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Josiah Royce non ha la fama di altri idealisti anglosassoni quali Francis Bradley, né quella di altri pragmatisti come William James, Charles Peirce o John Dewey. Il suo porsi a metà tra quelle che potrebbero apparire come due correnti contrapposte lo rende di difficile classificazione: certo lo stesso Peirce combinava il suo “pragmaticismo” con una forma di idealismo oggettivo, e anche il pensiero di Dewey deriva in sostanza da una rilettura in chiave naturalistica dell’idealismo hegeliano. Resta però una tensione tra i due poli, che forse non si rende mai evidente come nel “pragmatismo assoluto” di Royce, ben consapevole del carattere quasi ossimorico dell’espressione. Forse anche per questo il suo nome resta poco noto e gli sforzi di rimediare rimangono contenuti: negli ultimi anni, in Italia si contava la sola traduzione della Filosofia della fedeltà.[i] La pubblicazione con il titolo di Il pragmatismo assoluto delle Harrison Lectures tenute da Royce tra il 1910 e il 1911, ottimamente curate, tradotte e introdotte da Rocco Monti con prefazione di Giovanni Maddalena, dovrebbe costituire un primo passo perché finalmente si faccia spazio nel canone maggiore della filosofia a uno dei grandi pensatori del suo tempo.
Con l’amico e collega William James, morto pochi mesi prima di queste lezioni, Royce aveva ingaggiato un’autentica “battaglia per l’assoluto”. James e Royce si erano posti quali rispettivi campioni statunitensi di pluralismo e monismo, posizioni rivali che si spartivano gran parte del panorama filosofico tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento. Anche per questo viene naturale chiedersi quanto pragmatismo – postura filosofica che, in James come in gran parte della sua ricezione successiva, è legata strettamente a una cosmologia pluralista – possa sopravvivere in un monismo assolutista. Ma gran parte del genio di Royce sta proprio nella sua capacità di portare a coincidenza gli opposti, e anzi di trovare in un polo dell’opposizione il germe che si sviluppa necessariamente nell’altro. Come ricorda Monti (p. 23), per ogni accusa a Royce di eccessivo idealismo si trova una parallela accusa di eccessivo pragmatismo, e non perché egli cerchi qualche compromesso tra i due, ma perché il suo pensiero si inabissa nel pragmatismo quanto più si sforza di essere idealista, e viceversa. È un po’ come se Royce operasse una biforcazione che conduce a identità i due poli proprio nella misura in cui fa aumentare la distanza tra di essi, mentre viene eliso tutto quanto sta nel mezzo – il pragmatismo realistico di James come l’idealismo contemplativo di Bradley.
Maddalena descrive bene il dispositivo alla base di gran parte del pensiero di Royce: egli “ripercorre un legame paradossale che lega logicamente il relativo all’assolto, il temporale al sovratemporale, il fisico al metafisico. La peculiarità di tale meccanismo è il rovesciamento logico e necessario che esso comporta. Secondo Royce, sono proprio le strutture logiche ed epistemologiche del relativo, del temporale, del fisico che portano all’assoluto in tutte le sue forme” (p. 12). Questo dispositivo è già all’opera nel suo primo libro, The religious aspect of philosophy (1885), dove Royce sviluppa un argomento destinato a diventare classico.[ii] Ogni idea, considerata per sé, si trova in una relazione intenzionale adeguata col suo oggetto, poiché ogni asserzione ha il potere di porre da sé il proprio oggetto nonché il tipo di corrispondenza che esso comporta. Dato questo presupposto, la possibilità dell’errore diventa intelligibile solo assumendo che l’idea sia inclusa in un intero di ordine superiore che può definire l’errore entro una rete più ampia di relazioni intenzionali che complica la corrispondenza immediata. Royce arriva a sostenere che la reiterazione di questo argomento obblighi a postulare una “verità assoluta” quale interpretante finale della possibilità dell’errore. Solo se esiste una verità assoluta l’errore si spiega. Se la premessa dell’adeguatezza di ogni atto intenzionale suggerisce una visione “democratica” della verità (p. 74), l’esperienza del possibile fallimento la rovescia nel suo opposto. Nelle Harrison Lectures, Royce arriva a sostenere che il concetto di verità assoluta sia tautologico, poiché “vero” e “assolutamente vero” sono sinonimi. Non c’è verità che quella assoluta. La “probabilità” e la “certezza” che attribuiamo alle idee sono segni psicologici che non riguardano la verità in sé, motivo per il quale l’assolutista non deve mascherare la fallibilità delle proprie idee (p. 59-60). Ciò che James diceva delle verità, cioè che “accadono”, va in realtà detto della probabilità e della certezza. La verità invece non è il predicato di qualcosa: la verità è, è un “insieme significativo” di oggetti, eventi, idee, consigli e azioni che si uniscono per assumere un significato ideale, situandosi in una dimensione che non è temporale né atemporale ma sovratemporale, la dimensione del “per sempre” (p. 103), la più concreta che Royce dichiari di conoscere. La possibilità dell’errore, impiegata solitamente per confutare l’idealismo domandando come una realtà posta dal soggetto possa contenere una contraddizione tra realtà e soggetto stesso, è capovolta da Royce in una dimostrazione dell’idealismo assoluto.
Versioni di questo argomento diverranno ricorrenti nei dibattiti del tempo tra ideal-monisti e real-pluralisti.[iii] Royce ne offre una variazione su base etica ne La filosofia della fedeltà (1908), dove la fedeltà che sentiamo di dovere a un intero più ampio funge da base per il salto nell’assoluto eticamente inteso.[iv] Le stesse Harrison Lectures conferiscono una nuova forma logica alla medesima strategia argomentativa: il loro scopo dichiarato è “definire e difendere il concetto di Verità assoluta” (p. 53). Eppure, Royce mette in chiaro che la sua è “una visione volontaristica della natura e del significato della verità” (p. 67). In linea coi pragmatisti, Royce crede che “il nostro pensiero faccia parte della nostra condotta, che la vita del nostro intelletto sia sempre un processo costruttivo, un’attività… in breve, credo che la nostra vita intellettuale sia parte dell’espressione della nostra volontà” (p. 67). La verità assoluta si manifesta solo in termini volitivi (un’idea che è forse resa al meglio dalla “volontà di interpretazione”, quasi una variazione sulla nicciana volontà di potenza, intorno alla quale vertono diverse opere del tardo Royce). Dando quasi una lettura metafisica ante litteram della teoria degli atti linguistici, Royce afferma che “le nostre asserzioni sono frammenti della nostra condotta”, poiché “si articolano come approvazioni o negazioni di una qualche interpretazione della nostra esperienza” (p. 70), e che “ciò che ci mette in relazione con la verità è una situazione problematica e una decisione che voglia risolverla” (p. 95). È così che l’argomento dell’errore rivela la sua ispirazione pragmatista, ed è da qui che, nelle Harrison Lectures, Royce parte per darne una versione fondata sulla più pragmatica delle idee, la concezione jamesiana dell’azione come emerge in particolare in The will to believe (1896).
Anche la “volontà di credere” di James, spesso letta come una legittimazione indiscriminata del wishful thinking, contiene un germe inestirpabile di assoluto. Come scrive Monti, “sembra quasi che Royce voglia fare di James un assolutista” (p. 37), insistendo sulla nozione di “decisione” come quel particolare che contiene già una colorazione d’assoluto. La decisione è irrevocabile, non può più essere annullata, e proprio per questo la sua contingenza cortocircuita con l’assoluto: “Quale sarebbe il valore dell’agire se un’azione compiuta potesse essere improvvisamente annullata a piacere?” (p. 76). Questo “postulato dell’irrevocabilità degli atti compiuti” (p. 81), lo stesso che Nietzsche chiedeva di trasformare in amor fati attraverso la prova dell’eterno ritorno, diventa in Royce il punto di contatto tra pragmatismo e assolutismo: “Si dice spesso che l’assoluto non sia altro che una vuota astrazione; ma c’è qualcosa di più concreto e di più assoluto di un’azione consapevole e determinata?” (p. 83). L’assoluto è sempre agito; l’assoluto è, potremmo dire, in atto nell’atto. Per questo, osservato attraverso la “lente della risolutezza”, il valore della condotta “aumenta quando si tratta di persone decise che si impongono degli scopi determinati e che si fanno guidare da scelte volontarie” (p. 86). Ora, poiché l’atto è sempre guidato da un’asserzione in cui dimora una verità, dall’assolutezza dell’atto si passa direttamente a quella della verità: “la distinzione tra vero e falso è quindi assoluta per chi decide di compiere un’azione” (p. 89); il tratto del giudizio che ha carattere di verità assoluta è anzi proprio quello che consiglia la nostra condotta (p. 87). Sebbene la forma logica dell’argomento sia cambiata (stavolta Royce non cerca la prova dell’assoluto nella fallibilità quanto nella positività stessa dell’atto), la strategia resta quella di far apparire l’infinito nella lente del finito.
Non è difficile scovare la fallacia logica che sottende tutte le varianti dell’argomento: Royce passa dalla necessità di un riferimento più ampio rispetto al singolo atto intenzionale, che fondi la distinzione tra verità ed errore, alla postulazione di un assoluto quale unico possibile garante finale di tale distinzione. Se la prima parte dell’argomento è plausibile, l’inferenza che porta direttamente all’assoluto non pare giustificata. Era lo stesso James a notare, confrontandosi con l’argomento dell’errore in The meaning of truth, che “any definitely experienceable workings would serve as intermediaries quite as well as the absolute mind’s intentions would”.[v] Tutto ciò che serve per garantire l’intelligibilità dell’errore è qualche intero più ampio e inclusivo rispetto al singolo atto intenzionale, che complichi la relazione intenzionale introducendo un contesto più complesso che renda conto della mancata corrispondenza. Non sembra possibile, tuttavia, pronunciarsi sull’estensione di tale intero, né provare che si possa pervenire per questa via a un intero “assoluto” che non lasci niente fuori da sé. L’assolutezza dell’intero sarebbe dimostrabile solo provando che una volta postisi al suo livello non ci sia più la possibilità di ridistribuire i valori di verità dei nostri enunciati: se, raggiunta una certa estensione dell’intero, errare non fosse più possibile, allora davvero dovremmo credere di dimorare nella verità assoluta. Ma si tratta di una richiesta che va oltre la più dogmatica delle epistemologie: proprio il pragmatismo, specie con Peirce, ha sempre fatto del fallibilismo un suo cavallo di battaglia. Nel cercare una dimostrazione epistemologica della propria dottrina, Royce reitera l’identificazione, del tutto contingente, tra assolutismo e dogmatismo, disattendendo il proprio invito a “non confondere la tendenza a definire la verità in termini assoluti con l’evidenza e la certezza con cui alcune verità sembrano ingannarci” (p. 65). Un “assolutismo fallibilista”, in cui lo stesso carattere dell’assoluto è di volta in volta messo alla prova, avrebbe forse servito meglio il nucleo del suo pensiero. Non si può escludere che un assoluto esista, ma dimostrarlo su base epistemologica partendo dalla possibilità dell’errore significa fondare un sistema metafisico su una fallacia logica. Lo stesso sembra valere per l’irrevocabilità dell’atto, che certo lo sottrae alla contingenza assoluta di un volontarismo spicciolo, ma non sembra condurre di necessità all’assoluto. A spingere Royce all’assolutismo è il temperamento più che il ragionamento: egli stesso, in fondo, fa dipendere la validità dell’inferenza dalla decisione particolare all’assoluto dal “temperamento passionale”, che ha bisogno che “il peso che la volontà ha nella sua vita non sia immaginario e illusorio ma drammatico” (p. 78).
L’argomento dell’errore è insomma efficace contro le forme estreme di pluralismo (quelle atomistiche alla Russell, che escludono ogni forma di relazionalità interna e ogni intero rilevante), ma nulla potrebbe contro le varianti più sofisticate che si accontentano di sottolineare la presenza nel cosmo di interruzioni e interstizi, fratture che garantisco un margine di gioco tra le entità, senza pretendere tra di esse una disconnessione totale. Il pluralismo di James, basato su “the legitimacy of the notion of some”,[vi] è di questo tipo: qualche connessione esiste tra le cose, qualche disconnessione pure, così che l’esistenza e la consistenza delle relazioni possono essere provate solo empiricamente, caso per caso. Si potrebbe aggiungere che il tipo di “assoluto” che Royce pretende di fondare passa presto di moda tra i suoi stessi colleghi: idealisti come Bernard Bosanquet, Harold Joachim o Brand Blanshard sembrano intenzionati a mantenere idealismo e monismo rinunciando però alla qualifica di “assoluto” per il loro mondo; tutte le cose sono legate per loro da una fitta rete di relazioni, alcune delle quali sono però tanto tenui che non ci si può pronunciare in anticipo circa l’assolutezza di questo groviglio di relazioni.
Sembra che tra finito e assoluto, tra pluralismo e monismo estremi, ci sia posto per tutto uno spettro di soluzioni intermedie che fanno della moderatezza e della capacità di compromesso la propria forza. Royce non rende giustizia a tutto ciò che sta “nel mezzo”, come si vede anche dal fatto che egli individui il valore metafisico della volontà nella perentorietà: “Le persone pigre e oziose hanno aspettative più o meno indeterminate che vengono soddisfatte o deluse con grande indecisione. Di contro la verità e la falsità emergono invece solo nel caso in cui le due dimensioni siano nettamente definite: sì o no” (p. 95). Tutto preso dal sottolineare il valore metafisico della risolutezza, Royce manca di cogliere il significato metafisico dell’indecisione e dell’irresolutezza, dell’esitazione, della titubanza, che consiste nel testimoniare come una singola dottrina sia incapace di rendere conto dell’eterogeneità e della ricchezza del reale. Non basta insistere, con Royce, sulla banalità che “anche non decidere è una decisione”, perché si tratta meno della decisione in sé che della possibilità che essa abbia solo due valori di verità, sì o no, cui applicarsi. Le tante antinomie attraverso le quali il pensiero coglie il reale sembrano richiedere una sorta di “dialettica affettiva” o “dialettica antinomica”, sulla quale pensatori come Jean Wahl o Enzo Paci hanno costruito gran parte del proprio pensiero, e nella quale il secondo, non a caso, vedeva il correlato filosofico della “incapacità alla naturalezza e alla spontaneità” che caratterizzò la sua vita.[vii] Una dialettica di questo tipo, senza risoluzione finale, è forse l’unica postura possibile di fronte al dibattito tra monismo e pluralismo, tra relazioni interne ed esterne, che costituisce una delle migliori prospettive dalle quali cogliere la rilevanza del pensiero di Royce.[viii]
Rilevanza che si deve anche alla scoperta di una strategia che permette a Royce di limitare le conseguenze di un assolutismo di cui il suo temperamento gli impedisce di sbarazzarsi. Questa strategia è basata sul concetto matematico di infinito, che Cantor e Dedekind sviluppano in quegli stessi anni. Ciò che attrae Royce verso l’infinito è il suo essere essenzialmente “obliquo” rispetto all’opposizione tra Uno e molti. Questo l’esempio da lui impiegato: la serie dei numeri interi e la serie delle potenze di due sono entrambe infinite, eppure contengono una quantità diversa di elementi, e la seconda è addirittura contenuta nella prima. Due collezioni possono essere ugualmente infinite pur differendo in termini di cardinalità: per questo, per una collezione infinita di oggetti, l’assioma che la parte non può eguagliare l’intero non vale. L’applicazione di questo principio in ambito metafisico ha conseguenze radicali nel capolavoro The world and the individual (1900-1901), dove l’Assoluto è considerato precisamente come una collezione infinita, le cui parti (individui, comunità, nazioni…) sono infinite tanto quanto l’assoluto stesso.[ix] Tutte queste entità, differenti in termini di “completezza”, sono individui nello stesso identico senso dell’assoluto e possono vantare la sua stessa dignità ontologica. Royce potrebbe essere il primo assolutista in cui le relazioni mereologiche e le differenze di scala tra l’Assoluto e gli individui che esso contiene non comportano differenze “ontologiche” né “assiologiche”.[x] Un individuo, scrive Royce, è eguale a Dio se considerato dal punto di vista dell’infinito. Ne risulta una reviviscenza di elementi pluralistici in un sistema che sembrava pronto a tutto per escluderli, al punto che Gilles Deleuze, in Critica e clinica, arriva a leggere la “comunità di interpretazione” teorizzata sulla base di questa intuizione negli ultimi libri di Royce come la miglior esemplificazione della comunità pluralistica tipicamente americana.[xi]
L’infinito attrae Royce perché permette di “appiattire” la differenza tra i due estremi del finito e dell’assoluto in cui il suo dispositivo filosofico biforca tutto ciò che tocca. L’assoluto diventa quasi inoffensivo una volta negata la differenza assiologica rispetto agli individui; può darsi che l’etichetta di “pragmatismo infinito” avrebbe servito la causa del pensiero di Royce meglio di quanto abbia fatto quella di “pragmatismo assoluto”. Per quanto la sua fondazione vada cercata altrove che negli argomenti a sfondo epistemologico tentati dal suo autore, quella di Royce resta una delle costruzioni metafisiche più suggestive e stimolanti prodotte tra Ottocento e Novecento. La traduzione delle Harrison Lectures può essere l’occasione per una sua riscoperta e non deve rimanere un evento isolato.
Christian Frigerio
[i] Josiah Royce, La filosofia della fedeltà, tr. E. Buzzi, Nino Aragno, Roma 2014.
[ii] Josiah Royce, The religious aspect of philosophy, Houghton & Mifflin, Boston 1885, pp. 424-5.
[iii] Si veda Timothy Sprigge, James and Bradley: American truth and British reality, Open Court, Chicago 1994.
[iv] Un argomento simile potrebbe anche essere estratto dalla concettualizzazione dell’esperienza di Royce che, come ricorda Monti, lo avvicina per molti aspetti alla fenomenologia se non all’empirismo radicale di James: Rocco Monti, “‘Yet a new phase, wherein the abstract become concrete’: Josiah Royce’s theory of experience between philosophy and psychology”, Contemporary Pragmatism 20, 2023, pp. 271-92.
[v] William James, The meaning of truth, Longmans, New York 1909, p. 23n.
[vi] William James, A pluralistic universe, Arc Manor, Rockville 2009, p. 36.
[vii] Enzo Paci, Il nulla e il problema dell’uomo, Bompiani, Milano 1988, p. 51.
[viii] Christian Frigerio, Ricomporre un cosmo in frammenti: il dibattito sulle relazioni interne ed esterne, Mimesis, Milano 2023.
[ix] Josiah Royce, The world and the individual, vol. 1, Macmillan, New York 1900.
[x] Christian Frigerio, “Josiah Royce’s ‘flat absolutism’: Real individuals through the relations regress”, Cosmos & History 28(2), 2022, pp. 228-250.
[xi] Gilles Deleuze, Critica e clinica, tr. A. Panaro, Cortina, Milano 1996, p. 115n.
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«Girare in cerchio». Furio Jesi e l’enciclopedia del mito
Recensioni / Novembre 2023Sfogliando gli indici del Vocabulaire des Institutions Indo-Européennes di Benveniste, ci si imbatte in una circostanza singolare. Tra i vocaboli che il grande linguista prende in esame, «nel vasto tesoro delle corrispondenze acquisite», per ripercorrere a ritroso la genealogia delle istituzioni indoeuropee, la parola mythos non compare affatto. Chi ricercasse l’uso originale, ricavato per comparazione dalle fonti, di mythos, rimarrebbe dunque inevitabilmente deluso. Che mythos non presenti ricorrenze significative nel Vocabulaire, potrebbe, però, alludere a una circostanza ben più decisiva, tale da investire la storia delle religioni, l’antropologia, la filologia, la linguistica, e, in ultima analisi, lo stesso statuto epistemico delle scienze umane. Si tratta, cioè, del dubbio circa l’esistenza dell’oggetto «mito», a cui la parola mythos non cessa tuttavia di rimandare.
È proprio da questa considerazione che, quattro anni dopo l’uscita del Vocabulaire, prendeva le mosse Furio Jesi (1941-1980) in Mito, pubblicato per la prima volta nel 1973 nell’Enciclopedia Filosofica Isedi. Il libro, ristampato nel 1980 da Mondadori e nel 2008 da Aragno, è ora disponibile nella nuova edizione Quodlibet (2023) curata da Andrea Cavalletti, corredato dal saggio finora inedito La nascita dello spazio-tempo. Tale edizione si colloca in una fase indubbiamente cruciale della ricezione dell’opera di Jesi. Se, nel 2011, un interprete autorevole del pensiero jesiano come Enrico Manera annunciava una Jesi-reinassance, segnata da un rinnovato interesse perlopiù circoscritto all’Italia, oggi pare di assistere a una seconda reinassance jesiana, stavolta estesa al mondo editoriale e accademico francese, tedesco e, soprattutto, anglofono.
In effetti, Mito di Jesi si apre con l’indagine degli usi omerici di mythos che Benveniste, nel Vocabulaire, aveva omesso. In Omero, mythos significa qualcosa come «decisione», «congiura», «progetto» esistenziale e «sentenza» divina. Il campo semantico del termine include, cioè, ciò che Benveniste avrebbe chiamato gli usi performativi del linguaggio e che Jesi, in singolare consonanza con le riflessioni che Northrop Frye andava maturando in quegli anni (e che Jesi, però, probabilmente non conosceva), chiama «parola efficace» (p. 24). In Omero, però, mythos può essere «parola efficace» anzitutto perché è, insieme, «astuzia presente» e «evocazione dei tempi passati», paradossale coincidenza di «oggi» e «tempi antichi» nell’istante dove «il passato anticipa e consacra, fa vero, il presente».
È il tardo conio della parola mythología a scandire, per Jesi, uno stadio decisivo nella genealogia del lemma mythos, che coincide con una crisi epocale nella storia della cultura europea. In un processo che affonda le sue radici nella crisi dell’epos antico, ma che trova in Platone il suo più alto punto di maturazione, mythos e lógos si dispongono ai poli opposti di un campo semantico che procede da un minimo a un massimo di performatività: mythos assume il significato di un «puro raccontare […] non obbligatorio» (p. 20); mentre lógos diviene parola persuasiva, vincolante in quanto vera, efficace.
A partire dalla Grecia classica, dunque, il mythos è consegnato alla scienza e alla politica europee anzitutto come significante vuoto, simulacro di una «parola efficace» ormai resa ineffettuale e, insieme, fantoccio, straw-man contro cui la ragione non cesserà di scagliarsi, proiettandovi, al tempo stesso, i propri demoni e, paradossalmente, le proprie nostalgie. È la designazione stessa della parola «mito» a vacillare, nel sempre rinnovato tentativo di ancorarsi alla spettrale realtà di un oggetto – il mito – che è sempre «già e non più accessibile» (p. 46). In questo senso – così suona la tesi fondamentale di Jesi – la moderna scienza del mito non può che configurarsi come paradossale «scienza di ciò che non c’è» (p. 94).
Che cos’è il mito? – Mito di Jesi ruota, appunto, attorno a questa domanda. In effetti, il suo tratto più caratteristico è proprio di non cessare di «girare in cerchio» (p. 120) intorno all’oggetto-mito. A giudicare dal sommario, Mito si presenta in tutto e per tutto come una introduzione allo studio del mito e delle sue interpretazioni in età moderna. Di fatto, Jesi, dopo aver individuato nella «crisi nei confronti dell’accesso moderno alla mitologia» (p. 47) il punto di insorgenza della «scienza del mito» – che va dunque situato in epoca post-rinascimentale, dal momento che «il primo umanesimo e la cultura del Rinascimento […] ”vissero” o credettero di vivere» il mito (p. 33) –, traccia un percorso che, dai primi decenni del XIX secolo, attraversa la teorizzazione illuministica (Charles François Dupuis) e romantica del mito (Buttmann, K.O. Müller, Creuzer, Bachofen), si snoda attraverso lo storicismo (Wilamowitz) e l’etnologia e le scienze antropologiche del XX sec. (Malinowski, Lévy-Strauss, Dumézil), approdando alla singolare sintesi della teoria junghiana degli archetipi con il modello morfologico di Propp, che costituisce la proposta teorica dello stesso Jesi.
Eppure il senso di tale itinerario si chiarisce soltanto alla luce dell’avvertenza che Jesi pone all’inizio della Prefazione. «Codesto libro – scrive Jesi – non è una sistematica breve storia della “scienza del mito”, né un’introduzione ad essa. È piuttosto un tentativo di circoscrivere il concetto di mito mediante una tecnica di “composizione” critica di dati e dottrine, fatti reagire tra loro, il cui modello metodologico si trova nella formula del conoscere per citazioni […]. Oggetto di codesto libro è il concetto di mito nell’ambito di una enciclopedia» (p. 11). In questo senso, Jesi prese alla lettera la sfida che Mario Antonelli gli pose proponendogli di scrivere Mito per la collana Enciclopedia Filosofica della Isedi. Che l’oggetto-mito possa essere accostato soltanto con uno stile di pensiero enciclopedico, cioè attraverso una enkýklios paideîa, una vera e propria «educazione circolare», in grado di tenersi costantemente equidistante dal nucleo che potrebbe (o non potrebbe) essere occupato dal mito, ciò costituisce precisamente l’ipotesi centrale della teoria della «macchina mitologica» che Jesi andava elaborando in quegli anni, e che trova in Mito una delle sue verifiche più cogenti.
Tale ipotetico nucleo è infatti, per Jesi, il sito di un paradosso che non può essere sciolto sul terreno della scienza, ma soltanto su quello della politica. In effetti, tale paradosso si articola storicamente nel decisivo aut aut che Jesi coglie in filigrana nello sviluppo della moderna scienza del mito. Alla domanda: Qual è il compito epistemologico del mitologo?, essa può rispondere soltanto articolando e riproponendo sempre di nuovo l’ alternativa secca tra accettazione e spiegazione dei materiali mitologici: con «la consapevolezza che lo studio deve in ultima istanza promuovere l’accettazione della mitologia, il “bere alla sorgente” (secondo le parole di Kerényi), oppure con la consapevolezza che lo studio deve trovare compimento nella spiegazione delle ragioni per cui il materiale mitologico si è plasmato in determinate forme» (p. 65).
È questa spaccatura a segnare irrimediabilmente la mitologia moderna. Anzitutto istituendo i due poli attorno a cui essa incessantemente oscilla: la fede o la non-fede nell’esistenza del mito inteso come sostanza autonoma – motore efficiente che, generando e assemblando senza posa i materiali mitologici, plasmerebbe lo spazio politico e l’ordine del discorso. In questa prospettiva, la vicenda storica della «scienza del mito» coincide con una verifica costante ciò che Jesi chiama «la qualità ideologica della scelta di affermare o negare la sostanza del mito». È così che la questione intorno alla presunta essenza del mito si trasforma nella domanda sulla sua esistenza: C’è o non c’è qualcosa come il mito tra le pareti della macchina mitologica? È il mito un semplice focus imaginarius, un centro ipotetico proiettato da una circolazione di materiali culturali, scientifici e ideologici che si sosterrebbe in ultima analisi sull’umano? O, viceversa, l’umano non è che un veicolo attraverso cui una sostanza extra-umana si esprime, configurando quei materiali in un mondo sostenuto soltanto dallo spettrale rimando al suo insondabile fondamento?
Tali questioni segnalano indubbiamente il profondo legame tra Jesi e la Mythos-Debatte degli anni Settanta in Germania da un lato, e, dall’altro, la sua affinità elettiva con autori come Derrida, che, poco più di un anno prima dell’uscita di Mito, aveva pubblicato su «Poétique» La mythologie blanche. Il gesto più caratteristico di Jesi è, forse, di lasciare sine conditione alla politica l’ultima parola sulle ipotesi della scienza del mito. Certo, la politica gioca un ruolo essenziale in un Blumenberg, un Marquard o un Derrida. Eppure, che la politica coincida con il piano ultimativo di verifica della mitologia, con il giudizio di ultima istanza sulla teoria, è una posizione che, in quegli anni, è stata formulata con chiarezza pari a Jesi soltanto da un autore come Jacob Taubes. Non a caso, fu proprio Taubes, in polemica con i mitologi e i teorici della cultura che ruotavano attorno a «Poetik und Hermeneutik», a denunciare con toni tipicamente jesiani il capovolgimento della mitologia di Eliade, Kerényi, Lévy-Strauss in una vera e propria mitografia («Comune a tutti – scrive Taubes – resta il fatto che essi danno una spiegazione mitica del mito e non mirano a un punto archimedico esterno alla situazione mitica; insomma producono un “mito della mitologia”»).
Una menzione particolare merita, poi, l’ambiguo (non-)rapporto tra Jesi e la storia delle religioni italiana. In effetti, nemmeno una pagina, in Mito, è dedicata a Raffaele Pettazzoni, Angelo Brelich o Ernesto De Martino. Circostanza tanto più sorprendente in quanto non solo Jesi, nella seconda metà degli anni Cinquanta, si accostò alla questione del mito proprio attraverso le pubblicazioni della celebre «Collana viola» di Einaudi, diretta da Pavese e dallo stesso De Martino, ma soprattutto perché la dicotomia tra accettazione e spiegazione, che, in Mito, scandisce la vicenda della mitologia moderna, ricalca da vicino la tensione metodologica tra fenomenologia e storicismo che, per il tramite di Pettazzoni, diventerà un tratto caratteristico della storia delle religioni in Italia.
Ma ancora più curioso è il silenzio che Jesi riserva a un autore come Brelich, che, da Gli eroi greci (1959) a Paides (1969), aveva individuato nel kerényiano rinnovamento dell’umanesimo il compito politico dello studio storico-religioso della civiltà greca e dei suoi miti. Fu proprio tale visione del ruolo politico dell’intellettuale a determinare la partecipazione di Brelich (come di Jesi) al Sessantotto italiano («La vicenda – scriveva Brelich in Verità e scienza – non mi avrebbe potuto trovare più pronto e aperto. Ero tra i primi docenti a parteggiare, senza esitazione e perfino […] in forma insolitamente attiva, per gli studenti che smascheravano “irrispettosamente” gli atteggiamenti delle autorità accademiche […], le loro connivenze con gli interessi della reazione»). In questa luce, il mancato confronto tra Jesi e la scuola italiana appare, in Mito, come una lacuna ambigua, un’omissione carica di tutta l’eloquenza del non-detto.
Ma torniamo ora, in conclusione, alla tesi di Jesi e al meccanismo epistemologico-testuale di Mito. Se, come suona la classica tesi di Adorno, il mito è anzitutto il sempre-uguale, la scienza del mito, vittima e al tempo stesso artefice dell’eterno ritorno della domanda sull’esistenza del mito, si fa essa stessa mitopoietica. Di fronte a questa circostanza, Jesi risponde con un risoluto nichilismo metodologico. «Nell’ambito della “storia del mito” – egli dichiara – l’unica scienza oggi possibile è la storia della storiografia» (p. 46), cioè uno studio degli approcci moderni al mito che sia in grado di cogliere la loro tensione dialettica. Tale nichilismo non coincide, però, con una professione di assoluto nominalismo. È vero che il passaggio dal greco mythos al «mito» delle lingue moderne non può essere in nessun caso legittimo. Eppure, non si può nemmeno affermare la non-esistenza in via di principio di un referente di «mito». Occorre piuttosto, secondo Jesi, spostare l’asse della questione: dall’esistenza all’uso, dalla metafisica alla pragmatica, dall’epistemologia alla politica.
Che cos’è il mito? – è dunque, precisamente, la domanda a cui Jesi non dà risposta. Anzitutto, perché accoglierla equivarrebbe a rientrare nella casistica che si snoda lungo l’intero itinerario moderno della scienza del mito. In secondo luogo, perché la stessa formulazione della domanda è il trucco con cui la macchina mitologica esercita il suo fascino su manipolati e manipolatori, vittime e carnefici, illusi e illusionisti. È l’allusiva strizzata d’occhio con cui la macchina si ammanta di un’aura di suggestione e ci invita a lasciarci sedurre dal suo sguardo di Medusa: «Non badate tanto al mio modo di funzionare, quanto alla mia essenza» (p. 123). Girare in cerchio, enciclopedizzare, come fa Jesi in Mito, significa allora seguire con sobrietà i movimenti, le filiazioni, le disarticolazioni e riarticolazioni della macchina, sposando una strategia di resistenza genuinamente politica.
Lorenzo Mizzau
Bibliografia
Benveniste, E. (1969). Il vocabolario delle istituzioni indoeuropee. ed. it. a cura di M. Liborio. 2 voll. Torino 2001: Einaudi.
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Derrida, J. (1971). La mitologia bianca. in Id., Margini della filosofia. ed. it. a cura di M. Iofrida, Torino 1997: Einaudi.
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Jesi, F. (1973). Lettura del Bateau ivre di Rimbaud in Id. Il tempo della festa. a cura di A. Cavalletti. Roma 2014: Nottetempo.
Jesi, F. (2023). Mito. a cura di A. Cavalletti. Macerata: Quodlibet.
Manera, E. (2012). Furio Jesi. Mito, violenza, memoria. Roma: Carocci.
Sarpi, P. (2013). Prefazione. in A. Brelich. Paides e parthenoi. a cura di A. Alessandri e C. Cremonesi. Roma: Editori Riuniti.
Spineto, N. (2023). Gli studi di storia delle religioni. Firenze: Le Monnier.
Taubes, J. (1954). Dal culto alla cultura, in Messianismo e cultura. cit.
Taubes, J. (1983). Sulla congiuntura del politeismo, in Messianismo e cultura. Saggi di politica, teologia e storia. ed. it. a cura di E. Stimilli. Milano 2001: Garzanti.
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La funzione della tripartizione semiologica di Jean-Jacques Nattiez, il lavoro di Alexandre Ayrault pubblicato da L’Harmattan nel 2022, prende le mosse da una constatazione: “la tripartizione semiologica struttura ormai non solo la pratica dell’analisi musicale, distinguendo tre livelli di analisi (processo creativo, livello dell’opera, strategie di ricezione), ma anche ciò che si intende per ‘musica’ in ambito accademico francofono” (11). A partire da questa osservazione, l’autore intraprende una presentazione della teoria della tripartizione semiologica e del contesto in cui è apparsa, per poi proseguire verso una discussione dei suoi fondamenti teorici e delle questioni che ne conseguono.
Che cosa si intende dunque per tripartizione semiologica? La teoria ha fatto la sua comparsa per la prima volta nel 1975, in un articolo di Jean Molino intitolato “Fait musical et sémiologie de la musique” (Molino 2009, 73-118), ed è stata ripresa in seguito da Jean-Jacques Nattiez nell’ambito di un’applicazione all’analisi musicale. Essa afferma che ogni fenomeno simbolico, ivi compresa l’opera musicale, sia concepibile secondo tre livelli: 1) il livello poietico, che corrisponde alla creazione; 2) il livello estesico, che ne indica la ricezione; 3) il livello neutro, o immanente, che denota la materialità dell’opera cioè, quando questa è musicale, la partitura. In questo senso, il primo riferimento di Nattiez è rintracciabile nel volume Fondements d’une sémiologie de la musique (1975), seguito poi da Musicologie générale et sémiologie (1987). È quest’ultimo che Ayrault sceglie come punto di partenza per le sue considerazioni (43-44), poiché è al centro di una riflessione teorica più ampia in cui viene rivisto ed espanso il contributo del 1975.
All’interno del panorama della musicologia francofona contemporanea, la teoria della tripartizione semiologica è ampiamente accettata, ed è pienamente integrata anche in campi su-disciplinari come l’etnomusicologia o la sociologia e l’antropologia della musica. Sebbene una diffusione su questa scala possa sembrare a prima vista il sintomo di un’approvazione incondizionata dell’efficacia della teoria, nel contesto di un’interrogazione epistemologica rimanda piuttosto alla sua banalità – al fatto che la tripartizione semiologica non fa altro che mettere in luce delle ovvietà (28), che si rivelano in ogni caso potenzialmente problematiche in alcuni ambiti, ad esempio per l’etnomusicologia. Infatti, gli etnomusicologi hanno integrato nelle loro pratiche il “livello neutro” di Nattiez, giustificando così il ricorso alla notazione diastematica in nome della scientificità della procedura (94) secondo una prospettiva universalista non priva di inconvenienti (Qureshi 1987, 59).
Su questa stessa linea, la validità epistemologica della teoria è ulteriormente messa in dubbio poiché essa rimane, anche nella musicologia francofona in generale, la giustificazione fondamentale del ricorso alla scrittura diastematica (o a qualsiasi altro strumento di discretizzazione dei fenomeni musicali) (Nattiez 1975, 46), e assume così il carattere di un paradigma, o di un’ideologia scientifica, nel senso di Canguilhem (1977, 33-45). Inoltre, sottolinea Ayrault, Nattiez non considera il fatto che egli stesso possa essere l’artefice del proprio universo tecnico-simbolico, che ha contribuito a forgiare insieme ad altri, né riconosce all’esperienza artistica una dimensione dialogica (32-33). Senza contare che la scelta stessa di incentrare la questione della semiosi musicale, e quindi di una semiologia della musica, sulla nozione di segno, è di per sé un pregiudizio ideologico. Infatti, non esiste alcun a priori che indichi che il concetto di segno sia rilevante per spiegare i fenomeni musicali: non c’è nulla di paragonabile a priori tra un significato verbale e un significato musicale (135). Così, la tripartizione sarebbe al contempo una causa e un effetto del contesto in cui opera, e si rende dunque evidente l’urgenza di uno studio incentrato sulla portata epistemologica di questa teoria e delle modalità in cui è stata impiegata (29-30).
Ayrault propone quindi un esame delle pratiche messe in atto dai musicologi per conoscere l’oggetto della loro disciplina (36), compresa come un fenomeno prima di tutto culturale, caratterizzato dall’adozione di un idioma (158). Questo punto di vista permette all’autore di affermare che non c’è alcuna correlazione tra la natura dei fenomeni musicali osservati secondo il prisma della tripartizione e uno statuto ontologico degli stessi, che rimane specifico di una data cultura. L’autore dichiara dunque di adottare una prospettiva legata alla fenomenologia della conoscenza, in particolare a Gilbert Simondon (cf. per esempio, Simondon 1989), e intraprende una rilettura informata e critica di Musicologie générale et sémiologie, preceduta tuttavia da un’analisi delle riflessioni di Molino, della loro influenza su Nattiez e degli elementi salienti che quest’ultimo riprende, oppure trascura. In particolare, Ayrault si sofferma sulla difficoltà semiotica inerente alla costruzione di una semiologia musicale, constatata anche da Nattiez, e ne traccia la genealogia negli scritti di Molino, dove si nota il primo tentativo di applicare nell’ambito della musicologia una tipologia semiotica attraverso gli esempi del leitmotiv wagneriano e della citazione musicale. Tuttavia, questa difficoltà, la cui origine è attribuita alla “natura del simbolico”, non viene chiarita da Nattiez nelle due opere di riferimento e Ayrault rileva inoltre una confusione tra il discorso sull’oggetto e l’oggetto “in sé” nell’ambito della conoscenza scientifica della musica, compresa secondo una “concezione occidentale” (70-71). È proprio questa posizione, collocata geograficamente in maniera esplicita, che ha permesso a Nattiez di giustificare l’applicazione della tripartizione in etnomusicologia: “non dimentichiamo che la musicologia e l’etnomusicologia sono discipline occidentali che si avvicinano ai fenomeni sonori del mondo partendo dalla nostra concezione della musica” (Nattiez 2007, 21; enfasi dell’autore).
Al fine di misurare le conseguenze concrete della diffusione della teoria della tripartizione semiologica, Ayrault porta avanti una disamina delle applicazioni di questa concezione in campo educativo, a partire dai programmi di educazione musicale delle scuole secondarie in Francia. In questo contesto, il framework concettuale che, fin dall’inizio, postula per l’educazione musicale una modalità di conoscenza della musica centrata sulle competenze pratiche, esclude subito la conoscenza teorica dell’oggetto del discorso propriamente musicologico. Nonostante ciò, se il sapere musicale in ambito educativo viene considerato esclusivamente come un saper fare, la conoscenza musicale viene valutata sulla base di una tipologia fondamentale relativa all’oggetto della produzione scientifica musicologica (101). Ayrault identifica questa tipologia, insieme al ricorso a nozioni come “opera”, “interprete”, “uditore”, quale unico retaggio di un discorso erudito incentrato sull’ontologia dell’oggetto in un ecosistema educativo rivolto verso la conoscenza pratica.
In conclusione, dunque, il volume di Ayrault sottolinea con grande cura e meticolosità i limiti e le contraddizioni identificabili nella teoria della tripartizione semiologica, a partire dalla sua genesi fino alle sue applicazioni correnti passando per i suoi sviluppi ulteriori in anni più recenti. Queste caratteristiche ne fanno un contributo estremamente prezioso e tempestivo. Tuttavia, le proposte di possibili soluzioni ai problemi individuati non si dimostrano completamente soddisfacenti, e l’autore stesso evoca più volte l’opportunità di sviluppare la riflessione in lavori futuri. In ogni caso, benché lo scioglimento non sia pienamente all’altezza delle problematiche segnalate nel corso del volume, il merito considerevole di averle rese esplicite in maniera seria, dettagliata e ponderata è innegabile.
Lucia Pasini
Bibliografia
Canguilhem, G. (1977). Idéologie et rationalité dans l’histoire des sciences de la vie: nouvelles études d’histoire et de philosophie des sciences. Parigi: J. Vrin.
Molino, J. (2009). Fait musical et sémiologie de la musique. In J.-J. Nattiez & Goldman, J. (a cura di), Le Singe musicien: sémiologie et anthropologie de la musique. Arles: Actes Sud.
Nattiez, J.-J. (1975). Fondements d’une sémiologie de la musique. Parigi: Union générale d’éditions.
Nattiez, J.-J. (1987). Musicologie générale et sémiologie. Parigi: C. Bourgois.
Nattiez, J.-J. (2007). Pluralité et diversité du savoir musical. In J.-J. Nattiez (a cura di), Musiques. Une encyclopédie pour le XXIe siècle, vol. 2: Les Savoirs musicaux. Arles: Actes Sud.
Qureshi, R.B. Musical Sound and Contextual Input: A Performance Model for Music Analysis. Ethnomusicology, 31 (1), 56-86.Simondon, G. (1989). L’Individuation psychique et collective: à la lumière des notions de forme, information, potentiel et métastabilité. Parigi: Aubier.
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«Ce n’est plus d’une libération universalisante que l’homme a besoin, mais d’une médiation», scriverà Gilbert Simondon nel 1958 a proposito dell’ideale enciclopedico della cibernetica, cogliendone appieno lo spirito. Questo ideale enciclopedico si accompagnava a una dichiarata volontà di rinnovamento delle categorie filosofiche e di superamento di molte dicotomie metafisiche. È il carattere spettrale e disseminato della cibernetica, il suo insistere negli interstizi dell’enciclopedia, che ci ha spinto a dedicarle questo numero con l’obiettivo di cartografare i luoghi del sapere in cui possono ravvisarsi le tracce lasciate dalla cibernetica, seguirne le piste, ricostruirne le trame, farne emergere i modi d’essere, interrogarne l’eredità e l’attualità.
«Ce n’est plus d’une libération universalisante que l’homme a besoin, mais d’une médiation», Gilbert Simondon (1958) would write, concerning the encyclopedic ideal embraced by cybernetics. This encyclopedic inspiration went hand in hand with an explicit desire for renewal of philosophical categories and with the will of overtaking metaphysics’ dichotomies. It is the spectral and disseminated character of cybernetics, its insistence in the interstices of the encyclopaedia, that has led us to devote this issue to it, with the aim of mapping the places of knowledge in which the traces left by cybernetics can be discerned, following its trails, reconstructing its plots, bringing out its modes of being, questioning its legacy and relevance.
A cura di Luca Fabbris e Alberto Giustiniano
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DOI: https://doi.org/10.13135/2385-1945/18.2023
Pubblicato: marzo 2023
Indice
EDITORIALE
Luca Fabbris, Alberto Giustiniano - Cibernetica. Prospettive sul pensiero sistemico [PDF It]
I. CIBERNETICA. L'EVENTO E I SUOI ANTEFATTI
Arantzazu Saratxaga Arregi - A Reconstruction of Epistemological Foundations of Cybernetics. The First Steps in Epistemologies of Complexity [PDF En]
Marco Ferrari - La cibernetica prima della cibernetica. Filosofia, scienza e tecnica in Norbert Wiener (1914-1943) [PDF It]
Francesco Vitali Rosati - L’officina cosmica. Biosfera, organizzazione, ecologia nel pensiero pre-cibernetico russo [PDF It]
II. LE AVVENTURE DELL'INFORMAZIONE
Francesca Sunseri - “Ciberneretica” simondoniana [PDF It]
Niccolò Monti - The Unmeaning Machine. Cybernetics from Semiotics to AI [PDF En]
Luciano Boi - I diversi livelli di informazione e comunicazione nel mondo vivente e la costruzione del significato [PDF It]
III. L'USO DEI SISTEMI
Robin Asby - On The Framing of Systems and Cybernetic Models [PDF En]
Paolo Capriati - Autopoiesi dei sistemi politici: il caso Cybersyn [PDF It]
Saverio Macrì - Arte e interattività: per un’estetica dei sistemi [PDF It]
IV. OGGETTI, MACCHINE, MEDIA
Luca Fabbris - Cibernetica orientata all’oggetto. L’oggettivismo radicale di Ranulph Glanville [PDF It]
Gregorio Tenti - Tecnoplastia. Note sulla poiesi macchinica [PDF It]
Giancarlo Corsi - Sociologia dei mezzi di comunicazione. Considerazioni per una teoria generale [PDF It]
V. TESTIMONIANZE E MATERIALI
Settimo Termini - All’ombra di nuove scienze in fiore. Lo strano caso della cibernetica con uno sguardo all’Italia degli anni Sessanta [PDF It]
Il glossario del Biological Computer Laboratory [PDF It]
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Isabelle Stengers nel tempo delle catastrofi
Recensioni / Novembre 2022Nel tempo delle catastrofi. Resistere alla barbarie a venire di Isabelle Stengers è un testo scritto nel 2008, recentemente uscito in traduzione italiana per Rosenberg & Sellier (2021). Si tratta, nelle parole del curatore Nicola Manghi, di un “pamphlet politico” (p. 7), scritto con l’intenzione, da parte dell’autrice, di “prendere parola” (p. 43), ossia di intervenire nel dibattito intorno al riscaldamento globale. A corredo del testo troviamo una ricca introduzione firmata dal curatore, insieme a un’intervista all’autrice tenuta nell’agosto del 2020: la prima ha il doppio merito di presentare al lettore da un lato la traiettoria e lo sviluppo del pensiero stengersiano (dall’interesse, pur eccentrico, per l’epistemologia sino alle più mature posizioni cosmologiche) e dall’altro di chiarire alcune questioni culturali (ma anche teoriche) che la voluta brevità del testo rende spesso poco più che implicite – per esempio il riferimento alle cosiddette Science wars, lo stretto rapporto intrattenuto dall’autrice con l’etnopsichiatria, la questione delle pratiche e dei praticiens; la seconda ci permette invece di misurare le intuizioni di Stengers alla luce degli sviluppi posteriori delle questioni connesse all’ecologia, come quella costruitasi attorno al termine passepartout “antropocene”.
È proprio a partire dalla lettura dell’intervista che emerge uno degli aspetti più impressionanti del testo, ovvero la sua capacità di anticipare molte questioni che sembrano effettivamente all’ordine del giorno: pur prendendo le mosse dall’onda lunga dell’altromondismo, degli scontri di Seattle e del dibattito sugli OGM, Stengers sa vedere lontano, ponendosi in una prospettiva deliberatamente “globale”, legata ai cambiamenti climatici e al destino del pianeta Terra, e intende al contempo ricalibrare le lotte che hanno caratterizzato la seconda metà del XX secolo, perlomeno dal ’68 in avanti, in una dimensione esplicitamente intersezionale (p. 50; p. 161). D’altra parte, l’asfittico scenario che Stengers vede squadernarsi all’orizzonte pare proprio richiedere un impegno di natura globale: si è infatti ormai triangolata un’alleanza «decisiva tra la razionalità scientifica, madre del progresso di tutti i saperi, uno Stato liberato dalle fonti di legittimità arcaiche che impedivano a una tale razionalità di svilupparsi, e lo sforzo industriale che le consente di tradursi in principio d’azione finalmente efficace» (p. 85). “Stato”, “Scienza” e “Impresa”, facendo progressivamente scomparire ogni “commons”, sembrano così perseguire unicamente la logica inflessibile della crescita, muta a qualsiasi riflessione rispetto alle conseguenze cui questa potrà in futuro condurre.
Eppure è proprio questo fosco scenario ad aver fatto germogliare condizioni che possono portare a una riapertura della questione o, per dir meglio, alla presa di consapevolezza della catastrofe imminente cui l’imperativo della crescita sembra ineluttabilmente condurre: si tratta dell’intrusione di “Gaia”, figura o quasi-essere (p. 66) in cui Stengers condensa la situazione propria della contemporaneità, così come l’estrema possibilità di pensare alternative rispetto allo stato di cose presente. Non si tratta tanto di quella “Gaia” ipotizzata dallo scienziato James Lovelock negli anni ‘60, sviluppata dalla biologa Lynn Margulis, e ripresa in tempi più recenti da Bruno Latour (p. 157), ossia di un essere senziente, corrispondente con la Terra e in grado di autoregolarsi, stabilizzando instancabilmente le proprie componenti; la Gaia nominata da Stengers è piuttosto un essere che, pur dotato di una sua propria «tenuta» (p. 66) e capace dunque di porre interrogativi concreti, risulta insensibile rispetto alle risposte da lei stimolate. Con accenti quasi leopardiani (p. 68), Stengers insiste sull’impassibilità di questo essere, pura trascendenza indifferente che non chiede nulla, ma che fa problema, che forza a pensare. È proprio la sua perentoria intrusione, cui dobbiamo dunque apprendere a renderci sensibili, a costituire una sfida decisiva e globale per il mondo contemporaneo.
Il testo – riassunto qui brutalmente – poggia nella sua interezza su un architrave speculativo significativo, che vorrei provare a dissezionare, ponendomi così in dialogo con alcune intuizioni presenti nell’introduzione del curatore (p. 9). Stengers convoca costantemente sulla scena due orientamenti ontologici “forti” che, tradizionalmente, si sono posizionati agli antipodi del pensiero occidentale, ovverosia il costruzionismo e il realismo. Da un lato, infatti, il testo è puntellato dal constante riferimento a una semantica della costruzione, della finzione e della composizione: Stengers ripete a più riprese che si tratta di «comporre con Gaia» (p. 75), di creare e inventare gli artifici (p. 142) e le condizioni per nuove lotte e pratiche che non siano il semplice prolungamento di quelle realizzate in passato. È infatti proprio la capacità di invenzione – che Stengers ha evidentemente mutuato dai propri studi epistemologici – ad aver fatto sviluppare la scienza moderna e l’intero mondo ad essa connesso, dal caso Galilei (p. 88) in avanti. Allo stesso tempo, però, il riferimento a Gaia come a una “intrusione” nel mondo contemporaneo conduce il discorso stengersiano nei pressi di un deciso realismo: Gaia è infatti un ostacolo reale, un essere che, seppur non direttamente interessato alle nostre risposte, pone delle domande cui dobbiamo provare a corrispondere, per evitare la catastrofe. Più in generale, è la contingenza del reale, per Stengers, a poter stimolare la capacità del pensiero di attivarsi, di uscire cioè dall’impasse della “stupidità”: qui il riferimento esplicito sono ovviamente le riflessioni che Gilles Deleuze (e prima di lui Antonin Artaud) ha dedicato al tema della genesi del pensiero (pp. 124-125), intesa come attività che si realizza solo “da fuori” a partire da uno stimolo dotato di forza vincolante. Costruzionismo e realismo trovano così, nel testo di Stengers, ma più in generale nella sua opera, un produttivo punto di indistinzione: ciò che si deve poter inventare (un nuovo “possibile”, inteso come creazione irriducibile a ogni suo precedente o condizione) coincide con ciò che siamo costretti e forzati a costruire a partire da una contingenza che ci viene incontro (l’intrusione di Gaia).
Ecco allora che, una volta perimetrato l’orizzonte entro cui muoversi, con altrettanta chiarezza a emergere saranno gli antagonisti, rispettivamente o eccessivamente realisti o esclusivamente costruzionisti. A venir criticate sono innanzitutto le posizioni relativiste, cui spesso il pensiero di Stengers è stato associato con intento denigratorio (p. 27): l’insistenza sulla natura “costruita” delle teorie scientifiche e sulle domande di senso che non preesistono e devono dunque essere “fabbricate” a partire dall’intrusione di Gaia non implicano ipso facto una logica di tipo relativistico. La capacità di corrispondere alla contingenza non ha nulla di relativo, poiché impegna chi cerca a trovare la soluzione che abbia la migliore “efficacia” possibile. Detto in altri termini, è la contingenza a richiedere una serie di pratiche concrete e che siano in grado di funzionare adeguatamente, le quali si sganceranno così inevitabilmente da qualsiasi riferimento ad astratte e/o pacificate posizioni relativistiche. Il trattamento più ostico è però riservato a quanti si richiamano oggi acriticamente alla stagione illuminista e al pensiero di Marx: invece che rinvigorirne l’eredità, neoilluministi e marxisti si sono progressivamente trasformati in rentier (p. 125), tramutando nel privilegio di un realismo testardo ma inefficace l’originaria potenza creativa propria di questi due movimenti culturali. Con raffinatezza teorica, Stengers raccoglie sotto una stessa categoria quanti oggi si contrappongono frontalmente alle politiche economico-sociali, vagheggiando sterili pretese utopistiche a coloro che, animati da una passione triste per l’oggettività della Verità, si impegnano nel continuo smascheramento dell’irrazionalità propria di ciarlatanerie, imposture e inganni (p. 126). Ad accomunare queste due posizioni è una stessa storia, quella della nascita della modernità, tesa su un asse che produce da un lato il racconto «epico» (p. 143) dell’uomo che illumina il mondo con i raggi della propria ragione neutra e universale e, dall’altro, con uno stesso gesto, esclude e disprezza inesorabilmente il suo “altro”, d’ora in avanti liquidato come irrazionale. Si direbbe così che dove il relativismo esprime l’inventiva di costruzionismo poco incline alla contingenza del concreto, la tradizione illuminista e marxista commette l’errore opposto, incagliandosi nell’angusto spazio di un realismo “critico” che, senza l’ausilio di una matrice creativa, si rovescia in definitiva in uno sterile «canto di morte» (p. 121)
Si potrebbe dire, allora, che Stengers propone una via autonoma, tesa a trovare un equilibrio tra la componente di critica nei confronti dell’ipertrofia del capitalismo (p. 73) e il tentativo di non farsi catturare da una contrapposizione frontale che denuncerebbe un frettoloso tentativo di fornire risposte certe senza aver adeguatamente formulato il problema da cui partire (p. 59). Si tratta di una posizione la cui ambiguità Stengers non intende celare e che viene anzi definita come intimamente «preziosa» (p. 101). Non si può tuttavia negare, in questo contesto, una serie di debolezze cui la proposta dell’autrice va inevitabilmente incontro: in primo luogo con il riferimento un poco vago alla capacità di «fare attenzione» (p. 81) e la conseguente «arte del pharmakon» (p. 111), la capacità cioè di saper calibrare in giusta proporzione veleni e rimedi nei differenti tentativi di rispondere a Gaia; in secondo luogo nel riportare alla stregua di casi emblematici – esperienze certo interessanti ma forse non così pregnanti – le giurie di cittadini “sorveglianti” che tentano di monitorare il lavoro (spesso economicamente interessato) dei cosiddetti “esperti”. Più in generale, si ha talvolta l’impressione, leggendo Nel tempo delle catastrofi, che all’appello alla concretezza delle pratiche – che dividerebbero le scienze e le pratiche “viventi” dalla Scienza, dallo Stato e dell’Impresa capitalisticamente orientati – corrisponda spesso un lessico che tradisce una certa evanescenza e una natura gergale, chiusa nei suoi riferimenti e dunque poco intellegibile per chi non abbia dimestichezza con gli autori e i dibattiti al cui interno si inserisce la prospettiva stengersiana.
Ciononostante Nel tempo delle catastrofi è un saggio certamente significativo poiché prova a concettualizzare in modi innovativi la maniera in cui rispondere ai problemi posti dalla contemporaneità senza richiamare in causa la grande narrazione dell’uomo emancipatore – come nel caso della modernità illuministica che si nasconde ancora oggi dietro il dibattito sull’antropocene – e senza, al contempo, ricadere in sterili e regressive forme di preservazionismo ecologico. Per fare ciò, Stengers ha in fondo scritto un testo squisitamente filosofico, per tre ragioni essenziali: in primo luogo perché «saggia» (p. 52) il modo in cui tenere insieme concettualmente creazione e resistenza, percepito e percipiente (p. 35); in secondo luogo perché ci mostra come alla base di ogni trasformazione del mondo non debba risiedere la veemenza con cui si intende imporre una risposta certa quanto prima di tutto la capacità di saper porre la giusta domanda alla realtà (p. 51); infine, perché collega l’esperienza tutta politica della sperimentazione a quella «gioia-evento» (p. 152) che già Spinoza aveva rinvenuto quale motore per la “produzione-scoperta” (anche qui, costruzionismo-realismo) del proprio adeguato modo di vita.
di Giulio Piatti
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Capita spesso che alcune idee filosofiche abbiano una cattiva fama; fino a qualche secolo fa, per esempio, nell’Europa cristiana era piuttosto rischioso professare l’ateismo. Da questo punto di vista la situazione è migliorata e se si porta avanti delle idee proibite più che un rogo si rischia una shitstorm, ma è comunque interessante vedere quali sono i tabù filosofici di un’epoca. Che sia per via dei suddetti retaggi cristiani o a causa di una struttura sociale che ci vuole prima di tutto consumatori, a Occidente una di queste tesi sgradite è il rifiuto del libero arbitrio. La libertà dopotutto è un fondamento ideologico di democrazia e neoliberismo e negarla viene interpretato come un’aggressione filosofica. Mi auguro dunque di non ricevere troppo biasimo, perché mi trovo nella sgradevole condizione di sposare un’idea che la maggior parte delle persone aborre, ovvero che il futuro sia determinato. In breve, credo nella necessità degli eventi: non esistono eventi meramente possibili, ogni fatto o non ha luogo o ha luogo necessariamente.
Più che esserne convinto la trovo addirittura un’ovvietà – ed è proprio questa sicurezza a insospettirmi, perché l’esperienza insegna che spesso ovvietà e verità non vanno d’accordo. Voglio dunque mettere al vaglio questa opinione, che per mia fortuna ha illustri precursori e sostenitrici. Oltre all’antico filosofo greco Diodoro Crono, che ha aperto la strada al determinismo col suo “Argomento dominatore”, come scrive il filosofo lettone Nicolai Hartmann nel suo Possibilità ed effettività,
«la concezione, per cui solo l’effettivo è realmente possibile, storicamente non è affatto svanita. Crisippo la combatté con argomenti che permettono di riconoscere ancora la sua forza. Cicerone l’adoperò volgarizzata nella sua dottrina del fato. Al culmine della Scolastica riemerse in forme nuove e – come pare – completamente autonome. Abelardo la applicò al fare creativo della divinità (Dio “può” soltanto creare ciò che crea effettivamente); Averroè sostenne una dottrina dello sviluppo secondo la quale tutto ciò che è possibile diviene anche effettivo».
Nella fisica moderna questa posizione ha prevalso fino allo sviluppo della meccanica quantistica, che ha messo in dubbio il determinismo einsteiniano a favore della tesi che a livello microscopico i fenomeni della natura sono descrivibili solo in termini probabilistici. Anche in quest’ambito però sussistono dei disaccordi, come dimostra la posizione superdeterminista di una studiosa come Sabine Hossenfelder, per la quale l’apparente casualità dei fenomeni quantistici deriva dalla nostra ignoranza di variabili nascoste, un’ipotesi che è stata scartata erroneamente. Per Hossenfelder,
«L’errore che i fisici hanno fatto decenni fa è stato quello di trarre la conclusione sbagliata da un teorema matematico dimostrato da John Bell nel 1964. Questo teorema dimostra che in qualsiasi teoria in cui le variabili nascoste ci permettono di prevedere i risultati delle misurazioni, le correlazioni tra i risultati delle misurazioni obbediscono a un limite. Da allora, innumerevoli esperimenti hanno dimostrato che questo limite può essere violato. Ne consegue che le teorie a variabili nascoste a cui si applica il Teorema di Bell sono state falsificate. La conclusione che i fisici hanno tratto è che la teoria quantistica è corretta e le variabili nascoste no, ma il teorema di Bell fa un’assunzione che non è supportata da prove: che le variabili nascoste (qualunque esse siano) siano indipendenti dalle impostazioni del rivelatore. Questa assunzione, chiamata “indipendenza statistica”, è ragionevole finché un esperimento coinvolge solo grandi oggetti come pillole, topi o cellule tumorali. (E in effetti, in questi casi una violazione dell’indipendenza statistica suggerirebbe che l’esperimento è stato manomesso). Se questo valga anche per le particelle quantistiche, tuttavia, resta ignoto. Per questo motivo possiamo anche dire che gli esperimenti che provano il teorema di Bell, piuttosto che sostenere la teoria quantistica, dimostrano che l’indipendenza statistica è stata violata».
La posizione di Hossenfelder è minoritaria e non ho le competenze per valutarla, ma finché non avremo una visione pacifica della fisica quantistica appellarsi a essa per confermare o negare una tesi resta una mossa rischiosa. Dopotutto il fatto che esistano eventi casuali resta ancora un’ipotesi e in ogni caso la loro esistenza, che falsificherebbe il determinismo causale, non avrebbe alcun effetto sul determinismo acausale che difendo – e che devo spiegare[1].
Nella Stanford Encyclopedia of Philosophy, sotto la voce determinismo, si legge che «Il mondo è governato dal (o è sotto l’influenza del) determinismo se e solo se, dato un determinato stato in cui le cose sono in un momento t, lo stato in cui le cose saranno in seguito è fissato da una legge naturale». Questa definizione sembra più vicina a quel che chiamo determinismo causale, ovvero l’idea che gli eventi futuri siano prevedibili o comunque causalmente determinati dagli eventi passati. La mia proposta è più debole: ciò che accade nel futuro è determinato, ma non è necessariamente legato al passato. Gli eventi futuri, infatti, potrebbero avvenire per caso o essere del tutto imprevedibili, ma non sarebbero per questo meno determinati.
Per spiegare questo inusuale concetto propongo un esempio: diciamo che cade una tegola da un tetto. Per l’indeterminismo, che è la posizione più vicina al senso comune, potevano darsi diverse condizioni tali che la tegola non sarebbe caduta; poteva non subire urti, non essere erosa dalla pioggia o spostata da un forte vento, eccetera. Il futuro è aperto e può accadere in vari modi. Per il determinismo causale, quello sostenuto da Einstein e Hossenfelder, è scritto nelle leggi della natura che la tegola sarebbe caduta, perché è altresì scritto che pochi istanti prima un colpo di vento l’avrebbe spostata, che le condizioni meteorologiche siano tali da far alzare il vento e così via, di causa in causa, fino all’inizio dell’universo. Il futuro è chiuso ed è causato dal passato. Anche per il determinismo acausale era necessario che la tegola cadesse, ma non che l’evento sia collegato alla ventata, come sostiene il determinista causale. Potrebbe infatti avvenire spontaneamente, senza una causa. Il futuro è chiuso, quale che sia il suo legame col passato.
Ora che ho chiarito (spero) cosa intendo per determinismo acausale, devo spiegare perché credo che gli eventi siano determinati al netto della loro relazione col passato. Per farla breve, il motivo per cui penso che necessità e possibilità coincidano è che credo nella verità di questa frase: «domani accadrà qualcosa, anche se non so cosa»; tanto basta per sapere che quel che avverrà domani è determinato, sebbene adesso lo ignori – qualsiasi cosa accada, infatti, non può che accadere così come accadrà. Ora non so se tra cinque minuti berrò un caffè, ma, qualora accada, non poteva che andare così. Un attimo: potevo decidere di non prendere il caffè! Sì, ma in tal caso sarebbe questo secondo evento a esser stato determinato. C’è insomma una previsione che posso sempre fare con assoluta certezza: qualcosa avverrà e a venire in essere sarà esattamente il fatto che ora ignoro. Se vivessi in un universo di cui concepisco solo due possibilità, come il “testa o croce” del lancio di una moneta, sarei sicuro che una di esse si verificherà – e sarà esattamente quella – ma non potrei dire quale. Insomma, so che accadrà un fatto e che nulla potrà impedirlo; l’unica differenza rispetto a un evento del passato è che non ne conosco la natura, perché è fuori dalla mia portata. Quel che accadrà è dunque inevitabile, perché una volta accaduto non può cambiare – anche se si potesse cambiare, inoltre, a essere inevitabile sarebbe l’evento modificato. Persino qualora si creda che per ogni evento la realtà si moltiplica in dieci, cento o infiniti piani temporali, a essere determinati saranno tutti gli eventi nei vari rami del tempo.
L’ipotesi che esistano alternative al passato mi sembra una proiezione retroattiva degli schemi che usiamo per prevedere e immaginare cosa accadrà nel futuro. Per quel che riguarda il passato, infatti, so che gli eventi sono accaduti in un solo modo. Cosa mi fa supporre che poteva andare diversamente? L’unica conoscenza di cui dispongo è che è accaduto esattamente quel che è accaduto. La possibilità è un concetto bifronte; applicato al futuro è una bussola per navigare nella nostra ignoranza, ma rivolta al passato è semplicemente un errore. Tutto il futuro però diventerà passato; come scrive Vladimir Jankélévitch in La morte,
«Tutto il possibile, dice Schelling, deve accadere; e noi aggiungiamo: tutto l’avvenire avverrà, essendo avvenire solo per venire effettivamente un giorno. Qualunque cosa accada, il futuro (come indica il suo nome) sarà, vale a dire finirà per essere, poiché è un essere semplicemente posticipato».
Anche se il tempo fosse infinito, infatti, ogni istante accade dopo un intervallo finito, dunque prima o poi diventa effettivo. Data la nostra abitudine ad anticipare il futuro tutto questo suona molto strano, eppure non abbiamo alcun indizio a favore del fatto che un evento non dovesse accadere esattamente com’è accaduto. Al contrario, ne abbiamo almeno uno a favore del fatto che doveva andare proprio in quel modo: il fatto stesso che sia accaduto. Su cosa fondiamo l’idea che “sarebbe potuta andare diversamente”, se sappiamo che l’ipotetica alternativa non è accaduta né accadrà mai?
Tra i primi paladini del determinismo troviamo, come accennavo, il filosofo greco Diodoro Crono (fine 4° – inizi 3° sec. a.C). L’argomento da lui sviluppato contro la possibilità (noto con il nome di κυριεύων, il «dominante») schiaccia la nozione di possibile su quella di necessità: se una cosa è possibile, o è o sarà vera, giacché: a) ogni cosa passata è vera e necessaria; b) dal possibile non consegue l’impossibile. Nelle parole di Epitteto, l’idea di Crono è come segue:
«[...] c’è un mutuo conflitto tra le seguenti tre proposizioni insieme: [1] ogni verità passata è necessaria, [2] al possibile non segue l’impossibile, [3] c'è del possibile che né è vero né sarà vero. Diodoro, avendo visto questo conflitto, si valse della plausibilità delle prime due per stabilire che nulla, che né sia vero né sarà vero, è possibile».
Questo argomento ha subito varie riformulazioni, come quella del filosofo neozelandese Prior, e molte critiche, tra cui Crisippo, Occam, Pierce e lo stesso Hartmann, che pur sposando le conclusioni del dominatore, sostiene che «dopo un buon inizio, cala molto di livello». Non voglio addentrarmi in un’analisi della tesi di Crono, ma ne proporrò una versione ibridata con il celebre esempio che Aristotele fa nella sezione 9 di Sull’interpretazione, quello della battaglia navale. Invece delle navi però, userò Napoleone Bonaparte.
(1) Un evento impossibile è un evento che non è mai accaduto né potrà mai accadere. (2) Che Napoleone vinca a Waterloo non è vero nel passato, nel presente e nel futuro. (3) “Napoleone viene sconfitto a Waterloo il 18 giugno 1815” è vero in qualunque momento nel tempo, quindi era impossibile che vincesse.
Ancora una volta è la certezza che il futuro sarà esattamente in un modo, per quanto ignoto, che mi porta a credere nel determinismo (acausale); la possibilità è una proiezione della nostra ignoranza, più che una realtà effettiva.
Che un evento possieda varie versioni possibili è un’ipotesi che chiunque esclude per il passato e il presente, perché abbiamo (o crediamo di avere) una buona conoscenza dei fatti. Per il futuro invece la pensiamo diversamente. Eppure, come si diceva, tutto il futuro prima o poi diventa passato e anche se continuo a immaginare che “poteva andare altrimenti”, una volta accaduto il futuro non suggerisce in alcun modo altre opzioni. Se proietto sulla realtà questa mia fantasia è perché ho esperienza di fatti analoghi veri (ad esempio di altri condottieri che vincono o perdono battaglie), ma non ne ho mai di quel preciso fatto, come la vittoria di Napoleone a Waterloo, che non esiste né esisterà mai. Una previsione esatta espressa nel passato, se confermata dal futuro, resta tale anche nel passato e se un francese nel 1814 avesse affermato che “Napoleone viene sconfitto a Waterloo il 18 giugno 1815” avrebbe detto il vero, anche se la sua affermazione precede di un anno la battaglia.
Riprendo ora il precedente esempio di un universo con solo due stati immaginabili, come testa o croce: mentre lancio la moneta so che nel futuro un esito è vero e l’altro falso. Non so ancora quale sia falso, ma in ogni caso non è “possibile” – è solo falso.
Chi crede come me nella necessità del futuro, a questo punto si domanderà che cosa rende questa ipotesi assurda per la maggior parte delle persone. Un’ipotesi è che questa reticenza sia dovuta alla radicata abitudine di cercare di prevedere il futuro, un’operazione mentale per cui è indispensabile l’idea di “possibilità”. Un altro ostacolo nell’accogliere il determinismo è che va contro alla necessità psicologica di considerare le persone responsabili delle proprie azioni, soprattutto quando si parla di errori. Dato che il determinismo implica l’assenza del libero arbitrio, chi sposa questa tesi deve difendersi dalla critica che senza la libertà di scelta l’umanità sprofonderebbe in un caos etico, perché le persone si sentirebbero libere di compiere ogni efferatezza sapendosi prive di una reale responsabilità. Questa critica è filosoficamente debole, perché le conseguenze spiacevoli di un’ipotesi non dicono nulla sul suo valore di verità – è un po’ come ribattere a un medico che diagnostica una malattia che si sbaglia perché non si desidera essere malati.
L’idea che abbandonare il libero arbitrio sia un pericolo etico, inoltre, mi sembra priva di fondamento. Come scrive Sabine Hossenfelder in un articolo in cui cerca di smontare dieci errori in materia di determinismo, «se il risultato dei tuoi processi cerebrali rende difficile la vita di altri, sarai tu a essere incolpato, recluso, mandato in psicoterapia o preso a calci. È del tutto irrilevante che la tua elaborazione difettosa delle informazioni sia o meno inscritta nelle condizioni iniziali dell’universo; la questione rilevante è ciò che ti porterà il futuro, se altri cercano di sbarazzarsi di te» e ancora, «anche senza il libero arbitrio, le persone devono comunque prendere decisioni e saranno comunque biasimate se rendono infelice la vita di altre persone». Determinate o meno, le nostre azioni hanno conseguenze e a scomparire non è l’idea di responsabilità ma semmai quella di colpa – la cui sparizione non ritengo affatto un male.
In un lungo articolo sul libero arbitrio sul Guardian, Oliver Burkeman porta l’esempio di un assassino e di un pedofilo i cui crimini erano legati alla presenza di un tumore al cervello; una malattia che, in determinate condizioni, può mutare drasticamente i comportamenti e i desideri di chi la sviluppa. Una volta scoperta la vera causa del male, la nostra opinione su questi criminali cambia inevitabilmente. Se non esistesse il libero arbitrio, ogni delinquente sarebbe da considerare come una persona condannata alle sue azioni. Questa idea ci porta a rivedere la giustizia in chiave riabilitativa o come una quarantena per motivi di salute pubblica, rinunciando così alla legittimità della nostra indignazione. Sembrerebbe un effetto negativo, se non fosse che l’accanimento morale non ha alcuna utilità sociale, anzi, porta alla erronea impressione di essere immuni al male e alla giustificazione di ulteriori atti immorali, come un trattamento violento nei confronti dei criminali. La società non rischierebbe di sprofondare nel caos, perché il male resterebbe tale e le norme per proteggersi da chi lo attua rimarrebbero intatte, senza però indulgere in sadismi o accanimenti. Sempre nello stesso articolo Burkeman scrive:
«se il libero arbitrio si dimostrasse davvero inesistente le implicazioni potrebbero non essere del tutto negative. [...] È un buon motivo per essere più gentili con noi e con gli altri. Per chi tende a essere duro con se stesso, è terapeutico pensare di aver fatto esattamente quello che poteva fare e che, nel senso più profondo, non avrebbe potuto fare di più. E per chi tende a infuriarsi con gli altri per i loro piccoli misfatti, è rassicurante pensare con quanta facilità le loro colpe avrebbero potuto essere le nostre. Alcune ricerche hanno collegato l’incredulità nel libero arbitrio a una maggiore gentilezza. Harris sostiene che se comprendessimo a pieno la tesi dell'assenza di libero arbitrio, sarebbe difficile odiare gli altri: come si può odiare qualcuno che non si incolpa per le sue azioni? Ma l’amore ne uscirebbe in gran parte indenne: dal momento che “amare significa volere che coloro che amiamo siano felici, ed essere noi stessi felici di quel legame etico ed emotivo”, nessuna di queste cose ne risulterebbe indebolita. Anche altri aspetti positivi della vita rimarrebbero indenni. Come dice Strawson, in un mondo in cui non si crede nel libero arbitrio, “le fragole avrebbero comunque un buon sapore”».
Se si parla dell’effetto che fa una credenza, la risposta non può che essere personale. L’idea del “nulla” ad esempio, pur nelle sue molteplici declinazioni, è capace di causare sconforto a Occidente e di risultare salvifica a Oriente. Anche per quel che riguarda il determinismo non esiste l’effetto giusto, ma solo una moltitudine di reazioni che questa idea genera una volta a contatto con delle individualità che si diversificano per storia biografica, costituzione fisica e contesto culturale – ogni risposta, insomma, è personale e tutto quel che posso offrire è la mia.
Come ho detto non ho mai confidato nel libero arbitrio e in ogni mio gesto mi sono sempre sentito come spinto da una volontà che vivo senza decidere; come aveva già detto Schopenhauer, una persona fa ciò che vuole ma non può non volere ciò che vuole. Se osservo i miei processi mentali, mi sembra di notare che i pensieri, più che un deliberato prodotto della mente (quale mente decide cosa pensa la mente?) sono qualcosa che accade, su cui non ho alcun controllo. Ma non è una consapevolezza dolorosa, tutt’altro. Nei rari momenti in cui riesco a contemplare senza giudicare desideri e repulsioni, lo spettacolo che intessono coi miei pensieri ha la bellezza di un’innocua catastrofe.
Il determinismo acausale, inoltre, mi aiuta a essere più indulgente con me e con gli altri, senza per questo negare o rifiutarmi di correggere i miei errori – in fondo se non mi impegnassi per risolverli sarebbe solo una dimostrazione che sono destinato a non farlo. L’idea che il futuro esista di già mi permette di non avere troppa paura del tempo che passa, perché nulla nasce e nulla scompare, se non alla mia vista. Decostruendo l’idea di colpa, infine, mi sono convinto che nessuna persona merita il dolore e mi è più facile essere tollerante nei confronti di chi la pensa diversamente, perché nessuno decide come nascere. E se questa è la tanto temuta débâcle etica, be’, ben venga.
[1] Tra i nomi sotto cui ho trovato questo concetto segnalo anche “fatalismo logico” o “fatalismo metafisico”. Uso determinismo acausale perchè in italiano la parola “fatalismo” è un po’ fuorviante (cfr. Conee, Earl Brink, and Sider, Theodore. Riddles of Existence: A Guided Tour of Metaphysics. Clarendon Press 2014).
di Francesco D'Isa
Bibliografia
Aristotele, De interpretatione, a cura di Attilio Zadro, Napoli, Loffredo (collana Filosofi antichi. Nuova serie), 1999
Clark, C. J., Winegard, B. M., & Shariff, A. F. (2021). Motivated free will belief: The theory, new (preregistered) studies, and three meta-analyses. Journal of Experimental Psychology: General, 150(7), e22–e47. https://doi.org/10.1037/xge0000993
Conee, Earl Brink, and Sider, Theodore. Riddles of Existence: A Guided Tour of Metaphysics. Regno Unito, Clarendon Press, 2014.
Burkeman, Oliver, The clockwork universe: is free will an illusion?, Guardian, 27 aprile 2021, https://www.theguardian.com/news/2021/apr/27/the-clockwork-universe-is-free-will-an-illusion
Hartmann, Nicolai, and Pinna, Simonluca. Possibilità ed effettività. Mimesis, Milano, 2018.
Hoefer, Carl, Causal Determinism, The Stanford Encyclopedia of Philosophy (Spring 2016 Edition), Edward N. Zalta (ed.), https://plato.stanford.edu/archives/spr2016/entries/determinism-causal/
Hossenfelder, Sabine, Palmer, Tim, How to Make Sense of Quantum Physics, Nautilus, issue 83, 12 marzo 2020 https://nautil.us/issue/83/intelligence/how-to-make-sense-of-quantum-physics
Hossenfelder, Sabine, Dieci errori concettuali in materia di libero arbitrio, Le Scienze, 4 gennaio 2014, https://www.lescienze.it/news/2014/01/04/news/libero_arbitrio_emergennza_propriet_leggi_natura-1950046/
Jankélévitch, Vladimir. La morte. Einaudi, Torino, 2009.
Schmidhuber, J. Don't forget randomness is still just a hypothesis. Nature 439, 392 (2006). https://doi.org/10.1038/439392d
Repellini, Ferruccio Franco (a cura di) (2016). L'argomento dominatore, traduzione di passi scelti.
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Psicoanalisi Queer Manifesto
Recensioni / Dicembre 2021Nella convinzione che non sia sostenibile una scrittura impersonale e non situata, chi scrive in questa sede lo fa da una posizione di soggettività queer e di adesione a un certo quadro epistemologico, quello di una psicoanalisi queer fin dai suoi quattro concetti fondamentali: l'inconscio, la ripetizione, il transfert e la pulsione.
Che si possa fare una psicoanalisi rigorosa, sia in sede teoretica che clinica, aderendo alla filologia lacaniana (se ce n’è una!) e al contempo attestandone il fondamento queer, lo mostra il saggio Queer Psychanalyse: clinique mineure et déconstructions du genre di Fabrice Bourlez (Éditions Hermann, Paris 2018), in traduzione italiana ad aprile per i tipi di Mimesis. Nella ricezione italiana dell’intersezione tra psicoanalisi e studi di genere, che si approssima al deserto concettuale, la scrittura di Bourlez colma una lacuna che non può persistere oltre. Una lacuna che ha prodotto effetti reali, attestati sia dal silenzio delle Scuole di Psicoanalisi impegnate in querelles lontane dalla causa analitica intesa come causa del desiderio, sia dai disagi soggettivi degli analizzanti che nei cabinets dei propri analisti non trovano risposta alle urgenze della contemporaneità e dei propri corpi.
Aspettando di leggere l’edizione italiana, diamo un occhio allo stato del terreno su cui andrà a installarsi. Da una parte, troviamo la proposta teologica del nostro pastore lacaniano Massimo Recalcati, fondata sul binomio Bibbia-Psicoanalisi, su una solida retorica del sacrificio? e su una speranza di guarigione dal sintomo che si approssima alla grazia divina; il tutto affiancato da una lettura delle tavole della sessuazione (Seminario XX) marcatamente binaria ed etero-patriarcale, poiché la sua intera opera risulta pervasa di dicotomie manichee e attestazione di differenze uomo-donna strutturanti, presuntamente fondate nella logica dell’inconscio: il queer non è chiaramente passato di qui. La carica di potere e autorità di cui gode il controtransfert dell’analista è – non esageriamo – quella di un dio, possibilmente maschio e paternalista, incarnato, e qualsiasi tentativo di rivendicare una psicoanalisi costitutivamente laica nei suoi fondamenti viene “punito” con scomuniche.
Differentemente, lo psicoanalista presentato da Bourlez è una figura etica, nel senso di un essere di desiderio, la cui consistenza non è l’autorità ma l’erratica, fallimentare e sempre eccentrica movenza del desiderio. Un analista che porta dei tacchi, coi quali gioca, cade, gode, performando la propria instabilità. Il tallone d’Achille, ossia la debolezza, il difetto, della psicoanalisi, diventa les talons hautes: i tacchi alti su cui essa svetta, solo a condizione di traballare e di poter cadere da un momento all’altro (pp. 142-44). La clinica di Bourlez ci permette di opporre al pugno duro del soggetto che è supposto sapere perché sa, o perché ha la presunzione di sapere, il tatto di chi abdica alla propria funzione e la decostruisce, limitandosi – eticamente – a occupare una posizione, che è quella del desiderio. Ecco dunque un primo punto per cui Queer Psychanalyse può portare buone notizie al neo-lacanismo italiano, arroccato in una condizione di neo-lacanismo classico, rigidamente milleriano e consacrato all’Uno: l’Uno dell’Unico Lettore (Miller fu così nominato da Lacan), l’Uno de La (Signora) Psicoanalisi, l’Uno del godimento masturbatorio di una pratica che, volendosi una, si vuole sola. Il caposaldo del neo-lacanismo L’Uno-tutto-solo di Jacques-Alain Miller conteneva a sua insaputa una profezia: la solitudine. Ma più che versare lacrime su un neo-lacanismo classico solo e moribondo, dobbiamo condannarne la violenza sistemica, che ha adoperato nella precisa scelta di escludere le psicoanalisi. Le psicoanalisi critiche, cliniche, decostruttive, che lo hanno minacciato con la loro alterità, costitutiva peraltro della sua materia-principe: l’inconscio che è discorso dell’Altro.
Queer Psychanalyse propone dunque non solo una clinica minore, ma minorizzata (minorisée), perché costretta dalla violenza padronale di un’esclusione a esprimersi dal margine. Ricorrendo a una metafora derridiana, possiamo dunque parlare della psicoanalisi diffusa – quasi con atteggiamento coloniale – da Miller come di un neo-lacanismo bianco, laddove “bianco” non (solo) indica il parlante in questione come maschio bianco cisgender eterosessuale ma soprattutto il tentativo di occultare dietro una supposta neutralità del discorso psicoanalitico (che non è mai neutrale, ma immediatamentepolitico) la messa a tacere, colpevole, violenta e intrinsecamente escludente, delle minoranze queer e trans. Bourlez ripristina un uso politico della psicoanalisi sottraendo l’uno-per-uno, l’esercito degli uni-tutti-soli, alla masturbazione paranoica del lettino, e riconsegnandoli alla specificità delle rivendicazioni del loro desiderio, che è passata attraverso il sangue di Stonewall e il “martirio” dei sieropositivi (cfr. pp. 37-38). Altra frontiera che Bourlez apre è il confronto con le teorie femministe, in particolare un urgente Butler con Lacan “Qu’y a-t il entre nous”? La linea che la nostra recensione persegue, riguardo l’imminente ricezione italiana di una psicoanalisi queer, non può che sostare su un fenomeno perlomeno bizzarro che ha colpito il neo-lacanismo: esso consiste nel dare centralità al godimento de la donna millantando un femminismo che non ha rapporto con alcuna delle quattro ondate femministe e che è avulso da rivendicazioni storiche e militanti. Insomma, un “puro” femminismo psicoanalitico, condotto – di nuovo – in solitudine sul lettino, una-per-una, combattendo coi propri fantasmi e accedendo a un godimento tanto singolare quanto innominabile, al di là del fallo: una vera deriva mistica.
La razionalità, il rigore, la logica radicale dell’inconscio – ben illustrata da Matte Blanco nel suo Saggio sulla bi-logica – sembrano rigettare questi accostamenti teologici e mistici, che non solo ridicolizzano l’impresa freudo-lacaniana ma occultano nuovamente la posizione del “chi parla” (né dio, né un al di là di…, ad esempio del fallo). Fortunatamente per noi, Bourlez corregge il tiro ricordandoci che tale godimento singolare (jouissance) può essere pronunciato perché l’esistenza di una comunità militante lgbtqia+ l’ha consentito, e decenni di lotte gay hanno fatto sì che l’innominabile assuma nomi, posizioni e colori di un arcobaleno, attraverso atti di nominazione del suddetto godimento, come il coming out: “sono psicoanalista e gay. L’ho detto, lo ripeto e ci ritornerò. Sarà meglio che vi abituiate” (cfr. p.19, trad. mia). In questo senso, anche l’ascolto (l’Ouïr) dell’analista deve essere un queer-ouïr. Bourlez gioca sulla medesimezza dei due fonemi, a cui aggiungerei jouir, per cui queer ouïr c’est jouir, l’ascolto queer è una forma di godimento: un ascolto in modo sempre già deviante, non coincidente con sé stesso, che diventa-altro e apre da dentro il fuori che rende i quadri clinici non chiudibili, infinitamente eccentrici, per far evolvere in maniera autenticamente critica i concetti fondamentali dell’inconscio. È quel che si intende con psicoanalisi open to revision, aperta alla revisione costante della sua prassi, e in questo senso inclusiva delle minoranze e spazio safe. In Francia i nomi per definirla proliferano: psychanalystes homosexuel.le.s, psylesbiennes, psy gay.e.s, homoanalystes, psy safe inclusif, analystes mineur.e.s, psy queer.
In questi spazi non aleggia il fantasma eteronormativo dell’analista uomo la cui analizzante è donna, con la presunzione maschile da parte del primo che vi sia tra i due un potenziale o un rischio di seduzione.
L’urgenza di far circolare in Italia Queer Psychanalyse di Bourlez deriva anche dall’errato confronto che è stato instaurato tra psicoanalisi lacaniana, femminismi e queer studies allo stato attuale del dibattito: pensiamo a testi come L’essere e il genere. Essere uomo/donna dopo Lacan della filosofa e psicoanalista lacaniana Clotilde Leguil, che ha messo per iscritto qualcosa che non esito a definire come una catastrofe del queer. Il modello di “essere donna” che Leguil propone consiste nel “godere della propria esclusione”, atto che dalla prospettiva di Bourlez sarebbe insostenibile. Per Leguil essere donna, oltre che essere esclusa e, paradossalmente, goderne, significa “confrontarsi con la follia”, e “godere di un’inesistenza per arginare la propria mancanza a essere”. Questi brevi estratti si affiancano a una ricostruzione storica semplicistica e a un’opera permeata, fin dal titolo, di una logica identitaria e binaria. Il binarismo è affermato fin dalla contrapposizione delle due opposte letture del concetto di “gender”, da parte degli studi di genere e della psicoanalisi: per i primi il gender sarebbe un’“artiglieria pesante”, una “gabbia che paralizza l’essere”, da abolire; per la seconda sarebbe il “soffio vitale dell’essere”, la possibilità più propria del soggetto, il quale “rincorre il genere per cogliere e raggiungere qualcosa del suo essere”. Correggere il tiro rispetto a questi quadri teorici fallaci sull’intersezione tra psicoanalisi e gender studies sembra essere per Bourlez un preciso dovere morale: nel suo saggio mostra che attestare l’esistenza di un punto di impossibilità tra La Psicoanalisi e il Queer è un gesto deliberato di occultamento, quello di un pensiero straight, per dirlo à la Wittig, di una precisa matrice eterosessuale che si dà come discorso maggioritario e maggiore: un discorso che silenzia i punti di espressione delle letterature minori, quelle che spingono la lingua al limite facendo tremare la grammatica maggioritaria. Maggiore e minore sono due modi possibili di leggere il testo lacaniano. Bourlez lo mostra anche con le dibattute tavole della sessuazione del Seminario XX, Ancora: uno schema bipartito che distingue il modo di godere fallico da quello femminile, col rischio di creare due universali che governano due logiche differenti, e dunque di riprodurre la differenza dei sessi. Il due è l’unico a priori della sessuazione o possiamo porre, già trascendentalmente, n-sessi, n eccezioni singolari a una legge piena di buchi, che fa acqua da tutte le parti? Attenersi alla binarietà dello schema non ci rende complici di una costruzione culturale ancora intrinsecamente dualista? Leggere le tavole in modo minore significa, invece, sessuare in modo queer, non prima di esser passati da Butler e Fausto-Sterling, intersecando la psicoanalisi con la storia del femminismo e della biologia. Significa intendere i sessi come un continuum e come i colori di un prisma (p. 281), a partire da nient’altro che i corpi (chiaramente significanti e sessuati), dalla loro innata biologia della complessità e della diversità, fino a includerne quel punto tanto imprendibile quanto matematico che è il Reale di ciascuno.
Il saggio di Bourlez ha un andamento decostruttivo: in cinque capitoli, vengono ripensati, in-fondati e reintegrati i fondamenti della pratica analitica. Nel primo, Bourlez sostiene di dover dé-faire l’analyse: e così ri-farla. Per disfare un’analisi, serve scrivere, resistere, fare in un certo senso e a proprio modo coming out (pp. 9-15). Nel secondo, manda in rovina l’Edipo: lo mantiene come osso fondamentale dell’analisi e come contenuto dell’inconscio, ma aprendolo a delle possibilità; ossia che ci siano n-sessi coinvolti nel teatrino edipico e che ci sia un necessario al di là dell’Edipo (pp. 94-98). La sorpresa è che la decostruzione dei generi non viene da un’integrazione, ma da una lettura radicale del testo freudiano stesso.
Bourlez prosegue tematizzando un atto nuovo, quello di performare l’omo-analista: nel terzo capitolo si chiede se i cabinets di Freud e Lacan fossero degli spazi che col lessico di oggi definiremmo safe, o ancora gay-friendly. Perché Dora fugge dopo sole tre settimane di analisi? (pp. 148-153) Perché le diagnosi di isteria spesso celano l’omosessualità femminile dietro la seduzione dell’analizzante per l’analista uomo, investito libidicamente come padre? (p. 147). La migliore sovversione che le isteriche abbiano potuto attuare nel discorso analitico è consistita nell’averlo fatto cessare. Dopo averlo inconsciamente istituito coi propri sintomi, se ne sono sbarazzate. Come? Andandosene. Rispettivamente nel Frammento di un’analisi di isteria (caso Dora) e in Psicogenesi di un caso di omosessualità femminile (caso della giovane omosessuale) “le due donne hanno buttato via il trattamento e le interpretazioni freudiane che lo accompagnano. Le sue manie d'interpretazione del sesso da parte del Padre le hanno fatte inorridire. Sono scappate. Lo hanno lasciato da solo con le sue pipe, le sue statuette e il suo divano” (p. 149).
I successivi capitoli sono dedicati a due precise operazioni politiche: l’inversione dell’etero-sessimo e l’apertura di un al di là della differenza dei sessi (ben diverso dall’al di là del fallo), per smontare le mosse che governano, in ogni nostra terapia individuale, quella che Bourlez definisce la micropolitica dell’atto analitico.
Perché leggere Queer Psychanalyse in Italia e farne, al contempo, il point de départ e il point de capiton del dibattito psicoanalitico contemporaneo? Per farla finita col verbo lacaniano come “sacra scrittura” da riconsegnare alla corretta filologia definitoria, e dunque con le derive teologiche e paranoiche che esso incarna, reiterando il discorso del padrone. Per de-feticizzare la Grande Psicoanalisi intesa come sola e unica soluzione al sintomo, sostituendola con la proliferazione di psicoanalisi queer, transfemministe e decostruttive. Il senso delle psicoanalisi, inteso qui come il loro desiderio, alla luce del saggio di Bourlez, non è l’indagine su un presunto “solo” godimento, ma il re-inquadramento dei modi di godere in un’analisi politica affiancata a un’epistemologia critica della sessuazione. Solo così potremo interrogare preliminarmente la scena eterosessuale, smascherarla nei suoi statuti oppressori e violenti, individuare i modi di vivere maggioritari e incarnare le nostre resistenze soggettive nelle grammatiche che non scegliamo di abitare, aprendo nuove possibilità di sessuazioni queer.
di Sara Fontanelli
Bibliografia
F. Bourlez, Queer Psychanalyse. Clinique mineure et déconstructions du genre, Éditions Hermann, Paris 2018.
J. Derrida, La mitologia bianca (pp. 275-349), in Id., Margini della filosofia (1972), Einaudi, Torino 1997.
J. Lacan, Il Seminario. Libro XX. Ancora (1972-1973), Einaudi, Torino 1983.
C. Leguil, L’essere e il genere. Essere uomo/donna dopo Lacan, Rosenberg & Sellier, Torino 2019.
J.-A. Miller, A. Di Ciaccia, L’Uno-tutto-solo. L’orientamento lacaniano, Astrolabio, Roma 2018.
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Recensione a V. Jullien, Ce que peuvent les sciences, Paris, Éditions matériologiques, 2020
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Questo libro di Vincent Jullien cerca di indagare, con un esercizio impressionante di sintesi, ciò che possono le scienze. Per farlo, l’autore si interroga innanzitutto su ciò che le costituisce e per ciò stesso cerca di giustificare il metodo dell’epistemologia storica. In seguito si occupa di mettere in discussione l’esistenza di una scienza fisico-matematica e nello stesso tempo l’idea di una rottura epistemologica fondamentale tra la fisica e le altre scienze. Infine, nella terza parte, Jullien affronta più direttamente ciò che possono le scienze, esponendo le conseguenze e i progressi che possiamo aspettarci dal loro sviluppo.
L’autore comincia la sua opera instaurando una rottura netta tra i fatti puri, come, ad esempio, «un sasso cade al suolo», e i fatti scientifici, come «un sasso cade al suolo perché l’attrazione gravitazionale lo costringe al suolo». Al pari di Bachelard, si oppone così fin dall’inizio ad alcuni filosofi delle scienze, Meyerson e Carnap, che difendevano l’idea di una continuità tra gli enunciati del senso comune e gli enunciati scientifici. È solo quando questi «stessi fatti materiali […] [sono] accompagnati da un’attività razionale [che] fanno parte delle scienze e della loro storia» (p. 26). La caduta di un sasso al suolo potrà entrare nella storia delle scienze solo dal momento in cui una teoria gli sarà associata. Dalla teoria aristotelica alla teoria della relatività generale, passando per le tesi galileiane e newtoniane, diverse teorie si sono succedute attraverso i secoli per tentare di capire perché e come un sasso cade al suolo. E se le tesi aristoteliche e poi newtoniane sono state confutate, comunque appartengono alla storia delle scienze. Allo stesso modo, le misure prese oppure i principi su cui ci si deve fondare potranno costantemente essere rimessi in discussione. Infatti, se le scienze sono costituite «da ciò che risulta dalla trasformazione razionale dei fatti elementari, di idee e di immaginazioni suggestive in enunciati o attività complessi, allora, le scienze e la loro storia […] non possono che essere in conflitto» (p. 34).
Jullien si interessa poi alla definizione stessa di una teoria scientifica e questo al fine di giustificare meglio la necessità di ricorrere a un’epistemologia storica. In effetti, secondo l’autore, non si può, come avevano preteso di fare in particolare i filosofi del Circolo di Vienna, descrivere la dinamica delle scienze «come un insieme astratto e formale da cui la struttura poteva essere descritta servendosi di considerazioni logiche e formali, insiemistiche, operatorie, algoritmiche» (pp. 46-47). È precisamente in questa stessa prospettiva logico-insiemistica che Carnap escludeva dall’analisi della scienza sia le prospettive storiche che quelle sociologiche. Secondo Jullien, se si può agevolmente prescindere dalle condizioni sociologiche all’interno delle quali una teoria scientifica è stata prodotta per comprenderla, questo non è valido per la sua storia: «la sociologia ci propone il contesto della teoria e la storia ci suggerisce il testo» (p. 48). Questa tesi concorda con quella difesa da Jullien, in appendice alla sua opera, sull’esternalismo. Le ragioni ideologiche, religiose, politiche o morali sono quindi considerate dal filosofo come esterne alle teorie scientifiche, poiché non giocano un ruolo probante nei confronti del contenuto delle teorie elaborate e neanche sui loro dispositivi sperimentali.
La storia costituisce dunque per Jullien la fonte principale di analisi della scienza e questo soprattutto per tre ragioni: innanzitutto perché dei concetti come principio, anomalia oppure refutazione trovano davvero un senso e un’efficacia solo all’interno della storia delle scienze; poi perché si capisce meglio lo stato presente di una scienza e dei suoi problemi alla luce della sua storia; infine perché alcune linee di argomentazione moderne sono la ripresa di argomentazioni apparse nelle controversie scientifiche passate, come per esempio la questione dell’unificazione concettuale dello spazio e della materia. Jullien precisa poi, basandosi in particolare su Bachelard, la specificità della storia delle scienze rispetto alla storia generale: la prima, al contrario della seconda, permette di giudicare le attività umane passate, in questo caso le attività scientifiche. Questo giudizio dello storico sarebbe possibile grazie all’idea di un palese progresso delle scienze attraverso la storia: «è solamente se si pensa che il progresso esiste nelle scienze che l’epistemologia può ”giudicare”» (p. 70). Non solo capiamo meglio lo stato attuale di una scienza alla luce delle sue problematiche passate, ma la conoscenza dello stato presente di essa sembra anche uno strumento indispensabile alla comprensione dei suoi stati anteriori. La teoria della relatività generale permette anche di capire meglio l’interesse della tesi cartesiana della materia estesa, che identificava già la materia e lo spazio. Jullien non difende peraltro una concezione whiggista della storia della scienza che consisterebbe soprattutto nel fare la storia dei vincitori. Questo però non deve neanche farci cadere nell’«illusione “storicista” che ci farebbe credere che possiamo pensare oggi le controversie nelle condizioni in cui si produssero» (p. 83).
La seconda parte dell’opera consiste nel dimostrare che, nonostante l’associazione molto stretta che unisce la matematica e la fisica, non si può realizzare la fusione di questi due domini in un’unica scienza, facendo sparire per ciò stesso la loro natura distinta. Proprio come ciò che chiamiamo tecnoscienza non può eliminare la distinzione essenziale tra tecnica e scienza, come spiega Jullien in appendice al suo libro. Questa seconda parte sembra costituire una parentesi, in quanto la terza parte pare rispondere e prolungare l’impresa iniziata nella prima. In realtà essa è imprescindibile, perché il mantenimento della distinzione essenziale tra gli oggetti e le procedure della fisica e della matematica permette di giustificare un approccio epistemologico comune per la totalità delle scienze della natura, senza negare l’intensità particolare del legame tra fisica e matematica.
Jullien comincia con l’esame dei rapporti che la fisica e la matematica hanno intrattenuto a partire dall’Antichità. Fino al XVII secolo, «lo studio del mondo sensibile, la filosofia naturale, è debolmente stimolata o animata dalla matematica» (p. 116). Dopo di che «con Galileo, ma anche con Keplero, Cartesio, […] la matematica occupa […] un posto chiaramente più grande nella costituzione delle teorie e delle attività fisiche.» (p. 123). Questa matematizzazione delle scienze dei corpi materiali inanimati è accompagnata da una duratura separazione dalle scienze biologiche. Tuttavia, benché questa associazione tra la fisica e la matematica sia maggiore, la distinzione tra loro non cessa di esistere. Infatti, secondo Jullien, non si deve confondere un’articolazione forte tra questi due domini – come nella legge della caduta dei gravi enunciata da Galileo – con una fusione di questi due domini che condurrebbe all’esistenza di oggetti e di procedure fisico-matematiche.
Se secondo Cartesio la matematica ha chiaramente solo un ruolo metodologico per la filosofia e la fisica, in quanto abitua lo spirito a riconoscere la verità così come a ragionare rigorosamente, la matematica occupa, nei Principia di Newton, un posto molto più centrale potendo lasciar supporre una fusione dei due domini. Tuttavia, ancora una volta, articolazione non è fusione e «la natura dei diversi piani della teoria fisica newtoniana è chiaramente distinta» (p. 136) poiché il livello superiore e inferiore della teoria sono fisici mentre i concatenamenti e gli sviluppi dipendono della matematica. Per Leibniz, la barriera che separa la matematica dalla fisica sembra molto più netta. La prima costituisce un vasto campo di possibilità da cui la fisica può attingere, al contrario di Newton che «costringe le forme matematiche utilizzate ad essere, fin da principio, delle espressioni delle cose fisiche» (p. 144). Dunque, una divisione del lavoro tra fisica e matematica è stata stabilita e la grande efficacia di questo nuovo metodo non deve farci credere in una dissoluzione di questa distinzione. Rispetto alla sua nascita nell’Antichità, è solo da tre o quattro secoli, in sostanza, che la fisica utilizza come strumento principale del suo sviluppo la matematica.
Quanto alla matematizzazione delle scienze biologiche, rifiutate da Buffon e Diderot, si dovrà aspettare la fine del XX secolo affinché si sviluppi davvero. Tuttavia, anche se «l’uso della matematica è diventata un’evidenza per la biologia nel corso del XX secolo», ciò non toglie che la matematica, come fa con la fisica, possa unicamente costituire un mezzo che permette un progresso più ampio delle scienze biologiche. Pertanto, «ciò che separa la fisica dalle altre scienze della natura è di minor rispetto a ciò per cui si assomigliano» (p. 190). Un grande numero di punti comuni permettono un avvicinamento tra l’epistemologia delle scienze biologiche e quella dei corpi inanimati: la costituzione dei fatti scientifici, il ruolo delle anomalie, l’elaborazione delle ipotesi e delle teorie, le attività di laboratorio, ecc.
La terza parte del libro ha come obiettivo principale quello di mostrare, questa volta direttamente, ciò che possono le scienze, sia biologiche sia fisiche. Le teorie scientifiche ci hanno permesso innanzitutto di ottenere una grande quantità di conoscenze, come per esempio l’età della Terra, il suo diametro o anche l’evoluzione delle specie. Tuttavia, dobbiamo notare che queste conoscenze sono valide indipendentemente dalle teorie che ci hanno permesso di scoprirle. È per questo che «se è pertinente convalidare il progresso delle conoscenze grazie alle scienze, lo stesso non può dirsi per le teorie scientifiche stesse. Il loro progresso è infinitamente più delicato da afferrare e soggetto a contestazione.» (p. 197). Diversi schemi esistono per descrivere il progresso delle teorie scientifiche: «il progresso per accumulazione, per inclusione o incastro, per perfezionamento o per sviluppo; può anche essere pensato come ciclico o asintotico» (p. 197). Lo schema dell’incastro, che è difeso dal positivismo logico, consiste nel fatto che teorie più potenti vengono a superare e includere le precedenti. Sia Kuhn che Popper o anche Bachelard si sono opposti, ognuno a suo modo, al modello dell’incastro. Se Jullien condivide, con questi tre autori, l’idea di un progresso delle teorie scientifiche attraverso le rivoluzioni, egli difende, allo scopo tuttavia di escludere il relativismo scientifico, l’idea che una nuova teoria può sostituirne un’altra solo se è più potente. Questo è il motivo per cui, e su questo punto Jullien diverge da Kuhn, si può instaurare una commensurabilità possibile tra le teorie.
Partendo da ciò, Jullien difende insieme il carattere provvisorio e confutabile delle teorie, che per ciò stesso non sono mai vere, e il progresso delle conoscenze e teorie scientifiche. Come però si possono sostenere insieme il progresso delle conoscenze e teorie scientifiche e nello stesso tempo il fatto che queste ultime non siano mai vere? La risoluzione di questo paradosso, centrale nell’opera, si basa sull’idea, difesa anche da Kuhn, che man mano che la scienza progredisce, lungi dal farci avvicinare a una verità della natura, accresce solo la nostra ignoranza di essa. Quando l’esistenza della volta celeste che comprende il mondo fu confutata, questo permise certo un incremento delle nostre conoscenze dell’Universo, ma ciò che c’era al di là delle stelle visibili diventò una fonte notevole di ignoranza. Le scienze non hanno quindi il potere di scoprire né di dirigersi verso la verità della natura, ma forse permettono di «migliorare senza fine la qualità del dialogo che la nostra ragione intrattiene con essa» (p. 17).
Jullien approfitta del capitolo seguente per affrontare il metodo induttivo. Per Darwin, le collezioni dei minerali come quelle dei fossili vegetali e animali accumulate dai naturalisti non costituiscono per niente una scienza geologica o degli esseri viventi: «i fatti puri, non importa quanti siano, rimangono in silenzio e non forniscono teorie, spiegazione, intelligibilità.» (p. 228). Anche la scoperta di Fleming della penicillina non costituisce un elemento probante a favore del metodo induttivo. Infatti, da decenni prima di questa scoperta, i batteriologi cercavano un anticorpo che impedisse la proliferazione dei batteri e «secondo Popper, non era la prima volta che si osservava l’impianto accidentale di una muffa battericida in una coltura microbica […]. Il lampo geniale di Fleming fu di congetturare che la penicillina aveva questo ruolo» (p. 241). È solo nella misura in cui sappiamo prima ciò che i fatti bruti possono insegnarci che essi possono acquisire un senso nello sviluppo delle scienze. Inoltre, la storia delle scienze ci mostra che «gli sviluppi scientifici non sono avvenuti sul modello dell’induzione» (p. 246).
Le scienze possono, infine, essere esplicative, cioè – nel senso di Cartesio – indicare le cause dei fenomeni. La storia delle scienze però mostra «delle belle e potenti teorie che rimangono debolmente o molto debolmente esplicative» (p. 257). Così, la debole capacità esplicativa della dottrina newtoniana non fu un ostacolo alla sua ricezione e al suo successo. Così come anche la funzione, per esempio il fatto di spiegare l’esistenza dell’occhio grazie alla necessità della vista, «non è in grado di proporci un orizzonte, un limite verso il quale tenderebbero le nostre conquiste scientifiche» (p. 267), non più del principio di economia.
Questo libro termina con alcune considerazioni sulla pandemia di Covid-19. Secondo l’autore, «lo schema di sviluppo […] di questo episodio scientifico ha alcune possibilità di rimanere valido e darci alcune idee di ciò che possono e di ciò che non possono le scienze» (p. 297). La matematizzazione delle scienze, attraverso in particolare l’epidemiologia, è qui notevolmente all’opera; un grande numero di piste di trattamenti o di vaccini ha potuto mostrare il ruolo centrale dell’immaginazione dei ricercatori. Inoltre, la velocità molto più grande con cui il virus ha potuto essere sequenziato attesta i progressi spettacolari delle conoscenze scientifiche. Progressi che, anche in questo caso, non si sono sviluppati senza un incremento dell’ignoranza.
Ciò che possono le scienze è un’opera che, grazie al suo sforzo di esaustività e alla sua ambizione, è decisamente stimolante. Jullien prova infatti ad interessarsi sia alla fisica sia alla chimica, alla geologia o alla biologia, ossia alla totalità delle scienze considerate come scienze della natura. Tuttavia questa esaustività non si spinge fino alla comprensione delle scienze umane e sociali – naturalmente c’è sempre una forma di ingiustizia nel rimproverare a un libro una mancanza di esaustività. Come afferma Jullien, «l’idea di scienza esige qualche informazione che risponde, seppure incompletamente, al perché o al come della cosa di cui si tratta» (p. 23). La storia, la sociologia ma anche l’economia non cercano anche loro di fornire delle informazioni che rispondono al perché o al come dell’oggetto in questione? Non cercano anche loro di spiegare i fenomeni quand’anche questi fossero i risultati delle azioni umane? Questa domanda ci sembra tanto più legittima considerato che una parte di queste scienze ricorre sempre di più allo strumento matematico. L’autore stesso si serve di un esempio proveniente dalle scienze economiche per mostrare i limiti dell’approccio induttivo nei Big Data: «così abbiamo visto le previsioni economiche di natura (IA, BD) incapaci di vedere arrivare le grandi crisi finanziarie degli anni 2008-2009, mentre i teorici le annunciavano» (p. 269). Ciononostante, sembra che sia possibile trovare un inizio di risposta alla fine del primo capitolo. In effetti, come ricorda Jullien, benché la storia delle scienze sia caratterizzata dalle sue controversie, dei vasti quadri teoretici finiscono sempre per essere accettati, anche provvisoriamente: «è anche, secondo me, una caratteristica di ciò che possiamo chiamare scienza, cioè questa facoltà che hanno le teorie scientifiche e le controversie all’interno delle quali si sviluppano, di offrire delle vaste sintesi (ciò che Kuhn chiama la scienza normale). A contrario, disponiamo probabilmente di un buon criterio per individuare le false scienze, questi domini dove non si impone mai un punto di vista consensuale e che non conoscono mai un ritmo “normale”» (p. 41). Questo significherebbe che le scienze umane e sociali sarebbero delle false scienze in cui non si impone mai un punto di vista consensuale? Bisognerebbe dedurre una differenza tra ciò che possono le scienze della natura e ciò che possono le scienze umane e sociali? Sfortunatamente, l’autore non risponde a queste domande.
di Corentin Fève
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L’automa tra Leibniz e Bergson
Recensioni / Febbraio 2020In un film di qualche anno fa, Predestination (Australia 2014), i registi e fratelli gemelli Michael e Peter Spierig mettono in scena un vecchio racconto di fantascienza di Robert A. Heinlein, …All You Zombies… (1959), il cui protagonista è, al contempo, maschio e femmina, genitore e figlio/a, amante e amato/a. È la linearità (presunta) delle azioni che si susseguono nel tempo omogeneo a essere così, innanzitutto, radicalmente sovvertita. Una escogitazione narrativa originale, quella di un organismo nato all’interno della possibilità stessa di viaggiare nel tempo, autorizza un gesto che la metafisica si è sempre trattenuta dal compiere fino in fondo: elevare l’esperienza, con la sua radicale imprevedibilità, ad assoluto. Lo spettatore del film, come il suo protagonista (Jane/John), scoprono progressivamente un destino che nessuno ha scritto e che anzi si scrive, in maniera per forza di cose impersonale, attraverso il suo continuo accadere. Se si dovesse perciò trovare un’esemplificazione di quel che Federico Leoni affronta nel suo nuovo libro, L’automa. Leibniz, Bergson (Mimesis 2019), si dovrebbe, con ogni probabilità, fare ricorso a una figura analoga a quella al centro del film degli Spierig.
Anche l’automa, come la vicenda di Jane/John, è l’emblema di un divenire che si sottrae per definizione a ogni prevedibilità, come a qualsiasi pretesa di sovrana padronanza: che sfugge, in breve, alla calcolabilità dell’algoritmo. In fondo, il tema principale di questo piccolo ma importante libro, risiede nella differenza di natura che l’automa (spirituale o incorporeo, come lo definisce Leibniz) deve poter affermare rispetto alle macchine, e in particolare, in relazione alle molte macchine ‘pensanti’ con le quali oggi si tenta di strappare il divenire delle nostre vite alla sua radicale imprevedibilità. L’automa, insomma, è la figura di un organismo senza confini, di un essere che esiste tutto nel suo trasportarsi attraverso di sé, nel suo raggiungersi alla fine del proprio futuro come al principio del proprio passato, facendo così saltare per aria le paratie con le quali siamo soliti proteggerci dalla fatalità a cui ogni vita dovrebbe accordarsi. Imprevedibilità, in effetti, non significa né contingenza, né necessità, ma, piuttosto, continua ridefinizione del necessario come del possibile. Significa, in una parola, alterazione progressiva e cangiante delle stesse categorie con cui il pensiero tenta – tenta solamente – di irreggimentare l’automa.
L’argomentazione di Leoni prende due strade che, intrecciandosi l’una nell’altra come le due anime di una stessa corda, diventano progressivamente un'unica via. Il saggio, partendo dalla vicenda di Joë Bousquet, il poeta ferito di guerra paraplegico che già Gilles Deleuze eleggeva a simbolo della sua etica dell’evento (etica consistente per intero nel saper essere “all’altezza di ciò che ci accade”), mescola registro soggettivo e registro ontologico, determinando così quella indiscernibilità tra tempi distinti che fa appunto dell’automa la messa fuori gioco reiterata di tutte le opposizioni del pensiero metafisico. Una vita si scrive sempre in uno spazio che sfugge a ogni qualificazione nei termini della logica modale, vera e propria superficie di trascrizione ritmica e dialettica del divenire, allo stesso modo in cui il reale del mondo non si lascia acciuffare dalla scansione metafisica di sostanza e accidente, sostrato e accadere, soggetto e predicato. E viceversa, una vita non è un supporto al quale si aggiungono eventi, come il mondo non risponde alla distinzione di possibile e impossibile, contingenza e necessità. L’automa consiste tutto in questa ritrosia fondamentale, in tale riottosità del reale nei confronti dei nostri, umani troppo umani, schemi concettuali. La macchina, insomma, non è l’automa, perché l’automa è piuttosto la matrice informale e illocalizzabile di ogni macchina. Quel che l’automa, correttamente inteso, rivela è quindi l’impossibilità definitiva di calcolare e padroneggiare tecnicamente il divenire. Attraverso il suo situarsi sempre un passo al di là, o al di qua, di ogni concettualizzazione, come di tutte le prassi di adattamento tecnico del reale ai nostri bisogni, nel mentre che tutte le circoscrive e le include, l’automa offre la manifestazione di un’assoluta e crescente indisponibilità del reale. Reale è qui ciò che, come appunto l’automa, si muove da sé e non tollera quindi alcun genere di ingerenza, senza prima averla riassorbita.
Il paradosso di fronte al quale ci mette Leoni è infatti il seguente: il destino esiste solo fin quando vi si acconsente. Ogni manovra diversiva apre per ciò stesso una deviazione, istituisce “nuovo” destino, a sua volta imprevedibile. Leoni propone una sorta di psicoanalisi della metafisica, in cui la struttura nevrotica degli schemi concettuali tràditi diventa l’occasione di un lavoro decostruttivo che non può non essere, altresì, lavoro ricostruttivo. Emerge così qualcosa come una ontologia senza metafisica – un’ontologia della non invarianza dell’ontologia. Un’ontologia della perversione che dà luogo a un’ontologia che si perverte senza sosta. L’utopia, nel senso letterale della parola, è quindi costituire i prodromi di una «scienza del divenire» (p. 13), ovvero di ciò di cui, a detta di Aristotele (e con lui, di tutta l’episteme occidentale), non si dà scienza. Che il divenire sia isomorfo all’individuale è infatti fuor di dubbio: «Non esiste il movimento in generale» (p. 26). Il divenire è sempre singolare – e anzi, il divenire è il singolare. «Se si assume questo schema, scrive Leoni, la filosofia è possibile solo nella forma dell’esplorazione della propria impossibilità, è possibile solo come infinita rivisitazione della propria aporia» (p. 13). Ma la filosofia consiste proprio in questa sfida: occorre saper tramutare una impossibilità, quella della filosofia come scienza del non qualsiasi o del non generico, in effettività. Come fa, d’altronde, ogni creatore. Ogni creatore che si rispetti deve fronteggiarsi infatti con un compito impossibile – trasformare un fraintendimento in una risorsa. Harold Bloom, nel suo celebre L’angoscia dell’influenza, lo ha mostrato in relazione all’emergere di quanto definisce un «poeta forte». Ma il discorso vale vieppiù a proposito della vicenda filosofica. Anche in questo caso ne va della conversione di un travisamento inevitabile in un altrettanto inevitabile progresso, che si legittima à rebours quale correzione di quanto in passato era rimasto disatteso o, soltanto, era stato equivocato. La storia dell’automa coincide quindi con la storia della filosofia, come serie continua di tentativi riusciti proprio perché falliti. L’ontologia che Leoni lascia balenare nella sua istruttoria sull’automa registra questo fatto, elevandolo a cifra stessa del reale – di ciò che nel reale si presenta come l’essere qualsiasi. Paradosso ulteriore, quindi: il modo d’esistenza del singolare, ovvero del non-qualunque, è di essere, appunto, affatto qualsiasi. Di non avere scelta, per dir così.
Ecco allora che, nell’ultimo capitolo, L’inconscio, una storia di fantasmi, l’autore tira le fila del suo discorso con una mossa apparentemente inattesa: l’automa diventa un avatar, a sua volta, del fantasma. Lo scenario è vertiginoso e la batteria di concetti evocati vorticosa. Tutto non è altro che immagine, immagine in sé. Sono le celebri e difficili tesi del primo capitolo del bergsoniano Materia e memoria (1896), portate però qui al loro sviluppo più radicale. L’automa non è una macchina, dicevamo, ma ogni macchina è una forma, o un organo, dell’automatismo dell’automa. Pensare l’automa non significa considerare le connessioni di parti in esteriorità con cui ci si presenta il mondo notomizzato dall’intelligenza pragmatica; non è questione di funzionamenti di oggetti, ricavati dalla giustapposizione di realtà accomodate l’una all’altra secondo il loro profilo materiale. Pensare l’automa è pensare l’intramatura con la quale ogni lacerto di mondo, anche il più insignificante e infinitesimale, si installa e fugge al contempo in e da ogni altro. È vedere il mondo quale ribollio incessante di proliferazioni, di frattali in reciproca e diveniente ristrutturazione. Lo statuto dell’automa è lo statuto dell’esempio, di ciò che, senza scarti di alcun genere – senza la mediazione di una generalità interposta –, è il proprio stesso dover-essere. Di ciò che appunto è singolare: unico nel suo genere. «Ogni cosa è una ragione […] Ogni monade è insieme di un solo elemento, ma quel solo elemento non è un elemento solo, è sempre anche il proprio insieme» (pp. 44 e 74). Nell’atto di leggere Bergson e Leibniz, Leoni si precipita perciò al di là di loro – si spinge oltre il dualismo di tendenze che ancora caratterizza il dettato bergsoniano, come già Deleuze aveva notato, e il contingentismo che Leibniz fatica, malgrado tutto, a ricusare come a giustificare (significativo è che Leoni decida di non tematizzare direttamente la teodicea leibniziana). L’automa si presenta quindi come una meditazione sulla necessità di ontologizzare quanto si sottrae, in apparenza, a questa stessa eventualità: l’immaginazione – quella «funzione senza organo» (Georges Canguilhem) che, secondo il Kant della Critica del giudizio, può guadagnare in alcuni casi le prerogative di un «libero gioco» in cui non è più l’intelletto, con il suo quadro presupposto di categorie, a dettare le condizioni. Ecco che cosa vuol dire pensare una ontologia rescissa dai suoi vincoli metafisici: «E in questo senso ci sono solo nature al plurale, e ogni divisione produce una natura differente, ovvero la natura si divide producendosi in ogni divisione come un altro modo di essere natura, come un altro modo di naturare, un’altra genesi continua di discontinuità. In altre parole, tutto è artificiale, non c’è che artificio» (p. 17).
Il lavoro di Leoni, e non solo in questa occasione, ha come esito, dunque, una definitiva messa in mora della tentazione meccanicista che pure da sempre caratterizza una certa filosofia, intenta a cercare una clavis universalis con cui risolvere una volta per tutte i problemi della conoscenza e della vita. Speranza, d’altronde, dello stesso Leibniz che, con la sua characteristca universalis, immaginava di ridurre ogni controversia a un puro esercizio di calcolo. Fa notare l’Autore: «Ogni macchina contiene un appello alla trascendenza» (p. 51). Si tratta invece di lavorare a un concetto e una prassi conseguente di immanenza integrale. La suddetta chiave, sembra dirci infatti Leoni, semplicemente non esiste, perché deriva, al contrario, da un effetto interno a una potente tecnologia, che fa tutt’uno con quella alfabetica – la grammatica indoeuropea di soggetto e predicato, che struttura notoriamente gran parte della tradizione filosofica occidentale, almeno sino alla soglia del Novecento. Se pensiamo di poter ricostruire l’evento con i risultati della sua analisi (ricostruzione in atto già nella distinzione del flusso linguistico in parti del discorso), finiamo per cadere in una serie di perniciose aporie – tra le quali, e non per ultima, l’idea di un divenire che si aggiunge dall’esterno all’essere senza potersi mai davvero comporre con esso, di una molteplicità che si fa uno o di un’unità che si fa, non si capisce come, molteplice. Quel che va pensato, allora, è qualcosa che è «più di uno e meno di due» (p. 52), che resiste in questo bilico. Occorre solcare il paradosso senza cadere nell’aporia.
Fare filosofia ha sempre significato volersi cimentare con un compito inattuabile: trasformare la vita in un processo automatico. Perché si tratti di alcunché d’irrealizzabile, è presto detto: l’automa è la figura che rende impraticabile questa strada, nella stessa misura in cui la impone come inaggirabile. «Ogni automa è la macchina di ogni altro» (p. 59). La filosofia si identifica alla memoria, perenne perché ogni volta da rinnovare, di questa eccedenza o di questa sottrazione originaria, le quali rimandano entrambe, però, alla totale immanenza con cui l’automa prende forma, aderendo perfettamente solo a se medesimo. Perché di questo si tratta, di un prendere forma che resta tale – che resta in progress. L’automa, insomma, non è calcolabile. Tutto si può fare, tranne divenire-automi, se “divenire” significa passare dalla potenza all’atto. Semmai, si dovrà tornare a esserlo – tornare a essere quel che non si è mai cessato di diventare. L’unico vero automa, in altre parole, non è digitale, ma analogico. Nessun dio ci può salvare, va infine detto. Nemmeno quel dio minore che è il filosofo. Per fortuna.
di Daniele Poccia
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Maurizio Ferraris – Emergenza
Recensioni / Maggio 2017Sul problema del realismo in filosofia tanto si è detto negli ultimi anni da renderlo un tema inflazionato. Non di meno, è innegabile che la svolta realista sia uno degli eventi più importanti per la filosofia contemporanea dell’ultimo decennio, ed è quindi doveroso porre attenzione a quelle pubblicazioni che affrontano il tema del realismo in modo serio e ponderato. Emergenza di Maurizio Ferraris (Einaudi 2016) appartiene certamente a tale categoria. Il concetto di emergenza è per Ferraris l’asse portante di tutto il lavoro ed egli lo racconta a partire da una premessa ontologica: la realtà che emerge è qualcosa che prima non c’era, mentre la verità è la scoperta di qualcosa che già esisteva. Ciò per Ferraris equivale a dire che l’essere viene prima del conoscere. Tale premessa è necessaria in qualsiasi realismo che voglia davvero definirsi tale. Una volta messa in chiaro questa premessa l’Autore fa un altro passo nell’approfondimento del proprio realismo, definendolo attraverso due aspetti tra loro strettamente connessi. Si tratta innanzitutto di un realismo “negativo”, nel senso che la realtà “resiste” al pensiero, ci colpisce con una forza che a volte non è controllabile, che si impone in modo talvolta anche violento. La realtà possiede, insomma, una inemendabilità difficile da smentire, a cui dobbiamo sottometterci. Ma questa inemendabilità costituisce anche il primo “invito” del reale, la sua disponibilità per noi, lo stimolo a conoscerlo e a trasformarlo. Oltre a queste due accezioni del realismo – negativa la prima, positiva la seconda – ve ne è poi una terza, di carattere trascendentale. Resistenza e invito costituiscono infatti un movimento circolare che nel suo ripetersi, nel suo “iterarsi” direbbe Ferraris, produce accumulo, “registrazione”, e quindi, disponendo di abbastanza informazioni e di abbastanza tempo, produce “senso”. La documentalità è quindi secondo l’Autore il vero trascendentale, intendendo con questo termine una sorta di memoria sempre presente e operante – come aveva sostenuto già Bergson – nella materia ogni qualvolta un nuovo senso emerge da quello precedente. Essendo la memoria la materia stessa. Questo vale sia per le dinamiche che regolano l’evoluzione del vivente che per quelle sociali, non essendoci tra le due soluzione di continuità, ma anzi volendo questa prospettiva superare nettamente il dualismo tra biologico e culturale, tra materia e spirito, tra naturale e artificiale, in favore di una visione documentale, appunto, del regno naturale. In una simile prospettiva, dunque, abbiamo un solo tipo di significato, quello che l’Autore definisce “emergenziale”, il quale nasce dall’iterazione e dall’iscrizione, dall’accumulo di “tracce” prima e di “segni” poi. Questi ultimi sono allora la fonte del significato emergenziale, che di spirituale ha solo l’aspetto ma non la sostanza. Prima viene la documentalità, la traccia “cieca”, i rituali delle api e la costruzione dei formicai, l’accumulo di tecniche, di pratiche, ma anche il casuale sedimentarsi di riti e modi di affrontare problemi pratici, e poi viene il senso, la riflessione e la coscienza di cosa si è sedimentato. L’epistemologia perfetta è quindi la storia in quanto accumulo, registrazione e iscrizione da parte dei singoli. Ecco allora esplicato il senso della premessa ontologica di cui dicevamo: l’essere/accumulo/documentalità viene prima del conoscere/traccia/senso. Una radicale pre-esistenza dell’essere al pensiero che però sancisce anche una radicale ri-unificazione tra essere e pensiero nella categoria portante di “mobilitazione”. Cos’è la natura in questo sistema se non una sorta di infinito dispositivo tecnologico che produce emergenza attraverso la dinamica che abbiamo brevemente illustrato? E la mobilitazione è la nozione che Ferraris utilizza per provare a illustrare questa dinamica che percorre l’inerte e il vivente conferendogli una innata competenza tecnica che è sempre avanti rispetto alla sua comprensione (una sorta di neo-finalismo sul modello di quello proposto da Raymond Ruyer all’inizio degli anni 50 del secolo scorso).
Il libro di Ferraris ha il grande merito di presentare in modo chiaro e conciso la posizione critica comune a gran parte dei realismi contemporanei, ovvero l’attacco frontale e senza compromessi all’idealismo trascendentale e ai suoi molti eredi. Tale critica si può riassumere nel modo seguente: l’intenzionalità non è il cominciamento dell’essere. La correlazione coscienza-mondo non è la condizione di esistenza del reale. C’è qualcosa che viene prima e fonda la correlazione, qualcosa esisteva prima della correlazione e continuerà ad esistere dopo. L’idealismo trascendentale sbagliava quindi nel sostenere che la radice dell’esperienza si situasse nell’Io penso. Ed è così che persino in pensatori “emancipati” da una fenomenologia troppo kantiana, come Sartre ad esempio, l’esternalità rivendicata per la coscienza irriflessa, il suo essere “là fuori” insieme agli oggetti del mondo, non è altro che un’esternalità claustrale, claustrofobica, che rimanda immediatamente ad un dentro camuffato da esterno. Lo stesso dicasi per Heidegger e la sua angoscia, per Levinas e i suoi Altri. Tutti tentativi di demandare il problema del fondamento della correlazione ad un irrelato che però assume subito un carattere paradossale e ambiguo. Una sorta di circolo vizioso tra pre-riflessività e auto-riflessività che, come si diceva poc’anzi, non sfonda realmente verso nessun Grande Fuori. Tutti tentativi questi, come nota giustamente Ferraris, figli della rivoluzione kantiana prima e dell’idealismo trascendentale poi. Non sfuggono alla critica del realista nemmeno le versioni postmoderne del correlazionismo, come ad esempio la filosofia analitica e il costruttivismo. Anch’esse mosse dall’intenzione di individuare nel linguaggio o nel concetto un a-priori al quale ancorare l’esistenza del reale che conosciamo.
Detto questo, bisogna anche dire però che le argomentazioni di Ferraris corrono su di una linea sottile e sono sempre minacciate dal pericolo di finire nel baratro dell’eccessiva semplificazione. Semplificazione che spalanca poi le porte a facili fraintendimenti. Infatti, una cosa è dire che da Kant in avanti la filosofia dell’esperienza ha messo eccessiva enfasi sul soggetto, rischiando di diventare sempre di più una sorta di antropologia; cosa ben diversa è invece sostenere senza mezzi termini che per l’idealismo trascendentale «il mondo è il frutto della costruzione di un Io penso onnipresente e, almeno sulla carta, onnipotente» (p. 76). E quindi sostenere che per gli idealisti trascendentali il pensiero crea la realtà e dunque nulla esiste all’infuori di quello che penso, assimilando il trascendentalismo al solispsismo. Kant e i suoi successori avrebbero quindi sposato una posizione ontologicamente molto forte secondo la quale la materia non sarebbe pre-esistita allo spirito, identificando completamente ontologia ed epistemologia. Esempio sommo di questo slittamento verso il regno del puro pensiero sarebbe l’attualismo di Gentile. La stessa operazione Ferraris la compie nei confronti del postmodernismo, arrivando quindi a concludere: «l’idea è sempre che ci sia una qualche dipendenza della ontologia dalla epistemologia, ossia, in altre parole, che il Big Bang non abbia potuto aver luogo realmente perché noi non c’eravamo, o che il Big Bang abbia avuto luogo solo perchè noi sappiamo che ha avuto luogo» (pp. 83-84).
Attraverso una simile interpretazione dell’idealismo trascendentale si perde però l’aspetto utile della critica. Qual è infatti il senso di tale critica? Chi scrive ritiene che il senso sia quello di mostrare come da Kant in avanti la filosofia abbia progressivamente rinunciato alla sua vocazione originaria a occuparsi del Tutto. Quel Tutto che, per forza di cose, comprende il soggetto come un suo momento, ma non certo come suo fondamento. Un altro aspetto di questa faccenda che la critica mette in evidenza è il paradosso generato da una soggettività così scettica da mettere in discussione persino la propria stessa capacità di far filosofia, ripiegandosi su se stessa e accettando solo se stessa come metro di tutte le cose. Scetticismo che poi, inevitabilmente, ricade su tutto ciò che non è soggetto, compreso il tanto problematico “mondo esterno”. Ma il problema è così serio proprio perché in questione è il diritto della filosofia a spingersi tanto avanti nel dubbio sul mondo, non perché tale dubbio abbia realmente una valenza ontologica. Che poi la vulgata abbia interpretato la domanda come una domanda ontologica vera e propria fa parte della dispersione intrinseca ad ogni teoria che non possiede una vera e propria pars construens, ma questo Ferraris lo sa certamente molto meglio di chi scrive...
Giacomo Foglietta
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Alfredo Ferrarin – Galilei e la matematica della natura
Recensioni / Dicembre 2016“La scienza nasce polemica”: è questo ciò che si potrebbe dire alla luce della lettura del Galilei e la matematica della natura. Lo si potrebbe dire, senza timore di sbagliar troppo, perché il Galilei di Ferrarin è un uomo filosoficamente polemico, che prende continuamente posizione contro qualcuno o contro qualcosa. In primo luogo, ben lo si sa, Galilei si pone contro la tradizione. Non vi è alcuno spazio, nelle pagine di questo libro denso e breve, per un’impostazione anche solo latamente continuista; men che meno ve ne è per quelle tesi che desiderino tratteggiare un’immagine di Galilei come uomo essenzialmente premoderno, col fine malcelato di ridimensionare la portata della “rottura” all’origine della storia della scienza moderna. In una cornice di fondo che mi pare debba molto alla storiografia koyreana, Ferrarin dipinge il lavoro di Galilei proprio come punto di frattura – di coupure – tra due epoche. Una discontinuità che ridefinisce i rapporti tra il campo dell’esperienza e quello della teoria, che chiude definitivamente con certi schemi epistemologici e produce una nuova configurazione possibile dell’impresa della conoscenza. Per quanto infatti – anche sulla scorta di lavori di studiosi autorevoli come Stillman Drake – in molti abbiano manifestato la necessità di rivedere e complicare la tesi circa il platonismo di Galilei (avanzata tra gli altri proprio da Koyré), non è in ogni caso corretto, secondo Ferrarin, proporre l’immagine di un Galilei critico degli aristotelici e dell’aristotelismo di maniera ma, in fondo, genuino seguace di Aristotele, ben più fedele al Filosofo di quanto non lo fossero i peripatetici “ufficiali” delle Università. Galilei è certamente in polemica innanzitutto con tutti i Simplicio del proprio tempo ma, nota Ferrarin, lo stesso «Aristotele non viene risparmiato in niente; ed è ai suoi testi che si rivolge polemicamente per iniziare un nuovo sapere» (p. 22). La polemica di Galilei, dunque, è quella contro un modello di sapere antico quanto la filosofia; polemica contro un ideale di conoscenza piuttosto che contro un sistema; polemica contro un certo concetto dell’episteme, contro il suo statuto, contro la sua struttura. Se l’ipotesi di un Galilei platonico – ma anche pitagorico o archimedeo – deve essere rettificata e corretta, quantomeno specificando come il platonismo debba essere inteso, è nel nuovo ruolo del modello matematico nell’economia della conoscenza che deve essere ricercata la specificità della scienza galileiana e, per estensione, dell’intera impresa scientifica moderna. «Ogni filosofia», ci rammenta Ferrarin, «esprime un tratto essenziale del proprio tempo, e ogni filosofia si afferma come critica delle forme di pensiero precedenti» (p. 14). Viene allora in mente quell’immagine del pensiero come lotta e combattimento, avanzata da Deleuze e Guattari in Che cos’è la filosofia?, oppure, in maniera forse più pertinente a questo contesto, l’idea di Bachelard in La formazione dello spirito scientifico della storia della scienza come superamento di ostacoli epistemologici e come sforzo dello scienziato di superare l’immediatezza del senso comune. La scienza e la filosofia, insomma, condividono questo atteggiamento per cui ogni posizione realmente innovativa rappresenta una nuova costruzione che implica come proprio necessario antefatto un gesto distruttivo o decostruttivo. Questo è ciò che ci deve interessare del rapporto di Galilei con la tradizione e, in particolare con Aristotele: se è vero che il fondatore della fisica moderna si rivolge al testo aristotelico in maniera polemica, con il fine, criticandolo, di costruire una nuova configurazione epistemica per la conoscenza della natura, allora l’indagine sui punti di discontinuità e sugli obiettivi della critica ci potrà illuminare sulla natura e sui contorni di quella configurazione che ancora oggi chiamiamo «scienza moderna».
Ora, la consapevole novità introdotta da Galilei è l’inedito ruolo epistemologico assegnato alla modellizzazione matematica. Questo è il punto decisivo del gesto fondativo galileiano, il carattere fondamentale della frattura segnata dalla scienza moderna. La modellizzazione avviene, nella rivoluzione scientifica, non solo e non tanto attraverso il potenziamento della matematica pura in sé, ma mediante un inedito ruolo assunto dalle cosiddette «matematiche applicate» e, in particolare, dalla meccanica. Certo, ricorda Ferrarin, è «necessario ribadire, con Koyré, che la rivoluzione non è fatta né da tecnici né per tecnici. La figura dell’ingegnere – per esprimermi anacronisticamente: intendo l’artigiano, il fabbro, l’artista, l’architetto – non è né sufficiente né davvero adatta ad identificare il protagonista della rivoluzione scientifica» (p. 28). Nondimeno la scienza, per quanto non perda il carattere universale tipico della concezione classica del sapere, diviene un fare, una prassi (si pensi a Cartesio) e il mondo stesso ora appare come un artefatto, un’opera (Copernico, Keplero). In questa “prima” scienza moderna, lo sappiamo, tutto è macchina e dio è l’ingegnere o l’orologiaio supremo: «Come un architetto, Dio pensa un archetipo che poi pone in opera» (p. 30). Un tecnico, dunque, ma anche un architetto e, in un certo senso, un artista, almeno nella misura in cui l’opera che produce coinvolge certo la facoltà dell’immaginazione. Ma questa immaginazione produttiva non attinge alle risorse dell’irrazionale e dell’inconscio, ma è vincolata, al contrario, dalle regole pure della matematica. E infatti questa immaginazione è la stessa che entra in gioco nell’impresa della conoscenza scientifica della natura nella misura in cui, con Galilei, l’escogitare un esperimento materiale e l’invenzione di nuove macchine rappresentano momenti fondamentali della costruzione teorica. Ecco perché si assottiglia la differenza tra la conoscenza umana e quella divina: esse si distinguono ora per grado, ma vedono all’opera le medesime facoltà e gli stessi modelli epistemici.
Oltre al nuovo ruolo assegnato alla modellizzazione matematica, l’altro grande elemento di scarto con la concezione aristotelica, riguarda il ruolo della percezione. La teoria della verità aristotelica, infatti, implica una certa passività originaria e un certo positivismo di fondo: in Aristotele vi è un senso di «verità come ‘lasciar che le cose ci parlino e si manifestino secondo la loro propria natura’. Il mondo si presenta a noi; e ci si offre unitario e ordinato» (p. 23). È questa concezione del mondo e della verità che comporta che la fisica sia, innanzitutto, lo studio di ciò che si dà nella nostra percezione e dei principi del sensibile (p. 35). Fisica allora, lo sappiamo, come studio delle cose e del loro movimento. Ma il movimento di cui si interessa la physis di Aristotele non è lo stesso di cui parla la fisica galileiana: è un movimento determinato dalla natura delle sostanze, che si differenzia in base ai luoghi cui le sostanze stesse appartengono. Il movimento della fisica, invece, è considerato in purezza, così come lo spazio in cui si manifesta: «Per Galilei, come per la fisica moderna dopo di lui, si prescinde dalle sostanze (dalla natura del mobile) per concentrarsi esclusivamente sulla descrizione del movimento nelle sue coordinate spazio-temporali, velocità e direzione» (p. 40). La scienza moderna si costruisce attraverso la sostituzione di tutto un apparato concettuale: «in una materia omogenea mossa da cause esterne, come al principio interno del movimento si sostituisce la causa esterna, così all’anima (principio di nature soltanto particolari) si sostituisce la forza» (pp. 40-41). Questo, secondo Ferrarin, comporta una nuova visione dell’oggetto, non più inteso come sostanza, ma come prodotto/effetto di cause esterne date come sue precondizioni. Il sorgere del fenomeno (e della sua genesi) rappresenta il tramonto dell’essenza. E lo sguardo “interno”, essenzialistico, è sostituito dallo sguardo esterno – formale – della geometria.
Proprio di sguardo, allora, è necessario parlare se vogliamo rendere conto, al di là delle interpretazioni ormai “classiche”, della novità della matematizzazione galileiana nella conoscenza del mondo sensibile. «Non è possibile comprendere l’importanza di Galilei», infatti, «senza considerare come nelle sue scoperte la razionalità matematica si intrecci con un nuovo modo di vedere» (p. 46). Con il cannocchiale, e con l’uso galileiano del cannocchiale, la tecnica entra nel mondo della percezione o, in altre parole, la percezione diviene consapevolmente oggetto dell’intervento tecnico matematicamente istituito. Quello del cannocchiale, ci dice Ferrarin, è un atto di produzione di fenomeni: per questa ragione l’uso del cannocchiale suscita sospetto, inquietudine, persino rabbia nei contemporanei di Galilei. In un senso ingenuo, il cannocchiale riduce (o elimina) una distanza ma, in un altro senso, introduce invece «una distanza ora essenziale, la relazione esterna ed astratta tra fenomeni e osservazione: se l’indagine dei fenomeni è omogenea e indifferente, i fenomeni tutti vanno ugualmente oggettivati, cioè tenuti fermi, a distanza» (p. 57). Gli oggetti, in altre parole, vanno analizzati, smembrati, in proprietà matematizzabili. Questo comporta l’apertura della questione del platonismo galileiano: sebbene, come nota Ferrarin, sia «indubbio che risulterebbe difficile seguire la traiettoria della rivoluzione in astronomia senza una sorta di intima certezza platonica nella razionalità matematica del cosmo» (pp. 60-61), allo stesso tempo occorre capire con precisione quale Platone sia effettivamente in gioco nell’idea di una lingua pura e matematica della cui scrittura il mondo sarebbe intessuto. Rispondere alla domanda «a quale Platone si riferisce Galilei?» implica allora una risposta anche alla domanda «quale ruolo ha la matematica in Platone?». Nei dialoghi platonici, infatti, il reale rimanda alla dimensione ideale, è vero, ma come nota Ferrarin si tratta di due mondi separati e «occorre ricordare che contro la separazione platonica degli enti matematici dal sensibile Aristotele aveva sollevato obiezioni decisive» (p. 63). Il Platone galileiano, dunque, non è il Platone storico; per Galilei esiste una fondamentale omogeneità della geometria, sulla cui base è riposta l’omogeneità del mondo fisico: non si tratta allora di fare scienza nonostante i fenomeni, ma di fare la scienza dei fenomeni, che ritrovano così nuova dignità come effettivo oggetto dell’impresa conoscitiva. Non si tratta di postulare una partecipazione o metessi del reale nei confronti dell’ideale, ma di riconoscere l’effettiva costituzione ideale della realtà.
Ciò che è importante comprendere, per evitare frettolosi fraintendimenti dell’opera galileiana, è però il significato più profondo dell’idea che il mondo sia scritto in lingua matematica. Quest’affermazione non implica infatti che chiunque possieda pienamente la chiave di lettura del testo eidetico del mondo, anzi; ogni lingua, infatti, presuppone un apprendimento, un esercizio nella lettura e nella comprensione. Lo sguardo della geometria richiede un addestramento al “vedere” matematico: l’esperienza ingenua e l’immediatamente percepito sono esclusi dall’orizzonte della conoscenza, per essere sostituiti da un contenuto sensibile che è già, in sé, un’astrazione. L’ideale è già nel sensibile, ma è necessario imparare a coglierlo: «la scrittura geometrica rende possibile un’esattezza nella misurazione del sensibile che nessuna osservazione dei corpi attorno a noi potrà mai offrire» (p. 69). I sensi sono, platonicamente, inaffidabili ma non nel senso che dobbiamo abbandonare il contenuto sensibile in favore di logoi astratti e puri nella loro idealità: «è dell’esperienza che vogliamo dar conto. È che da soli i sensi non possono decidere casi in un tribunale» (p. 71). La sensibilità non è più recuperata, come in Aristotele, attraverso un atteggiamento passivo, che vorrebbe il mondo come “naturalmente” auto-offerentesi ai nostri sensi, ma attraverso un atteggiamento attivo, «di chi alla natura si accosta con domande precise e mezzi sufficienti per piegarla a risponderci» (p. 74). L’esperienza non è un punto di partenza assoluto, ma un costrutto, un dato risultato, che si innesta nella nostra dimostrazione per corroborarne le conclusioni. «Non si parte dal particolare – o meglio, non si può non considerarlo all’inizio, ma come uno scalino da buttare dopo che ci ha aperto una visione, perché il particolare nel frattempo è divenuto il caso di un concetto» (pp. 75-76). L’esperienza è momento fondamentale della scienza nella misura in cui, nell’idealità che essa contiene, ci permette un accesso all’universalità del concettuale: «come si vede, l’esperienza in senso galileiano – le “sensate esperienze” – è antiempirista» (p. 76).
Come sappiamo questo gesto epistemologico fondamentale di Galilei ha prodotto una serie di complesse conseguenze, che con Husserl potremmo esprimere come la sostituzione del mondo matematico-matematizzato al mondo della vita. Ferrarin riconosce che la storia di questo processo di progressiva sostituzione può essere narrata in modi diversi (tra questi Ferrarin tocca velocemente quelli di Cassirer, Mondolfo, Weyl, Jonas, Hegel, Husserl) e secondo le opposte prospettive dell’entusiasmo o dell’inquietudine per un mondo ormai poco qualitativo e poco umano. Al di là di queste prospettive di fondo resta però una domanda centrale: sostenere che il sensibile sia comprensibile nella sua dimensione quantitativa a prescindere da qualsiasi riferimento al suo senso (qualitativo, teleologico o soggettivo) non significa in fondo sottovalutare o addirittura sopprimere il problema del rapporto tra ciò che è oggettivo e ciò che è soggettivo nella conoscenza? Galilei non si limita a sdoppiare il sensibile per far emergere l’oggettività per differenza rispetto all’apparire, ma giunge a cancellare la traccia di questa differenza. Questo è il problema, secondo l’Autore, che si riproduce, con forza inedita, in Cartesio.
La novità dell’impresa cartesiana è data dalla riducibilità delle figure a simboli algebrici: l’essenza di un ente matematico non è più una figura, come in Euclide o in Galilei, ma una formula. In questo senso il concetto, per Cartesio, non deriva dall'intellezione o dall’astrazione del sensibile nell’ideale, ma dalla definizione. In questo senso la matematica non si occupa di imporre ordine e misura a un oggetto già dato in anticipo: «il nuovo metodo è ciò che si dà un oggetto nella forma di ordine e misura» (p. 90). Come si vede, tanto per Galilei quanto per Cartesio, sebbene in un senso diverso, l’apparenza del sensibile diviene un prodotto dell’attività del soggetto conoscente. E in questa attività, in entrambi i casi, assume un nuovo ruolo fondamentale l’immaginazione, in quanto facoltà in grado di presentarci un’esperienza vicaria dell’esperienza sensibile, che costituisce il punto di accesso all’idealità matematica.
È dunque l’immaginazione, tema che Ferrarin ha già esplorato in alcuni precedenti lavori, a divenire il punto di indagine di una ricerca che, da Galilei, si è ora allargata all’intera fondazione della scienza moderna. In Galilei, infatti, l’immaginazione permette un passo metodologico di importanza difficilmente sopravvalutabile, in quanto permette l’accesso a «un’esperienza possibile, che non soffre delle stesse limitazioni e approssimazioni dell’esperienza reale» (p. 93). Quasi come la variazione eidetica di Husserl, l’immaginazione galileiana «varia le circostanze date dall’osservazione fino a stabilire un nucleo invariate non più modificabile, che si imporrà come la vera e unicamente stringente necessità del fenomeno» (p. 93). L’immaginazione ha così un effetto propositivo (nella misura in cui amplia la nostra conoscenza possibile) e critica (perché può fornire elementi utili alla confutazione di un’esperienza limitata). Per contro, in Cartesio l’emergere dell’immaginazione scientifica si salda con la fine della coincidenza dell’ordine dell’intelletto con l’ordine della realtà. Il matematico moderno opera con una libertà inedita su simboli e segni ignorandone metodologicamente il significato: l’immagine non duplica la cosa stessa, ma vi rimanda come cifra o segno. E proprio per questo l’immaginazione assume un nuovo significato: «l’idea ora viene foggiata, sicché diventa importante concentrarsi sulla sua formazione e sulla sua relazione con un potere di sintesi e combinazione, l’immaginazione» (p. 103). Ma proprio in queste due concezioni dell’immaginazione emerge la differenza di fondo tra Galilei e Cartesio nella concezione dell’importanza della matematica rispetto all’esperienza: «In Cartesio la matematica fornisce un modello deduttivo rigoroso; in Galilei, la matematica è usata sì per definire lo statuto del sapere, ma nell’applicazione allo studio dei fenomeni» (p. 111). E proprio in questa differenza emerge il diverso modo dei due di recuperare l’eredità platonica e socratica. Per Galilei dubbio e ignoranza sono parte della scienza e questo ben si comprende nella distinzione tra conoscenza intensiva e conoscenza estensiva. In Cartesio, invece, non si dà possibilità di paragone tra la conoscenza umana e quella divina, che rimane totalmente altra rispetto a quella dello scienziato. Eppure, proprio questo assunto permette di eliminare qualsiasi dubbio sulla conoscibilità del reale, le cui leggi costitutive sono opera di un atto libero del Divino. Per Galilei ciò che importa della creazione è che il creatore abbia fatto ciò che è secondo una lingua a noi intelligibile, per Cartesio invece «la materia non è abbastanza ospitale per forme esatte» (p. 116), destinate a risiedere, invece, nella totale trascendenza della mente. Questo, ci dice Ferrarin, è «il diverso platonismo di Cartesio» (p. 116).
Lo sforzo di questo libro denso e breve è tanto teorico quanto storiografico. Ferrarin tenta la difficile impresa di voler, da un lato, evitare lo stereotipo storiografico, che accomuna lo Husserl de La crisi delle scienze europee con studi decisamente più recenti, di un “Galilei” utilizzato come etichetta o nome collettivo, utile a riassumere e semplificare una fase storica complessa e differenziata. D’altro canto, sempre sul piano storiografico, ciò che da queste pagine emerge è il tentativo di tratteggiare un Galilei figura eminente nel panorama della rivoluzione scientifica che, con Cartesio, opera una trasformazione radicale e netta, il cominciamento di un nuovo modello di sapere. Si tratta di provare a esprimere il significato trascendentale del gesto galileiano senza perdere di vista la concretezza della sua storicità effettiva, della sua testualità materiale. Questo è un problema che già Koyré e, più in generale, l’epistemologia storica hanno dovuto affrontare nel secolo scorso: quello del rapporto tra il livello di un’analisi trascendentale e quello della ricerca storiograficamente fondata. Hélène Metzger, importante storica della chimica e delle scienze della natura del secolo scorso, parlando del lavoro dello storico delle scienze, ebbe a dire che se questi «in premessa delle proprie ricerche, si lasciasse andare a discutere, com’è suo forte desiderio, le diverse opinioni che hanno corso sulla natura del sapere e dell’intelligenza umana, egli rischierebbe davvero di non poter mai cominciare il proprio lavoro»; ma subito si apprestava ad aggiungere: «oso credere che questo sarebbe un danno, e che il filosofo stesso se ne rammaricherebbe» (H. Metzger, La méthode philosophique en histoire des sciences. Textes 1914-1939, Fayard, Paris 1987, p. 42). D’altronde il lavoro dello storico delle scienze, se ben condotto, porta necessariamente alla posizione di questioni filosofiche ed epistemologiche di primo livello. È questo ciò che in effetti accade nel Galilei di Ferrarin, che da studio sulla figura dello scienziato pisano si muta sin dalle prime pagine in indagine genuinamente filosofica sul senso dell’esperienza, della teoria e dell’immaginazione nella conoscenza scientifica. Il rigoroso confronto con i testi e la profonda consapevolezza storiografica dell’autore non costituiscono qui un limite alla riflessione teorica e filosofica. Il volume, nella sua brevità, offre così un’ampia serie di spunti di ricerca tanto per lo studioso dell’età moderna quanto per il filosofo della scienza e l’epistemologo contemporanei. Si tratta infatti, a partire da Galilei e, in seconda battuta, da Cartesio, di porre le questioni del rapporto tra l’esperienza e la teoria, del rapporto tra il tratto eidetico e quello empirico nella conoscenza. Un compito arduo, che certo non può risolversi nell’indagine storica, ma che da questa può sicuramente prendere le mosse.
di Gabriele Vissio
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#philosophers 4 – Giovanni Leghissa
#philosophers, Serial / Dicembre 2015Nella quarta puntata di #philosophers, abbiamo incontrato Giovanni Leghissa, docente di Epistemologia delle Scienze umane presso l'Università degli Studi di Torino, nonché direttore di Philosophy Kitchen. Si è discusso, tra le altre cose, di postumano, specialismi filosofici e "scripts" del Neolitico.
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Ancora troppo umani. Il postumano di Giovanni Leghissa
Recensioni / Ottobre 2015Nel suo saggio Postumani per scelta. Verso un’ecosofia dei collettivi, ospite della collana “Spiritualità senza Dio?” diretta da Luigi Berzano, Giovanni Leghissa dà unitarietà a un tema che ormai lo vede occupato da alcuni anni (La fondazione, la fondazione dell’umano, il post-umano, 2013; Il postumano: un nuovo paradigma?, 2013; curatela di aut aut, La condizione postumana, 2014). Nonostante la brevità del saggio, l’autore si propone di soddisfare la duplice esigenza teorica di inquadrare da più vicino lo sfuggente dibattito sulla questione postumana e, insieme, di estrarne una possibile interpretazione critica. Così, alla messa in ordine di linee guida di una discussione spesso frammentaria, si affianca l’argomentazione di una tesi, frutto dell’incontro di assi di ricerca eterogenei ma convergenti. Le fonti e le questioni interpellate sono infatti numerose e provenienti dalle più disparate aree del sapere filosofico. Tra i “maestri” e le tradizioni di pensiero che vediamo avvicendarsi figurano l’illuminismo, l’evoluzionismo, la filosofia francese del dopoguerra, l’epistemologia, la fenomenologia husserliana, l’idea di un sapere enciclopedico alla Enzo Paci, la decostruzione e l’antropologia filosofica di Hans Blumenberg. Come dichiara l’autore, si tratterà allora di seguire questi molteplici stimoli nell’intento di definire la condizione postumana in termini filosofici, individuando e descrivendo schematicamente gli atteggiamenti caratteristici del suo approccio.