Versione italiana del contributo "My Transference with Lacan as a Thinker", in Philosophy After Lacan. Politics, Science, and Art, Edited by Alireza Taheri, Chris Vanderwees, Reza Nader, Routledge, London 2024
Lacan
Quello che dirò su Lacan e la filosofia sarà spurio, perché esercito come psicoanalista. In effetti, credo di sapere un po’ come i concetti psicoanalitici siano costruiti e usati, non li prendo come concetti prêt-à-porter come fanno molti che non esercitano psicoanalisi. Sono vicino alla corrente filosofica che cerca il senso dei concetti nel modo in cui sono prodotti. Il senso di un concetto è l’uso che se ne fa nei giochi linguistici che esso esprime (Wittgenstein 1967a), e siccome gli usi variano, anche i sensi dei concetti fluttuano continuamente.
Confesso di essere abbastanza insoddisfatto – a parte qualche felice eccezione – delle filosofie che riprendono a piene mani certi concetti di Lacan. Paradossalmente, trovo molto più interessanti certe analisi critiche da parte di filosofi sia nei confronti di Lacan che di Freud - da Wittgenstein (1967b) a Derrida (2015), da Borch-Jacobsen (1999) a Nancy e Lacoue-Labarthe (1981) a Roustang (2022) e Sloterdijk (2009, 486-490). Insomma, preferisco decostruire Lacan anziché utilizzarlo come una costruzione compiuta. Ovvero, da tempo ho superato il transfert nei confronti di Lacan, e il transfert – come lui stesso giustamente ha detto – si fonda sul soggetto supposto sapere. Non suppongo a Lacan il sapere, non lo suppongo nemmeno a Freud, insomma non prendo le loro dottrine come Rivelazioni. La mia lettura di questi autori è laica, non li presume testi sacri.
D’altro canto mi sorprende sempre il fatto che molti filosofi pendano dalle labbra di psicoanalisti, come se bastasse una pratica dell’inconscio per saper concettualizzarlo. Sarebbe come credere che, siccome una coppia ha generato vari figli, abbia un sapere speciale sulla biologia della riproduzione. Teorizzare per una pratica è cosa molto diversa dalla teoria che descrive una pratica, e il talento teorico non implica necessariamente il talento clinico né viceversa.
Troppo spesso siamo sedotti dal talento teorico di certi pensatori – e Lacan aveva un grande talento – allora pensiamo che ipso facto essi dicano la verità. La Fisica di Aristotele è una delle più geniali costruzioni intellettuali della storia del pensiero umano, eppure oggi pensiamo che sul mondo naturale non dicesse la verità. Oggi pensiamo che invece fossero gli atomisti a dire la verità. La seduzione intellettuale- la musica dei suoi concetti - di una teoria non ne garantisce la validità. C’è uno scarto tra verità e godimento. È una cosa molto semplice, eppure bisogna ripeterla sempre.
Pur non avendo più transfert nei confronti di Lacan, trovo però alcuni suoi concetti estremamente utili non solo per capire la pratica analitica, anche per formulare in modo acuto certi problemi speculativi generali.
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1. Spiegare o leggere
Buona parte della filosofia “lacaniana”, che fiorisce per lo più negli orti protetti dei campus universitari, riporta Lacan nel solco dell’idealismo tedesco e di Marx. Prospera oggi un pensiero hegelo-marx-freudo-lacaniano, al quale mi sento estraneo. Anche se Lacan fu molto influenzato dai seminari di Kojève su Hegel negli anni 1930, e la sua prima mossa è consistita nell’aver trasferito alla psicoanalisi quel che chiamerei l’argomento idealista principale.
Questo argomento debuttò già col vescovo Berkeley: egli intendeva eliminare la materia da una ontologia filosofica - Lacan (1975, 92) riconobbe il proprio debito verso Berkeley. Disse Berkeley: abbiamo contatto con la realtà solo attraverso percezioni, quindi, possiamo concluderne, in nome di una sana economia concettuale, che la realtà è l’insieme delle percezioni, esse est percipi. L’idealismo tedesco ha ripreso questo argomento in una chiave più sofisticata: dato che abbiamo comprensione del mondo sempre attraverso concetti, possiamo concluderne che possiamo vedere il mondo come un insieme dialettico di concetti, a loro volta momenti di un unico Geist, spirito. Quest’argomento idealista è inconfutabile, è da prendere o da lasciare. Se qualcuno, come il kantiano Krug (1835), dirà “ma come dedurre la penna con cui sto scrivendo attraverso una fenomenologia storica dello spirito?”, l’idealista avrà sempre buon gioco nel dire che Krug sta parlando di una penna perché ha già il concetto di penna, senza cui non potrebbe riconoscere quella specifica penna. E la penna è contingente perché Krug ha già il concetto di contingenza. Alla fin fine, tutto si risolve in concetti.
Lacan pensò di applicare alla psicoanalisi questo argomento: la psicoanalisi è una logoterapia, ovvero agisce essenzialmente attraverso parole. Dunque, possiamo concludere che l’inconscio stesso è logos. Le parole incidono sull’inconscio perché questo è della stessa stoffa delle parole. Ma d’altra parte Lacan sapeva che l’inconscio freudiano non è fatto di concetti, è qualcosa di materiale, che può produrre effetti somatici per esempio. Per lui quindi il logos che conta non sono i concetti ma i significanti, ovvero la parte opaca, materiale, dei concetti. Il significante è un ente ambiguo, che ha qualcosa del logos e qualcosa della cosità. Da qui lo slogan princeps di Lacan “L’inconscio è strutturato come un linguaggio”. Il linguaggio prende il posto del Geist hegeliano.
Derrida [1] criticò la teoria lacaniana come logocentrica, che per lui era un altro modo di dire idealista. Si fa notare del resto che non tutto nel linguaggio è strutturato. [2] Esso è fortemente strutturato ai due estremi della fonologia e della sintassi. [3] In mezzo abbiamo il caos del lessico, e tutto ciò che già de Saussure aveva messo sul conto della linguistica diacronica e della linguistica geografica. [4] Al livello delle parole funzionano processi non strutturati, fluidi nello spazio e nel tempo. L’approccio strutturalista ha tenuto poco conto della dimensione a-strutturata del linguaggio, si è accontentato del sistema che appare quando isoliamo una lingua nel presente. In effetti, due categorie opposte dominano il pensiero attuale: sistemi versus flussi (oggi qualcuno a flussi preferisce sciami).
Ma Lacan intendeva dire: “l’inconscio è strutturato come un linguaggio lo è”. Quindi non tutto nel linguaggio e non tutto nell’inconscio è strutturato. E qui cominciano i problemi. Lacan ha messo la parte non strutturata o debolmente strutturata dell’inconscio sul conto dell’immaginario. Per lui l’immaginario è la parte animale, ovvero non log-ica, della soggettività; è ciò di cui si occupa propriamente la psicologia. Per Lacan la psicologia è sempre psicologia animale, anche quando si occupa di umani.
“L’inconscio è strutturato come un linguaggio” va preso quindi in senso debole, filosofico: che l’inconscio è significazione. Ed è una significazione non analogica, ma essenzialmente digitale. Eppure il logos introduce il negativo e il tempo nel mondo. Come mettere ciò d’accordo con l’immagine ‘analogica’ che Freud aveva dell’inconscio, come qualcosa senza negazione e senza tempo? (Dico qui analogico per opporlo a digitale, differenza che tutti ormai conosciamo.) La logici-zzazione dell’inconscio freudiano porta a un rovesciamento del freudismo originario?
In questo modo, comunque, Lacan ha messo il dito sul punto essenziale che separa la psicoanalisi da ogni scienza come la intendiamo oggi: mentre le teorie sono dette scientifiche quando esse spiegano causalmente i fenomeni, la psicoanalisi legge certi fenomeni in quanto hanno una significazione. [5] L’inconscio non causa, si esprime. Decidendo di interpretare i sogni, facendone insomma un testo ermeneutico, Freud ha posto d’emblée la psicoanalisi fuori dei rispettabili protocolli scientifici, che rifuggono dal prendere discorsi e testi come loro oggetti. L’inconscio è qualcosa che si ascolta e si legge, non un’ipotesi esplicativa, e quindi non è dimostrabile scientificamente. Quel che chiamiamo “psichico” è tutto ciò che, nei processi mentali, va ascoltato o letto, prima ancora di essere spiegato.
Per questa ragione non accolgo quel che la maggior parte dei lacaniani leggono in Lacan, ovvero la de-naturalizzazione del nostro rapporto al corpo e alle pulsioni. Perché non credo nel binarismo natura-cultura, che significa la loro opposizione. A mio avviso la distinzione-opposizione tra natura e nurture è la forma modernista assunta dalla vecchia opposizione metafisica tra materia e spirito. Di fatto, la cultura è vista come una collettivizzazione dello spirito, l’hegeliano Objektive Geist. Credo che sarebbe ora di superare finalmente questa opposizione, e pensare la cultura come il dispiegarsi non deterministico della natura antropica, e parte della natura come già tutta penetrata dalla negazione e dal tempo, creature del logos.
Oggi di fatto tacciamo di ‘naturale’ tutto ciò che resiste ai nostri progetti. Se cerchiamo di insegnare la matematica a un bambino, mettiamo, e questi si rifiuta assolutamente di impararla, allora ci arrendiamo e diciamo “ha un deficit naturale di apprendimento”. Ma il sintomo formato dall’inconscio è proprio ciò che resiste al progetto del soggetto, quindi, in questo senso possiamo considerare l’inconscio freudiano molto naturale. A meno di non abbandonare del tutto, appunto, l’opposizione natura/cultura. Vaste programme.
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2. Dall’idealismo al real-ismo
Il fatto che l’argomento idealista sia inconfutabile non implica ipso facto che sia inoppugnabile. Per me non lo è. È un argomento che esalta al massimo il narcisismo filosofico, dato che il mondo tutto appare omogeneo, omeo-ontico, allo strumento essenziale del filosofo, il linguaggio/pensiero. L’idealismo è la seduttiva deformazione professionale del filosofo; come sarebbe quella di muratori che vedono tutto il mondo come costruzione (vedi massoneria), ecc. Il filosofo si sente ferito quando ammette che qualcosa non è pensabile eppure è reale, la sente come un’ammissione d’impotenza. Il filosofo hegeliano parte dal presupposto che tutto il reale è razionale (principio di ragion sufficiente, nihil est sine ratione, nulla è senza qualche ragione) e tutto il razionale è reale (Hegel 1999). Un reale extra-razionale gli appare come l’irritante villaggio gallico di Astérix che si sottrae al dominio dell’impero romano. L’impero del pensiero – il cui apice è filosofico – non ammette sacche di resistenza. Si esclude che si possa pensare qualcosa come impensabile, che si possa dire che qualcosa è indicibile. Ma nominare l’indicibile non è dirlo. Come fece notare Kuhn (2009), prima di Galileo l’oscillazione di un lampadario era una pietra che cade, dopo sarà un pendolo. Ma c’è comunque una cosa che oscilla al di là di ogni paradigma.
Questo non significa che ipso facto, respingendo l’idealismo, dobbiamo tornare a una forma di realismo, grazie a cui lo sforzo del pensiero dovrebbe essere quello di descrivere le relazioni reali tra le cose fuori di noi. Le relazioni sono prodotti dei nostri sistemi di pensiero, in particolare dei nostri linguaggi (al plurale), e le relazioni tra le cose dipendono dai diversi sistemi di pensiero.
Il real-ismo che intendo sostenere contro l’idealismo, perciò, non è conversione al positivismo, secondo il quale la realtà è qualcosa che il linguaggio/pensiero può descrivere in modo sempre più corretto. Non si tratta di vedere il linguaggio/pensiero come specchio più o meno fedele del mondo. La ricostruzione storiografica del pensiero scientifico, a opera soprattutto di quello che chiamerei il filone austro-anglo-americano (Popper, Kuhn, Lakatos, Feyerabend), mostra che il sapere sulla natura procede in modo discontinuo per sostituzione di paradigmi. Ovvero, la relazione tra linguaggio/pensiero da una parte e natura dall’altra non è affatto lineare né speculare. Per dirla in modo spiccio (Benvenuto 2024), l’immagine che oggi abbiamo delle teorie scientifiche non è quella di specchi quanto piuttosto di organismi biologici che riescono più o meno a sopravvivere in un ambiente naturale. Le teorie lottano per la loro sopravvivenza come bestie che corrono alle armi. Più che rappresentare, la teoresi scientifica sopravvive e si riproduce, e ci fa sopravvivere e riprodurre. È la visione bio-pragmatista del sapere.
La stagione detta strutturalista è stata dominata da una sorta di relativismo storico. Foucault (2016) ha cercato di mostrarci che le parole non sono lo specchio delle cose, ma le cose sono formattate, diremmo oggi, dalle parole. Slittiamo di nuovo nell’idealismo allora? No, è possibile una terza via tra idealismo speculativo e realismo positivista. Dire che i fatti sono sempre fatti interpretati come fatti non implica la conclusione che “non esistono fatti, solo interpretazioni”, slogan del nichilismo ermeneutico. Si interpreta sempre, è vero, ma che cosa? Fatti, anche se questi sono a loro volta fatti interpretati. E così via. Il logos rimuove ricorsivamente la cosa… che non si riassume mai nel logos.
A mio parere Lacan nel corso del tempo si è sempre più distaccato dalla propria matrice hegeliana, e la sua ammirazione per Heidegger è traccia di questo suo distacco. Del resto la dialettica lacaniana non prevede sintesi, e cosa è una dialettica hegeliana senza sintesi? Non a caso in Lacan ci sarà uno slittamento dolce dal primato del desiderio, che evoca la tradizione filosofica del primato di eros (Simposio platonico), al più pesante godimento, che è qualcosa di realizzato. E opterà per un primato crescente del registro del reale su quello del simbolico. Il suo riferimento più tardivo sarà quindi sempre meno la linguistica e sempre più la topologia matematica. Per il Lacan tardivo l’inconscio è strutturato topologicamente. Non abbiamo qui spazio per approfondire questo slittamento.
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3. Rilevanza di Lacan
A mio parere, gli spunti del pensiero di Lacan importanti per la filosofia sono i seguenti:
A Il potere del significante
B La causa come après-coup
C Il primato della differenza
D Il reale come correlativo al simbolico
E L'essenza godente dell'umano
F Natura etico-politica della psicoanalisi
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3.a Potere del significante
Quel che segue potrà apparire contraddittorio. Ovvero, da una parte occorre superare il logocentrismo di Lacan, dall’altra è importante riconoscere in campi anche molto diversi dalla psicoanalisi una forza che per lo più si ignora: la potenza del significante nella società e nella storia.
Nella cultura moderna si sono imposte due letture fondamentali della società, la marxista e la liberista, che pur contrapposte condividono un assioma essenziale: che la chiave per spiegare in ultima istanza la storia umana è economica. La lotta tra classi economiche per il marxismo (l’essere sociale essenzialmente è produttore), la libertà o meno del mercato per il liberismo (l’essere sociale essenzialmente è imprenditore). Si tratta di due facce della stessa medaglia teorica che mette nella produzione, riproduzione e scambio dei beni la causa prima delle vicissitudini storiche.
Lacan invece ci spinge a cogliere nella storia la straordinaria forza dei significanti. La comunità umana è per lo più désoeuvrée, scioperata, come diceva Nancy (2002). Gli esseri umani si emozionano, si sacrificano, ammazzano e si fanno ammazzare, per dei significanti. Per significanti come la nazione o la democrazia o il socialismo o il fascismo, o la propria confessione religiosa, o la propria ‘identità’ etnica… Ma, come ha suggerito Laclau (2008), nel fondo tutti i significanti sono vuoti.
Ho potuto seguire nel corso degli anni, dato che ho insegnato regolarmente a Kiev per oltre 20 anni, il costituirsi del patriottismo ucraino. Agli inizi il fatto di essere ucraini o russi era irrilevante, era casuale esser capitati entro i confini ucraini o entro quelli russi. Ma poi, col tempo, il significante ucraino ha cominciato a riempirsi di senso, e così l’essere russi rispetto agli ucraini, fino al punto che entrambi si sono impegolati in una guerra spaventosa. Non è che una bandiera rappresenti il paese a cui si appartiene, è la bandiera a creare poco a poco un paese che dietro di essa vi si riconosce. “Viva la Polonia, perché se non ci fosse [il significante] Polonia non ci sarebbero i polacchi” scriveva Jarry.
Il significante ha una opacità semantica. Per esempio, quando diciamo “Ucraina” o “ucrainità”, qual è il senso di questo termine? Una cosa è il senso, altra cosa il referente. Possiamo certo dire ciò a cui Ucraina si riferisce – una certa fetta di territorio, una fetta di popolazione in maggioranza slava… - ma non il suo senso. Dell’Ucraina, almeno inizialmente, possiamo dire solo che si distingue dalla Russia e dai paesi limitrofi in quanto non-Russia, non-Moldavia, non Bielorussia... Anche se, dato quel che avviene, il termine si sta riempendo di senso. Ma il senso qui è effetto del significante, non è il significante a riassumere un senso. L’Ucraina è divenuta un significante cruciale proprio nella misura in cui un altro significante – la Russia – non l’ha riconosciuta come tale (“un significante rappresenta un soggetto per un altro significante”).
Con questo non voglio certo dire che la resistenza degli ucraini ai russi è futile, che si tratta di una lotta tra meri simboli. I simboli costituiscono la nostra causa, ovvero qualcosa per cui possiamo dare la vita, ed è il nostro far di certi significanti la nostra causa che dà senso alla nostra vita.
La linguistica strutturale fa notare che i significanti si definiscono per opposizioni, quindi, il conflitto politico è molto spesso una conseguenza del carattere oppositivo di ogni significante. L’opposizione versus [6] viene interpretata come contra.
Ciò certamente non riduce l’importanza dei conflitti economici nella storia, ma questi a loro volta sono spesso effetti di opposizioni significanti e non matrice di opposizioni anche armate.
Il caso forse più spaventoso di forza del significante è il genocidio nel Rwanda nel 1994, quando in tre mesi gli Hutu uccisero oltre mezzo milione di Tutsi. Che differenza c’era tra Hutu e Tutsi? Una pura differenza significante. Se sulle carte d’identità non fosse stato scritto “Hutu” o “Tutsi” sarebbe stato molto difficile sterminare i secondi.
Certo la volontà di potenza spiega molto della politica. Ma volontà di potenza di chi? Sempre di soggetti identificati a certi significanti.
La forza del significante esprime a mio parere la natura essenzialmente trascendentalista dell’essere umano, che non vive mai nella mera immanenza. Tutti viviamo per l’Altro, ad esempio facendo figli. L’egoismo che per lo più ci domina è pur sempre l’Altro che dobbiamo tutelare. In verità renderei l’Autre di Lacan come Alter in senso latino, ovvero l’altro in una dualità, e difatti l’Altro lacaniano non è mai plurale. In latino alter è l’altro in una opposizione duale, “o l’uno o l’altro”. Alius invece è il rimanente in un gruppo di cui uno è stato già considerato; credo che possiamo esprimere proprio con alius quel che Lacan concettualizza come il piccolo altro, a minuscola. I nostri valori – foss’anche sé stessi come valore supremo - ci sopravvivono, perché sono sempre i valori dell’Alter.
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3.b Causa come après-coup
Lacan ha avuto un merito che anche i suoi più accaniti avversari gli riconoscono: l’aver messo in rilievo nel pensiero di Freud la nozione di nachträglich, après-coup, nozione che i lettori di Freud prima di Lacan non avevano visto. Ora, l’après-coup è interpretato in vari modi. Per me l’après-coup è concetto cruciale della psicoanalisi, quello attorno a cui si decide la sua plausibilità.
L’après-coup consiste in due scene, una precedente e l’altra successiva, e la seconda scena pare dare un senso traumatico alla prima. Così, nell’Uomo dei Lupi (Freud 1994) la scena del sogno dei lupi sull’albero, che il soggetto ebbe a quattro anni, rivela come traumatica una scena che Freud suppone precedente, quella della visione del coito dei suoi genitori quando aveva un anno e ½.
Ora, aver segnalato l’après-coup freudiano da parte di Lacan ha dato a questa nozione un senso inquietante après coup. Ovvero, l’après-coup dà corpo a un “coup” che non esisterebbe senza questo après-coup.
Dell’après-coup esistono almeno quattro interpretazioni, che chiamerei positivista, ermeneutica, relazionale e magico-mitologica. [7] La positivista vede le due scene in una linea causa-effetto: la scena iniziale è come una bomba che scoppia in ritardo. L’ermeneutica si basa sull’idea che il presente ri-significhi il passato, su una linea di proiezione all’indietro del senso. La linea “relazionale” fa della seconda scena una reinterpretazione di ciò che voleva un altro (un adulto) nella prima scena: il soggetto si interroga così su ciò che l’altro gli voleva. “L’après-coup è un fenomeno che non si svolge nell’intrapersonale bensì nell’interpersonale” (Laplanche, 2006). È l’enigma del desiderio dell’altro, alius, a riproporsi tardivamente.
La spiegazione magico-mitologica - talvolta illustrata attraverso strumenti filosofici sofisticati - scommette sull’inversione del rapporto causa-effetto nel tempo, come in certe storie di fantascienza (la serie di film Back to the future). Ovvero un effetto posteriore può agire retroattivamente sulla causa anteriore invertendo la freccia del tempo. [8] Questa tesi mette la psicoanalisi completamente fuori dal realismo scientifico.
Io ho proposto un’ulteriore lettura.
L’inversione della freccia del tempo significa che il nachträglich è un processo grazie a cui il senso di un evento successivo dà a un evento precedente una forza causale. C’è un primato causale della scena successiva, nel senso che il suo senso fa di una scena precedente l’eziologia di sintomi successivi. Ora, questa retroazione del presente sul passato è possibile solo in un mondo umano, non in un mondo di cose.
Un esempio immaginario: un soggetto passa su un ponte e poi legge che anni prima quel ponte era stato distrutto; ma la cosa non lo turba più di tanto. Anni dopo assiste al crollo di una casa per un terremoto; dopo di che sviluppa una fobia per… i ponti. Non può attraversarli, perché teme che cadano. In questo caso, la prima esperienza dell’attraversamento del ponte è diventata causa della fobia solo attraverso il senso che il secondo evento dà al primo: crollare. Un evento 1 diventa causa grazie a un senso datogli après coup da un evento 2.
Si tratta qui di un’inversione della freccia del tempo, ma non di tipo magico o miracoloso perché l’evento precedente non è modificato nella sua realtà: ne è modificata la sua forza causale.
L’après-coup è un caso speciale di senso che causa eventi: non è il senso di un evento a essere direttamente causale, ma esso fa in modo che un evento precedente, dal senso diverso, assuma forza causale.
Il modo in cui Lacan aveva promosso il concetto di après-coup aveva qualcosa di scandaloso: che la causa non viene prima ma viene dopo, per richiamo nel passato. In questo modo non c’è più alcun primato, nel senso che non c’è alcun prima assoluto.
In ogni caso, questa incertezza che si fa sulla causa e sul senso sembra porre la psicoanalisi in uno spazio marginale del sapere e dell’agire. Ma potremmo mostrare che l’après-coup caratterizza anche altre attività umane come la politica, l’educazione, la giurisprudenza... Causa e senso si intricano in modo non solo complesso ma aperto: effetti causali ed effetti di senso si intrecciano in modi spesso unheimlich, perturbanti.
La psicoanalisi occupa quindi uno spazio che alcuni trovano impossibile tra realismo positivo, ermeneutica e intersoggettivismo, ma tende a non ridursi mai a una di queste cose. La psicoanalisi si banalizza quando, per superare le proprie perplessità, si decide per una delle tre interpretazioni del proprio sapere e potere. La psicoanalisi non è né scienza positiva (Lacan lo ha ripetuto spesso), né interpretazione nel senso dell’ermeneutica (ri-significazioni del mondo che cambiano il mondo), né dialettica interpersonale, ma qualcosa che cerca uno spazio situato al loro crocevia. Col rischio continuo di essere identificata, declassata, a pratica magica e superstiziosa. È questa la straordinaria importanza dell’insistenza di Lacan sull’après-coup.
Anche se Lacan non lo dice esplicitamente, l’après-coup rivela che ogni ricostruzione analitica è sospesa a un’incertezza fondamentale: con l’analizzante io analista ricostruisco esperienze originarie del soggetto, oppure le costruisco oggi, proiettandole in una storia passata che così ipso facto assume le forme di un mito? È quell’incertezza o condizionalità che è in ogni futuro anteriore. Più che dire “Come tutti, ho avuto il mio Edipo”, dovrei dire “Se farò analisi, avrò avuto il mio Edipo”.
In effetti il concetto di après-coup è decisivo proprio perché ciò di cui l’après-coup è dopo rimanda a un prima che resta sospeso, una x, una incognita. Il paradosso dell’après-coup è che all’inizio c’è un dopo, mai un prima-to. È un dopo senza prima. Non ci porta al primato dell’altro alius come in Laplanche (2021) (insomma, alla seduzione da parte dell’altro), ma al primato del dopo.
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3.c Singolarità e differenza
Lacan non punta sul carattere sistemico della soggettività, bensì sulla sua grana differenziale. Credo però che sarebbe ora di sostituire al concetto di ‘soggetto’ – che ancora esprime un presupposto cartesiano di auto-coscienza – quello di ‘singolarità’. Questo perché il singolo è ciò che il linguaggio manca sempre, dato che il linguaggio universalizza. Ha solo degli index symbols per indicare la singolarità (‘io’, ‘tu’, ‘qui’, ‘ora’ ecc.) ma non la può dire. Singolarità anche nel senso in cui si usa questo termine in matematica e in fisica: qualcosa che diventando infinito fa perdere senso a questo qualcosa. È l’impossibile, che però in qualche modo esiste.
Si suol dire che il pensiero di Lacan è un aspetto della svolta filosofica che ha avuto il suo epicentro in Francia, quella del primato della differenza. Primato ripreso da Saussure quando dice che i significanti non sono realtà piene ma distinzioni: l’essenza del logos è di reggersi su distinzioni, non su concetti pieni. Dalla ‘distinzione’ i filosofi dagli anni 1960 in poi sono slittati verso un primato della Differenza.
La differenza è intrinseca ai significanti, abbiamo detto. Che cosa identifica un Ucraino e un Russo? Il fatto che il significante Ucraina è distinto da quello Russia. Tutto qui.
Questo significa che non esiste nelle cose umane un primum movens, sia esso la volontà di potenza, o i modi di produzione, o l’alienazione della natura nella cultura, o l’ottimizzazione della fitness biologica… Si crea storia perché dovunque emergono differenze, direi casualmente, ciecamente. Questo ha come conseguenza il rifiuto del carattere genealogico della filosofia. Dobbiamo ammettere insomma che non sappiamo che cosa sia essenziale nell’essere umano.
Ma se all’inizio di ogni realtà umana c’è la differenza, questo significa che ogni omologazione degli umani è destinata al fallimento: le differenze si riproducono sempre, come del resto accade nella vita biologica. Tutta l’evoluzione biologica è differenzialista: c’è storia della vita perché c’è continuamente produzione stocastica di differenze. Ma questo contraddice le filosofie egualitariste: le eguaglianze formali tra gli esseri umani sono possibili, certo (eguaglianza dei diritti, delle opportunità), ma sono proprio le eguaglianze formali a produrre differenze. Proprio perché i corridori vengono fatti partire su un piano di eguaglianza che, nel corso della corsa, essi si distanziano reciprocamente. Differenziarsi è la dinamica stessa della vita, quel lato tragico che nessuna Buona Novella politica potrà mai eliminare.
Ed è una strana coincidenza (ma è veramente una coincidenza?) il fatto che la cosmologia più moderna giunga a un’ipotesi puramente differenzialista dell’origine dell’universo: il nostro universo nascerebbe da una improvvisa rottura di simmetria del vuoto, ovvero, il vuoto si auto-dividerebbe producendo così il pieno. [9] Il tutto dell’universo è una differenza del nulla. Così la scienza slitta nella metafisica – la scienza può slittarvi, la filosofia no.
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3.d Correlazione del reale al simbolico
Oggi i lacaniani tendono a valorizzare sempre più il registro del reale a scapito di quello del simbolico. Ciò esprime una generale inclinazione del pensiero occidentale in questi ultimi decenni: il superamento del linguistic turn e un “ritorno al reale”. Oggi, per esempio, le metafore biologiche attraggono di più intellettualmente delle metafore linguistiche. Da qui il successo di categorie come la biopolitica (ripresa da Foucault) o la tematica della nuda vita (ripresa da Agamben).
Ma che cosa è il reale lacaniano? Va esso pensato in termini idealistici, come qualcosa che il simbolico stesso pone come proprio altro-da-sé? Come Fichte (2005) aveva detto che l’Io pone il non-Io (la realtà esterna), così si potrebbe dire che il linguaggio pone il non-linguaggio come reale. Allora la dottrina di Lacan si ridurrebbe a lettura idealistica della psicoanalisi.
Secondo me invece, il reale va visto come un luogo topologico correlativo al simbolico, ma non è creato o posto dal simbolico. Non c’è un prima e un poi tra reale e simbolico. La loro differenza va considerata originaria. Il reale è ciò che ogni discorso presuppone come l’altro-dal-discorso, diciamo anche che è la trascendenza implicita in ogni discorso. Non la trascendenza della coscienza intenzionale nel senso di Husserl: parlo qui di un trascendere che manca sempre ciò verso cui si trascende. Come un’ostensione senza oggetto riconoscibile, eppure in fondo ogni linguaggio ha una dimensione ostensiva. (Ostensivo è il fatto di indicare qualcosa, ad esempio con un dito.) Quindi, questo reale, a differenza della realtà del pensiero positivo, non è qualcosa che va simbolizzato, rappresentato nel sapere umano: è qualcosa che topologicamente resterà sempre altro dal sapere umano, dalla comprensione razionalizzante. È ciò che sta oltre qualsiasi mio orizzonte. Certo posso allargare a dismisura il mio orizzonte, ma ci sarà sempre un orizzonte, una linea oltre la quale… non c’è nulla per-me. Ciò che vediamo entro un orizzonte presuppone sempre qualcosa che è oltre questo orizzonte e che per sua struttura non sarà mai entro l’orizzonte.
Ciò sembra essere smentito dalla teoria lacaniana della psicosi, secondo la quale ciò che è pignorato (forclos) nel simbolico appare come allucinazione nel reale. Le voci che ode lo schizofrenico sono spezzoni simbolici che il soggetto può conoscere solo nella misura in cui li trova nel proprio reale, ovvero in uno spazio topologico di non-soggettività. Quindi ciascuno di noi si confronta col proprio reale, vale a dire con un punto a partire dal quale il proprio pensare e il proprio ‘proprio’ si interrompono per lasciar posto a un impensabile. È in questo senso che Lacan, credo, intende la “rimozione originaria” (Urverdrängung) di Freud: una divisione inaugurale a partire dalla quale ogni soggetto si costituisce in una differenza fondamentale dal non-soggetto, ovvero dal reale.
Questo approccio in sostanza contraddice l’hegeliano “tutto ciò che è reale è razionale, tutto ciò che è razionale è reale”. Qui il reale è invece proprio ciò che sfugge alla razionalità, che la minaccia e la limita, direi che è un principio di ragione insufficiente. Certamente la spiegazione scientifica fa retrocedere il reale, tende a razionalizzare l’essere in modo sempre più sofisticato, ricorrendo al calcolo delle probabilità e poi ammettendo l’indeterminazione ecc. Ma il reale, pur indietreggiando, persiste e insiste nel sorprenderci. Il che fa del sapere un processo infinito: al fondo di ogni spiegazione possibile c’è l’essere stesso, il fatto che le cose siano così e non altrimenti. Possiamo anche dire che il reale è il puro evento. E la totalità dell’ente sarà sempre puro evento, a meno di non presupporre una volontà demiurgica alla sua origine. Così come l’emergere dal nulla di una particella secondo la meccanica quantistica.
Da qui l’asserto provocatorio di Lacan “il reale è l’impossibile”, che rovescia ogni buon senso filosofico. Il desiderio lacaniano di sfidare il buon senso nasce dall’idea che nel paradosso si coglie della verità essenziale. Egli vuol dire che se qualcosa è reale, è perché essa contraddice… che cosa? Direi la necessità pura della logica. In fondo, per la logica il reale non è possibile, eppure sta là.
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3.e Godimento come verità dell’umano
Lo si ripete spesso: il modo in cui Freud ha descritto l’origine della propria dottrina – come risultato di una ricerca clinica oggettiva scevra da pregiudizi – è un auto-fraintendimento della propria opera dovuta ai suoi pregiudizi positivisti. Penso che Freud invece abbia guidato la sua pratica clinica, anche se inconsapevolmente, con un paradigma tacito della singolarità umana.
Per Freud, l’essenza dell’umano (e del vivente in generale) è die Lust. Che in inglese diventa lust, lussuria. Il termine è ambiguo in tedesco, perché significa sia piacere, godimento, sia desiderio, libido, pulsioni. Insomma, per Freud l’essere umano è un organismo che soprattutto cerca di godere. Anche quando cerca solo di sopravvivere, cerca di continuare a godere della vita.
Lacan ha colto questa scommessa freudiana sull’essenza dell’umano, anche se non l’ha esplicitata. Ma i concetti direttivi del pensiero lacaniano, désir e jouissance, di fatto articolano i due versanti possibili del tedesco die Lust. L’essere umano è desiderante, o meglio, nella misura in cui gode del proprio desiderio, desidera perpetuare il proprio godimento. Per cui Lustprinzip andrebbe tradotto con “principio di desiderio-godimento” e non, come si è fatto, “principio di piacere”.
Con questo voglio dire che la campagna di tanti lacaniani per distinguere “il piacere” come piccole economie di confortevoli soddisfazioni dal “godimento” come dimensione dionisiaca e anti-economica, nasce da una lettura romantica del die Lust freudiano, il quale porta in sé la logica della pulsione di morte. Il piacere è mortifero in Freud.
Così la dottrina di Freud si separa ab initio dalle attuali scienze cognitive, per le quali l’essere umano è piuttosto un essere frutto di adattamenti successivi, come prescrive una visione neo-darwiniana rigida. L’umano a cui si interessa Freud non è l’umano adattativo, è l’umano desiderante e godente. La psicoanalisi si interessa a ciò che Gould e Lewontin (1979) – biologi che volevano correggere il neo-darwinismo duro – hanno chiamato per analogia spandrels, pennacchi, della costruzione evolutiva. Il pennacchio è una parte dell’organismo che non significa nulla, eppure sta lì come sottoprodotto inestirpabile della storia adattativa. I pennacchi sono una fetta di muro lasciata dalla struttura di un arco.

I pennacchi sono un esempio di rumore in ogni costruzione significante, anche se mascheriamo questi rumori con bellissime figure significative.
Possiamo credere oggi nella genealogia freudiana? La dobbiamo preferire ad altre meta-antropologie, come quella darwiniana (la più influente oggi), o marxista, o fenomenologica ed ‘empatica’ (vedi teoria dei neuroni specchio), o esistenzialista? Possiamo dire comunque che Lacan rispetto alla maggior parte degli psicoanalisti è più freudiano proprio perché per lui die Lust, desiderio e godimento, è l’essenziale della singolarità umana. Anche se questo Lust è articolato sempre, secondo lui, nei termini differenziali del significante.
In Freud e in Lacan gli oggetti sono essenziali nella misura in cui sono Lust-Objekte, oggetti di desiderio e di godimento. La differenza tra Freud e Lacan su questo punto è che per il primo l’Objekt è ciò che ogni pulsione o desiderio trova, spesso casualmente, sulla propria strada, mentre per Lacan l’oggetto a (ovvero l’oggetto-altro) è causa del desiderio. Ovvero, per Lacan ciò che ci attira viene dal mondo e non dalla dinamica interna del nostro organismo psichico. È dal reale che viene ciò che ci smuove. In tutta probabilità Lacan riprende questa idea dalla fenomenologia. Sartre (2003, 89) aveva detto che “se amiamo una donna, è perché lei è amabile”. Occorreva eliminare ogni analisi dell’amore come interiorità profonda, e vedere il mio amore nella donna che amo, e non come se non riguardasse quella donna ma solo me.
Penso che l’essere umano non sia solo Lust, desiderio e godimento. Ci sono varie altre funzioni “psicologiche” di cui tener conto. Ma al di là delle variabili sociali e biologiche, l’analista tende a interessarsi veramente a una sola cosa: capire in che modo il singolo gode. È solo un pennacchio, ma è quello essenziale per l’analista. Questo mi sembra essere l’osso della clinica lacaniana. Capire come un singolo goda è capire quindi anche l’origine della sua sofferenza, perché soffrire è il prezzo da pagare per qualcosa che in lui gode. Il vero punto cieco della psicoanalisi è questo: che cosa è questo qualcosa che gode?
Il punto è che per Freud gli affetti sono sempre consci, sono inconsce le rappresentazioni legate agli affetti, tranne… il godimento. Godere è qualcosa che sta tra il soggettivo e l’oggettivo, tra l’affetto e il processo, tra il percepire e l’essere.
Il grande paradosso iniziale della dottrina di Freud è che die Lust, desiderio e godimento, possa essere inconscio. A differenza di tutti gli altri affetti, desiderio e godimento sono l’arché della psiche, ciò che è dapprima e comanda. Lacan non risolve questo paradosso inaugurale, lo abita fino in fondo. Ma potremmo dire che jouissance è ancora una metafora affettiva, che quel che è stato chiamato godimento inconscio è il fatto stesso della ripetizione. Non a caso Lacan (2003) ha messo la ripetizione tra i quattro concetti fondamentali della psicoanalisi (e non il desiderio né il godimento): l’essere umano tende a ripetere come se non riuscisse a staccarsi da un godimento. Ma allora, tutto l’inconscio è ripetizione?
Il punto è che l’inconscio, in Freud e in Lacan, è anche la matrice creativa dell’umano – basti pensare al Witz, alle battute di spirito. L’arte e la letteratura sono creative quando vengono dall’inconscio, ovvero quando rompono una ripetizione. Godere è ripetizione, ma godere è anche rompere una ripetizione. Qui sentiamo la vertigine del principio di ragione insufficiente.
In questo inghippo, a mio avviso, consiste il problema fondamentale del pensiero e pratica analitiche, un problema del tutto irrisolto, che comunque Lacan ha avuto il merito di rendere evidente.
È importante cogliere, anche nei conflitti sociali e politici e nelle visioni del mondo di ogni epoca, l’economia del godimento oltre che la potenza del significante. Anche quando seguiamo i protocolli scientifici, quel che poi alla fine è decisivo è il nostro modo di godere. Anche la ricerca oggettiva è un modo di godere. Certo conta anche la volontà di potenza, ma occorre anche che la potenza faccia godere. Che per Freud però è un godimento anonimo, es gode.
Da tempo ho preso l’abitudine di dire non “respingo quella filosofia” oppure “quella teoria dice la verità” e simili, ma: “non godo di quella filosofia” oppure “quella teoria mi fa godere”. Ciò che diventa allora veramente interessante è capire perché certe teorie facciano godere più o meno di altre. E capire perché è ciò che fa godere me e non te, o viceversa.
Ma se godere è rompere una ripetizione, diremo che le teorie che fanno veramente godere sono quelle che rompono la ripetizione del già detto, del già pensato… e ci aprono al reale.
Qui si pone il problema irrisolto di che cosa permetta di legare il desiderio e il godimento di potenza a quel che chiamerei desiderio di disvelamento, ovvero di verità. Da dove viene questo strano tropismo degli umani verso il reale, cioè verso l’impensabile?
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3.f Etico-politica della psicoanalisi
Freud (1977) diceva che tre sono i mestieri impossibili: fare politica, educare, psicoanalizzare. A cui aggiungerei amministrare la giustizia. Che c’è in comune tra tutti questi “impossibili”? Che non tendono alla verità come fa la scienza, ma a una certa efficacia. A un’efficacia non tecnologica, a un’efficacia che nasce da quel che Lacan chiama con una parola greca tuké, il buon incontro.
La psicoanalisi non è essenzialmente una tecnica come non sono (solo) tecniche il far politica, l’educare, l’amministrare la giustizia. Tutte queste sono attività etiche, il che non esclude che debbano essere realistiche, Realpolitik, Realbildung, Realgerechtingkeit. Anche la psicoanalisi dovrebbe essere una Realpsychologie. È qualcosa tra l’arte e la scienza, tra il costruire (un’opera) e il ricostruire (dei fatti). [10]
In verità, trovo in Lacan ancora un modo troppo mitico di guardare alla pratica psicoanalitica - sembra pensare che avendo la giusta teoria si possa avere una buona pratica, ma non è così. Eppure il suo modo di guardare alla psicoanalisi mi sembra molto vicino al giusto. Un modo di guardare che rende vano farne una Evidence Based Medecine, insomma una pratica basata su risultati inoppugnabili. La psicoanalisi non è una teoria scientifica, è segretamente la teoria di una pratica – come è appunto il caso delle teorie politiche o pedagogiche o giuridiche, che non producono mai risultati inoppugnabili.
Si dirà: di fatto giudichiamo la validità delle teorie politiche, educative o giuridiche dai loro risultati. Per esempio, se si vota un partito che segue una certa teoria politica e questo governa per alcuni anni, alla fine si giudicherà se la condizione del proprio paese è migliorata o peggiorata. È questa la giustificazione della democrazia: il popolo è un arbitro che giudica a ogni fine mandato se una certa idea della politica ha dato buoni risultati o meno. Ma sappiamo che non è così. Che cosa ci autorizza a dire “il governo ha governato bene”? Che le cose vadano meglio o vadano peggio – sempre dal nostro punto di vista, ovviamente, cioé di singoli e non di tutti - non siamo in grado di dire fino a che punto il loro andar meglio o andar peggio dipenda da quel che ha fatto il governo. Nulla di più complesso che valutare oggettivamente gli effetti di una politica. E così per le strategie educative.
Analogamente, i fattori che portano al miglioramento di un singolo in analisi possono essere molteplici, il che rende estremamente difficile una validazione. Molti pazienti, per esempio, stanno palesemente meglio dopo pochi mesi di analisi, ma spesso attribuiscono questo miglioramento ad altri fattori. Che cosa causa che cosa?
La cosiddetta tecnica analitica è insomma inscindibile da un progetto etico. Lacan ha detto che il progetto etico della psicoanalisi è far sì che ogni soggetto non ceda sul proprio desiderio, sulla propria cosa. Ma la nostra cosa può essere distruttiva, nefasta? Per Lacan, sembra di no. Quel che si dice “essere cattivi” è un cedere sulla propria cosa? L’eroe sadiano non persegue la propria cosa? La pratica analitica si basa sull’assioma che passare all’atto non sia etico. La questione resta aperta. Ma, di fatto, credo che la tecnica analitica sempre più consista meno nell’interpretare e sempre più nell’agire da parte dell’analista. Quando l’analista lacaniano a un certo punto chiude una seduta, questo è un atto appunto.
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4. Realismo negativo
È possibile concettualizzare in modo filosofico il reale in senso lacaniano, in modo che esso diventi un concetto utilizzabile anche al di fuori di un’ortodossia psicoanalitica?
Ci proverò evocando l’approccio biologico di Jakob von Uexküll (e Kriszat, 1934) che influenzò anche Heidegger (2005). Qui il biologo, in un gesto di stile kantiano, separa nettamente l’Umwelt, l’ambiente di un animale, dal mondo-in-sé a cui l’animale non ha accesso. Ogni specie od ogni organismo ha il proprio ambiente, ma oltre questo ambiente (che per l’essere umano è anche un ambiente simbolico) ci sarà sempre un reale puro, che costituisce il rumore di fondo dell’esperienza vivente. C’è quindi una dose non-evacuabile di incomunicabilità tra gli organismi.
Nella teoria dell’informazione si distingue il segnale dal rumore. In un disco al vinile il segnale è la musica che in esso è registrata, i rumori sono i suoni molesti prodotti, per esempio, da strappi sulla superficie del disco. La psicoanalisi si interessa proprio ai rumori, a ciò che rompe i sensi del segnale, come nel caso dei pennacchi. Gli esseri umani hanno cercato sempre di integrare il rumore in un campo di segnali più vasto. Per esempio, nel caso dei dischi, l’uso dello scratching in musica. Ma per quanto si possa arricchire il mondo dei segnali integrandovi rumori, resterà sempre la possibilità dell’interferenza del rumore. Credo che Lacan chiami reale questo residuo non-evacuabile di rumore, “ciò che non va”. Nel momento stesso in cui Lacan dice che l’inconscio è strutturato come un linguaggio, fa trasparire che l’inconscio è proprio ciò che la struttura ha rigettato nel puro rumore.
La trascrizione dell’idealismo in termini biologici sarebbe “non può esserci un reale oltre al nostro ambiente”. Mentre quello che chiamerei realismo negativo – per distinguerlo dall’abituale realismo positivo – assume questa frattura tra l’ambiente e il reale, la dimensione paradossale dell’umano che cerca di pensare il proprio stesso limite umano. Possiamo dire allora che la filosofia mette a nudo il destino epimenideo (dal paradosso di Epimenide) del rapporto umano all’essere. Il cretese Epimenide dice: “Tutti i Cretesi sono bugiardi”. Il paradosso è evidente.
Ed è nella misura in cui per Lacan lo psicoanalista ama da amateur il reale che la psicoanalisi non può essere una scienza, né essere una tecnologia applicativa. La scienza si vuole uno specchio sempre più adeguato della natura, ma il reale è sempre al di là dello specchio. È un buco nello specchio, che si sottrae al sapere e ci invita a una prassi.
Ora, nella misura in Lacan cessa di essere hegeliano, in qualche modo accetta presupposti kantiani. Nella cultura filosofica occidentale il crinale tra kantismo ed hegelismo passa attraverso l’accettazione della prova ontologica di Anselmo di Canterbury, anche nelle sue forme più moderne e “pragmatiste”: se la si accetta si può essere hegeliani, se la si respinge si è nel solco kantiano.
Il seminario di svolta di Lacan verso un kantismo in senso lato è L’etica della psicoanalisi (1994). Lacan ha detto talvolta che il reale nella sua dottrina non è il Ding-an-sich (cosa in sé) kantiano, eppure l’etica descritta da Lacan è un’etica kantiana, un’etica del tutto “categorica”, ed è allora che Lacan parlerà appunto di das Ding (la cosa). Da notare che Lacan svilupperà il concetto della Cosa solo in questo seminario, è una farfalla concettuale che volerà una sola annata. È come se Ding della ragion pura si trasferisse nella ragion pratica: questa Cosa può essere rappresentata solo attraverso un vuoto, insomma non è rappresentabile, eppure orienta tutti i nostri oggetti di desiderio. In effetti la cosa kantiana oggi non può essere semplicemente l’inconoscibile, ciò che oggi chiamiamo evento, ma una condizione trascendentale grazie a cui tutti gli oggetti si dispongono di fronte a noi come oggetti-per-noi, ovvero investiti dal nostro desiderio e occasioni di godimento.
A differenza del positivismo, Lacan non pensa che nel mondo tutto è positivo. Il positivismo separa radicalmente il mondo dal logos, e la negazione è solo cosa del logos non del mondo, anche se da un altro punto di vista il logos è ente parte del mondo. Nelle cose non c’è alcun ‘non’. Del resto, per la fisica nella natura non c’è nemmeno il tempo. [11] Quando Freud diceva che nell’inconscio non c’è negazione né tempo, è perché lo pensava, in fin dei conti, come fatto di natura. Ma questo non può essere vero per i processi della vita umana connessi al linguaggio. Se guardiamo alla natura come a un insieme di enti tutti positivi, possiamo tutt’al più usare la metafora del conflitto per spiegarne alcuni processi. Ma non possiamo mai dire che la natura si contraddice. La contraddizione è cosa unicamente logica. Ora, siccome il mondo umano è permeato dal logos, dobbiamo vedere nel mondo umano il negativo e la mancanza. Possiamo dire che Lacan ha aggiunto questo a Freud: che quel che il secondo descrive come conflitti è riscritto dal primo come contraddizioni. La contraddizione originaria può essere descritta come quella tra l’essere e il senso (Lacan 1973, cap. XVI).
Ammettere la negazione e la contraddizione – e quindi il tempo - come parte del mondo significa allora essere hegeliani? Non lo credo. Il fatto che il logos, e quindi la negazione, siano parte del mondo non implica che tutto l’essere sia logi-co. Dobbiamo ammettere che il logos in qualche modo divide l’essere, per lo meno per quel che ci riguarda come esseri umani: da una parte il Welt, il mondo, dall’altra das Ding, la cosa che eccede il mondo.
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5. Esodo
Tanti lacaniani sono legati a una sinistra marxista-libertaria a cui io stesso aderivo da giovane. Uno dei loro modelli è Althusser, marx-leninista, strutturalista e freudiano via Lacan. Eppure è un fatto incontrovertibile: né Freud né Lacan erano marxisti, non credevano nel socialismo. Perché allora una parte dei seguaci di Freud e la maggior parte di quelli di Lacan si situa nella sinistra radical, il cui santuario è oggi la scuola di Lubiana?
Come Freud e Lacan, chi scrive, pur non essendo freudiano né lacaniano, non crede nel vangelo comunista. Certamente ci sono affinità tra il pensiero di Marx e quello di Freud – entrambi hanno capito che certe ragioni sono razionalizzazioni, che dietro i discorsi occorre ricostruire certe pulsioni – ma anche straordinarie differenze che non vanno ignorate. Una differenza essenziale è che mentre Marx propone una soluzione ai drammi dell’umanità in una visione millenarista – il comunismo come sintesi delle antitesi di classe - quando tutti avranno secondo i loro bisogni, Freud non vede alcuna soluzione ai drammi soggettivi, ma solo un modo sobrio di convivere con essi. Freud è un riformista, non un rivoluzionario, dello psichismo. Riformismo noto anche come suo pessimismo. Un pessimista non può credere nella Rivoluzione, si augura solo che certe riforme possano darci sollievo. Questa sua moderazione ha un valore eversivo per buona parte della cultura di oggi, che si vuole radicale e rivoluzionaria.
Lacan, come Freud, pensava che il marxismo fosse un vangelo, affascinante ma carico di promesse illusorie come ogni vangelo. Il marxismo è una riedizione dell’evangelico Discorso della Montagna. Lacan pensava che il marxismo fosse un surrogato minore della religione: per lui, la vera sfida alla psicoanalisi veniva dalla religione. Ben prima della caduta del muro di Berlino, Lacan capiva che il comunismo si era dimostrato storicamente fallimentare, e che si sarebbe tornati alla speranza originaria, non al suo fac-simile secolarista.
Nel discorso politico di massa, troviamo sempre le stesse figure, che possiamo vedere come luoghi fissi: il Persecutore, l’Amico alleato, il Liberatore, il Führer, il Complotto, lo Sfruttatore manipolatore. Questi personaggi sono predeterminati alla dinamica politica concreta, e quindi vanno considerati come significanti, ovvero come posizioni dell’Alter. Lacan non poteva credere nel socialismo perché non pensava che l’Alter esistesse. Quindi, ciò che funziona come Alter in politica non esiste, anche se è attraverso di esso che mi definisco. Il potere dell’Alter non può essere abbattuto, perché il suo potere è immaginario. Perciò le Rivoluzioni politiche sono sempre, in qualche modo, delle messinscene.
Sergio Benvenuto
Sergio Benvenuto è psicoanalista, saggista e filosofo. Già ricercatore al CNR a Roma. Formatosi all’università Parigi 7 con Jean Laplanche, è fondatore dell’European Journal of Psychoanalysis e presidente dell’Istituto Elvio Fachinelli. È co-redattore di varie riviste, tra cui American Imago.
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