizialmente all’analisi dell’opera aristotelica e alle distinzioni introdotte dallo stagirita tra potenza e atto. La distinzione non passa tuttavia tra pensiero in divenire e pensiero divenuto. Piuttosto il pensiero cosiddetto divenuto, cioè quell’atto in atto che sembrerebbe essere immobile nella propria impassibilità, sembrerebbe essere la sovrascrizione di una scissione più profonda che già nel Parmenide Platone aveva messo in luce. Se infatti si pensa il pensiero, non lo si può che immobilizzare nella sua rappresentazione, poiché è appunto illogico il pensiero dell’istante, del divenire. Lo è, certo, secondo la logica tradizionale delle proprietà e dei predicati. Ma, ci chiede Leoni sulla scorta di Lacan, è produttiva questa maniera si pensare? Anche la terribilità che Platone riconosceva al divenire, andrebbe quindi ad essere riletta come abissalità di quest’atto di pensiero che non può essere che praticato, sfuggendo costitutivamente al dirsi.
L’abbondanza di temi che nel corso dell’opera vengono affrontati o anche solo sfiorati non permette naturalmente una loro elencazione esaustiva. Né questa è l’intenzione o la sede. Piuttosto, il dualismo cui si è accennato, e che ha per Leoni i propri capisaldi in Platone e Aristotele, autore che verrà visto da Leoni stesso come lo sfondo teorico costante del Seminario XX, percorre costantemente le analisi del libro e ne costituisce il ritornante, sotto, potremmo dire, diverse e mentite spoglie. Filosofia e psicanalisi, soggetto e oggetto, immanenza e trascendenza, pensiero dell’uno e pensiero del tutto, vita e morte, interno ed esterno: tutti questi termini che si avvicendano nei vari capitoli costituiscono i molteplici scenari in cui si gioca una dualità più profonda, che l’autore evidenzia nelle primissime pagine, cioè quella tra un’etica del desiderio e un’etica del godimento. Se quest’ultimo si svolge nell’istante, nel momento, cioè, in cui il pensiero è immediatamente e semplicemente già sempre presso se stesso, il desiderio ha per contro bisogno di una distanza, di una separazione; si potrebbe dire di una differenza. Ma non è la differenza pura, libera, quella di cui necessita per mettere in moto la propria macchina: è piuttosto la differenza subordinata all’identico, la differenza tra parti, quella differenza che è la declinazione stessa della negatività, del non-essere. Chi in queste righe abbia sentito l’eco dei discorsi strutturalisti o post-strutturalisti non si è di certo ingannato. Sono molteplici i punti in cui Leoni vi si confronta. Ed è anche per questo che nel libro si sente risuonare l’Hegel kojeviano sotto le molteplici declinazioni del pensiero del rispecchiamento e della relazione.
Del resto è la stessa struttura del libro, oltre all’argomentazione condotta, a mettere in luce un sottofondo psicotico-ossessivo della relazione e del relativo, racchiuso com’è, il libro, tra due soglie – come le definisce l’autore – ediviso in due parti, all’interno delle quali il ritornare dell’uno, due e tre, ripetuti nella prima e nella seconda parte, ricordano sia le nenie di certi giochi infantili, sia il triangolo edipico, che il pensiero contemporaneo così fortemente cerca di esorcizzare, ma anche quello stesso gioco a tre che si è venuto abbozzando tra Lacan, Aristotele e Platone, in cui lo stesso Leoni sarebbe il quarto incomodo. Gioco che, per la sua costitutiva dissimmetria, non si può appagare di se stesso. Ma appunto è anche da questo che si evince come Leoni scacci qualsiasi ermeneuticità.
Si cadrebbe in inganno, però, se si leggesse tale struttura alla luce di quella «nuova grammatica della matematica» che inscriverebbe l’intero parcellizzato tra due limiti; o all’interno di un ripresentarsi di un unico limite. La terzità va letta, come si evince dalle argomentazioni del libro, sicuramente non come alterità, non come incommensurabilità (che nuovamente implicherebbe una misura, un nomos), ma come assolutezza. È il pensiero nel suo farsi cui tende Leoni – sulla scorta di Lacan. Ed esso non può essere che divenire. Divenire come pratica. Ecco anche il punto di innesto tra filosofia e psicanalisi. Ecco la vera obiezione che Leoni si sente di muovere all’economia finanziarizzata, come si vedrà. È anche, dunque, una immagine di Lacan molto meno conservatrice di quanto vorrebbe la vulgata, quella che si ottiene dalla lettura di quest’opera. Se è vero che Lacan ebbe a dichiarare che non vi è fuori, Leoni ci suggerisce che non è appunto nel fuori che si cela il problema. Il pensiero dell’Uno alla cui luce, o ombra che dir si voglia, si svolge tutta l’ultima riflessione di Lacan, è testimonianza del suo cruccio, anche doloroso – come dimostrano le testimonianze riportate – riguardo all’insistenza di un tema così cruciale come quello della topologia e della ricerca di una via al di là del tutto, in direzione dell’immanenza. Anche questo è ben trattato nel libro di Leoni, dal momento che egli non si occupa solo della riflessione metafisica di Platone e Aristotele, ma anche della loro, conseguente, politica.
Vi è, quindi, un paradosso, che giace nelle viscere stesse di tutta questa operazione. Leoni ritorna più volte, e sembra che ciò costituisca appunto l’impalcatura profonda dell’opera, sulla questione del dire e del linguaggio. Egli pone infatti, a ragione, alla base di tutta la metafisica occidentale, quella scissione tra soggetto e oggetto che rende possibile la stessa metafisica in quanto dire sul dire, e prima ancora, dire ciò che non può essere più detto una volta scisso, cioè l’Uno. Scissione che si opera nel e col linguaggio. La questione del poter dire ciò che si dice, e del dire financo se stessi, è legata a doppio filo con tutto ciò. Ma allora si potrebbe chiedere: quale operazione sta compiendo Leoni? Non una ermeneutica in senso classico, come si è già scritto. Ma quale è il suo ruolo? Non sta egli facendo di Lacan lettera morta? Non sta forse compiendo un altro passo su quella linea di regresso all’infinito che si origina dal pensiero riflessivo?
Innanzitutto, è bene dire che Leoni non tenta maldestramente di sciogliere questo nodo, e dunque non cade nel tranello stesso che le possibilità del linguaggio tendono. Non si parla, insomma, come di tanto in tanto si vede accadere, addosso. In secondo luogo è lui stesso a suggerirci, beninteso nella forma del non-detto, una via. A proposito dei nodi, luogo topologico eccellente, in cui Lacan stesso si immerse nei suoi ultimi seminari, intento com’era a farne e disfarne, Leoni descrive il nastro di Moebius, «genesi adialettica dei contrari» come lo chiama (p. 67). E così, quasi gli sfugga dalla penna, scrive come il nastro non vada osservato, ma piuttosto percorso. E neanche va percorso, ma, aggiunge, bisogna fabbricarlo. Ora, a parte la pregnanza di questa dichiarazione, è significativo proprio come a una dialettica della materia e della forma come quella aristotelica, si contrapponga qualcosa che «è dell’ordine del dispiegamento» (p. 68). Di fronte ad esso il linguaggio non può che fare silenzio, proprio perché è al di là di esso che tale dispiegamento avviene. Possiamo allora accostare il libro di Leoni alla famosa scala di cui parlava Wittgenstein?
Come egli stesso descrive l’operazione wittgensteiniana è un tradimento. Ma Leoni, a differenza di Wittgenstein, non tenta di dire il vero sul vero, si tira fuori da questa sfida, poiché, come argomenta esaurientemente, essa non può essere che persa.
È proprio al vero sul vero che sono dedicate alcune bellissime pagine di questo saggio. Si viene introdotti nel vivo del tema da un resoconto che fa lo stesso Lacan di un sogno di qualcuno che desiderava ardentemente, anche nella dimensione onirica, udire dallo psicanalista il vero sul vero, appunto. La riflessione su tale tema porta Leoni ad accostare l’operazione introduttiva svolta dalle cornici dei dialoghi platonici alle cornici di opere quali il Decameron e Le Mille e una notte. In questi tre casi assistiamo, ci dice, alla spinta del linguaggio fino alle proprie ultime possibilità, alla messa in atto di uno stratagemma teatrale che, invece di introdurre nel vivo della narrazione, sembra piuttosto sortire l’effetto di distrarci ulteriormente da essa, di alienarci. «Non c’è metalinguaggio», scrive Leoni sulla scorta di Lacan (p. 83). È per questo che il rimando alle dottrine non scritte platoniche non è casuale. Esse, avanza l’ipotesi l’autore, non sono tali poiché tramandate oralmente. Esse sono non scritte poiché non si tratta più di atti linguistici, ma propriamente di esercizio. Ciò che la cornice mette in moto è lo spirito di separatezza del lettore dall’opera, e l’incolmabilità di tale spazio, poiché colmarlo significherebbe tradirlo. I metafisici, infatti, che vogliono dire il vero sul vero, di quest’ultimo mantengono ben poco. La cornice è la messa in luce di quell’occhio sempre celato al campo visivo e che Wittgenstein, ecco dove sta il passo falso, ha cercato di mostrare, chiudendo il cerchio. «Dire la verità sulla verità non significa sigillare il cerchio, ma mostrare il punto in cui il cerchio non tiene, o non tiene proprio perché tiene o vorrebbe tenere» (p. 90). E ancora, scrive risolutivamente Leoni, poiché non ha senso voler dire il vero sulla cornice del vero, in quanto esso si pone al di là delle determinazioni di verità e falsità, «si tratta di abitare il paradosso sul piano della sua enunciazione» (p. 94). Il limite, la soglia, la morte, come la si voglia chiamare, è il temporeggiare all’interno di tale cornice, che coincide con il temporeggiare stesso del linguaggio che taglia un dentro e un fuori, un vuoto e un pieno, una traccia, una brocca, in seno all’Uno. E si è già detto troppo.
Tornando perciò a ciò che si scriveva sulla topologia e il nastro, è questo il punto nodale, nel senso letterale del termine, quello in cui si vede come l’insufficienza della metafisica aristotelica si esponga pienamente. Non è tuttavia una mancanza, ci dice Leoni attraverso Platone. Se infatti Aristotele cade vittima, egli sì, delle insidie del linguaggio, è forse per eccessivo ottimismo. È perché egli, tramite la sua categorizzazione, aspira all’esaustività, quando invece il residuale, il rimosso, sono la controparte necessaria e non rimuovibile di tale operazione. È di nuovo Platone, colui che nel Parmenide si fermava inorridito, immobilizzato, nel momento stesso in cui gettava lo sguardo nell’abisso, a dimostrare come l’irrazionale non sia in alcun modo rapportabile alla grammaticalità dell’ente o dello stesso essere, non parmenideo, beninteso. Perciò Lacan partorirà alla fine un mostro linguistico come «yad’lun». Non si può significare l’Uno, non si può dire. Ma non perché il linguaggio vede limitate le proprie possibilità; la questione non è la possibilità, come ribadisce Leoni a più riprese. Il linguaggio si consuma nella e con la rinuncia all’Uno. Con la sua rimozione. Con la sua Urverdrängung.
E tutto ciò viene ricondotto da Leoni nel solco di quella distinzione che già in apertura egli aveva tracciato tra etica del desiderio ed etica del godimento. Distinzione che si gioca in seno allo stesso itinerario lacaniano, e che vede i suoi estremi indicati, rispettivamente, nei seminari settimo e ventesimo. Nella comparazione di questi si assiste infatti al delinearsi di due etiche, una cristiana, del differimento e dell’infinitezza di un debito non saldabile (e naturalmente si riconosce a Nietzsche il merito di aver posto in essere tale problema, con e prima di Freud); dall’altro lato sta invece l’etica antica della divinizzazione, del dio aristotelico, dell’atto in atto. Antichità che, come si è visto, viene trattata con la dovuta problematicità.
Ma se noi oggi possiamo mettere in opera tale problematicità è perché nel frattempo abbiamo assistito all’entrata in campo di nuovi dispositivi e strumenti. In primo luogo naturalmente quello del soggetto, perno di una certa riflessione contemporanea, che si riflette anche negli scritti di Lacan, come mostra bene Leoni, nell’analizzare le implicazioni che i passi su linguaggio, vita ed economia hanno su di esso. Dall’altra la nascita di nuove scienze, quali biologia ed ecologia che, loro malgrado, ci mostrano la separatezza della vita da se stessa e in che senso la nascita della vita (o del linguaggio, potremmo dire) sia parimenti nascita della morte. Sono anche questi, temi su cui l’autore si sofferma a più riprese nel corso della trattazione. Se da un lato Leoni rintraccia in Lacan il persistere, in un primo tempo, di una visione ancora “cristianizzata” della soggettività, che vedrebbe in Shylock il proprio antesignano, in cui l’essere soggetto sarebbe legato a doppio filo a una legge che sancisce e garantisce la scambiabilità, la relazione, in subordinazione alla quale il soggetto stesso si costituirebbe (come mancanza, poiché in dipendenza dall’Altro); tuttavia il discorso sull’Uno porta con sé il tentativo di scavalcare il ricorso a tale mancanza costitutiva, e rintracciare l’attualità del pensiero nella forma del taglio. È così che Leoni scrive come il discorso di Lacan che confluisce nel Seminario VII, «Della creatione ex nihilo», sia in diretto contrasto, ancora una volta, con la metafisica aristotelica: «la materia è l’après coup della forma, e la forma è l’après coup del taglio» (p. 43).
Come si accennato, Leoni si confronta anche con le implicazioni politiche dei discorsi che porta avanti, e forse la distinzione tra politica e psicanalisi non ha più neanche senso di essere mantenuta, alla luce della lettura del libro, che tratta della dimensione istituzionale della psicanalisi stessa prendendo ad esempio una pratica tanto controversa quale quella della passe.
Basti dire, e ciò serva a stimolare la curiosità verso un libro che merita la lettura, come la politica che Leoni abbozza, in contrapposizione ad un restaurazionismo sempre in agguato, così come ad un progressismo vuoto di ogni significato, venga da questi caratterizzata come «politica dei divenire». Non resta che seguire l’autore nel suo itinerario.
Alla ricerca del reale perduto (Mimesis, 2016) è l’ultimo libro di Alain Badiou; titolo ostentatamente evocativo, e chiaro proprio in forza del riferimento all’evocazione. Se non fosse che, anche solo per un vago e sterile (o probabilmente no) principio d’associazione, ancor prima di addentrarsi nella lettura del testo, si è come costretti a pensare contemporaneamente a ciò che di altro l’evocazione porta con sé, alla sua necessaria e conseguente implicazione, e così il pensiero scorrendo tra i ricordi sostituisce quel perduto in un forse più appropriato ritrovato. Semplici associazioni mentali, s’è detto, sino a quando, a fine lettura, si scopre in effetti una certa corrispondenza tra queste e il contenuto effettivo del testo. L’eterno equivoco che un simile titolo corre il rischio di perpetuare è quello di confondere il risultato della ricerca con la ricerca stessa, ovvero di produrre un discorso su ciò che si è perso quando in realtà lo si è già trovato, elidendo in tal modo i confini della classica distinzione agostiniana tra quo eundum est e qua eundum est.
Ma in cosa consiste questo sempre sottratto, che sembrerebbe tuttavia un già da sempre ritrovato, di cui parla Badiou? Il filosofo lo spiega nell’introduzione con una lapidaria constatazione: «Dobbiamo preoccuparci costantemente del reale, obbedirgli, dobbiamo comprendere che non si può fare nulla contro il reale» (p. 7). Il reale dunque, principio d’inemendabilità che per Badiou si presenta subito come «fonte di imposizione, figura di una legge ferrea» (p. 7) da cui non si può prescindere, presieduta dalle regole auree dell’economia, che del reale stesso si fa garante. Questa la base dalla quale può scaturire la domanda filosofica sul reale, che si presenta però sotto una forma particolare, tale da contenere già in sé la propria risposta; il gioco delle circolarità inaugurato dal titolo prosegue qui a livello teoretico nel momento in cui non ci si interroga preliminarmente sulla esistenza o su una possibile definizione fondativa di ciò che chiamiamo reale, ma ci si chiede solo se esso, assunto implicitamente come condizione preliminare necessaria, possa darsi «se non in quanto base di un’imposizione» che esiga solo in ogni circostanza una «sottomissione piuttosto che un’invenzione» (p. 7). Si può comprendere già da qui perché in fondo questo reale di cui si invoca la scomparsa non è mai stato veramente perso: fare della questione del reale non un problema che investe la sua legittimità o la sua possibilità, ma solo la sua origine. Il nostro avere a che fare con una realtà, del mondo e delle cose, non è messo in discussione nella prospettiva dell’autore; il nodo teorico risiede invece nella possibilità di pensare, platonicamente, un vero reale, al di là del volto mistificatore e fallace rappresentato dalla presunta realtà del contesto economico-politico attuale. Si tratta, prosegue Badiou, di «sapere se, dato un discorso secondo il quale il reale genera una costrizione, si possa, o non si possa, modificare il mondo in maniera tale che si presenti un’apertura, prima invisibile, attraverso la quale si possa sfuggire a questa costrizione pur senza negare che esistano sia il reale sia la costrizione» (p. 10). L’affermazione mette ora in mostra, nel punto più denso della teorizzazione, l’artificio concettuale che prima appariva solo dal meccanismo a effetto messo in moto dal titolo; in queste parole, in effetti, si può rintracciare quel fondamento necessario di cui si promuove la ricerca, che, se posto attraverso l’impossibilità di negarne la realtà e la costrittività, si presenta già da sempre come un originariamente già dato, una base per un reale già da sempre a disposizione, che occupa una posizione per cui si può già da sempre trovarlo: un reale che probabilmente non può dunque dirsi realmente perduto. La questione si risolverebbe, in un certo modo, solo in un problema di posizionamento: dopo aver detto che il punto non sta nell’interrogarsi sulle condizioni di possibilità della realtà, ma solo sulla necessità di trovare quella vera rispetto a quella apparente nella quale ci troveremmo, la mossa successiva è quella di rintracciare dove e come questo nuovo, autentico accesso al reale può darsi. Qui Badiou ripropone la sua prospettiva filosofica di fondo, caratterizzata dalla centralità data al concetto di evento, quella modalità inedita «che ci costringe a decidere una nuova maniera d’essere» (1994, p. 40) che assume la forma particolare di un incontro. Come già riguardo alla formulazione di una nuova base di legittimità per un pensiero etico e per una ridefinizione del fenomeno amoroso, anche l’incontro con la realtà si instaura essenzialmente grazie a un processo di ricollocazione, di un radicamento al livello della situazione, dove si può «approcciare il reale in un processo ogni volta singolare» (p. 15).
Prende così l’avvio, con questo percorso diagonale, un viaggio sul sentiero, presuntivamente interrotto, che conduce a quella sorta di disvelamento ultimo, a quell’incontro in cui il reale si mostrerebbe per ciò che è, rivelandosi attraverso tre momenti costitutivi che dell’incontro ne definiscono la natura. Il primo, rifacendosi all’episodio della morte in scena di Molière, delinea la forma preliminare dell’incontro come processo di smascheramento e divisione. La morte, reale, di Molière mentre recita il Malato immaginario crea «una sorta di attrito del tutto particolare tra il reale e la finzione» (p. 19) capace di ristabilire, dialetticamente, il primato del primo nei confronti del secondo; l’effetto di finzione della recitazione viene squarciato per mezzo della violenza del reale, che fa, paradossalmente, di un malato immaginario un morto reale. Il reale, ancora molto platonicamente, è pensato come «crollo di una finzione» (p. 20), come disinfestante per l’apparenza, che fornisce la maschera al reale e lo divide, creandone il suo sembiante polimorfo e illusorio.
Il secondo momento permette un avvicinamento al reale per mezzo di un incontro teoretico. Utilizzando la definizione, in verità solo una delle varie possibili, che Lacan fornisce del concetto di reale come impasse della formalizzazione, Badiou spiega che l’accesso a esso avviene nel momento in cui si pone la sua condizione di possibilità proprio dove questa andrebbe a costituire la sua negazione, vale a dire nell’impossibilità: «il numero infinito come impossibile è il reale dell’aritmetica» (p. 28), afferma con un esempio matematico. La formalizzazione della realtà, la sua condizione di realizzabilità, è sempre frutto di un suo punto di informalizzabilità; ecco perché se l’affermazione del reale come formalizzazione risiede nel momento dell’impasse questa sarà sempre anche in parte la distruzione di questa formalizzazione. In termini lacaniani l’idea potrebbe tradursi così: eliminare quel tanto di immaginario e di simbolico ‒ la «formalizzazione sostanziale della nostra esistenza» (p. 31) ‒ che impedisce di conquistare quel punto di impossibile che è il reale; gesto teorico interessante, ma che alleggerisce non di poco l’essenziale distinzione, prevista dallo stesso Lacan, tra reale e realtà, distinzione che in certo modo ripropone un altro celebre parallelismo, quello tra significante e significato; ma come il significante ‒ il senso ‒ non si risolve integralmente nel significato, anzi lo eccede, in quanto non solo sua semplice manifestazione ma anche sua fonte di produzione, così il reale, trovandosi allo stesso tempo dentro e fuori la simbolizzazione, dentro ma costitutivamente fuori dalla parola e dal soggetto, non pone le basi per la costruzione della realtà di quest’ultimo, «giacché il reale non attende, e non attende il soggetto, […] Ma è lì, identico alla sua esistenza, rumore in cui si può tutto intendere, e pronto a sommergere dei suoi bagliori quel che “il principio di realtà” vi costruisce sotto il nome di mondo esterno» (2002, p. 380).
Il terzo e ultimo momento dà accesso al reale attraverso la poesia, quel luogo linguistico che «estorce alla lingua un punto reale impossibile da dire» (p. 37). Le ceneri di Gramsci di Pasolini fornirebbe l’esempio artistico per eccellenza sull’interrogarsi del reale della storia. Inevitabilmente, trattandosi di Gramsci, il reale è quello del comunismo come possibilità irrealizzata, divenuta cenere appunto, le cui forme, storico-politiche e sociali, assumono la maschera grottesca del divertissement. Essa rappresenterebbe quella disperata passione d’essere nel mondo, senza realizzarlo, senza comprenderlo come prodotto d’una Storia che, nonostante se stessa, può lavorare ancora per noi, nella prospettiva di una nuova «dialettica affermativa» (p. 50), per cui la rinuncia «alla fede in un lavoro della storia che sarebbe di per sé stesso strutturalmente orientato verso l’emancipazione» consente anche di «continuare ad affermare che è certamente nel punto di impossibile di tutto ciò che si situa la possibilità dell’emancipazione» (p. 48)
La chiusura di questa tripartizione porta Badiou a concludere, dialetticamente, che il viaggio non è però concluso. Si tratta di puntare più in alto, iperuranicamente alla «ricerca di ciò che di reale vi è nel reale» (p. 52).
di Enrico Zimara
Bibliografia
Badiou, A. (1994). L’etica. Saggio sulla coscienza del male (1993). Parma: Nuova Pratiche Editrice.
Lacan J. (2002) Risposta al commento di Jean Hyppolite sulla «Verneinung» di Freud, in Scritti, vol. I (1966). Torino: Giulio Einaudi editore.
L’accattivante titolo Re Mida a Wall Street. Debito desiderio e distruzione tra psicoanalisi, economia, filosofia (Mimesis, 2015) costituisce una sorta di compendio lacaniano al tema del debito. Tenendo conto dell’enorme offerta di studi critici in circolazione, il tentativo del numero 5 di LETTERa, curato da Federico Leoni, è decisamente apprezzabile perché propone un’angolatura differente rispetto a quella dominante, prettamente economico-matematica. In che modo tratta il debito un analista? Come il Maestro? Élisabeth Roudinesco (1997, pp. 389, 397-398) racconta che Lacan aveva un debole per i soldi: gli analizzanti insolventi venivano inseguiti da una voce mielosa per ottenere il compenso pattuito. Il costo delle sedute era d’altronde carissimo: da ottimo freudiano sapeva che guarigione e prezzo sono direttamente proporzionali. I contributi raccolti, tra cui si elencano quelli di Jean-Luca Nancy e Elvio Fachinelli, aiutano a capire la complessa osmosi tra il discorso analitico e quello economico disponendo il dibattito attorno a due assi, l’uno simbolico e l’altro reale. Per la psicoanalisi – come Giancarlo Ricci giustamente sottolinea – il debito è simbolico. L’essere umano riceve dall’Altro una sorta di investimento iniziale di natura linguistica – un po’ come le imprese che ottengono un prestito per prendere avvio. Diversamente dalle aziende, per il soggetto sarà però impossibile sottrarsi: dal momento in cui entra nel linguaggio, dovrà fare i conti con qualcosa che gli è stato donato senza averlo richiesto. Anche disfarsene pare difficile. La catena di significanti in cui siamo catturati, se da un lato permette a ognuno di inserirsi nell’ordine dello scambio simbolico, cioè parlare, dall’altro può risultare un intralcio faticoso quando diventa una ripetizione arida, un equivalente dell’istinto senza essere animali. Come i giocatori d’azzardo patologici trattati da Nicolò Terminio, obbligati a scommettere aspettando che i soldi finiscano e venga così arginato il loro automatismo. Ci chiediamo: chi alza il braccio per muovere la leva della slot machine? È abbastanza chiaro quanto sia difficile essere liberi? Sebbene suoni sufficientemente reazionaria da non essere presa in considerazione, Goethe aveva suggerito una strategia per emanciparsi: riconquistare ciò che è stato ereditato. In tal modo si spera di possedere davvero il lascito senza esserne posseduti.
A ciò si deve aggiungere il lato reale della pulsione – la dimensione decisiva dell’analisi su cui si valuta la riuscita di una cura. Freud aveva intuito che l’uomo è refrattario alla salvezza, non vuole saperne di guarire, perché comporta l’abbandono del proprio godimento. L’aspetto assurdo è che l’uomo gode di oggetti ritenuti totalmente inutili, inessenziali, dal senso comune. È noto il parallelismo tra feci e denaro, lo è meno che l’escremento sia un oggetto causa del desiderio, un “plusgodere”. Elvio Fachinelli parla dell’oro come del «primo cocente amore del giovane capitalismo» (p. 16), e siamo dunque stupiti nel pensare che qualche banchiere sperduto a Wall Street strabuzzi gli occhi nel vedere una “montagna di merda”. La materia a cui si dà meno importanza risulta invece determinante. C’è una cosa curiosa, se si legge il contributo di Massimo Amato. Questi spiega che i soldi non valgono nulla, la moneta è fatta solo per sparire nella circolazione – allo stesso modo delle feci. Eppure, perché mai tanta gente si ostina ad accumulare il nulla? Come l’avaro di Molière che stipava tutto nel giardino e sovente andava ad assicurarsi che non mancasse niente, così molte persone controllano più volte al giorno con lo stesso tic osceno, per esempio, che il fondo obbligazione continui a rendere. Keynes aveva azzeccato la questione: occorre creare una moneta che in sé non si trattenga, perché se si lasciano le cose al loro corso, l’uomo si mostrerà stitico.
Un punto di sintesi teorica, tra quello che abbiamo chiamato il lato simbolico e quello reale, è il “discorso del capitalista”, proposto da Lacan nel 1972. Introdotti qualche anno prima, i “quattro discorsi” sono infatti dei dispositivi concettuali in grado di connettere sociale e individuale, linguaggio e godimento. Utili agli analisti per inquadrare la struttura dell’analizzante, a noi interessano per un diverso motivo. Nel suo intervento, Federico Chicchi nota come la soggettività più diffusa non si senta in colpa perché in debito, ma nel caso sia incapace ad accedere a nuovo credito. Insomma, una volta ci sanzionavamo perché ogni volta il godimento era troppo, ora ci accusiamo di non godere mai abbastanza. Tale ribaltamento è dovuto al fatto che nel discorso del capitalista si instaura un rapporto privilegiato con l’oggetto del godimento; si assiste quindi all’“industrializzazione del desiderio” (Lacan, 1978, p. 229). Visto che è nella natura degli oggetti essere sostituibili (dato il carattere metonimico del desiderio), comprendiamo anche perché l’individuo capitalistico non si accontenti mai e percepisca ogni limite come un’insopportabile privazione.
Andrea Mura si sofferma diffusamente su questi e altri aspetti, ma non accenna alla centralità della stupidità come fattore centrale dell’uscita dal discorso del capitalista. La coppia furbizia/stupidità ricorre spesso negli scritti degli anni ’70 di Lacan. Per esempio, nel testo del 1973 Excursus afferma: «per rendere veramente bene come analisti, si dovrebbe, al limite, riuscire a ridurre se stessi più stupidi che di natura» (ibidem). Nel seminario Les non-dupes errent, dell’anno seguente, si sosterrà che convenga essere il più allocchi possibile per non errare: se il capitalismo è astuto, ha successo e funziona, chissà cosa accadrà a contatto con la stupidità.
di Filippo Aguzzi
Bibliografia
Lacan J. (1978). Excursus, in Id. Lacan in Italia (1953-1978), trad. it. di L. Boni. Milano: La Salamandra.
Roudinesco É. (1997). Jacques Lacan. Outline of a life, history of a system of thought. New York: Columbia University Press.
Perché un’altra monografia su Deleuze? E perché dedicare un lavoro a Deleuze in una collana che si chiama «Eredi» (diretta da Massimo Recalcati), quando si è cominciato il proprio cammino filosofico studiando Bergson? Ma, soprattutto, perché scegliere un sottotitolo, Credere nel Reale, per un saggio consacrato al re dei simulacri, a colui che ha rovesciato ogni credenza e ogni realtà, similmente a ogni credenza nella realtà?Il Deleuze di Rocco Ronchi (Feltrinelli, Milano 2015) non è l’ennesimo saggio dedicato al filosofo francese a cui Michel Foucault, con una lungimiranza prossima alla veggenza, legò le sorti della filosofia a venire. Non è l’ennesimo saggio però proprio perché lo è: è ennesimo e lo vuole essere.Questo è solo il primo dei tre paradossi con cui è possibile afferrare l’operazione che Ronchi fa col suo ultimo lavoro. Gli altri due sono veicolati rispettivamente dal rapporto che quest’ultimo intrattiene col titolo della collana («Eredi») e col suo stesso sottotitolo (Credere nel reale). A partire da questi tre interrogativi, solo apparentemente aporetici, è cioè possibile trattenere per qualche istante l’attenzione sulla nuova immagine che, di Deleuze, emerge dall’ultimo libro di Ronchi., non stupendosi però che sia proprio una via paradossale e lastricata da cattive intenzioni a permetterci di toccare il senso di questo breve ma calibratissimo saggio.
Deleuze è stato infatti il filosofo che più di tutti, almeno nel 900, ha fatto del paradosso l’agente provocatore della filosofia, il lampo scatenante il tuono del pensiero. A esso, ci insegna, siamo costretti da un trauma, da un incontro imprevisto e letale al quale non possiamo sottrarci. Un unico e intempestivo incontro che poi risuona e si distribuisce frattalmente in piccoli traumi che si ripetono come “piccoli limiti” (L’Anti Edipo, 1972), traumi e limiti che coincidono con i singolari arresti della doxa, con i suoi controsensi e i suoi inciampi.
È qui che si comincia a pensare, perché è in un controtempo che Deleuze rintraccia la possibilità di “generare l’atto di pensare nel pensiero” (Differenza e ripetizione, 1968). E prima di lui fu Platone a intercettare la stessa possibilità nel contraccolpo provocato dai ta parakalunta, oggetti capaci di scuotere il pensiero provocando “sensazioni nello stesso tempo contrarie” (Filebo 46 c e Repubblica VII, 523 b). Pensare non è nulla di ovvio, afferma Ronchi (p. 77) e i ta parakalunta sono proprio le pieghe in cui si sospende il dativo dell’“a me pare”, sono gli scogli su cui si frantuma bruscamente l’opinione, i luoghi in cui si contorce e storce il duplice filo del senso comune e del buon senso.
Al bucolico e troppo irenico thaumazein di aristotelica memoria, Deleuze ha del resto sempre preferito il traumatizestai, l’essere ferito, la violenza dell’urto, l’impatto col Reale e col Fuori che, solo, forza il pensiero costringendolo al movimento. Il traumatizestai è dunque questa spinta paradossale e quella situazione ottica pura in cui, soltanto, gli eventi fanno segno (p. 63).
Che sia una via paradossale a permetterci di cogliere il senso di questo libro è dunque forse il primo e più significativo segno che non si tratta di lettera morta. Per dire, per esplicitare il sottinteso di una filosofia, lo storico, così come il saggista e lo scrittore, deve d’altronde condividere con quel pensiero una “causa comune”, la medesima urgenza nascosta magari tra le pieghe del discorso. In altre parole, l’atto ermeneutico è sempre creativo, ma creativo perché critico e critico perché violento.
«Con questo saggio non pretendo di aggiungere una mia introduzione all’opera di Gilles Deleuze alle tante, validissime, che circolano. La mia intenzione è un’altra. Ciò che mi sono proposto è scrivere un capitolo di storia della filosofia contemporanea» (p. 9). Tutto sta, quindi, nell’intendersi su cosa sia la storia della filosofia contemporanea e su cosa significhi scriverne un capitolo. Deleuze al riguardo è piuttosto chiaro: «Il mio modo di cavarmela –scrive ‒ consisteva soprattutto nel fatto di concepire la storia della filosofia come una specie di inculata o, che è lo stesso, di immacolata concezione. Mi immaginavo di arrivare alle spalle di un autore e fargli fare un figlio, che fosse suo e tuttavia fosse mostruoso» (Pourparler, 1990).
L’immacolata concezione evocata da Deleuze è critica radicale all’immagine dogmatica e stereotipata della filosofia e della storia che se ne scrive. «Critica» nel senso in cui, provocando un “crollo centrale” del pensiero, obbligandolo a pensare questo crollo e questa impotenza che è sua propria, essa apre una crisi che mette in causa il modello trascendentale implicato dall’immagine dogmatica, ossia il modello della ricognizione mediata dall’esercizio concorde di tutte le facoltà e garantita dall’identità dell’Io per un soggetto supposto identico. Nella sua differenza la filosofia deve, per Deleuze, opporre all’immagine l’avventura dell’incontro senza affinità né predestinazione. Detto altrimenti, in gioco è una certa tensione, da sopportare e da cui lasciarsi attraversare. Per Deleuze infatti non è questione di giudicare ma di “far esistere” (Critica e clinica, 1993), di creare, spingendo il pensiero critico fino in fondo, ossia al di là del principio della quadruplice e organica ragione.
“Sua e mostruosa”, in una parola, perturbante, la nuova immagine del pensiero (a cui Deleuze dà il nome di empirismo trascendentale) non è perciò una semplice rappresentazione ma un’intuizione e questa non tanto come sguardo panottico e distaccato che tenta il sorvolo quanto, piuttosto, come esperienza diretta, intensiva e affettiva di forze che si dispiegano e che disfano ogni elemento di trascendenza, il soggetto come l’oggetto. Questa è l’avanguardia deleuziana: stazionare, fuggire fermi sul posto, perché divenienti infinite variazioni. E quale filosofo non si augurerebbe di produrre una immagine del pensiero che non dipenda più dalla buona volontà del pensatore e dalla sua decisione premeditata? Chi cioè non vorrebbe affrancarsi dal dogmatico atteggiamento trascendentale che questiona le condizioni dell’esperienza possibile per guadagnare quella genitalità che è genesi statica e intrinseca dell’esperienza reale?
La differenza dunque risiede nella concezione di storia della filosofia che si presuppone e che, nel caso di Ronchi lettore di Deleuze, è indubbiamente mutuata dal suo oggetto di studio. Nessun racconto lineare in cui la vicenda si è già tutta consumata e che, da qualche parte nella “mente” dell’autore che si accinge a esporla, attende solo di essere “rivelata”. Nessun monumentale e mortifero allestimento di fatti avvenuti, e perciò morti, in cui il tempo del racconto non fa nulla (p. 9). Da Deleuze viene tutta un’altra idea di storia della filosofia che, accettando il suggerimento di Ronchi, si può definire “problematica”, campo e insieme teatro di una battaglia di cui non si conosce anticipatamente né l’esito né lo scioglimento. Del resto, solo l’assenza di presupposti punta dritta alla creazione. E lo fa procedendo senza concetto: come l’intuizione di Kant e al modo della differenza di Deleuze.
Affermare che il testo di Ronchi non è l’ennesimo saggio su Deleuze proprio perché lo è significa, allora, affermare quest’assenza di presupposti, ribadire quel “senza concetto”. Così vicino al “senza tempo” dell’inconscio di Freud, al “senza senso” del Reale che ossessiona Lacan, ma anche e soprattutto, al “senza immagini” che Deleuze attribuisce al pensiero.
E tuttavia, se il saggio di Ronchi non è l’ennesimo lavoro consacrato a Deleuze è perché, anzitutto, esso consiste in quell’atto, del vivente prima che della matematica (o della matematica perché del vivente) che è l’elevazione alla n, la “messa in potenza”. La n come lettera, viva, della ripetizione cara a Deleuze, della buona ripetizione in cui a tornare è la differenza. N è la lettera del ritornello a cui la musica fa subire il “trattamento molto speciale della diagonale o della trasversale” (Millepiani, 1980) strappandolo così alla sua territorialità. Ennesima è cioè la ripetizione che sfugge al concetto perché preferisce crearlo, è la differenza come forza selettiva. N è il tema assunto come radiale e non come terminale per dirla con Glenn Gould; è il marchio di quella “superfetazione di un atomo intuitivo e indicibile” che è il filosofo secondo Henri Bergson. N è, infine, il segno di una nuova immagine del pensiero.
A partire da un singolare anacronismo si sostanzia la scelta di dedicare a Deleuze e non a Bergson un saggio in una collana che si chiama «Eredi». Se infatti il filosofo, come Deleuze ama ricordare, è l’artista del concetto, egli è tale, ossia lo diviene, solo dopo essere stato un umile ritrattista. Perché è nel servizio, nell’apprendistato e nell’esercizio con la E maiuscola che si prepara il terreno propizio alla creazione. Ronchi ha cominciato ritraendo Bergson e lo ha fatto mostrando che ogni volta che si rileggono davvero, ossia integralmente e senza pregiudizi, i testi di autori famosi, di filosofi e maestri da tempo assegnati e «sistemati» entro la tradizione storico-critica, si scopre, con immenso stupore, quanto quest’ultima sia spesso in difetto rispetto alla verità. E siccome ogni apprentissage è, nel tempo, un’avventura dell’involontario (Proust e i segni, 1964), accade che, après-coup, dopo i colpi della tecnica e dell’esercizio, improvvisamente s’incontri qualcuno per la prima volta pur avendo certezza che sia l’ennesima. Primultima direbbe Jankélevitch.
In una collana dedicata ai maestri di cui ci sente eredi, Ronchi sceglie Deleuze proprio perché ha cominciato con Bergson. Ritraendo il filosofo dell’élan vital (cose antiche), egli si è infatti imbattuto nell’empirismo trascendentale (cose meno antiche). Meglio: è riuscito a ritrarre Bergson come un filosofo dell’interpretazione solo perché, senza saperlo, era già interpretante dei segni deleuziani (cose antiche che vengono dopo cose meno antiche). Come ricorda Deleuze: «apprendere è qualcosa che concerne essenzialmente i segni. Questi sono appunto oggetto di un apprendimento temporale e non di un sapere astratto […] Occorre essere predisposto ai segni, aprirsi al loro incontro, aprirsi alla loro violenza» (Proust e i segni, 1964).
Dalle cinque sezioni-sfondo in cui si articola il volume, si staglia l’immagine di un Deleuze radicalmente monista, inaspettatamente platonico e sorprendentemente reale. Contro ogni lettura della filosofia deleuziana in termini di metamorfismo energetico, caleidoscopico e, però, eminentemente entropico, Ronchi insiste su quell’unico ritornello, su quell’unico evento colto da diverse date e rifrangentesi in quella “multiversità dello spettro filosofico” (P.A. Rovatti) che è la filosofia di Deleuze, il quale, come l’autore sottolinea più volte, dice, in fondo, sempre la stessa cosa. In secondo luogo, ribaltando la vulgata tradizionale – quella che allestisce l’immagine, forse la più stereotipata, di un Deleuze eroe del rovesciamento del platonismo, colui che cioè ha realizzato, nel senso di portare a compimento, il programma nietzscheano ‒ Ronchi piazza al centro del pensiero contemporaneo l’immagine di un Deleuze profondamente platonico, di un Deleuze classico e perciò davvero eversivo. Infine, alla lettura militante ma sclerotizzata che ha fornito le chiavi per aprire e utilizzare quello scrigno di parole-azione che è L’Anti Edipo, immagine sacrificata all’aut-aut tra simbolico e immaginario, Ronchi sostituisce quella di un Deleuze speculativo, filosofo rigoroso e singolarmente realista, nel duplice senso di colui che, con un unico atto di fede nel Reale, dichiara simultaneamente scacco matto al re e alla regina. Né simbolico né immaginario, al di là del padre e della madre, il Deleuze di Ronchi è infatti assolutamente reale, vera e propria intrusione del primum et tertium, puro e anedipico, che spezza il doppio vincolo tra legge repressiva e godimento illimitato. Facendo dell’intuizione un metodo e della diairesis agonistica il suo banco di prova, la lettura che Ronchi propone di Deleuze è militante perché atletica, in lotta per l’affermazione dell’infinita uguaglianza dell’essere in ogni ente contro ogni oscena e fascista visione di questa univocità.
Si tratta, per riprendere una battuta delle pagine iniziali del testo, di essere “veggenti più che attanti”, di provare a vedere nella luce più che con gli occhi e di indicare, poi, ciò che si è visto, piuttosto che sforzarsi a organizzarne fin da subito la traduzione simbolica. Il mistico infatti “fissa, intensifica e completa in azione” ma, soprattutto, crede. Crede intransitivamente perché veggente. L’atto di fede è questa forza neghentropica che approda a un’immagine diretta del tempo e/o dell’evento e che spinge in direzione contraria all’entropia del senso comune (p. 18). E l’evento in questione è il ’68. A quella data Deleuze associa l’intrusione del Reale puro, del Reale univoco che è processo morfogenetico, produzione incessante della forma risalente all’indietro la china dell’indifferenziato. Se il Deleuze di Ronchi non né simbolico né immaginario è perché è un’esperienza pura, un’intuizione come simultaneità delle due direzioni contrarie e una penetrazione insieme impossibile (per la rappresentazione) e necessaria (alla filosofia).
Solo nell’opportuna espressione, che è inevitabile esplicatio, di questa esperienza e complicatio riecheggia quell’unico ritornello che intona ciò che tutti vogliamo e siamo: unitas multiplex. Ed è questo rumore di fondo, che è quello del processo ‒ per dirla con Whitehead ‒, dell’atto in atto – per usare un lessico caro a Gentile ‒ e/o della molteplicità illimitata e mouvante di forme finite, che sono le immagini mobili di Bergson e le figure atletiche di Deleuze, che bisogna allenarsi a ascoltare trasformando l’occhio in orecchio. Si tratta di esercitarsi a stazionare presso questo brusio fino a fare tutt’uno con esso, fino a sentirsi divenire quel rumore e quel fondo. Solo così si è degni dell’istante pulsionale in cui Alfa cortocircuita Omega.
Se questo, come rimarca Ronchi, è il programma di ogni ontologia è perché è anzitutto il compito primo della filosofia, della philosophia perennis et bona: «arrivare alla formula magica che cerchiamo tutti. Pluralismo=monismo, passando per tutti i dualismi che sono il nemico, ma il nemico assolutamente necessario, il mobile che non cessiamo di spostare» (p.79). Millepiani = un piano: questo è il sesamo per una filosofia dell’immanenza assoluta.
Nel primo periodo del suo insegnamento Lacan mette l’accento sulla funzione simbolica del linguaggio e della parola. Parte dalla constatazione che la psicoanalisi post freudiana del suo tempo aveva in realtà deviato dal sentiero tracciato da Freud: quelli che Freud aveva individuato come concetti fondati su una logica rigorosa erano invece stati presi in modo immaginario, burocratico, cosa che li aveva resi vuoti, banali, privi di logica. In questo primo periodo Lacan svalorizza gli aspetti immaginari per risituare l’esperienza dell’analisi sul suo asse simbolico. Vale a dire che al centro dell’analisi non c’è il significato, il senso. Il senso nascosto dei sintomi di cui parla Freud non è un significato predeterminato, in cui “x vuol dire y” e y sarebbe qualcosa di “rimosso”, nel senso di nascosto in un baule che dovrebbe essere tirato fuori. Non si tratta di questo, questi sono aspetti immaginari che non permettono che si produca dell’inconscio (che è propriamente la finalità di un’analisi). Il simbolico ha invece a che fare con la parola nella sua dimensione significante – termine che Lacan usa mutuandolo dalla linguistica di De Saussure –, cioè slegata dal significato.
Freud lo dice bene affermando per esempio che il sogno funziona come un rebus. A caratterizzare il rebus è il fatto che le parole valgono non per il loro significato, ma per il loro suono, per le lettere che le compongono. Ebbene, l’inconscio funziona proprio così. D’altra parte la regola fondamentale dell’analisi, l’associazione libera – l’invito a dire qualunque cosa venga in mente senza censure –, si fonda proprio su meccanismi significanti. L’interpretazione in analisi non è allora un’interpretazione di senso ma sul piano significante, e l’analisi permetterebbe – secondo l’elaborazione del primo insegnamento di Lacan – la simbolizzazione anche degli aspetti che non sono di per sé di stoffa significante, cioè di parola, come gli aspetti libidici e pulsionali, che toccano da vicino il corpo. In questa logica, la famosa frase di Lacan non esiste rapporto sessuale – che naturalmente non vuol dire che non si compiano atti sessuali – significa allora che non c’è la possibilità che il rapporto tra i sessi sia simbolizzato, che non esiste parola che lo dica appieno, che tra uomo e donna rimane sempre “qualcosa che non va”, uno iato. Si può anche dire che il rapporto tra i sessi non può essere ridotto a formula, a pura logica. Man mano che Lacan procede nel suo insegnamento, prende però sempre più valore un altro aspetto, relativo al godimento. È la parte della sua elaborazione in cui, pur prendendo le mosse dall’opera di Freud, Lacan è sicuramente andato al di là.
Che cos’è il godimento?
Prima di tutto non va confuso con il piacere. Possiamo parlarne come di un’esperienza di soddisfacimento che riguarda ciascun essere umano. Su questo punto, Lacan riprende da Freud diversi elementi. Innanzitutto, il piccolo essere umano, quando viene al mondo, si trova in uno stato di indigenza e sconforto, cui corrisponde una prima esperienza di soddisfacimento, tramite l’intervento di una persona esterna, grazie a un oggetto (per esempio il seno materno). Lacan dice in più occasioni che se osserviamo un neonato dopo la poppata potremo vedere un’espressione di pienezza e soddisfazione assoluta, di godimento appunto.
Ci sono però altri aspetti in gioco: per esempio, già Freud aveva notato che anche un sintomo che fa soffrire può produrre nel soggetto del soddisfacimento. Ne aveva parlato per esempio nel caso dell’Uomo dei topi, in cui notava sul volto del paziente, che riportava il racconto che aveva udito di una tortura praticata in Oriente, racconto che suscitava in lui il più vivo orrore ogni volta che gli veniva in mente, un’espressione di “orrore di un proprio piacere a lui stesso ignoto”. Cogliamo qui che il concetto di godimento ci proietta decisamente al di là di una logica del bisogno: il neonato che aveva fame e si è saziato, con la sua espressione beata, ci dice che si è prodotto, rispetto al semplice soddisfacimento del bisogno, un di più, ed è alla ripetizione di questo “di più” che da quel momento il soggetto tende; non si tratterà più solo di placare la fame. Il godimento quindi tocca in primis il corpo, e alla fine degli anni ’60 Lacan dice che «un corpo è fatto per godere, godere di se stesso». Se inizialmente aveva ipotizzato che la dimensione corporea del godimento potesse essere del tutto riassorbita dal simbolico, in seguito coglie che ciò non è possibile: anche al termine di un’analisi questa dimensione permane, per quanto non immutata. Infine – ce lo insegna per esempio l’espressione che Freud individua sul volto dell’Uomo dei topi – il godimento può coesistere con l’orrore, ma anche con il dolore. La persona soffre, ma al tempo stesso è invasa da un godimento che neanche riconosce come tale; è l’analisi che può permetterle di riconoscerlo, e di separarsene almeno un po’. Il godimento però, nell’esperienza umana, non è mai completo e durevole. Per l’essere umano esso è perduto da sempre, interdetto; quello che ne possiamo esperire nella nostra vita sono briciole, frammenti, attimi, e questo spinge ogni volta di nuovo alla ricerca di soddisfacimento, tramite la parola o gli oggetti. Sì, perché la parola non è fuori da questo gioco. La parola stessa produce un godimento.
L'elaborazione di Lacan è molto importante perché offre degli strumenti per comprendere i fenomeni clinici (con “clinici” possiamo intendere tutto ciò che, della vita quotidiana, viene portato in analisi) del nostro tempo, che sono in parte diversi da quelli di cui ha parlato Freud, perché diverso è il discorso dell’epoca. Nei primi del ‘900 così come oggi sono in gioco, per gli esseri umani, sia l’interdizione (castrazione) sia il godimento, ma mentre all’epoca di Freud era la dimensione dell’interdizione, della regola, della rinuncia, e quindi del desiderio, a ordinare la vita soggettiva, familiare e sociale, oggi godi! è l’imperativo cui tutti siamo sottoposti senza sosta. Viviamo nel mondo degli oggetti che possono soddisfarci e renderci tutti belli, giovani, sani, performanti; ciò ha assunto la valenza di un obbligo: puoi godere, quindi devi godere! Il sesso non sfugge a questa logica.
Ma allora, che ne è oggi del rapporto sessuale?
Anche sul piano del godimento, possiamo affermare che non c’è rapporto sessuale. C’è differenza tra il versante maschile e il versante femminile, ma per nessuno dei due il godimento “fa rapporto”, produce condivisione. Il godimento, anche quello dell’atto sessuale, resta non condivisibile. Ciascuno gode sempre dalla sua parte. Il godimento non produce rapporto sessuale perché il corpo “si gode”. Per questo Lacan può dire che «due corpi non possono fare uno». Solo nell’illusione dell’amore si può fare uno con l’altro ma, come ciascuno sa, è un’illusione di breve durata. L’amore è un velo sull’inesistenza del rapporto sessuale, e come ogni velo ricopre ma al tempo stesso lascia intravedere quel che c’è sotto.
«Che ne è del femminile nell'analisi di un uomo?» Domanda tutt’altro che semplice e ingenua quella postami da una collega psicoanalista e che dava il là a queste note. Tale domanda infatti presuppone non solo che il femminile riguardi un uomo, non meno di una donna, ma anche che l'esperienza analitica possa incidere sul modo in cui un uomo può fare posto e trattare il femminile che lo abita piuttosto che espellerlo sulla via di quelle che, con Freud, possiamo chiamare le “insegne falliche”. Lungi dall'essere riducibile all'organo sessuale maschile, il fallo è piuttosto quel simbolo che, nel linguaggio, viene a rappresentare ciò che l'essere parlante incontra come mancanza fondamentale che specifica del suo essere al mondo. In un certo senso la scoperta freudiana dell'inconscio va di pari passo alla constatazione che, a livello dell'inconscio, esiste una certa “democrazia” tra i sessi per ciò che concerne il fallo. Proprio in quanto il fallo non coincide con l'organo, il pene, esso riguarda entrambe i sessi, pertanto, almeno per il discorso analitico, non è su questo piano che si può operare la differenziazione sessuale tra maschile e femminile. Il fallo è una risposta in termini di avere/non avere a una questione che concerne l'essere nel suo rapporto con il reale del sesso e, al contempo, con il linguaggio in cui esso viene al mondo. Il fallo, dunque, apre e struttura il campo della significazione dell'esperienza umana, introducendo il soggetto a una dialettica fondata sul dono, dialettica che, per quanto illusoria, renderebbe possibile lo scambio tra l'uno e l'altro.
Concepire la differenza tra maschile e femminile a partire dalla logica fallica, logica binaria, fondata sull'opposizione di un più a un meno, lascia aperta l'idea o quanto meno l'illusione che tale differenza sia “eliminabile” in base a un principio di parità tra i sessi del tipo: “Ciò che non ho oggi potrò averlo un domani o, al rovescio, ciò che ho posso prodigarmi a donarlo all'altro, riconosciuto come sprovvisto di tale bene”. Si tratta della dialettica dello scambio che, lungi dall'essere istintivamente predeterminata o “naturale”, tenta di organizzare il rapporto tra gli umani delimitandone il campo della più parte delle manifestazioni cosiddette affettive che presiedono alle condotte dell'individuo nel rapporto coi suoi simili: gelosia, invidia, aggressività, oblatività, amore narcisistico... In questo senso la logica fallica tenderebbe a situare la differenza sessuale lungo una scala graduata che va dal più al meno, in una sorta di gerarchia che determina anche tutte le sfumature immaginarie del potere. Come detto poco fa non è tuttavia su questo piano che, già a detta di Freud, si iscrive la differenza tra maschile e femminile, non meno che sul piano dei caratteri primari che ci si ritrova tra le gambe o, ancora, a partire della prevalenza di una lettera X o Y scritta geneticamente su un'elica alla quale oggi l'essere parlante cerca sempre più di ancorare il suo destino.
Lacan, riprendendo la lettera freudiana, esplora inizialmente la differenza tra i sessi passando anch'egli attraverso la dialettica del fallo, ma operando al contempo uno spostamento e una nuova condensazione rispetto al Freud che troviamo nel testo La significazione del fallo. In relazione al fallo l'uomo si situerebbe dal lato dell'averlo, a differenza della donna che viceversa tenderebbe a collocarsi dal lato dell'esserlo. Queste due differenti posizioni in relazione al fallo specificherebbero la commedia dei sessi e tutta la parata amorosa, soprattutto per ciò che concerne la dimensione del desiderio che interviene tra il maschile e il femminile, qui presi come posizioni sessuate al di là del sesso “biologico”. Biologico è qui tra virgolette in quanto, per ciò che concerne l'essere parlante, il ritrovarsi dal lato uomo o donna non può prescindere dal linguaggio, dalla dimensione simbolica e da come ciascuno, letteralmente, la incarna. Per tale ragione, almeno per il discorso analitico, è improprio parlare di identità sessuale, per il semplice fatto che rispetto all'assunzione del sesso entra in gioco un impossibile, l'impossibile di fare Uno. Il sesso non solo non fa identità ma, al rovescio, è proprio ciò su cui ciascun soggetto incontra la sua disparità assoluta, l'alterità sia nel rapporto con l'altro da sé che in se stesso.
Ebbene, sia in Freud che in Lacan, il femminile, proprio perché non prendibile nella logica regolata dal fallo, a cui può essere invece ricondotto il maschile, si presenta come l'alterità per eccellenza, come quel “continente nero” che sfugge alla presa da parte del simbolico, del linguaggio e che piuttosto rinvia al reale del corpo godente. Lacan non indietreggerà di fronte a questo “continente nero” e negli ultimi anni del suo insegnamento riprenderà la questione del femminile proprio a partire dall'elaborazione di un godimento Altro non regolato e sottomesso alla logica fallica, godimento caratterizzato da una certainfinitezza a cui una donna, non meno di un uomo, può accedere senza tuttavia poterne dire niente poiché strutturalmente imprendibile dal linguaggio. Lacan esplorerà il godimento propriamente femminile non solo a partire dall'elaborazione dell'esperienza analitica, ma anche attraverso lo studio delle testimonianze di alcuni mistici, quali San Giovanni della Croce e Santa Teresa D'Avila.
Torno ora alla domanda di partenza postami dalla collega: «Che ne è del femminile nell'analisi di un uomo?». Non saprei! Ciò che tuttavia da questo non sapere posso dire è che l'analisi si è per me caratterizzata come una sorta di percorso a ostacoli, dove ogni ostacolo rappresentava l'identificazione inconscia prelevata nel campo dell'Altro a cui il mio essere si era come abbarbicato nell'impossibile tentativo di darsi un'identità, un Io con cui rispondere alla meno peggio al proprio essere nel mondo. Ebbene l'analisi, con mia grande sorpresa e non senza orrore, conduceva alla caduta di queste identificazioni che, in ultimo, scoprivo ruotare attorno a un unico perno, a un'identificazione primaria agita rispetto al padre, inteso qui come funzione più ancora che come individuo. La caduta di queste identificazioni “falliche”, su cui tanto il sintomo quanto l'Io si sostenevano, lasciava ora il posto al confronto con un altro “substrato identificatorio” che, con Freud, potremmo chiamare identificazioni per “appoggio” o anaclitiche, radicate in misura maggiore al legame col materno, legame tanto oscuro quanto difficile da sbrogliare, per il carattere tenace di un attaccamento ancorato più alla parzialità di alcuni oggetti afferenti al corpo (bocca, ano, sguardo, voce) che al linguaggio, ovvero all'Altro simbolico. Allora se qualcosa del femminile ha potuto trovare posto nella mia analisi è stato non solo nell'andare appunto al di là delle identificazioni falliche inconsce su cui l'Io si sosteneva, ma anche operando il distacco da quegli oggetti parziali su cui il soggetto basava la sua singolare e ripetitiva modalità di godimento. In questo litorale ritagliato tra il linguaggio ridotto alla sua dimensione di catena significante insensata e il corpo preso non tanto nella sua forma o immagine quanto nella sua esperienza pulsionale, il femminile poteva tratteggiarsi quale effetto “leggero” di un atto che apriva al nuovo, all'impensato, all'inedito, all'intima alterità.
Il fatto che il femminile non si possa dire non toglie tuttavia che, a posteriori, ogni soggetto, uno per uno, non possa rintracciare le contingenze in cui tale incontro avrà potuto effettuarsi. Almeno questo è quanto Freud, prima, e Lacan, dopo, invitano gli analisti a fare. Forse le colleghe analiste potranno, ancora una volta e un domani, tornare a dirne ulteriormente qualcosa e a interrogare i colleghi analisti proprio su questo enigma.
Lo statuto del corpo in psicoanalisi assume un valore diverso dall’organismo vivente nella sua funzionalità biologica. Freud sin dall’inizio si è preoccupato di sottolineare come l’inconscio abbia effetti sul corpo, e con l’isteria, attraverso l’osservazione dei sintomi presentati nel corpo, giunse alla costruzione della teoria delle pulsioni per spiegare l’eccesso di eccitazione nel corpo e la ricerca di una soddisfazione che si ottiene al di là del soddisfacimento di un bisogno.
Nel testo Introduzione alla Psicoanalisi (1989) Freud scrive: «Una pulsione si differenzia da uno stimolo per il fatto che trae origini da fonti di stimolazione interne al corpo, agisce come una forza costante e la persona non le si può sottrarre con la fuga, come può fare di fronte allo stimolo esterno. Nella pulsione si possono distinguere: fonte, oggetto e meta. La fonte è uno stato di eccitamento nel corpo, la meta l’eliminazione di tale eccitamento; lungo il percorso dalla fonte alla meta la pulsione diviene psichicamente attiva» (p. 205). Già in Pulsioni e loro destini (1976) affermava che «la pulsione ci appare come un concetto limite tra lo psichico e il somatico, come il rappresentante psichico degli stimoli che traggono origine dall’interno del corpo e pervengono alla psiche, come una misura delle operazioni che vengono richieste alla sfera psichica in forza della sua connessione con quella corporea» (p. 17). Lacan riprenderà la teoria delle pulsioni di Freud articolandola, però, al linguaggio; infatti egli sottolineò come il significante entri nel corpo rendendolo corpo vivente, che diventa quindi sostanza godente. Pertanto, avviene un effetto di scrittura che il significante esercita sulla superficie corporea, e il significante stesso può farsi veicolo di godimento introducendo del godimento supplementare nel corpo vivente. Dunque, quando parliamo di corpo non ci riferiamo all’organismo, a quello che ci viene dato; inoltre è necessario distinguere il corpo dall’organismo biologico e dal soggetto. Uno degli effetti del linguaggio è di separare il corpo dal soggetto; questo effetto di divisione, di separazione tra il soggetto e il corpo è possibile solo attraverso l’intervento del linguaggio: il corpo deve costituirsi, non si nasce con un corpo. Vale a dire che il corpo si costruisce secondariamente, essendo effetto della parola.
Le prime teorie di Lacan sul corpo risalgono al 1949, alla teoria dello stadio dello specchio, in cui egli sostiene che il corpo è determinato dalla sua immagine. Nello stadio dello specchio, Lacan ci mostra che, affinché si riconosca come un corpo intero e unificato, al soggetto è necessario un altro, dunque è solo per identificazione con l’immagine dell’altro che il bimbo acquisisce l’immagine del proprio corpo. Ciò nonostante la condizione per l’identificazione immaginaria è il suo accesso alla struttura del linguaggio, ossia al registro simbolico. Perciò la costituzione dell’immagine corporea è un effetto che viene dal simbolico. L’immagine del corpo è ciò che dà consistenza all’Io che quindi si costituisce per il tramite dell’immagine del corpo. Già Freud nel testo L’Io e l’Es (1977) aveva messo in connessione l’Io con il corpo affermando che l’Io è un’entità corporea ed è il luogo su cui si proiettano le sensazioni provenienti dalla superficie del corpo (cfr. p. 488). L’Io è un Io-corpo dice Freud (ivi, p. 490). Il corpo immaginario è una forma completa, senza fratture, e ciò avviene per mezzo della rappresentazione di sé che il bambino intercetta nello specchio.
Nel 1972-73, nel Seminario XX Ancora (2011), Lacan torna alla questione del corpo intrecciandola con il godimento; infatti introduce il concetto di corpo come sostanza che gode: «[…] non sappiamo che cos’è un essere vivente, sappiamo soltanto che un corpo è qualcosa che si gode», introduce cioè il corpo nella sua dimensione più pulsionale. Il soggetto dell’inconscio, costituito dal significante, lascia il posto al parlessere ovvero a un essere attraversato dal linguaggio e toccato dal godimento del corpo. Il corpo parlante ha due godimenti, il godimento della parola e il godimento del corpo. Nel parlessere, c'è contemporaneamente godimento del corpo e godimento che si relega fuori corpo, godimento della parola.
Nel 1975 Lacan affronta di nuovo il concetto di corpo nel Seminario XXIII, Il Sinthomo(2006) definendo il corpo come supporto dell’immaginario, rimarcandone però la sua posizione nello spazio e quindi la sua consistenza. Lacan utilizza il termine di pelle per indicare che ciò di cui si tratta è una superficie, ma nel senso di sacco, pelle come sacco che avviluppa, che contiene al suo interno gli organi corporei uniti (cfr. p. 61). Il corpo non è soltanto l’immagine, al punto che l’immaginario implica il godimento, il reale. Il reale, il godimento, che è al di fuori del senso, ma non al di fuori del corpo, è la consistenza del parlessere. Il corpo come sostanza godente, luogo del godimento e per godere, è il supporto del parlessere. Il corpo, dunque, come tempio del godimento, e perché sia tempio del godimento, e non tempio del puro significante, il corpo deve essere vivente. Ma che cosa vuol dire corpo vivente? è la domanda di Jacques-Alain Miller nel suo testo Biologia lacaniana. Egli dice che non si tratta unicamente del corpo immaginario (non si tratta cioè del corpo che è operativo nello stadio dello specchio), ma non si tratta neppure del corpo simbolico. In questo contesto, parti del corpo umano possono essere elevate alla dignità di significanti. Come il fallo per Freud e il seno per Melanie Klein. Non si tratta dunque né di un corpo immagine, né di un corpo simbolizzato. Per Miller (2000), si tratta invece di un corpo vivente, e «[…] il godimento stesso è impensabile senza il corpo vivente: il corpo vivente è la condizione del godimento» (p. 20).
Bibliografia:
S. Freud (1989). Introduzione alla psicoanalisi. In Id., Opere, vol. 11: Torino: Bollati Boringhieri
Id. (1976). Pulsioni e loro destini. In Id., Opere, vol. 8. Torino: Bollati Boringhieri
Id. (1977). L’Io e l’Es. In Id., Opere, vol. 9. Torino: Bollati Boringhieri
J. Lacan (2011), Il seminario, Libro X, Ancora (1972-73). Torino: Einaudi
Id. (2006). Il seminario, Libro XXIII, Il Sinthomo (1975-76). Roma: Astrolabio
J.-A. Miller (2000). Biologia Lacaniana ed eventi di corpo, “La Psicoanalisi” (28)
La psicoanalisi e le donne hanno sempre camminato insieme sin dalla nascita della prima. Diverse donne, nel tempo inaugurale della psicoanalisi, hanno aperto a Freud la via del transfert e gli hanno mostrato l’essenziale circa il nesso tra i sintomi di origine psichica e la sessualità. Cosa possiamo cogliere circa la specificità del rapporto tra la psicoanalisi e il femminile?
All’origine della psicoanalisi c’è l’incontro tra Freud e alcune isteriche. Isteria e femminile non coincidono in modo totale, ma vi è qualcosa nella logica dell’isteria che consente di connettersi col femminile. Freud constata che, nell’esperienza clinica, certi sintomi resistevano sia a trattamenti che avevano una presa diretta sul corpo (idroterapia, pranoterapia, ecc.), sia al trattamento che avrebbe avuto una presa diretta sullo psichismo: l’ipnosi. Così facendo, egli prende atto e nota del fatto che vi sia una discontinuità, qualcosa che esiste nella sua materialità e che, però, non si lascia trattare allo stesso modo delle altre sostanze materiali con cui la scienza medica è abituata ad aver a che fare. Freud incontra molto presto quel punto limite d’intrattabilità e ciò lo spinge a inventare la psicoanalisi e a proseguire, lungo tutta la vita, nella sua elaborazione, rilanciandola ogni volta che trova che quel punto insiste e chiama a una riformulazione della teoria. Nel testo sull’Interpretazione dei sogni lo chiama “l’ombelico del sogno”, mentre in Analisi terminabile e interminabile, scritto al termine della sua carriera, “la roccia della castrazione”. Per Lacan sarà il reale, l’impossibile.
È a partire da ciò che egli ipotizza l’esistenza dell’inconscio in quanto sessuale; giacché è con l’inconscio e con le sue elucubrazioni di lalingua, che il soggetto cerca di trattare questo impossibile strutturale. La sessualità umana, per la psicoanalisi, è una sessualità che non corrisponde a una sessuologia, poiché essa non è associata a una sorta di “manuale d’uso” che potrebbe spiegare al soggetto come utilizzarla. La sessualità non è nemmeno legata all’istinto. L’istinto e la biologia dettano agli animali quando, come e con quale simile soddisfare l’appetito legato alla necessità della specie di riprodursi. Per l’essere vivente che è preso dal e nel linguaggio, il parlessere, il modo in cui si situerà nella propria sessualità, come uomo o come donna, non è qualcosa di già dato sin dalla nascita. Ciascuno, a partire da certe condizioni– condizioni che non ha scelto, ma con le quali dovrà giocarsi la sua partita –, transitando attraverso un percorso fatto di identificazioni e di godimenti, arriverà a scegliere inconsciamente di posizionarsi dal lato maschile o dal lato femminile, in relazione alla propria sessualità.
Dal lato uomo troviamo una modalità di godimento legata alla logica fallica, logica del tutto, dell’universale. Grazie al significante fallico il soggetto può trovare un orientamento simbolico universalizzante che lo aiuta a raccapezzarsi con quella sessualità che nulla e nessuno gli può spiegare. L’organo sessuale maschile e il tipo di godimento che da esso il soggetto può trarre, rappresenta bene, sul piano del godimento, questa logica universale del tutto. La posizione maschile di godimento è identificata con la parvenza di avere il fallo e questo produce, nel soggetto così situato, una condizione tale per cui il proprio modo di godere è modulato secondo la logica del o tutto o niente,in concordanza con l’alternanza tumescenza-detumescenza propria dell’organo che viene identificato con il fallo (anche se non lo è). Da questo lato, l’immagine anatomica contribuisce a fissare in modo più assoluto il soggetto maschile al godimento fallico. Godimento che, nel Seminario Ancora, Lacan nomina come “godimento dell’idiota”. Dal lato donna, la logica fallica e il godimento che le è proprio è anche presente. In questa logica, il soggetto donna è nella posizione che l’identifica a essere il fallo, per sé e per l’altro. L’anatomia, che le rivela che non ce l’ha, non le impedisce di poter godere anche lei in modo fallico, a livello del corpo ma anche fuori dal corpo. Nulla vieta a una donna, per esempio, di godere del potere – sostituto fallico per eccellenza – allo stesso modo di un suo collega uomo, né di ottenere della soddisfazione sessuale attraverso un godimento fallico. Freud non ha mai smesso di interrogarsi sulla specificità delle donne, arrivando a concludere che la donna fosse caratterizzata dall’assumersi la castrazione, superando l’invidia del pene. Ciò però non basta per spiegare la specificità femminile, poiché l’assunzione della castrazione pertiene anche al mondo maschile, dal momento che il fallo simbolico – che manca all’uno e all’altra – non coincide con l’organo maschile. Jacques Lacan non è indietreggiato rispetto a questo impossibile nel quale l’opera freudiana si era arenata, interrogandosi ed elaborando qualcosa di più incisivo sulla specificità del godimento femminile. È questa specificità che fa dire a Lacan che La donna (come universale) non esiste, dal momento che non esiste Il godimento femminile unico e universale. Ciascuna donna può avere, se vi acconsente, un suo rapporto con un godimento al di là del fallo, al di là della castrazione e dell’Edipo, a condizione però di servirsi anche della logica fallica. Diversamente, si aprirebbe il campo al discorso sulla follia, ma questa è un’altra faccenda. Non si tratta, come possiamo vedere, di far coincidere il femminile con l’isteria. Vi è, però, qualcosa che le raccorda, senza sovrapporsi. A partire dei soggetti isterici, Freud scopre un al di là. L’inconscio, che cela un trauma in relazione alla sessualità, è un al di là. Un al di là degli enunciati, del sintomo, del lamento, i quali rivelano di essere dei messaggi da decifrare, solo a partire dal fatto che ci sia qualcuno che si metta nella posizione di volerlo cogliere e accogliere. L’isteria si difende dal sessuale insito nell’inconscio e perciò produce dei sintomi. L’isterica si difende dal godimento Altro, ma proprio perché si difende può trovarsi nella posizione opportuna per accedervi.
Il soggetto isterico è un soggetto diviso, che testimonia che vi è in lui un qualcosa da svelare, un al di là, appunto, anche quando spesso lui stesso oppone resistenza a questo svelamento. Le donne, a partire da una condizione che le caratterizza e rispetto alla quale sono in un certo modo privilegiate, oltre a essere iscritte nel godimento fallico, possono avere – se lo vogliono – accesso a un godimento Altro. L’inconscio non coincide con questo godimento Altro, il godimento femminile, come lo chiama Lacan; ma un modo per accedervi è quello di passare attraverso l’esperienza dell’inconscio, così come accade durante un’analisi. Quando un soggetto – uomo o donna – entra in analisi, ciò di cui fa esperienza è che i suoi sintomi, i suoi comportamenti, i suoi enunciati rivelano Altro da ciò che credeva; non solo un altro senso, ma addirittura un altro godimento. Cogliere questo, man mano, nell’analisi, conduce il soggetto ad acconsentire e accettare quell’altra logica, innanzitutto rispetto a sé, e di conseguenza anche rispetto agli altri. Accettare che vi sia un Altro godimento, forme di godere altre e diverse da quella sostenuta dall’Io, dal discorso cosiddetto comune, che è quello del padrone.
Passare attraverso l’esperienza di un’analisi e portarla a termine, può essere il modo, per una donna, di accedere al godimento specificamente femminile, il quale non si può afferrare, né dire, né localizzare da nessuna parte, ma, talvolta, lo si può provare.
Jacques-Alain Miller (2006a), nel commento al Seminario XXIII – Il sinthomo di Lacan (2006a), sottolinea che, da un punto di vista psicoanalitico, «il corpo è paragonabile a un ammasso di pezzi staccati. Non ce ne rendiamo conto tanto che restiamo catturati dalla sua forma, tanto che la pregnanza della sua forma impone l’ideale della sua unità» (p. 13). Lo statuto primitivo del corpo, contrariamente all’evidenza del visibile, è infatti di essere in pezzi staccati e, affinché il bambino possa percepire il proprio corpo come una unità, occorre che sia passato attraverso quello che Lacan (2002a) considera un vero e proprio «crocevia strutturale» (p. 107) nello sviluppo. Nel 1936, riprendendo le ricerche sperimentali sulla percezione compiute da Henri Wallon, Lacan indica con il nome di stadio dello specchio quella fase in cui il lattante, tra i sei e i diciotto mesi, ancora immerso in uno stato di frammentazione, impotenza e di prematurazione fisiologica, risponde in modo giubilatorio alla vista della propria immagine riflessa nello specchio. L’immagine speculare permette al bambino un primo riconoscimento, una prima identificazione e, contemporaneamente, segna uno iato incolmabile poiché egli non potrà mai ricongiungersi all’immagine che lo specchio gli rimanda. Scrive Lacan (2002b): «questa Gestalt […] simbolizza la permanenza mentale dell’io e al tempo stesso ne prefigura la destinazione alienante» (p. 89). In questo passo, possiamo già trovare l’idea del soggetto lacaniano come strutturalmente diviso ed è per questa via che Lacan (2002a) sottolinea la dimensione tragica dello stadio dello specchio, la cui essenza è quella di essere una «lacerazione originale» (p. 110) in cui l’essere del soggetto è per sempre separato dalla sua proiezione ideale.
Da una parte, dunque, lo stadio dello specchio permette quell’operazione simbolica che offre al soggetto la possibilità di individuarsi come un “io” mentre, dall’altra, è ciò che lo divide irrimediabilmente dalla sua immagine. È a questo livello che si pone la «Spaltung tra il moi che viene a costituirsi e il soggetto dell’inconscio je, che non si lascia reperire nell’immagine speculare, e che troverà modo di presentarsi nei punti di vacillamento dell’io» (Cosenza, 2003, p. 23-24). Nell’analisi di questo momento così importante nella costituzione dell’immagine del corpo Lacan evidenzia il ruolo fondamentale e preliminare svolto dalla madre: ella è colei che tenendo in braccio l’infans gli indica che l’immagine che lo specchio rimanda è la sua. È quindi attraverso l’azione operata da un elemento terzo – in questo caso la madre – eterogeneo alla dimensione della similarità, che «il soggetto si pone come operante, come umano, come io (je), a partire dal momento in cui appare il sistema del simbolico» (Lacan, 2006b, p. 66).
Quanto detto mette in rilievo come il corpo si strutturi a partire dall’apporto dell’immagine e l’esperienza del corpo in frammenti, di cui testimoniano i soggetti schizofrenici, si pone come caso paradigmatico degli effetti provocati dal non accesso alla funzione unificante dell’immagine speculare. Per Eva, una ragazza schizofrenica, per esempio il corpo è piuttosto il luogo di un ritorno nel reale della libido: Eva in certi momenti di vacillazione deve cingere la testa con una fascia perché possa avere la tranquillità «che tutto ciò che è all’interno della testa resti dentro». Quando il bambino viene al mondo, viene già al mondo nel campo dell’Altro simbolico ed è il simbolico che per Lacan costituisce uno dei tre registri, oltre all’immaginario e al reale, che presiede alla nascita e alla formazione del soggetto. Il simbolico, in particolare, è ciò che umanizza il soggetto sottraendolo alla condizione di puro vivente per immetterlo nel legame sociale.
Nelle Due note sul bambino, Lacan (1987) ci dice che il bambino diventa soggetto solo tramite il desiderio dell’Altro, cioè a partire dal modo in cui la madre, il suo Altro primordiale, ne ha fatto causa del proprio desiderio. Da ciò si coglie che il corpo per l’essere parlante non è più solo un organismo, prodotto di puri bisogni biologici, ma è la risultante della relazione che intercorre tra l’organismo di un vivente e l’Altro del linguaggio. È quindi il simbolico a trasformare l’organismo in corpo e il parlare di corpo implica una trilogia che comporta, oltre al corpo, la parola e l’essere. Per un verso, l’entrata nel campo del linguaggio fa pertanto perdere all’umano lo statuto di essere naturale ma, contemporaneamente, fa guadagnare al corpo uno statuto inedito perché diviene tempio della pulsione: «Come tempio della pulsione il corpo è libidicamente erotizzato, sublimato, sessualmente portatore di una differenza che fa problema, sede di un desiderio che ha fonte in quella perdita di godimento che è correlativa alla iscrizione stessa del simbolico. Ma il corpo è anche ciò che patisce di “quello che non va” e che Lacan chiama “il reale”. È questo reale che si manifesta nel sintomo e che insiste rendendo sofferente il corpo come un impossibile da sopportare ma di cui però non si riesce a fare a meno: “godimento”, lo chiama Lacan» (Miller, 2006b, p. 8).
Bibliografia:
Cosenza, D. (2003). Jacques Lacan e il problema della tecnica. Roma: Astrolabio.
Lacan, J. (1987). Due note sul bambino. La Psicoanalisi, 1, 22-23.
Id. (2006a). Il seminario. Libro XXIII. Il sinthomo (1975-1976). Roma: Astrolabio.
Id. (2006b). Il seminario. Libro II. L’io nella teoria di Freud e nella tecnica della psicoanalisi (1954-1955). Torino: Einaudi.
Id. (2002a). Aggressività in psicoanalisi (1948). In Id., Scritti. Vol. 1. Torino: Einaudi.
Id. (2002a). Lo stadio dello specchio come formatore della funzione dell’io In Id., Scritti. Vol. 1. Torino: Einaudi.