Sebbene la questione ecologica sia centrale nel dibattito filosofico e scientifico da oltre cinquant’anni – come «lo studio delle interrelazioni che intercorrono fra gli organismi e l’ambiente chi li ospita […] su tre livelli di gerarchia biologica: individui, popolazioni e comunità» (Treccani) – gli ultimi anni hanno visto una esplosione del tema, entrato a forza nelle agende politiche e soprattutto negli immaginari collettivi. In modi diversi, movimenti come FridaysForFuture ed Extinction Rebellion hanno condensato le energie attiviste di tutto il mondo, ed espanso la battaglia a un livello di tensione e complessità più elevata: dall’ambientalismo si è passati alla questione ecologica, che al momento eccede tutte le rappresentazioni che siamo in grado di darne.
Although the ecological question has been central to philosophical and scientific debate for over fifty years - as "the study of the interrelationships between organisms and their host environment […] on three levels of biological hierarchy: individuals, populations and communities" (Treccani) - recent years have seen an explosion of the topic, which has forcefully entered the political agendas and above all the collective imagination. In different ways, movements such as FridaysForFuture and Extinction Rebellion have condensed activist energies around the world, and expanded the battle to a higher level of tension and complexity: from environmentalism we have moved on to the ecological question, which currently exceeds all the representations we are able to give it.
Nel suo primo libro che non si presenta nella forma di studio monografico su un autore, ma come un’opera di carattere spiccatamente teorico, vale a dire Différence et répétition, Gilles Deleuze introduce un tema significativo: quello dell’incrinatura dell’Io. Egli fa risalire la presa di coscienza di tale fenomeno a Kant, richiamando in particolare una nota, nella Critica della ragione pura, in cui si legge: «L’io penso esprime l’atto del determinare la mia esistenza. Con ciò l’esistenza è quindi già data; tuttavia, con ciò non è ancora dato il modo in cui io debba determinare tale esistenza, cioè porre in me il molteplice che appartiene ad essa. Per questo si richiede l’auto-intuizione, che si fonda su una forma data a priori, cioè il tempo» (Kant 1997: 115) [1]. Da questa breve osservazione derivano, secondo Deleuze, conseguenze radicali. Infatti, se «la mia esistenza indeterminata può essere determinata solo nel tempo», allora «la spontaneità di cui ho coscienza nell’Io penso non può essere intesa come l’attributo di un essere sostanziale e spontaneo, ma soltanto come l’affezione di un io passivo il quale avverte che il proprio pensiero, la propria intelligenza, ciò attraverso cui egli dice io, si esercita in lui e su di lui […]. L’attività del pensiero si applica a un essere ricettivo, a un soggetto passivo, che si rappresenta dunque tale attività piuttosto che attuarla, ne sente l’effetto piuttosto di averne l’iniziativa, e che la vive come un Altro dentro di lui. […] Da parte a parte, l’io è come attraversato da un’incrinatura; è incrinato dalla forma pura e vuota del tempo» (Deleuze 1997: 116-117) [2].
Ma non basta: mentre ancora in Descartes «l’identità supposta dell’Io non ha altro garante che l’unità di Dio stesso», Kant annuncia «la simultanea scomparsa della teologia razionale e della psicologia razionale, il modo in cui la morte speculativa di Dio porta con sé un’incrinatura dell’Io» (Deleuze 1997: 116). Va precisato, però, che quest’audace avanzata teorica kantiana è seguita da un arretramento, per cui «il Dio e l’Io conoscono una resurrezione pratica. E anche nell’ambito speculativo, l’incrinatura è presto colmata da una nuova forma d’identità, l’identità sintetica attiva» (Deleuze 1997: 117). La prospettiva prima dischiusa e poi richiusa da Kant viene, a giudizio di Deleuze, riaperta da un poeta, Hölderlin, «che scopre il vuoto del tempo puro e, in tale vuoto, scopre nel contempo il continuo distogliersi del divino, l’incrinatura prolungata dell’Io e la passione costitutiva del Me. In questa forma del tempo, Hölderlin scorgeva l’essenza del tragico o l’avventura di Edipo, come un istinto di morte» Deleuze 1997: 117).
Il riferimento è ai commenti aggiunti dal poeta alle proprie traduzioni di due tragedie di Sofocle, e in particolare alle Note all’«Edipo» (Hölderlin 2019: 763-773). Qui Hölderlin sostiene che nella tragedia trova espressione il fatto che, «in un’epoca ristagnante, il dio e l’uomo, affinché non vi sia lacuna nel corso del mondo e non si spenga la memoria dei celesti, comunicano nella forma, dimentica di tutto, dell’infedeltà […]. In tale momento l’uomo dimentica sé e il dio, e gli si rivolta – seppur in modo sacro – come un traditore. Al limite estremo della sofferenza, infatti, non esiste più niente, tranne le condizioni del tempo e dello spazio» (Hölderlin 2019: 772-773). Deleuze allude anche a un’altra osservazione hölderliniana, quella secondo cui, essendo «il trasporto tragico […] in sé vuoto», ne consegue che, «nella sequenza ritmica delle figurazioni in cui il trasporto si manifesta, diventa necessaria la parola pura, l’interruzione antiritmica – ciò che nella metrica si chiama cesura» (Hölderlin 2019: 764). Quest’ultima nozione viene rapportata dal filosofo francese non soltanto al tempo, ma anche alla psiche, per cui «sono la cesura, e il prima e il dopo che essa ordina una volta per tutte, a costituire l’incrinatura dell’Io (la cesura è esattamente il punto d’insorgenza dell’incrinatura)» (Deleuze 1997: 119).
Già dai pochi passi citati (relativi a Kant e Hölderlin) emergono due tratti caratteristici: la propensione di Deleuze a proporre interpretazioni piuttosto libere dei testi, in funzione di una teoria che egli intende avanzare per interposta persona, e la tendenza ad utilizzare spesso esempi letterari, accanto a quelli filosofici. Questo secondo aspetto del suo modo di procedere trova conferma nel rinvio, nelle stesse pagine, a testi narrativi: «Sul tema di una “incrinatura” dell’Io, in rapporto essenziale con la forma del tempo intesa come istinto di morte, ci si riporterà a tre grandi opere letterarie, benché assai diverse fra loro: La bête humaine di Zola, Il crollo di F. S. Fitzgerald, Sotto il vulcano di M. Lowry» (Deleuze 1997: 117) [3].
Al primo di questi testi, Deleuze ha dedicato un saggio, incluso nel volume Logique du sens (Deleuze 1975: 281-291). Egli ricorda che è stato lo stesso Zola ad usare nel suo romanzo il termine «incrinatura», in riferimento a una specie di tara ereditaria di cui il protagonista, Jacques Lantier, subisce le conseguenze (Zola 2019: 63-64). In effetti è noto che lo scrittore prestava molto credito alle teorie, in voga a quell’epoca, relative all’ereditarietà. Ma Deleuze sostiene che, nel caso specifico di Lantier, le cose sono più complesse: «L’ereditarietà non è ciò che passa attraverso l’incrinatura, ma è l’incrinatura stessa: la frattura o il buco, impercettibili. […] Non trasmette nulla tranne se stessa» (Deleuze 1975: 282). Anche l’istinto (sessuale o omicida) a cui il protagonista cede, con esiti rovinosi per lui e per altri, «non si confonde mai con l’incrinatura, ma intrattiene con essa stretti rapporti variabili: ora la ricopre e rincolla alla meglio, e per un tempo più o meno lungo […]; ora l’allarga, le dà un diverso orientamento che fa esplodere i frammenti» (Deleuze 1975: 282-283). L’incrinatura non opera dunque alla maniera dell’ereditarietà, «non riproduce un “medesimo”, non riproduce nulla, si limita ad avanzare in silenzio, a seguire le linee di minor resistenza, sempre deviando, pronta a cambiare direzione» (Deleuze 1975: 284). Da ultimo, il filosofo ritiene di poter affermare che «l’essenziale di La bête humaine è l’istinto di morte nel personaggio principale, l’incrinatura cerebrale di Jacques Lantier, macchinista di locomotiva» (Deleuze 1975: 286).
Parlare di istinto di morte equivale senza dubbio a chiamare in causa la psicoanalisi. In Différence et répétition, Deleuze ricorda le tesi esposte (o, per meglio dire, prese in esame) da Freud in Al di là del principio del piacere (Freud 1989: 187-249), e tuttavia lo fa soprattutto al fine di contestarle. Così, se il fondatore della psicoanalisi giungeva a ipotizzare un contrasto di fondo tra pulsioni di vita, identificabili con l’eros, e pulsioni di morte, il filosofo nega l’indipendenza di queste ultime: «Non vediamo dunque alcuna ragione per supporre un istinto di morte che si distingua da Eros, sia per una differenza di natura tra due forze, sia per una differenza di ritmo o di ampiezza tra due movimenti. In entrambi i casi, la differenza sarebbe già data, e Thanatos indipendente. Secondo noi, al contrario, Thanatos si confonde interamente con la desessualizzazione di Eros» (Deleuze 1997: 148). Poiché la concezione di Deleuze è di tipo essenzialmente vitalistico, egli non può far altro che arretrare di fronte all’idea che esista un’autonomia delle pulsioni di morte.
Nel contempo, però, egli si rende conto che sarebbe poco corretto pensare all’incrinatura dell’io come se si trattasse unicamente di un fenomeno negativo, di una mera sottrazione di energia, sicché in altri punti del suo libro egli presenta la crepa che si produce nella psiche in maniera del tutto differente, ossia come generatrice di idee: «Per quanto il Cogito rinvii a un Io incrinato, spaccato da parte a parte dalla forma del tempo che lo attraversa, bisogna dire che le Idee formicolano in tale incrinatura, emergono costantemente sui bordi di essa, uscendo e rientrando senza posa, componendosi in mille modi diversi» (Deleuze 1997: 221). Può sembrare contraddittorio conferire all’incrinatura psichica caratteri nel contempo negativi e positivi, ma questa duplicità appartiene alla natura stessa del fenomeno in questione. Chi subisce gli effetti dell’incrinatura si trova suo malgrado a sperimentare qualcosa di eccessivo, che lo destabilizza fin nel profondo. A ciò può reagire in due maniere opposte, o lasciandosi scivolare sulla china della perdita, dell’istinto di morte, oppure trasformando l’incrinatura in uno stimolo, ad esempio per la creazione di concetti filosofici o di opere artistiche.
Infatti l’insorgenza del pensiero innovativo non dipende, secondo Deleuze, da una predisposizione innata o da uno sforzo volontaristico, bensì da uno choc iniziale che si è subito. Già nel suo libro su Proust egli avvertiva che «il torto della filosofia sta nel presupporre in noi una buona volontà di pensare, un desiderio, un amore naturale del vero. Perciò la filosofia arriva soltanto a verità astratte, che non compromettono nessuno e non sconvolgono nulla. […] Tali idee restano gratuite, perché sono nate dall’intelligenza, che conferisce loro una sola possibilità, e non da un incontro o da una violenza che potrebbero garantirne l’autenticità. […] La verità dipende da un incontro con qualcosa che ci costringe a pensare, e a cercare il vero» (Deleuze 1986: 16-17). Dato che Deleuze sta parlando di Proust, si può scorgere una corrispondenza tra la valorizzazione delle idee filosofiche subite rispetto a quelle elaborate razionalmente e il privilegio (conoscitivo, oltre che emotivo) concesso dall’autore della Recherche alla memoria involontaria in confronto a quella volontaria. Ma anche nel diverso contesto di Différence et répétition Deleuze ribadisce che le idee cui si perviene per semplice ragionamento logico hanno un valore limitato: «Manca ad esse una provocazione, che sarebbe quella della necessità assoluta, cioè di una violenza originaria fatta al pensiero, di un’estraneità, di un’inimicizia che sola lo farebbe uscire dal suo stupore naturale o dalla sua eterna possibilità: […] non c’è pensiero se non involontario, costrizione suscitata nel pensiero» (Deleuze 1997: 182).
Il fatto che la violenza subita dalla psiche non raggiunga necessariamente l’individuo quando si trova nel pieno possesso delle proprie forze fisiche e mentali, ma possa pure esercitarsi su persone in apparenza deboli verrà chiarito in opere successive, a cominciare da Dialogues. In quel libro leggiamo che, «attraverso ogni combinazione fragile, è una potenza di vita ad affermarsi, con una forza, un’ostinazione, una perseveranza nell’essere che sono impareggiabili. È curioso come i grandi pensatori abbiano una vita personale fragile, una salute molto incerta, e al tempo stesso innalzino la vita allo stato di potenza assoluta o di “grande Salute”» (Deleuze & Parnet 1998: 11-12) [4]. Così, parlando dei filosofi a cui si sente più legato, primi fra tutti Spinoza e Nietzsche, Deleuze osserva: «Tutti questi pensatori hanno una costituzione fragile, eppure sono attraversati da una vita insuperabile. Procedono solo per potenza positiva, e di affermazione. Hanno una sorta di culto della vita» (Deleuze & Parnet 1998: 21). È ammirevole la discrezione che induce il pensatore francese a non dire nulla riguardo al proprio stesso caso, che è quello di una persona afflitta, per gran parte dell’esistenza, da seri problemi di salute.
Il discorso non è valido solo per il filosofo, ma anche per l’artista. Quest’ultimo – si legge in un’altra opera – è qualcuno che «ha visto nella vita qualcosa di troppo grande, di troppo intollerabile anche», ed è proprio questa esperienza a renderlo «un veggente, un diveniente» (Deleuze & Guattari 1996: 176). Occorre dunque essersi trovati ad affrontare una dura prova: «Per aver raggiunto il percetto come “la fonte sacra”, per aver visto la Vita nel vivente o il Vivente nel vissuto, il romanziere o il pittore tornano con gli occhi rossi, col fiato corto» (Deleuze & Guattari 1996: 177) [5]. Sotto questo profilo, dunque, non c’è differenza tra il pensatore, che lavora con i concetti, e l’artista, che invece ha a che fare con i percetti. «In tal senso gli artisti sono come i filosofi, hanno spesso una salute troppo fragile; non a causa delle malattie o delle nevrosi, ma perché hanno visto nella vita qualcosa di troppo grande per chiunque, di troppo grande per loro, e che ha impresso su di essi il sigillo discreto della morte. Ma questo è anche la fonte o il respiro che consente loro di vivere, attraverso le malattie del vissuto (è ciò che Nietzsche chiamava salute)» (Deleuze & Guattari 1996: 178).
Anche nell’ultimo libro pubblicato in vita, Critique et clinique, il filosofo tornerà a ribadire la propria convinzione, parlando stavolta in maniera più specifica degli autori di opere letterarie: «Non si scrive con le proprie nevrosi. La nevrosi, la psicosi non sono passaggi di vita, ma stati in cui si cade quando il processo è interrotto, impedito, chiuso. […] Perciò lo scrittore in quanto tale non è malato, ma piuttosto medico, medico di se stesso e del mondo. Il mondo è l’insieme dei sintomi di una malattia che si confonde con l’uomo. La letteratura appare allora come un’impresa di salute: non che lo scrittore abbia necessariamente una salute vigorosa […], ma gode di un’irresistibile salute precaria che deriva dall’aver visto e sentito cose troppo grandi, troppo forti per lui, irrespirabili, il cui passaggio lo sfinisce, e tuttavia gli dischiude dei divenire che una buona salute dominante renderebbe impossibili» (Deleuze 1996: 16).
In queste stesse frasi non mancano gli echi letterari. Così la formula «cose troppo grandi, troppo forti per lui», presuppone forse, da parte di Deleuze, la reminiscenza di una lettura di Proust: infatti, nel romanzo giovanile incompiuto Jean Santeuil, il protagonista manifestava le proprie incertezze e paure pensando: «Il mondo è troppo complicato per me, la vita è troppo forte per me» (Proust 1976: 63). Quanto poi all’idea secondo cui lo scrittore non va considerato come malato bensì come terapeuta, era già stata formulata da un altro scrittore caro al filosofo, ossia Artaud, che parlando a nome degli alienati (categoria a cui sentiva di appartenere) dichiarava: «Noi che il dolore ha fatto viaggiare nella nostra anima alla ricerca di un luogo di calma a cui aggrapparci, alla ricerca della stabilità nel male come gli altri nel bene. Noi non siamo folli, siamo dei medici meravigliosi» (Artaud 2004: 128). Un terzo riferimento, stavolta reso esplicito da Deleuze, è al testo in cui Michaux, riferendosi alla propria raccolta di brani narrativi e poetici dal titolo Mes propriétés, dichiara di averla composta «per la mia salute. Senza dubbio non si scrive per un motivo diverso. Non si pensa in altro modo. […] Questo libro, quest’esperienza che pare dunque provenire tutta dall’egoismo, mi spingerei fino a dire che è sociale, a tal punto si tratta di un’operazione alla portata di tutti e che sembra dover essere così vantaggiosa per i deboli, i malati e malaticci, i bambini, gli oppressi e i disadattati di ogni genere. In tal modo, vorrei essere stato utile almeno a quei sofferenti immaginosi, involontari, perpetui» (Michaux 1998: 511-512) [6].
Si può dire pertanto che aver subito una certa incrinatura a livello psichico, o comunque l’aver fatto esperienza di qualcosa che destabilizza il soggetto percipiente, sottoponendolo a un eccesso di dolore (o magari di gioia), se può in certi casi indebolirne le difese, così da indurlo a cedere a pulsioni mortifere, in altri e più fortunati casi può conferirgli delle capacità di pensiero e di creazione che in precedenza erano per lui inaccessibili. Deleuze elogia ad esempio scrittori americani come Fitzgerald e Lowry perché, a suo dire, hanno colto appieno la potenza della vita e, per poterla sopportare, hanno fatto ricorso all’alcol. Questo ha consentito ad essi di trasmettere, nella scrittura letteraria, la loro particolare visione, ma evidentemente ha comportato anche dei rischi, poiché in effetti occorrerebbe sempre «fare in modo che la linea di fuga non si confonda con un puro e semplice movimento di autodistruzione» (Deleuze & Parnet 1998: 44). Infatti, quando la linea di fuga si volge in linea di morte, l’esistenza, e con essa la scrittura, divengono impraticabili. «Perché si scrive? Il fatto è che non si tratta di scrittura. Può darsi che lo scrittore abbia una salute fragile, una costituzione debole. Ciò non toglie che sia proprio l’opposto del nevrotico: una sorta di grande Vivente (alla maniera di Spinoza, di Nietzsche o di Lawrence), anche se è soltanto troppo debole per la vita che lo attraversa o gli affetti che passano in lui» (Deleuze & Parnet 1998: 55). Occorre dunque saper trasformare l’incrinatura iniziale in una creativa linea di fuga, ma occorre anche, mentre si è impegnati a tracciare tale linea, imparare a conoscere «i pericoli che vi si corrono, la pazienza e le precauzioni che bisogna impiegare, le correzioni che bisogna apportare di continuo» (Deleuze & Parnet 1998: 44). Solo così, secondo Deleuze, l’atto di creazione giungerà a buon fine, e il pensatore o lo scrittore potranno dire di essere riusciti a esprimere la potenza, nel contempo terribile ed esaltante, della vita.
di Giuseppe Zuccarino
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Bibliografia
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[1] Al passo si rimanda in Deleuze 1997: 115.
[2] Si avverte che i passi delle traduzioni italiane cui si rimanda vengono spesso citati con modifiche.
[3] Cfr. Zola 2019; Scott Fitzgerald 1961. Sul racconto di Fitzgerald, si veda anche Deleuze & Guattari 2017: 287-289.
[4] L’espressione citata da ultimo fra virgolette rimanda a un concetto nietzschiano: cfr. l’aforisma La grande salute, in Nietzsche 1991: 307-309.
[5] La fonte sacra è il titolo di un romanzo di Henry James del 1901 (1984).
[6] Deleuze rimanda a queste pagine in Deleuze & Guattari 1997: 163 e in Deleuze 1996: 16.
La tempesta Vaia ha segnato uno spartiacque storico per il territorio di Fiemme e per le comunità che lo abitano. A dispetto dei milioni di metri cubi di foresta caduti in una sola notte i danni sono stati contenuti, dato che meno del 6% dei boschi è stato danneggiato (PAT 2020: 10-13). Tuttavia, il disastro del 2018 ha evidenziato un'insospettata fragilità del territorio fiemmese e delle sue foreste, accelerando un cambiamento nella selvicoltura locale. Per i suoi risvolti drammatici, Vaia ha agito come una sorta di “crisi rivelatrice”, mostrando nel modo più traumatico come certe modalità storiche dell'abitare fossero ormai insostenibili. Anche se inaspettata, la fragilità di questo territorio non è una situazione emergenziale creata dalla tempesta: al contrario, è una condizione che si è lentamente costruita nel tempo, radicatasi insieme ai boschi della valle.
Nella fitocenosi (comunità interdipendente di piante) di questo territorio spicca in assoluto l'abete rosso (Picea abies), accompagnato dall'abete bianco (Abies alba) e, in percentuali minori, dal larice (Larix decidua). La preponderanza dell'abete rosso rappresenta il risultato di secoli di politiche forestali che hanno favorito la pianta per il suo alto valore commerciale: basti pensare che nella prima metà del Novecento le conifere nella Val di Fiemme sono passate dall'84% al 99,5% (Agnoletti & Biasi 2013: 250).
Molto di questo assetto ambientale è dovuto all'opera della Magnifica Comunità di Fiemme (MCF), che nei suoi nove secoli di esistenza ha letteralmente modellato i boschi della Valle. Tra le rare istituzioni d'origine medievale conservatesi sino ad oggi, la MCF possiede e gestisce più di 11.000 ettari di foreste come bene comunitario a nome dei vicini, i discendenti degli abitanti originari. Nonostante le profonde trasformazioni subite durante l'Ottocento, la MCF continua a essere un attore di primo piano nella gestione dei boschi fiemmesi, in collaborazione con altri enti privati e istituzioni pubbliche. Molto della capacità (e dell'efficacia) d'intervento della MCF nel post-Vaia è riconducibile proprio al particolare carattere del suo patrimonio silvo-pastorale, che soddisfa tutti i criteri di Elinor Ostrom per i commons (Ostrom 1990: 88-101), e che rende la Magnifica Comunità «an institutional arrangements for the cooperative (shared, joint, collective) use, management, and sometimes ownership of natural resources» (McKean 2000: 27).
Dal 1987 la MCF ha promosso un importante cambiamento delle sue politiche forestali, preferendo il taglio raso a strisce per favorire la rinnovazione naturale e incrementare così l'estensione complessiva del patrimonio boschivo, attualmente attestato sui 100 ettari annui (Cattoi 2000). La recente promozione dei servizi eco-sistemici ha valso all'istituzione fiemmese un riconoscimento internazionale da parte del Forest Stewardship Council, che ha certificato il valore dei boschi comunitari per lo stoccaggio del carbonio e la conservazione della biodiversità. Le foreste della valle assorbono circa 2 milioni di tonnellate di anidride carbonica ogni anno, che corrispondono a sedici volte la quantità prodotta da tutta la popolazione fiammazza (Bertagnolli 2020: 9).
Tuttavia, nonostante le indubbie potenzialità dei commons nella gestione sostenibile delle risorse naturali, Anna Tsing ci mette in guardia dall'idealizzare eccessivamente questi regimi di proprietà (Tsing 2015: 254). Il graduale passaggio dai prodotti forestali ai servizi eco-sistemici, ad esempio, ha ben poco di utopico, e consiste più concretamente nella monetizzazione delle relazioni ecologiche tra attori non-umani. Come osserva criticamente Kathryn Yusoff, questa nuova economia «represents a new ontology of biotic subjects – be they plant, animal, microbe or fungi – in which their value as entities is inscribed into capitalist modes of production as the defining characteristic of their life’s work» (Yusoff 2011: 2).
Detto questo, Latour ha recentemente sostenuto la necessità di trovare un nuovo nomos per rapportarci al pianeta (Latour 2017: 233), dunque perché non cominciare proprio da una diversa forma giuridica di governance dei territori? In questo senso la Magnifica Comunità di Fiemme costituisce un esempio prezioso per la sua eccezionalità storica e per il ruolo di gestore forestale della valle a nome della collettività dei suoi abitanti. Il suo modello di commons, come governo e godimento partecipato di beni comuni, mostra la capacità di tenere insieme comunità umana e fitocenosi, ponendosi oltre la dicotomia pubblico/privato propria del capitalismo e delle sue biopolitiche.
ph. Marco Simonini 2008 per Trentino Marketing "Laghetto in Val di Fassa con vista sulle Dolomiti"
Tornando a Vaia, il suo potenziale distruttivo è stato l'esito di un'imprevedibile combinazione tra pratiche culturali di lungo periodo, propaggini storiche del modello capitalista di sviluppo. In questo senso “Capitalocene” è forse un termine più adatto di “Antropocene” per mettere a fuoco la matrice culturale dietro simili cambiamenti, indicando al contempo precise responsabilità. Consideriamo ad esempio le politiche di gestione forestale nel Settecento: una valorizzazione capitalista del patrimonio naturale operata attraverso un paradigma scientifico-burocratico (Scott 1988) che ha modellato gran parte degli attuali boschi fiemmesi. L'esempio migliore è la valutazione redatta nel 1788 dalla Commissione austriaca sullo stato delle foreste. [1] Vengono individuati 88 boschi in tutta la valle, da cui si stima di ottenere 1.779.200 pezzi mercantili in 160 anni. Per ogni “turno” di vent'anni (fino al 1948) la relazione precisa il numero e la specie di alberi da abbattere e da piantare, un modello ideale definito «tendente alla perpetuità». Simili piani di rimboschimento artificiale hanno diffuso fustaie coetanee d'abete rosso in tutta la valle, rendendo più vulnerabile il soprassuolo forestale; questa specie possiede infatti un apparato radicale poco sviluppato in profondità, che la rende più vulnerabile agli sradicamenti da vento, specie a raffiche intense e multi-direzionali come quelle di Vaia (Corona 2019).
Per questa ragione, negli interventi di recupero e ripristino all'indomani della tempesta, si è cercato di controbilanciare questo retaggio storico iscritto nel patrimonio naturale. La sola MCF nel 2020 ha rimboschito quasi 40 ettari della valle, corrispondenti a circa 50.000 piantine coltivate nei due vivai forestali, con una buona quota di larici. È stata data la priorità a tre aree in particolare: la zona di Predazzo, il passo Lavazè e il Monte Corno, sulla base di ragioni paesaggistiche e di messa in sicurezza dei versanti, come nell'area sopra l'abitato di Predazzo. Dal canto suo, l'Ufficio distrettuale forestale di Cavalese (ente provinciale) ha rimboschito tre ettari con circa 7000 larici, prevedendo di piantarne altri 40.000 nei prossimi anni nelle aree più impervie. È interessante notare inoltre che due dei tre cantieri forestali sperimentali della Provincia Autonoma di Trento si trovano proprio in Val di Fiemme (PAT 2020: 64-69). Le piantine impiegate dalla MCF sono tutte ecotipi forestali locali, vale a dire varietà di piante con una forte caratterizzazione ambientale, ottenute da semi raccolti nella valle e coltivati nei vivai della stessa Magnifica Comunità.
Tutti questi interventi, benché indicativi di una svolta selvicolturale orientata alla sostenibilità, non bastano da soli a risolvere la fragilità del patrimonio forestale: i lunghi tempi di crescita degli alberi, infatti, rendono necessari secoli per cambiare la struttura dei boschi. Non si tratta di questioni limitate al mondo delle scienze forestali: la tempesta Vaia ha riportato i boschi e l'abitare la montagna al centro della scena e delle narrazioni pubbliche, mostrando nel modo più drammatico come il cambiamento climatico possa concretizzarsi all'interno dei territori (O'Reilly et al. 2020). L'intera comunità di Fiemme si è interrogata su quali strategie adottare per accelerare i tempi della rinnovazione, migliorando al contempo la resistenza e la resilienza dei boschi, senza apportare drastici cambiamenti a livello di specie.
Tra le tante proposte, una ci è sembrata particolarmente significativa per il suo decentramento della “consueta” prospettiva ecologica tra uomo e foresta. Si tratta di un'iniziativa sperimentale di micoselvicoltura (mycoforestry) sulle aree danneggiate da Vaia, impiegando inoculi di funghi per accelerare il processo di decomposizione e piantine micorrizate per rigenerare il territorio. L'associazione simbiotica di radici e micelio garantisce infatti una maggiore resistenza alla pianta, accelerandone lo sviluppo e proteggendola da parassiti e microorganismi nocivi. Sostenitori di questa strategia ecologica sono due membri della Magnifica Comunità di Fiemme: Ilario Cavada, tecnico forestale della MCF, e Andrea Daprà, micologo e guida escursionistica. Alla base del progetto c'è la consapevolezza che, attraverso il micelio, la pianta viene integrata in una più estesa rete sociale: un Wood Wide Web (Sheldrake 2020: 191-193). Questa tessitura di relazioni tra viventi, utile a rigenerare il territorio colpito da Vaia, si fonda su un approccio innovativo verso i funghi.
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Micelio radicale
Le specie micorrize sono solo una delle quattro categorie in cui vengono classificati i miceti, insieme a saprofiti, parassiti ed endofiti (Stamets 2005: 19-34). Più che per la loro strategia di nutrimento, i funghi micorrizici c'interessano per la straordinaria capacità di stabilire connessioni e associazioni. La rete miceliare permette alle fitocenosi di raggiungere una complessità di unione (koinosis, per l'appunto) altrimenti impossibile. Ce ne fornisce un esempio lo studio di Beiler e colleghi (2010) riguardante le inter-connessioni tra abeti di Douglas e un fungo Rhizopogon. I ricercatori hanno mappato un'architettura miceliare che mette in comunicazione centinaia di alberi, i più grandi e maturi dei quali rappresentano degli snodi (hub) per la rete. Una simile associazione micorrizica permette di accelerare la rigenerazione della fitocenosi, supportando le piante più deboli attraverso la redistribuzione di risorse. Bisogna inoltre tenere conto che, normalmente, ogni albero intrattiene relazioni simbiotiche con diverse centinaia di specie fungine. Un simile compostaggio di specie, per rubare il gioco di parole di Haraway (2018: 25), ridefinisce il concetto classico di nicchia ecologica (Peay 2016).
Il dipanarsi delle ife – vere e proprie linee di vita (Ingold 2020) – non avviene attraverso un'espansione radicale, né puramente rizomatica. La ramificazione multi-direzionale si accompagna alla fusione tra ife (homing), generando un complesso apparato miceliare che rievoca quel corpo senza organi di deleuziana memoria. A loro volta, radici e micelio sono aggrovigliati (entangled) attraverso correlazioni che fanno saltare l'opposizione tra organizzazioni radicali e rizomatiche (tra radice e anti-radice), tra ospite e simbionte.
Il concetto di olobionte porta all'estremo questa situazione, mostrando come «what counts as “self” is dynamic and context-dependent» (Gilbert et al. 2012: 333). Introdotto inizialmente per descrivere i licheni, più che una somma di parti fisse e identità distinte gli olobionti costituiscono comunità integrate di specie, strutturate attorno alle relazioni simbiotiche (Gilbert et al. 2012: 334; Sheldrake 2020: 114). In altre parole, nell'olobionte «il tutto [holon] è una corrispondenza, non un assemblaggio» (Ingold 2020: 38). Licheni e micorrize rappresentano forme di vita che trasgrediscono i nostri concetti culturali di identità, e da cui Haraway ha preso spunto per il suo tentativo di riconfigurare l'umano come humusity (Haraway 2018: 54), un sostrato multi-specie di cui l'uomo è parte integrante.
Paul Stamets è senza dubbio uno dei migliori interpreti di queste “humusità”, e un pioniere nel campo della mycorestoration (Stamets 2005). In tale approccio, i funghi sono impiegati come «ingegneri di ecosistemi» (Sheldrake 2020: 181) per il risanamento degli habitat. La visione di Stamets è stata ripresa nella radical mycology Peter McCoy (2016), che oltre all'analisi micocentrica delle relazioni ecologiche si propone come un movimento “dal basso” (grassroots) per la diffusione di saperi e pratiche legate all'uso di funghi.
Le tecniche sviluppate e applicate da Stamets e McCoy comprendono il filtraggio delle acque (mycofiltration), l'eliminazione di rifiuti tossici (mycoremediation), la coltivazione di piante edibili (mycogardening), il contrasto agli insetti (mycopesticides) e il sostegno alla riforestazione (Stamets 2005: 69-79; McCoy 2016: 335-378). La mycoforestry cerca di ottimizzare ed estendere i benefici delle reti miceliari, rafforzando le nuove piante e aumentando la resistenza (e la resilienza) complessiva della fitocenosi. Due fattori sono fondamentali: la combinazione di funghi scelti (matching) e le tempistiche del loro utilizzo (timing). Per intervenire efficacemente occorre valutare anzitutto il migliorabbinamento possibile tra alberi e specie fungine, prediligendo le varietà locali, in grado inoltre di promuovere future relazioni con insetti e uccelli, a rinforzo dell'intera catena trofica (Stamets 2005: 74).
A oggi sono pochissimi gli esperimenti di micoselvicoltura nel mondo. Stamets ha condotto uno dei primi progetti presso Cortes Island (Canada), usando piantine micorrizate di abete per il rimboschimento di aree fortemente depauperate (Stamets 2005: 78-79). Gargano e Venturella (2017) hanno avanzato una proposta simile per i boschi siciliani; i due ricercatori suggerivano l'impiego di specie native (per esempio: Boletus, Pleurotos, Hericium) per una micoselvicoltura tesa sia a migliorare le condizioni della foresta, sia a ottenere funghi commercialmente pregiati. Più recentemente, il progetto LIFE MycoRestore pone come obiettivo principale «l'uso innovativo di risorse micologiche per il miglioramento di produttività e resilienza di foreste Mediterranee minacciate dai cambiamenti climatici» (https://mycorestore.eu/it/life-mycorestore-2/). [2] A questa breve lista potrebbe presto aggiungersi l'iniziativa fiemmese, attualmente al vaglio della Magnifica Comunità e del suo ufficio tecnico forestale.
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Micorrize e rigenerazione ambientale
Di fatto, la micoselvicoltura punta a rigenerare il territorio attraverso un'attenta manipolazione di corrispondenze – o nei termini di Haraway, instaurando parentele – tra specie vegetali e microorganismi. Ciò spiega la lunga preparazione richiesta per questi progetti e la definizione del loro protocollo sperimentale. La fase preliminare di ricerca, indispensabile, prevede un censimento delle specie fungine native per poter scegliere i miceti più idonei al progetto.
Non vanno sottovalutate le ripercussioni negative di combinazioni azzardate. Sia nelle pratiche intenzionali di mycorestoration, sia nel modellamento involontario degli ecosistemi (Sheldrake 2020: 222) possono verificarsi “dissonanze” rischiose tra funghi e fitocenosi. Occorre tenere presente la natura intrinsecamente politica dei territori, costantemente percorsi da tensioni e conflitti tra specie viventi. Latour è tornato recentemente sul tema, sottolineando come l'abitabilità di un territorio per certi organismi sia talvolta una condizione imprevista, realizzata attraverso l'azione inconsapevole o gli stessi scarti di altri organismi, come la presenza di ossigeno (Latour 2017: 105). Ne abbiamo un esempio nel magistrale lavoro di Anna Tsing sui tradizionali paesaggi satoyama in Giappone: si tratta di habitat creati con un design non-intenzionale e non-umano, particolarmente favorevoli alla crescita dei funghi matsutake su cui si è innestato un fiorente commercio(Tsing 2015: 152). L'antropologa americana mostra bene come questa specie non possa venire coltivata, dimostrando così una particolare resistenza alle logiche delle plantation ecologies (Besky 2020).
Le capacità simpoietiche dei funghi permettono loro di riconfigurare l'abitabilità del territorio, a favore o contro altre specie. Questa bio-architettura degli habitat, opportunamente cooptata dalla micoselvicoltura, può essere applicata con successo a molti aspetti del contesto fiemmese. Studi condotti in seguito al passaggio di Vivian (Wohlgemuth 2017) hanno mostrato come, dopo il disastro, ci sia un rischioso periodo-finestra (protection gap) in cui né gli alberi caduti, ormai marciti, né le nuove piante, ancora troppo giovani, riescono a proteggere le zone danneggiate. In questo caso, l'inoculazione di funghi saprofiti nei siti degli schianti può accelerare il processo di decomposizione del legno a terra, riassorbendo la biomassa come humus (Stamets 2005: 73). Attraverso una pianificazione attenta, questi funghi possono inoltre di inibire la diffusione di certe specie fungine a favore di altre, predisponendo così la ricezione delle nuove piante micorrizate.
L'inoculazione è particolarmente adatta a quei siti difficilmente raggiungibili e con numerosi schianti, ormai praticamente privi di valore commerciale. I campioni di micelio per l'inoculo possono essere preparati in situ, selezionando e prelevando i funghi direttamente nei boschi della valle; in seguito occorre coltivare il micelio su un substrato adatto (per esempio dei listelli di legno), che verrà poi inserito direttamente nel corpo dell'albero morto.
Art Prof - Mushroom Reference #173 (2021)
Allo stato attuale i possibili candidati alla sperimentazione sono funghi del genere Armillaria, Trametes e Fomes. Per quanto riguarda l'Armillaria, conosciuta comunemente come chiodino, nella valle sono presenti due specie: gallica eostoyae. Quest'ultima vanta un record insospettabile: si tratta infatti del più grande organismo esistente sul pianeta, il cui micelio occupa in Oregon una superficie di centinaia di ettari, collegando tra loro migliaia di alberi (Ferguson et al. 2003). Fungo parassita e saprofita, per la sua invasività l'Armillaria è guardata con sospetto dai tecnici forestali, una fama che potrebbe ostacolarne l'impiego nelle aree di saggio. Parte di questo atteggiamento deriva dalla generale considerazione dei miceti nel mondo forestale italiano, un campo che significativamente compete ai patologi forestali. Tuttavia, come osserva Ilario Cavada, l'Armillaria ostoyae è una specie presente nella valle e già all'opera nelle aree schiantate da Vaia, così come le altre due specie idonee all'inoculo e appartenenti alla famiglia delle poliporacee.
Il Trametes pini (come il T.versicolor) è unfungo della carie bianca, tra i pochissimi esseri viventi in grado di metabolizzare la lignina. Andrea Daprà ne suggerisce l'abbinamento con un fungo della carie marrone come lo Schizophyllum commune, altrettanto presente nella valle e in grado di digerire la cellulosa. L'inoculazione di entrambe le specie permetterebbe di degradare rapidamente l'intera struttura dell'albero morto. Infine le specie Fomes fomentarius eLaricifomes officinalis, anch'esse agenti della carie del legno: il secondo predilige le conifere – i larici in particolare – e si presta dunque alla composizione dei boschi fiemmesi.
Una delle attività principali del progetto riguarda il rimboschimento con piante preventivamente micorrizate nei vivai della Magnifica Comunità. Abbiamo già accennato ai vivai in quota della MCF: vi sono coltivate solo sementi raccolte e validate dal “Centro Nazionale per lo Studio e la Conservazione della Biodiversità forestale” di Peri, gestito dall'Arma dei Carabinieri, che certificano la provenienza e la qualità dei semi. La micorrizazione di queste piante con miceli autoctoni costituirebbe dunque un ulteriore grado di territorializzazione della selvicoltura fiemmese, e un altrettanto importante superamento del modello monocolturale. In effetti, la coltura del micelio ha modalità antitetiche rispetto alla replicazione di semplificazioni di vita vegetale immesse nel mercato globale (Besky 2020). Come commenta Stamets, «getting a mycelia mat to infuse through a virgin habitat is both an art and a science»(Stamets 2005: 125), un esercizio di humusità basato sulla capacità di calibrare corrispondenze tra specie vegetali e miceti.
Pensando alla composizione forestale tipica della Val di Fiemme, due potenziali micorrize sono quelle tra abete rosso e Hyndrum repandum, e tra pini e il Pisolithus tinctorius o il più conosciuto porcino (Boletus edulis) (Stamets 2005: 75). Si tratta ovviamente di associazioni che devono essere calibrate per ogni singola area di saggio. A seconda delle caratteristiche del sito possono venire applicate varie forme di matching e di interventi micoselvicolturali. Per esempio, zone con forte presenza di residui legnosi saranno destinate al solo inoculo di funghi decompositori. L'attività primaria rimane però la messa a dimora delle piantine micorrizate, monitorandone la crescita e confrontandone lo sviluppo con quello di altri siti rimboschiti con tecniche tradizionali. In sintesi, il progetto fiemmese rappresenta il tentativo di passare da una selvicoltura auto-poietica a una simpoietica, cooptando culturalmente le proprietà (ri)generative del micelio. Una proposta affascinante, ma che solleva anche aspetti critici.
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Conclusioni
Il progetto fiemmese di micoselvicoltura si situa all'intersezione tra più scale, anzitutto quella temporale: i primi risultati significativi sulla creazione di reti miceliari estese e sulla loro efficacia si avranno solo dopo 10-15 anni, tempistiche piuttosto lunghe se rapportate ai ritmi umani. Del resto, lo stesso report della PAT sui rimboschimenti post-Vaia afferma che le nuove foreste «cominceranno a svolgere realmente le loro funzioni tra 30-60 anni» (PAT 2020: 65). Il lavoro dei tecnici forestali, per usare una bella immagine di Ilario Cavada, è una staffetta tra generazioni, che accompagnano la foresta nel suo sviluppo secolare. A sua volta, nella mycoforestry la riconfigurazione del terreno è affidata a una staffetta attentamente calibrata di specie fungine con tempi assai più veloci.
Queste differenze temporali non sono cifre astratte, ma l'espressione di ritmi viventi che le pratiche di micoselvicoltura cercano di accordare tra loro; un simile compostaggio di specie (microorganismi, funghi, vegetali, umani) è al contempo un componimento di vite. Ma se le interfacce tra scale sono, come nota Elena Bougleux, «spaces to inhabit» (Bougleux 2015: 70), si pone il problema di armonizzare questa convivenza anche in termini politici (Latour 2017); e non si tratta di mantenere dei domini separati, bensì di esercitare forme distinte di potere sul medesimo territorio.
Donna Haraway
In effetti, questa “convivenza politica” è uno dei fattori che ha permesso la sopravvivenza della Magnifica Comunità di Fiemme nel corso dei secoli: una valle contesa in passato tra dominio eminente del Principe vescovo e dominio utile degli abitanti, tra undici Regole sottoposte alla medesima autorità comunitaria, tra due giurisdizione signorili rivali, e che oggi è divisa tra cittadini e vicini, tra tre identità linguistiche diverse (italiano, tedesco e ladino) e tra differenti regimi di proprietà. La domanda che dobbiamo porci – e che resta tutt'ora aperta – è se la Magnifica Comunità riuscirà a estendere questo retaggio storico alle relazioni ecologiche con gli esseri non-umani. Se nell'analisi schmittiana la ricerca di un nomos planetario dipendeva dal trovare un nuovo sistema di misure e rapporti espressi nello spazio, oggi dipende piuttosto da una redistribuzione della agency tra viventi (Latour 2017: 235).
Per questo motivo la sfida principale per il progetto fiemmese diventa quella di non ricadere nei modi di (ri)produzione capitalista cui fanno riferimento Yusoff, Besky e Tsing. Come gli stessi servizi eco-sistemici, anche le pratiche micoselvicolturali possono diventare un mezzo per una valorizzazione capitalista del patrimonio naturale, la stessa che ha orientato le politiche forestali negli ultimi secoli. Alberi e funghi finirebbero così reificati come “fornitori di servizi”, riportando la relazione simpoietica a un ennesimo spazio di speculazione economica (Yusoff 2011: 5).
Al contempo, ci sono diversi fattori che rendono la Magnifica Comunità un ente ideale per supportare questo progetto: la sua terzietà rispetto al binomio pubblico-privato, che le garantisce una discreta autonomia decisionale; una libertà riflessa anche sotto l'aspetto operativo-scientifico, avendo un proprio Ufficio tecnico forestale; un lungo percorso volto alla sostenibilità ambientale, che trova espressione nelle certificazioni forestali; una conoscenza approfondita e specifica del territorio comunitario; lo stretto legame tra selvicoltura ed economia locale, con un filiera del legno che coinvolge direttamente quasi 300 famiglie.
Non dobbiamo nemmeno sottovalutare l'agency dei miceti, particolarmente imprevedibili e resistenti alle logiche umane, capaci – come osserva Tsing – di mostrarci possibilità di vita tra le brecce e le rovine del capitalismo. La stessa mycorestoration è più di un insieme di tecniche: per i suoi pionieri è una filosofia sociale «that describes cultural phenomena through a framework inspired by the unique qualities of fungal biology and ecology» (McCoy 2016: VII). Cogliamo l'invito di Sheldrake e Stamets a lasciare che il nostro pensiero venga micorrizato dai funghi, delegando parte del nostro potere a questi tessitori di relazioni simpoietiche.
di Nicola Martellozzo
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Note
[1] Archivio della Magnifica Comunità di Fiemme (Cavalese), Miscellanea, sc. 68, ms.n. 369, Atti dell’indagine della commissione austriaco-trentina sullo stato dei boschi della valle di Fiemme, 1787-1789.
[2] Questo progetto di micoselvicoltura – il primo finanziato dall'Unione Europea – prevede un accordo tra otto stakeholder principalmente spagnoli, ma alcune attività si svolgono anche in Italia. Nel Comune di San Godenzo e nella riserva di Vallombrosa sono già state condotte due inoculazioni di micelio, rispettivamente in un fustaia di abete bianco e un castagneto abbandonato. Sono stati impiegate sei diverse specie locali di Trichoderma,Clonostachys rosea, Amanita sp. pl., Lactarius salmonicolor e Laccaria laccata, tutti funghi simbionti o endofiti ben conosciuti per le loro capacità come agenti di biocontrollo dei papatogeni presenti nel suolo.
Del modo di esistenza degli oggetti tecnici di Gilbert Simondon, tradotto in italiano da Antonio Stefano Caridi per i tipi di Orthotes (2020), è ormai un piccolo classico. Eppure si tratta di un’opera che non ha quasi nulla del classico: popolato di tubi elettronici e motori di trazione, articolato in tre parti piuttosto disorganiche e solo di rado disposto ad aperture di senso rivelatrici, è un libro quasi contrario alla vocazione del grande saggio umanistico moderno. Quando venne pubblicato nel 1958, diede voce a un certo clima di insofferenza generale verso le Humanités: «più nessuno può vivere una vera cultura umanistica, anche volendo e avendone i mezzi materiali», scriverà qualche anno più tardi Abraham Moles (2012: 32). Simondon fa sua questa diagnosi sin dall’inizio degli anni ’50 – lui che aveva fondato un atelier di tecnologia nel liceo di provincia dove insegnava, che leggeva appassionatamente Louis de Broglie e Norbert Wiener, che studiava psicofisiologia appena uscito dalle aule di filosofia de la rue d’Ulm.
Ciò che l’umanesimo sembrava aver dimenticato è che la nozione stessa di cultura si basa sull’idea che l’uomo vive in un ambiente tecnico e macchinico. Questo dato di artificialità fondamentale del milieu umano funziona come una sorta di messa a terra di quel regno dei fini che, quando viene separato dal dominio dei mezzi, diviene apparato di conservazione dei valori. È invece proprio il regno dei mezzi a produrre umanità: ancora prima del linguaggio e del concetto, la tecnica è per l’uomo «il modo più concreto del potere di evolvere» (Simondon 2017: 266). Essa è innanzitutto potenza produttiva di senso. La nozione di senso, tuttavia, sfugge al dominio esclusivamente umano nel momento in cui si riconosce come trascendentale rispetto all’umano stesso. In altre parole, se il mezzo e la componente materiale assumono un ruolo essenziale e non semplicemente veicolare nella dinamica evolutiva, allora la dinamica riflessiva secondo cui l’uomo costituisce sé stesso raddoppiando la propria natura si rende opaca e si interrompe: il mondo non è più lo specchio dello spirito.
Del modo di esistenza degli oggetti tecnici entra subito in dialogo con l’altra grande opera di Simondon, L’individuazione alla luce delle nozioni di forma e informazione. La tesi che in chiave diversa è portata avanti in entrambe le opere è che l’informazione, intesa come regime di atti disparanti generativi, è principio primo della realtà e della conoscenza umana. L’informazione è articolazione ontologica individuante che si esprime nei modi d’esistenza stessi delle forme, intese secondo il loro carattere processuale e diveniente. In Del modo di esistenza degli oggetti tecnici tale paradigma si specifica nel senso delle potenze proprie all’inorganico artificiale, l’oggetto tecnico in quanto campo di affetti ed essenza singolare. Come nota Deleuze a proposito del concetto di dispositivo, «è già molto tempo che pensatori come Spinoza o Nietzsche hanno mostrato che i modi d’esistenza dovrebbero essere pensati secondo dei criteri immanenti, secondo il loro tenore di “possibilità”, di “libertà”, di creatività, senza alcun appello a dei valori trascendenti» (Deleuze 2007: 24).
Halfrain, The machine (2014)
La tesi portata avanti da Simondon è che l’oggetto tecnico è stato sistematicamente trasposto sul piano di valori ad esso trascendenti. La forma tecnica è il terreno in cui si afferma la ragione strumentale tout court, in cui ogni oggetto è inteso sin da subito come strumento e privato di autonomia ontologica. Più un oggetto dipende dall’uso che l’uomo ne fa, più gli si impedisce di esplicare il proprio specifico ambito di potenze. La forma tecnica dev’essere invece compresa come un modo in cui dell’informazione è espressa; così essa si rivela parte di una vicenda che supera sia l’oggetto che il singolo soggetto utilizzatore, una vicenda di transustanziazione di immagini e essenze di utilizzazione. Ogni oggetto tecnico articola un’essenza formativa che implica un numero indeterminato di concatenamenti con il reale; perciò esso porta sempre con sé un «margine d’individuazione» e di formazione ulteriore, analogamente a ogni altra forma reale. Assumere uno sguardo immanente a questi processi, per Simondon, significa smettere di trattare gli oggetti come schiavi e intraprendere una nuova relazione di trasparenza con il mondo.
Ciò che caratterizza questo “platonismo macchinico” di Simondon è il gesto di «convocazione», per dirla con Latour, tramite cui entità ontologicamente neglette vengono infine incluse – seppur nella loro differenza specifica – nel cerchio dei protagonisti della realtà. Lo sfondo di questo gesto è un pluralismo metafisico delle potenze, suggerito dal concetto stesso di “modo di esistenza” ed esplicitato nell’idea di informazione come principio generativo dell’Essere. L’oggetto è un compito formativo, un processo in cui possiamo soltanto innestarci, per intuizione dunque, per conoscenza genetica. «Non basta, in effetti, entrare con l’operaio o lo schiavo nell’officina, o anche prendere in mano lo stampo ed azionare il tutto. Il punto di vista dell’uomo che lavora è ancora molto esteriore rispetto alla presa di forma, che è la sola cosa ad essere tecnica in sé stessa. Occorrerebbe poter entrare nello stampo con l’argilla, farsi insieme stampo ed argilla, vivere e provare la loro operazione comune per poter pensare la propria forma in sé stessa» (p. 261). A questo scopo, l’uomo non può che farsi inventore e, perlomeno in un certo senso, filosofo.
La traduzione di Antonio Stefano Caridi consegna ai lettori italiani un libro che, dopo la sua recente riscoperta, si è rivelato fondamentale per il pensiero contemporaneo. Dal punto di vista strettamente filosofico, tornare a leggere Simondon potrebbe sciogliere tanti falsi problemi intorno alla questione degli oggetti (per esempio quelli sollevati dall’ormai celebre ontologia di Graham Harman 2021). Simondon, inoltre, ci indica un modo per superare non soltanto l’antropocentrismo prometeico più manifesto, ma anche l’antropocentrismo larvato che appartiene alla spiegazione antropologica della tecnica. In tal senso Du mode d’existence rimane inservibile per quella linea – del tutto legittima entro i suoi confini – che va da Ernst Kapp a Bernard Stiegler e che vede nella tecnica un modo tutto umano per elaborare la distanza da un ambiente, ancora inteso come un universo oggettivo da cui distillare senso. Per Simondon, è invece proprio un ambiente informativo ubiquo e compenetrante a fornire il campo della continuità possibile tra umanità e tecnicità. Poche lezioni sulla tecnica risultano ancora così fertili e paradigmatiche dopo più di cinquant’anni dalla loro enunciazione.
di Gregorio Tenti
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Bibliografia
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Da anni ormai i concetti di performance e performatività animano il dibattito contemporaneo, tagliando trasversalmente i più svariati settori disciplinari e offrendo strumenti per corroborare discorsi che possono anche essere di segno opposto l’uno rispetto all’altro. In estetica, l’attenzione per il performativo ha restituito lavori molto interessanti – magistrale in questo senso è la Ästhetik des Performativen di Erika Fischer-Lichte, uscita nel 2004 e preceduta di un paio d’anni dalle Untersuchungen di Dieter Mersch; nello stesso periodo, in ambito analitico, si affacciavano le ricerche di David Davies sull’arte come performance. In questo orizzonte teorico assistiamo oggi alla nascita di molteplici estetiche del performativo, che declinano variamente la linea di ricerca inaugurata dall’attenzione artistica per il carattere evenemenziale della performance.
Ed è precisamente in questo solco che si colloca l’Estetica dell’improvvisazione di Alessandro Bertinetto, uscita per il Mulino nel giugno 2021. Imperniandosi sul concetto di improvvisazione, indagato dall’autore nel corso di una ricerca ormai più che decennale, questa specifica “estetica del performativo” rappresenta ed articola le esigenze della contemporanea riflessione sull’arte (intesa, con Georg Bertram, come prassi umana). Se da una parte il testo tiene conto di un gran numero di autori e dibattiti a noi coevi (dalla material culture all’enattivismo, dal pensiero ecologico al post-human turn), esso si nutre però anche di alcuni classici della filosofia (Kant e Hegel, Wittgenstein e Gadamer) che paiono almeno in parte mediati dalla formazione dell’autore avvenuta sotto la guida di un maestro del tenore di Gianni Vattimo. Numerosissime sono anche le tesi di chiaro sapore pareysoniano; questo libro si pone così in dialogo con la contemporaneità più attuale e urgente pur rappresentando, al contempo, un’eredità del pensiero torinese del secondo Novecento.
Dopo aver brevemente ricostruito la storia del concetto e aver offerto alcune coordinate nel panorama del dibattito sull’improvvisazione, il primo capitolo introduce alcuni dei temi che verranno sviluppati nel corso del testo. Tra questi, di non poco rilievo è la questione della spontaneità. In questa prospettiva, infatti, l’improvvisazione non è intesa come un’azione estemporanea, realizzata ex nihilo: piuttosto, l’improvvisazione stringe un’alleanza con pratiche ripetitive come l’allenamento, l’esercizio e l’abitudine, che dell’improvvisazione divengono non solo la controparte ma, più radicalmente, la condizione di possibilità. La spontaneità, dunque, non è spontanea ma «coltivata» (p. 82); il gesto improvvisativo è radicato in un contesto “ecologico” fatto di vincoli materici, tradizioni culturali, pratiche e schemi sedimentati nella memoria collettiva e nella memoria del corpo, i quali vengono a loro volta modificati nella prassi che li coinvolge.
È nel secondo capitolo che i tratti precipui di tale estetica dell’improvvisazione vengono delineati. Il pregio dell’improvvisazione è, secondo l’autore, quello di mettere in scena in maniera eminente il carattere artistico del confronto con la contingenza: l’imprevisto non va subìto passivamente, ma neppure si può pretendere di esercitare su di esso un controllo trasparente. In queste pagine viene allora articolata una «grammatica della contingenza» (p. 37) che «mette in scena e mette in questione» (p. 88) nozioni come quella di autorialità, promuovendo l’idea che la creatività artistica sia «ossimorica attività passiva» (p. 45) – laddove non si abbia a che fare, addirittura, con casi di «creatività distribuita» (p. 105). Emergenza, presenza, curiosità e autenticità: queste sono le categorie estetiche in cui la grammatica artistica della contingenza si articola. Soprattutto le prime due categorie, che più o meno implicitamente tracciano una continuità forte con l’estetica di Fischer-Lichte e con il suo lessico, permettono di portare l’attenzione su un altro elemento interessante: il ruolo del fruitore in questo quadro. Qualificandosi come coincidenza ontologica di invenzione ed esecuzione, l’improvvisazione parrebbe destinata a fondare un’estetica imperniata sulla produzione. Ma così non è nel testo di Bertinetto, il quale non rinuncia a delineare anche un’estetica della ricezione: la fruizione, qui, è intesa come partecipazione attiva alla costituzione dell’opera (secondo una tesi non solo di Bertram ma già, almeno, di Luigi Pareyson e Umberto Eco); il fruitore sperimenta un coinvolgimento empatico rispetto all’opera ed entra nel circolo di retroalimentazione che forma e trasforma l’opera stessa, in un processo trasformativo che non risparmia neppure il contesto né il fruitore stesso. Senso e significato emergono così in una dinamica autopoietica e ricorsiva che si realizza in virtù della compresenza corporea di artista e fruitore – dove la presenza dell’artista può essere reale oppure differita.
Proprio l’eventualità che l’artista sia presente in differita apre alla possibilità di adottare l’improvvisazione come modello applicabile anche all’analisi di opere d’arte “non performative”. Se infatti è piuttosto chiaro come l’improvvisazione possa divenire paradigmatica per quelle arti, come il teatro o la danza, in cui non si fatica a pensare la simultaneità di invenzione e performance produttiva, meno evidente è invece il valore che l’improvvisazione può assumere qualora processo e prodotto non coincidano, come nel caso della pittura o della scultura. Il terzo capitolo propone una carrellata di fenomeni artistici che vanno dalla poesia alla Land Art, dall’installazione alla fotografia, cercando di mostrare di volta in volta come l’improvvisazione giochi un ruolo di rilievo in queste pratiche. Nelle arti non performative, sostiene Bertinetto, l’improvvisazione può essere non solo una tecnica di produzione: essa può anche divenire il tema estetico dell’opera, incoraggiando una fruizione in cui l’opera sia intesa come «presentazione, per così dire per delega, del produttore» (p. 113). Il dipinto, così, è indice del gesto del pittore, il quale è allora presente nel suo prodotto; nella configurazione dell’oggetto il fruitore rivede l’artista all’opera – e in questo modo l’improvvisazione, pur facendo cenno, in certi casi, all’opportunità di accogliere partner macchinici o animali, si configura in questo libro come una pratica di pertinenza esclusivamente umana.
Tra le altre cose, il quarto ed ultimo capitolo insiste anche sul tema che, sottotraccia, sembra animare l’intero testo: l’idea che la specificità dell’improvvisazione consista nell’esibire la normatività trasformativa dell’esperienza estetica dell’arte mostrando questa dinamica proprio nel suo farsi. Tale «normatività trasformativa, fluida e consegnata alla possibilità del fallimento» (p. 151) si inquadra nell’ambito di una «estetica della riuscita»: come scrive l’autore, «i criteri di successo e fallimento dell’arte sono negoziati in e attraverso ogni singola opera e performance» (p. 145). Muovendo una critica all’approccio “imperfezionista” e al categorialismo di Kendall Walton (su cui tale approccio è basato), Bertinetto sostiene che norme e categorie estetiche non precedono le singole opere e le singole esperienze estetiche, ma sono generate e modificate nel corso stesso delle pratiche artistiche ed estetiche, costituendosi dunque come sistema aperto secondo il modello della ricorsività autopoietica.
Le ultime pagine del testo, infine, suggeriscono declinazioni politiche (seppur in senso lato) di tale estetica dell’improvvisazione. L’esperienza estetica è vista come esercizio di socialità, il giudizio estetico come emergenza di «un senso comune plurale e in fieri» (p. 182). Se «l’improvvisazione è esercizio di un con-sentire da cui possono svilupparsi valori e significati condivisi», allora le pratiche improvvisative potrebbero aprire il campo a scenari in cui le comunità si mantengono sempre plastiche, trasformabili e trasformative nel proprio stesso farsi. E l’improvvisazione, allora, assumerebbe il massimo spessore eccedendo l’estetica e assumendo valenza etica e politica, mostrandosi capace di «intensificare l’umanità» (p. 188) in un corrispondere del soggetto agli altri e all’ambiente.
[Pubblichiamo, su gentile concessione dell'editore Franco Angeli, l'Introduzione e la Nota del traduttore al saggio di Niklas Luhmann, Comunicazione ecologica. Può la società moderna affrontare le minacce ecologiche? recentemente ripubblicato con una nuova traduzione. Oltre all'editore ringraziamo Riccardo Prandini e Alberto Cevolini per aver messo a disposizione i loro testi.]
Non c’è davvero miglior tema di quello trattato da questo libro – che ritraduciamo per il lettore italiano – per dare il senso della Collana che lo contiene. Senza correre il rischio d’esagerare, lo indichiamo come l’iper-problema (un problema di problemi) che accompagnerà l’evoluzione socioculturale fino alla prossima catastrofe (qui intesa in termini neutrali come: insorgere subitaneo di un nuovo ordine). È il problema della società (dei suoi sottosistemi e organizzazioni) che, operando sull’ambiente (in specifico quello “esterno”: condizioni e processi fisici, chimici, biologici, ma anche psichici, etc.) mette in pericolo sé stessa, la sua autopoiesi. Questo iper-problema è ormai di moda e attira attenzione, dopo un ventennio abbondante d’incubazione intellettuale: le news ne parlano, i libri si vendono, nascono serie televisive, così come corsi di laurea e Ministeri. La tesi di Luhmann, in anticipo sui tempi (il libro è del 1986, sospinto dall’ondata dei movimenti politici “verdi” e dall’incidente nucleare di Chernobyl) è che attraverso la questione ecologica, la società non giunge tanto a conoscere meglio la “Natura” (magari per “preservarla” o per “migliorarla”: o in casi estremi “abolirla”), quanto a capire che non conosce sé stessa. La radicalità della tesi non è stata colta più di tanto (e certamente non dalla sociologia), mentre hanno guadagnato la ribalta due altri filoni di ricerca: il primo tende a spegnersi nei dibattiti scientifici specialistici e nei forum globali per élite politiche con idee generiche di bene comune e con soluzioni corrispondentemente inadeguate; il secondo, invece, tende ad accendersi nei dibattiti dell’opinione pubblica e nei “social”, per poi spegnersi senza portare a nulla.
Il primo va sotto il nome di “Sostenibilità”. L’Enciclopedia Treccani ne dà la seguente definizione: «Nelle scienze ambientali ed economiche, condizione di uno sviluppo in grado di assicurare il soddisfacimento dei bisogni della generazione presente senza compromettere la possibilità delle generazioni future di realizzare i propri». Basterebbe chiedersi chi e come, oggi, possa conoscere quali saranno i “bisogni da non compromettere” delle generazioni future, per farsi venire qualche dubbio sul senso del tema. Per rispondere, però, basta sapere che esso è stato introdotto nel 1987 con la pubblicazione del cosiddetto rapporto Brundtland dove «venne definito con chiarezza l’obiettivo dello sviluppo sostenibile che, dopo la conferenza ONU su ambiente e sviluppo del 1992, è divenuto il nuovo paradigma dello sviluppo stesso». In pratica qui a parlare e ad auto-attribuirsi capacità prognostiche è (l’auto-descrizione de) il sistema politico globalizzato (e i tecnici che gli suggeriscono cosa deve sapere) che si proclama “Centro e vertice” del tutto. Ne consegue una bibliografia infinita di ricerche, Report, Linee guida, Libri Bianchi, etc. – specialmente a trazione economico-giuridica, ma ora anche con l’inserimento delle scienze “dure” e della AI – che scelgono obiettivi e indicatori di sostenibilità, operazionalizzati in variabili e schematizzati in modelli teorici “causa/effetto”, “input/output”. Da questo profluvio di dati (diventati nel frattempo “Big”) apprendiamo, infine, che ogni causa è causata da altro (ed ha concause); così come ogni effetto ha altri effetti (previsti e imprevisti); che gli effetti retroagiscono sulle cause e che queste diventano nuovi effetti; che ogni tentativo di creare la “grande Mappa dell’ecosistema” fallisce, non solo perché gli effetti emergenti delle relazioni tra fatti lo impediscono, ma soprattutto perché ogni ecosistema deve avere un ambiente e nessuna chiusura “totalizzante” è mai possibile: l’equilibrio è una Chimera. A questo punto subentra il mantra del supercalcolo, del machine learning e della tecnologia che curerà la natura (magari sostituendola del tutto, come piano definitivo: il gemello digitale della realtà).
Il secondo filone di ricerca, più recente, prende il nome molto catching di “Antropocene”. Sempre per citare la Treccani, qui si tratta «dell’epoca geologica attuale, in cui l’ambiente terrestre, nell’insieme delle sue caratteristiche fisiche, chimiche e biologiche, viene fortemente condizionato su scala sia locale sia globale dagli effetti dell’azione umana, con particolare riferimento all’aumento delle concentrazioni di CO2 e CH4 nell’atmosfera». L’Antropocene è un tema a trazione filosofica, antropologica, climatologica, geopolitica, etc., insomma attira maggiormente gli spiriti forti perché dà la possibilità di fare prognosi sul futuro lontanissimo, previsioni che somigliano molto a visioni, finanche a proiezioni oniriche. Inoltre, permette con grande facilità di identificare il colpevole – l’uomo (in prevalenza maschio) – moralizzando la comunicazione e agevolando la richiesta di risarcimenti e/o compensazioni (in pochi, ma interessanti, casi anche di “scuse” al Creato, o a Gaia). Ma anche qui, a parte l’accordo sul colpevole, sembra che la festa sia finita. Siamo nell’Antropocene, baby! e dobbiamo o uscirne (ma come? e dopo così poco tempo? e dopo che solo alcuni ne hanno approfittato); oppure dobbiamo ridurre l’impatto delle attività (decrescendo? crescendo meglio? smettendo di pensare alla crescita?). Entrambi i filoni sono accumunati dal ridurre il rapporto tra sistema e ambiente a un grande sistema in equilibrio – il famoso eco-sistema – quindi elidendo paradossalmente un polo della distinzione. Un terzo filone sta prendendo ora piede, ed è senz’altro il più intrigante dal punto di vista dell’infotainment. Quello che vede la soluzione nel sostituire la natura con la tecnologia, così da togliere di mezzo il problema stesso: macchine che vivono tra macchine. Rimarrebbe però il duplice problema della produzione d’energia e della comunicazione sensata tra macchine (la famosa gerarchia cibernetica di Parsons!) a rovinare il sogno post-umano e quindi post-sociale. In alternativa rimane solo la retorica dell’homo viator: se siamo destinati dall’inizio a viaggiare sulla navicella “Pianeta Terra”, allora tanto vale proseguire il viaggio colonizzando altri ecosistemi marziani. Fine dell’ecologia terrestre.
Luhmann, per nostra fortuna, prende una direzione diversa. Il problema non è la “cura” del Pianeta Terra (o “della Natura” come la si voglia definire) in sé. PlanetEarth sembra cavarsela bene, auto-sostenendosi da circa 4,5 miliardi di anni (gli ominidi, per termine di paragone, datano 21 milioni di anni, sembra) e potendo continuare a farlo anche senza uomini e società, in futuro. E neppure lo è che la società degli umani possa autodistruggersi per così dire dall’interno. L’unica vera possibilità è stata data dall’uso della bomba atomica, ma questo implicherebbe una condizione di guerra globale e perdite settoriali. Perciò il vero tema è che gli effetti del rapporto con la Natura (anche umana) generati dalla società, ri-entrano nella società, cambiando in modo decisivo le sue condizioni di (im)possibilità. La società si mette in pericolo da sé, agendo sul suo ambiente. La prestazione intellettuale del sociologo tedesco è qui duplice: 1) spiegare perché solo la società Moderna si mette in pericolo da sé stessa; 2) individuare un principio di razionalità adatto al problema. Alla base della sua riflessione sta una triplice consapevolezza: che noi “i Moderni” non conosciamo la società in cui viviamo; che dobbiamo abituarci a questa socialcondition che non prevede alcuna salvezza-soluzione definitiva; che dobbiamo porci domande più sensate alla luce di una teoria sociologica adeguata al questa società.
Niklas Luhmann
In estrema sintesi Luhmann mostra come il problema ecologico dipenda solo dalla modalità di “risonanza” della società e dei suoi sottosistemi: gli eventi ambientali (qualsiasi cosa siano) entrano in risonanza con il sistema solo in base alle sue strutture che, a loro volta, dipendono dalla forma di differenziazione sociale. Da questa tesi dipende tutto il resto. Prima conseguenza. Non esiste nessun “Ecosistema” che sintetizzi la società (sistema) e la natura (ambiente), bensì solo e sempre singoli sottosistemi sociali che ricostruiscono – uno alla volta e ognuno in modo diverso – l’ambiente come loro totalità specifica. Seconda conseguenza: la società e i suoi sottosistemi risuonano solo attraverso un filtro estremamente limitato e limitante: la comunicazione. Ciò che non può essere comunicato (o, in seconda battuta, che è comunicato male, genericamente, in modo del tutto inadeguato alla attenzione di audiences sempre più disattente) non diventa “sociale” e quindi non può allarmare la società. Come nel racconto Il silenzio di Don De Lillo, se un blackout colpisse il pianeta, ce ne accorgeremmo, ma non potremmo comunicarlo attraverso i mass-media rimanendo nel silenzio o nel chiacchiericcio dell’interazione casuale. Da questo limite, la assoluta e crescente necessità (oltre che a dover disporre sempre d’energia elettrica!) di poter disporre di “allarmi” in forma di movimenti di protesta (Friday for Future), news, ricerca scientifica, talk politici, Encicliche. Terza conseguenza. A fare la differenza è la forma moderna di differenziazione sociale, in specifico quella di tipo funzionale. Essa caratterizza le strutture e le funzioni dei sottosistemi sociali, generando una società a cui “non riusciamo ad abituarci”. Strutture e processi che non comprendendo, ci impediscono di identificare le condizioni (sempre più improbabili) della nostra vita sociale. Tra queste ne segnaliamo alcune: i) ogni sottosistema (diritto, politica, sanità, formazione, economia, arte, famiglia, mass-media, etc.) può leggere gli eventi ambientali solo mediante il suo codice (diritto/torto, governo/opposizione, salute/malattia, conoscenza/ignoranza, solvenza/insolvenza, bello/brutto, amore/non amore, informazione/non informazione, etc.) senza poterne utilizzare altri (nessun valore “terzo” può intervenire a modificare questa limitazione); ii) oltre ai codici vengono predisposti programmi che servono a decidere i comportamenti sistemici adeguati e che devono, a differenza dei codici, mutare molto velocemente senza poter attendere di coordinarsi con altri programmi (in altri sottosistemi); iii) ogni sottosistema è auto-sostitutivo e nessun altro può venirgli in aiuto dall’esterno: iv) questa autonomia sistemica crea, simultaneamente, maggiore interdipendenza e integrazione (come limitazione di libertà) tra sistemi senza però generare alcuna automatica capacità di coordinarsi per il “bene comune”; v) l’aumento di performance dei sottosistemi – specialmente quello scientifico ed economico – dovuta alla loro funzionalizzazione, è anche una delle maggiori cause degli effetti ecologici negativi; vi) la tecnologia rende possibile realizzare sempre più progetti di cui conosciamo già la pericolosità e che quindi dobbiamo impossibilitare; vii) non è più possibile che alcun “centro e vertice sociale” possa governare gli altri sottosistemi; viii) ogni evento ambientale che risuona in un sottosistema in modo lieve (o pesante), può avere ripercussioni pesanti (o lievi) in un altro sottosistema cosicché si danno simultaneamente troppa o troppo poca risonanza; ix) rispetto a tutte queste comunicazioni funzionalmente codificate, si generano comunicazioni di commento, critica, giudizio che quasi sempre portano a una atmosfera di profonda delusione e pessimismo o di esaltazione e ottimismo. Luhmann, sulla base di questa iper-problematicità, aveva ipotizzato la nascita di una specifica forma comunicativa, basata sulla “paura” che avrebbe sovrascritto le altre comunicazioni, come un tempo faceva la morale. Ma come la morale porta a conflitti d’attribuzione di colpe, così la paura genera il problema della spirale della paura (fear itself) da cui è poi molto difficile uscire. In realtà sembra che questa escalation di paura sia stata evitata dalla “lontananza” del problema, dalla sua scomposizione in sotto problemi e dalla fortissima tendenza che gli attori sociali hanno di attribuire in modo divergente e non allineabile rischi e pericoli.
L’unico sapere, alla fine, evidenzia che le società possono evolvere in modo altamente inadatto al loro ambiente, almeno finché sono in grado di proseguire la loro riproduzione. Non è una buona notizia, anche perché mancano del tutto “soglie” d’allarme: almeno però si guadagna tempo, ma poi non si sa cosa farsene. Con quale forma di razionalità si possa affrontare questo pastiche, se lo si può affrontare, lo lasciamo scoprire al lettore che, tra le righe, apprenderà anche cosa significa vivere in questa società.
di Riccardo Prandini
NOTA DEL TRADUTTORE
Tradurre Luhmann, com’è noto, è difficile. Ma non impossibile. Bisogna senz’altro conoscere bene la lingua tedesca, ma soprattutto bisogna conoscere bene la teoria sociologica che Luhmann ha sviluppato con il titolo programmatico “Teoria della società”, ovvero “Teoria dei sistemi sociali”.[1] Quella che qui si presenta al lettore italiano è la seconda traduzione del libro Ökologische Kommunikation. La prima era apparsa sempre per i tipi di Franco Angeli nel 1989 (2a ediz. 1990; 3a ediz. 1992). Una nuova traduzione si è resa indispensabile essenzialmente per due motivi.
Prima di tutto, perché i diritti d’autore stavano per scadere e già da qualche tempo si era manifestato nel contesto italiano un rinnovato interesse accademico nei confronti di una pubblicazione che era stata ormai dimenticata. Una certa sensibilità “di ritorno” sul piano dell’opinione pubblica per i temi dell’ecologia – penso per esempio ai Fridays for Future o alla così detta “green economy” – hanno senza dubbio contribuito a spostare di nuovo il tema dell’ambiente nelle posizioni più alte dell’agenda dei mass media. Si potrebbe osservare che tutto questo lo si era già visto più di quarant’anni fa, che non ci sia dopo tutto granché di nuovo, e che l’opinione pubblica si lasci facilmente sedurre da atti eclatanti senza vedere i paradossi che spesso si nascondono dietro, come succede quando per raggiungere New York anziché prendere l’aereo ci si imbarca su uno yacht di ultimissima generazione, a basso impatto ambientale e ovviamente estremamente costoso, per mostrare così come si dovrebbero comportare tutti gli amanti dell’ambiente facendo, allo stesso tempo, quello che nessunopuò permettersi concretamente.[2] Ma questo è già un tema che richiede una certa preparazione sociologica, e l’idea era appunto quella di rendere di nuovo disponibile al pubblico italiano un testo che su questo ha ancora molto da dire.
Per fare in fretta, si sarebbe potuto semplicemente ristampare la versione precedente, ma un rapido esame ha reso subito evidente che la prima traduzione non poteva essere riproposta. Troppo spesso infatti il senso del testo tradotto era (non solo in confronto all’originale) un vero e proprio non senso. Qualche esempio solo per capirsi. La frase abbastanza semplice «[...] weshalb unserer Gesellschaft es trotz, und gerade wegen, ihrer zahlreichen Funktionssysteme so schwerfällt [...]» diventa in italiano «perché la nostra società lo sfidi [lo sfidi?!], e proprio a causa dei suoi molteplici sistemi funzionali, riesca così difficile [...]» anziché «perché per la nostra società sia così difficile [...] nonostante, anzi proprio a causa, dei suoi molteplici sistemi di funzione».[3] La frase «[...] wenn man den Teilnehmern Turing-Qualitäten à la “kein Bock” durchgehen lassen will» diventa in italiano «se non si vuole permettere ai partecipanti qualità di Turing», anziché «se si accetta che i partecipanti possiedano qualità previste dal test di Turing del tipo “Non ne ho voglia”». Qui, come altrove, non solo la frase viene amputata, ma il senso viene rovesciato: se si trattano gli studenti come “macchine non triviali”, bisogna ammettere come valide anche risposte del tipo: “Non mi va” (mentre da una macchina del caffè una risposta del genere sarebbe impossibile).[4]
Casi del genere si ritrovano pressoché in ogni paragrafo, quindi a dozzine in ogni capitolo, e questo in tutti i capitoli del libro. Non ci vuole molta immaginazione per capire quale effetto una tale traduzione possa aver fatto sul lettore italiano. Si potrebbe anche dire tranquillamente: un effetto contrario a quello che l’edizione originale del libro ha avuto sul pubblico tedesco. Se infatti la precedente versione di questo libro ha contribuito a diffondere in Italia l’immagine di Niklas Luhmann come di un sociologo criptico, ingarbugliato e proprio per questo piuttosto fastidioso, in Germania lo stesso libro riusciva a suscitare negli anni ’80 un ampio dibattito anche in virtù del fatto che di tutti i contributi del sociologo di Bielefeld quello presente è senza dubbio uno dei più immediatamente accessibili anche per chi non avesse molta familiarità con la teoria dei sistemi sociali.[5]
Peggio comunque di una pessima traduzione c’è solo il fatto che essa venga pubblicata. E qui bisogna ammettere che la traduttrice non ha colpe. Poiché la prima edizione italiana era introdotta da un lungo saggio di un noto (e influente) sociologo di Bologna, è plausibile ipotizzare che la traduzione fosse stata eseguita su commissione. Più che dedurre conclusioni sulle competenze della traduttrice, quindi, la traduzione consente di dedurre conclusioni su chi ha messo a disposizione del pubblico italiano una parte dell’opera di Luhmann alla fine degli anni ’80. Ciò potrebbe costituire il punto di partenza per una ricerca sulla ricezione del lavoro teorico di Luhmann in Italia che, per quanto ne so, manca ancora. Si tratterebbe, in un senso più ampio, di una ricerca sociologica sull’uso e la diffusione della teoria sociologica nella società.
L’auspicio di questa seconda traduzione – che non sarà perfetta poiché ogni traduzione è per definizione migliorabile – è che essa possa essere quanto meno più fedele al senso originario e più intelligibile per il lettore italiano. Seguire Luhmann nelle sue riflessioni, cioè osservare la società dal punto di vista di quel particolare sistema di osservazione che è la teoria dei sistemi sociali, resta un compito faticoso. Più che altro perché bisogna sforzarsi di assumere una prospettiva insolita che non asseconda il senso comune e tanto meno la morale. Mettendo a disposizione del pubblico italiano una nuova traduzione di Comunicazione ecologica, la speranza è che essa riesca a suscitare se non proprio entusiasmo, quanto meno un po’ di interesse nei confronti di quella che resta comunque una delle proposte più originali che la teoria sociologica abbia prodotto nell’ultimo secolo.
[1] Dico “programmatico” perché Luhmann ha sempre considerato il suo lavoro teorico come “provvisoriamente definitivo”. A dimostrazione di questo si veda anche solo la versione di una teoria generale della società pubblicata di recente con il titolo Systemtheorie der Gesellschaft, Berlin, 2017 che rappresenta soltanto uno dei quattro manoscritti poi maturati nell’opera monumentale Die Gesellschaft der Gesellschaft, Frankfurt a.M., 1997. Il manoscritto in questione risale ai primi anni ’70.
[3] Cito dalla 3a ediz. di Niklas Luhmann, Comunicazione ecologica. Può la società moderna adattarsi alle minacce ecologiche?, Milano, 1992, p. 94.
[4] Luhmann, Comunicazione ecologica, op. cit., p. 194.
[5] Non a caso Luhmann ha aggiunto in fondo al libro un glossario dei principali termini tecnici impiegati – un unicum nella vastissima produzione del sociologo tedesco.
Quando il piede rilascia sul pavimento, tutto sopra muta.
“Il sole ha la larghezza di un piede umano” (Eraclito)
Lo sbadiglio è uno degli atti più sani e socialmente inaccettabili concessi all’essere umano dalla natura. Generalmente agisce una prima volta al mattino, durante il risveglio, segnale naturale di quell’orologio cosmico inscritto, sottomesso, direbbe Epitteto (Diattribe IV, 100-106), al periodo cosmico del nostro quotidiano vivere.
Ha un suo punto di partenza: quando l’osso mascellare, o la mandibola, o entrambe, muovendosi sollecita(no) la linea delle labbra, misteriosa demarcazione di un sopra e un sotto, ad aprirsi. Può succedere di più nella parte centrale e, allora, le labbra s’incurvano, quasi a contenere una minuscola, rotonda vocale al loro interno. Oppure può avvenire di più sui lati: in questo caso, la fessura delle labbra si allunga in una striatura che ricorda certe fotografie di Luigi Ghirri che ritrae la linea dell’orizzonte. È il preludio, se va in questa direzione, di una delle nostre espressioni più belle: sorridere.
Ma non accade. Lo sbadiglio è più arcaico e primordiale. Atto respiratorio abnorme, lo definisce il dizionario, spesso incoercibile, caratterizzato dall’apertura forzata della bocca accompagnata spesso dalla costrizione delle palpebre.
Sa anche essere pigro. In quel caso, la bocca si divarica più lentamente, diventando il segno da sempre più temuto dagli insegnanti e da chiunque stia tenendo un discorso o si stia esibendo in scena: la noia. Questione di tempo, immagine, intenzione e sensazioni che ci portiamo addosso.
Può, lo sbadiglio, essere elemento costitutivo di una pratica (o esercizio?). Ma certamente! È uno degli atti di apertura più straordinariamente sani concessi a chiunque lavori attraverso il corpo e la voce. Come essere nell’acqua: la pelle si distende, si allunga, si spalma, la colonna incomincia ad allungarsi, le braccia si arricciano e poi si aprono a stella, e così via fino a giù. Fin dentro i piedi. Quando subiamo uno sbadiglio e quando siamo noi ad agirlo? Dove ci porta? Con quali sensazioni? In quali parti del corpo ne percepiamo il riverbero? C’è un momento, lo stavo descrivendo all’inizio, in cui la bocca, nel momento stesso di aprirsi, contiene ancora infinite possibilità: può spalancarsi di stupore, dilatarsi dentro un grido, modificarsi in una smorfia di dolore, squarciarsi in una gran risata.
Eccoci già dunque entrati dentro un tema molto affascinante, per chi si interroga sull’origine delle pratiche: il punto di soglia. Quello spazio dentro cui l’intenzione esita, gioca con sé stessa osservandosi. Un tempo sospeso, funambolico, lo definirei.
Proprio questa domanda, che richiede innanzitutto un ascolto del proprio agire, si presta a dialogare con la stimolante opera di Armando Canzonieri, L’atleta indisciplinato. Fortuna ed Esercizio, pubblicata da Orthotes Editrice nel 2020.
Canzonieri fa qualcosa di molto prezioso: indaga all’interno dello stoicismo che cosa sia una pratica e, per fare questo, fa i conti con gli esercizi necessari per attuarla. Con una parola: askesis. Qui ci viene in aiuto anche Michel Foucault: «Nella tradizione filosofica dominata dallo stoicismo, askesis significa non già rinuncia, ma progressiva attenzione a sé, e padronanza su se stessi”. Ed il fatto che l’askesis preveda degli esercizi, i cui due poli opposti costitutivi venivano designati come melete e ghymnasia. Si rimane letteralmente estasiati dal grado di consapevolezza con cui venivano utilizzati questi due termini. «Melete significa, stando alla traduzione latina, meditato, meditazione […] si trattava di anticipare la situazione reale immaginando un dialogo fittizio […] immaginare l’articolazione degli eventi possibili per saggiare come si reagirebbe: questa è la meditazione». Al polo opposto c’è la ghymnasia, l’allenamento. «Mentre la meditato è un’esperienza immaginaria che ha lo scopo di esercitare il pensiero, i ghymnasia consistono in un allenamento in una situazione reale, anche se prodotta artificialmente». Per esempio: «Ogni mattina si fa una passeggiata e si verificano le proprie reazioni» (M. Foucault, Tecnologie del sé. Un seminario con Michel Foucault, Bollati Boringhieri, Torino, 1992, pp. 32-35, citato nel libro di Canzonieri).
Ora, per tornare al punto di soglia, nulla, meglio dell’atto del camminare, lo rappresenta. Perché, quando camminiamo, noi stiamo continuamente cadendo. Questa tragicità in atto, di cui sono immagine simbolo le sculture di Alberto Giacometti, si salva dentro un tempo sospeso che ci trasforma magicamente in funamboli. O in fanciulli. È dentro questo spazio minuscolo e dilatato che risiede l’essenza della pratica.
Le mie pratiche, quest’anno, hanno preso un nome: pratiche di accordatura. Sarà forse facile riconoscervi inguaribili tracce di platonismo pitagorico, un richiamo verso le origini della filosofia stessa, prima che il suono, la parola e il gesto si addormentassero nella concettualizzazione del logos. Insieme alla consapevolezza che vi sia all’interno delle pratiche qualcosa di profondamente artigianale, come l’accordatura di uno strumento.
C’è bisogno di una trasmissione. Di un ascolto. Di una condivisione. Lasciate alla pelle il tempo per comprendere, raccomanda Philippe Petit nel suo Trattato del Funambolo, a chi impara a camminare sul filo a piedi nudi. Non sembra forse di sentire parlare un calzolaio?
Nessuno meglio di Walter Benjamin ha lasciato una traccia per noi, contemporanei smarriti, orfani di stelle che ancora orientavano nello spazio i nostri antenati senza alcun bisogno di avere il navigatore. La troviamo nella figura del narratore. È in questa intuizione folgorante che viene messo a fuoco il rischio di una perdita irrimediabile dell’esperienza. In fondo, ci dice, i primi narratori ricevevano il racconto di esperienze che passavano di bocca in bocca: contadini e marinai furono i primi maestri del racconto e la sua scuola superiore è stata l’artigianato. Perché la vera narrazione implicava una sorta di utilità pratica e di vita, per imparare da altri storie di viaggi, i fini dettagli di una professione, proverbi e norme di vita. Inteso in questa maniera, il narratore diventava persona di consiglio per chi lo ascoltava. Da quando incominciano a scomparire le figure degli artigiani, a quel punto anche la narrazione si modifica (le subentrerà il romanzo). Diminuisce la comunicabilità dell’esperienza cucita nella stoffa della vita vissuta che diviene saggezza, come la chiama Benjamin.
Arrivati a questo punto, dovrò arrischiare l’aggiunta di una terza polarità, tra il melete e la ghymnasia, che è parte altrettanto fondamentale delle pratiche.
Il ruolo che giocano le modalità di apprendimento del bambino nei suoi primi anni di età. Quell’esperire il mondo in maniera tattile-cinestetica e uditiva che proprio il Novecento traduce a suo modo nell’immagine del funambolo. Portare quell’esperire dentro il corpo adulto è, forse, la chiave di accesso alle pratiche.
Appena nasciamo, è la bocca, ancora lei, a sperimentare il mondo: succhiando, per nutrirsi, articolandosi in primi balbettii, sonorità, lallazioni, che sono pure pratiche di scoperta. Condizione meravigliosa che ogni atleta indisciplinato vorrebbe continuamente cercare. Praticare la pratica nella sua più pura ed esperienziale essenza.
Esistono un’infinità di pratiche (o esercizi) per le labbra, la lingua, la bocca.
Nessuno meglio di Moshe Feldenkrais, il maestro che non ho avuto l’onore di conoscere di persona, ma di cui ho avuto il privilegio di riceverne l’insegnamento attraverso la trasmissione del suo lavoro.
Jean Huber, Voltaire à son lever à Ferney, dictant à son secrétaire Collini (1772)
Ai tempi del liceo, ero affascinato, tramite i racconti di mia nonna che lo incontrava ogni tanto dalle parti di Porta Palazzo, dalla figura del “filosofo ignoto”. Così si firmava infatti sul giornale La Stampa, Guido Ceronetti. Furono le sue traduzioni, trovate in casa, di alcuni testi dell’Antico Testamento: Giobbe, i Salmi, a folgorarmi. Vi compariva una sorta di scavo ritmico, articolare, osseo del palato, delle labbra, del respiro dentro le consonanti dell’alfabeto ebraico. Era quasi una questione di gravità di corpi, d’immaginazione necessaria per fare scattare foneticamente le vocali nascoste. Tutto ciò, lamentava Ceronetti, si perde nella traduzione, come se quella parte di corpo e di bocca chiamate in causa perdessero la loro piega buia e, con questa, perdessero il loro duende.
Mi sembrava un gioco. Una continua preparazione della bocca a quella sorta di misteriosi gargarismi che potevano avvenire al suo interno, fin giù nel petto, fin dentro le dita dei piedi, per arrivare a cogliere il suono di una parola. Paradossalmente, quella fu la mia prima forma di danza. Quella era già danza. Movimento.
È arrivato il momento di presentare il personaggio mancante, fino a ora solo accennato, Feldenkrais, in questa storia che parte dalle Diatribe di Epitteto. Siamo negli anni Settanta e una donna svizzera di nome Nora, di oltre sessant’anni, una mattina si sveglia sentendosi un po’ strana. Fatica ad alzarsi dal letto e si accorge che fatica a parlare. Così come a leggere e scrivere. Il medico che la visita le diagnostica una trombosi o emorragia con relativo danno all’emisfero cerebrale sinistro. Iniziano anni difficili in cui non compare nessun miglioramento. A quel punto i famigliari della donna decidono di tentare affidandosi a una figura di cui in tanti parlano. Si chiama Moshe Feldenkrais. Ha così inizio quello che diventerà poi un libro, Il caso di Nora, che è il racconto dell’incontro e della guarigione di Nora, lavorando con Feldenkrais. Si tratta di un viaggio a ritroso, commovente e straordinario, fino alle origini di come ognuno di noi, nei suoi primi mesi e anni d’infanzia ha imparato a muoversi e a parlare. Soltanto ripartendo da lì, anche un cervello danneggiato come quello di Nora, potrà riacquistare le proprie funzioni. Questa storia di Nora è arrivata molto spesso dove poteva arrivare più facilmente, ovvero tra “tecnici” del corpo e rappresentanti di un certo modo di intendere la ghymnasia, ma non dove doveva anche arrivare: tra le mani di filosofi, antropologi, poeti, fino a mettersi in dialogo con il grande atlante warburghiano di Mnemosyne. Il perché e il per come non sia ancora successo è una domanda profondamente filosofica.
Il 13 ottobre 1910, Franz Kafka e Max Brod visitarono insieme il Museo Carnavalet di Parigi. Kafka rimase affascinato da un quadro di Jean Hubert: Le lever de Voltaire. Vi si vede Voltaire in un atteggiamento alquanto buffo: appena sveglio, in piedi in bilico su una sola gamba mentre cerca di infilarsi i pantaloni sotto la camicia da notte; il berretto da notte ancora in testa, un naso corvino che spunta e già sta dettando qualcosa al suo servitore. Che funambolica efficienza! Come poteva non esserne affascinato Kafka, lui che per tutta la vita coltivò un esercizio di efficienza cui era costretto: il lavoro di ufficio durante il giorno, e la scrittura, sua vera vocazione, tra le ore discontinue della notte? Sappiamo quanto abbia cercato per l’intera vita una ghymnasia che lo facesse sentire forte, sano, energico. La trovò, forse, negli esercizi di ginnastica e respirazione secondo il metodo di Jørgen Peter Müller. Un biondone danese che si faceva chiamare Apoxyòmenos. Le fotografie in cui si faceva ritrarre ne esaltavano una bellezza da dio greco immortalata in costume da bagno nelle posizioni dei suoi esercizi. C’è qualcosa di così comico e toccante nell’immaginare Kafka eseguire quegli esercizi verso sera, forse prima di iniziare una pagina della Colonia penale, del Digiunatore o di Giuseppina la Cantante. Oppure tra una pagina interrotta del Castello e l’Avvoltoio. E se tutti i suoi racconti, in fondo, non fossero che la metafora di una pratica, una pratica così lunga, ininterrotta, sfinente, che è la vita?
Quando osserviamo il quadro di Jean Hubert, Le lever de Voltaire, sale una divertita, sana allegria. Come se anche lavarsi i denti, mettersi i calzini, invece che un’abitudine, potessero diventare una pratica. Dove comincia, dunque, una pratica? E il momento prima che cominci che cos’è, allora? Una preparazione alla pratica? O è già parte della pratica?
Feldenkrais diceva che non si può insegnare nulla, se non creare le condizioni per imparare. Ecco, credo che la pratica richieda una sorta di fiducia verso qualcosa di sconosciuto. Qualcosa che potremmo chiamare “fiducia organica”. Da esploratori in avanscoperta, direbbe Epitteto.
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Pratica del 12 aprile 2020
Quando una parte del corpo non si conosce, le altre parti devono compensare; o devono coordinarsi diversamente. Dallo schermo zoom una ragazza polacca ci riflette e dice: è proprio vero. Ora che ci penso, anche nella mia storia famigliare accade così.
di Emanuele Enria
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Bibliografia
Armando Canzonieri, L’atleta indisciplinato. Fortuna ed esercizio, Orthotes Editrice, 2020.
Moshe Feldenkrais, Il Caso di Nora, Casa Editrice Astrolabio, 1996.
Ogni appassionato di cinema lo sa: quello che cerca, guardando un film, non è soltanto una fuga dal proprio quotidiano – magari attraverso l’intermediazione delle vite altrui, immaginarie o meno che siano –, ma una certa, difficilmente definibile estraneazione dal “sé”, un modo per disaderire sic et simpliciter da quel centro gravitazionale per il resto onnipresente che è il proprio stesso “io”. Ciò che insomma seduce, sino al fanatismo, nella settima arte, non è tanto o solamente la capacità di raccontare storie, ma di immettere piuttosto lo spettatore in uno svincolamento possibile dalla sua prospettiva personale, di, in altre parole, autorizzarlo per un certo tempo ad abbandonare le rive tumultuose del proprio monologo interiore in favore di una partecipazione tendenzialmente assoluta al divenire delle cose (‘cose’ di cui faranno parte, a questo punto, persino le persone rappresentate). È per questo motivo che Gilles Deleuze, proseguendo un’intuizione che era già stata prima, perlomeno, di André Bazin («Il cinema come mummia del tempo») e di Pier Paolo Pasolini («Il cinema come lingua scritta della realtà»), ha riconosciuto nel cinema la facoltà di pensare, a tutti gli effetti, e anzi di permetterci di riconoscere come lo stesso universo possa essere a sua volta pensato alla stregua di un «cinema in sé». In quei due capolavori che sono L’immagine-movimento (1983) e L’immagine-tempo (1985), il dispositivo cinematografico assurge infatti a metodo di indagine cosmologico e persino cosmogenetico, rivelando a tutti noi che il mondo è tutto fuorché un semplice tutto, dato e costituito come un «Grande Oggetto» (Roger Chambon), ma si configura piuttosto come un complesso cangiante di processi infinitamente prolungati gli uni negli altri, come uno specchio mutevole, insomma, del pensiero in atto.
È questa allora la tesi che campeggia al centro di Cosmogenesi dell’esperienza. Il campo trascendentale impersonale da Bergson a Deleuze (Mimesis 2021, pp. 314), primo e importante libro di Giulio Piatti. Pur dedicando soltanto una parte della sua indagine al cinema (pp. 217-37), questo studio permette infatti di reperire nel cuore di una certa tradizione filosofica novecentesca una tendenza sempre più precisa e acuminata a vedere nel reale la sua stessa messa in immagine e anzi a cercare in un reale liberato di ogni ipoteca antropocentrica l’origine tanto della nostra prerogativa a rappresentarci il mondo quanto della predisposizione del mondo a divenire rappresentazione, secondo un modello di intelligibilità che eleva la genesi a forma vera dell’ontologia.
Un campo trascendentale impersonale non è quindi soltanto un concetto, ma una serie generativa di (altri) concetti. Si tratta di qualcosa che Henri Bergson interpreta, sia pure non servendosi dell’espressione, come insieme di immagini in sé e per sé (immagini di niente e per nessuno), assimilandolo a una materia in cui la percezione, ricondotta al suo stadio più puro, spogliata di ogni ricordo interpretativo, sarebbe come «già scattata» nelle cose stesse (pp. 31-72). È da qui che l’esperienza propriamente soggettiva sorgerebbe, nel momento in cui un corpo vivente comincia a deflettere un movimento materiale che altrimenti si propaga senza sosta in tutte le direzioni e su tutte le superfici. Ma si tratta anche di ciò che Raymond Ruyer, contestando a sua volta Bergson, è costretto comunque a rintracciare nella stoffa della sensazione, da pensarsi come modello di ogni coscienza e dunque di ogni essere veramente unitario (dall’elettrone all’universo). Da pensarsi come, in altre parole, una superficie che, senza poter prendere le distanze lungo una qualche perpendicolare, è comunque in presa diretta su di sé, quasi che il soggetto della sensazione fosse diffuso senza velocità limite in ogni punto del suo sentire e del suo essere al contempo la sensazione che ha (pp. 160-164). Ancora, è quanto Maurice Merleau-Ponty si troverà a ipotizzare per correggere in corso d’opera la rigidezza bipolare dell’intenzionalità husserliana e riuscire a pensare un percepire che è già sempre incarnato e co-implicato con il mondo, secondo un chiastica convergente-divergenza o divergente-convergenza che spariglia una volta per tutte la correlazione lineare tra soggetto e oggetto (pp. 149-153). E, infine, sarà il piano d’immanenza che Deleuze stesso e Félix Guattari evocheranno nella loro ultima opera, Che cos’è la filosofia? (1991), come operazione archetipale che ogni filosofo deve compiere per resistere a quel caos che dissipa altrimenti ogni pensiero e che pure bisogna poter frequentare per trarne nuova linfa, sia essa filosofica, artistica o scientifica (p. 213 e ss). Lo stesso piano che il solo Deleuze aveva già identificato appunto come la prestazione più tipica del cinema (soprattutto in alcune delle sue espressioni più tipicamente anti-narrative), quale sua capacità di restituirci a una visione che, per quanto strano possa sembrare, ci fonda senza mai essere stata nostra e senza poterlo mai essere del tutto.
Il campo trascendentale impersonale altro non è, insomma, che il cinema come reale o il reale come cinema, in quanto fattore di radicamento immediato della gnoseologia nell’ontologia, del sapere nell’ente, della ricerca nel mondo. La peculiarità di un trascendentale desoggettivizzato consiste infatti nel mettere in comunicazione, rivelandone l’irriducibile simmetria, il fulcro centripeto della conoscenza con quello centrifugo, vale a dire, nel mostrare come il presupposto di ogni apprensione conoscitiva sia anche il terminus ad quem ultimo della stessa.
Persino nei nostri traffici meno teorici, non possiamo fare a meno infatti di basarci su una cieca «credenza» nel reale che nessuno meglio di Deleuze ha saputo tematizzare, una credenza che la dialettica altrimenti interminabile di «comprensione» e «incontro», declinata in termini fenomenologici da Jean Hyppolite nel corso di un convegno Husserl delle 1957 a Royaumont (p. 155 e ss.), impone di ricollocare appunto sullo sfondo di un campo trascendentale a-soggettivo. È questa credenza che il nome di “trascendentale” significa, in ultima istanza, e che un certo gesto filosofico converte in questione esplicita, conferendogli per l’appunto lo statuto di un’implicatura a doppio senso tra pensiero ed essere, tra conoscenza e mondo, tra logica ed esistenza. Cosa altro sta ad indicare, infatti, la questione posta da Kant circa la legittimità dei giudizi sintetici a priori se non lo sforzo di un pensiero che, legiferando in maniera necessaria e universale su una materia interna al suo medesimo operare, costituisce nondimeno un incremento effettivo di conoscenza? Che cosa sta a segnalare, appunto, quest’intreccio se non la possibilità per il pensiero di toccare l’essere almeno quanto si lascia toccare da esso, restando in se stesso? Sia pure in maniera ancora insufficiente, perché troppo ancorata allo stampo dell’empiria (sostanzialmente, della coscienza), il pensatore di Könisberg ha proiettato comunque la conoscenza al di sopra di sé, nell’incrocio in cui il suo guardare si costella insieme al suo fare e in cui non si dà più alcun altro reale oltre un differire da sé intrinsecamente «autopoietico» (così lo definisce efficacemente Piatti).
Henri Bergson
A parte allora la sibillina previsione foucaultiana circa l’avvenire del suo pensiero (che avrebbe dovuto informare di sé il XXI secolo), c’è forse un motivo poco avvertito all’origine dell’interesse con il quale la filosofia del presente continua, con un grado di ossessività altrimenti incomprensibile, a rivolgersi all’opera di Deleuze. La sua riflessione non si limita infatti a proporre un’ontologia tra le altre, fondata magari sul ruolo auto-costitutivo della differenza e/o su quello sovversivo dei divenire (con Guattari), ma conferisce alla stessa esigenza filosofica di totalizzazione dell’esperienza la sua ultima giustificazione. Deleuze, in altre parole, è il filosofo che più di ogni altro ha fatto della necessità in quanto tale di filosofare l’architrave della propria concezione del reale, rendendo così particolarmente arduo, ai suoi successori, proseguire su questa strada senza rendergli un ripetuto omaggio. C’è insomma una sorta di esplosione proiettiva, nella sua opera, che, per quanto per lo più non vista, ne fa uno dei luoghi in cui la filosofia, pur conservandosi del tutto realista, si ritrova comunque a contemplare la propria immagine, a vedersi insomma nel mondo come la superficie cangiante nella quale prende forma ogni realtà. La sua insistenza sulla scaturigine esternalista del desiderio di filosofia, come riposta a una sollecitazione che costringe letteralmente a pensare, è a tale proposito sintomatica: ne va della stessa situazione in cui si ritrova ciascun filosofo, quando sperimenta l’azione di un appello incessante di cui non coglie mai del tutto il senso, a meno che non ne faccia la cifra decisiva del reale stesso. Si capisce dunque il tenore quasi ossimorico di molte delle nozioni capitali della sua concezione. “Empirismo trascendentale”, “piano di immanenza”, “sintesi disgiuntiva”, solo per prendere tre esempi tra gli altri, realizzano una sorta di fusione a freddo di quanto per natura sarebbe dovuto rimanere separato: l’a posteriori e l’a priori, il liscio e lo striato, l’unario e il molteplice, ritrovando così nella “cosa stessa” la logica che anima da sempre la sua ricerca in-finita.
Per quanto si tratti infatti di una locuzione di Jean-Paul Sartre, escogitata in La trascendenza dell’ego (1936) per distanziarsi dalla piegatura egologica presa dalla fenomenologia husserliana, il “campo trascendentale impersonale” assume subito la portata di una meta-questione, atta a dare forma al gesto filosofico in quanto non si distingue più dal suo correlato paradossale. Nella prefazione, Rocco Ronchi la definisce appunto, con un’espressione di Arthur O. Lovejoy, un’«idea-unità» (p. 9), nozione distinta tanto dal singolo concetto, quanto dal principio generale, proprio dal fatto di avere una «carriera» (p. 10), un cursus specifico attraverso i pensieri di coloro che in modi sempre eterogenei pure vi si richiamano. Questo correlato non ha perciò più nulla dell’oggetto contrapposto a un osservatore, né tantomeno del soggetto che si ripiega su di sé per guardarsi guardare il mondo, come avviene per lo più in ambito fenomenologico, ma si presenta piuttosto sotto la forma di un mondo che si vede e che si costituisce mentre si vede, senza avere però mai alcun centro privilegiato da cui accedere a questa ‘visione’ che non sia il proprio stesso esistere. Leggendolo, assistiamo insomma a una lunga e sempre più decisa emersione di questa istanza teorica attraverso un corteo di filosofi che, nel corso del Novecento, si sono chiesti che cosa rendesse effettivamente possibile l’incontro conoscitivo, non più assimilabile semplicemente, dopo la débâcle kantiana della metafisica, alla forma paradigmatica di una relazione tra poli numericamente distinti e ontologicamente difformi (il soggetto e l’oggetto, la rappresentazione e la cosa, l’archetipo e il simulacro). Ne va insomma della stessa questione, come l’Autore si premura di sottolineare (pp. 288-9), sollevata da Menone, nel dialogo eponimo di Platone e che un Socrate stupefatto riassume con queste parole: «non è possibile per l’uomo ricercare né ciò che sa [perché lo sa già] né ciò che non sa [perché non saprebbe come riconoscerlo]!» (Men., 81a). In questa celebre aporia si profila un dubbio che, se spinto alle sue conseguenze più radicali, fa tremare non soltanto i polsi dei filosofi, in quanto disconnette per sempre ricerca e sapere, ma anche le fondamenta del nostro commercio quotidiano con il mondo.
L’ontologizzazione del Filosofico (con la maiuscola a capolettera) da parte della filosofia medesima è allora il vero oggetto della trattazione di Piatti. Il percorso proposto in queste pagine, nella sua ricchezza di riferimenti, è insomma una meditazione reiterata sull’inclinazione del pensiero a fare corpo con il suo altro – l’essere – e a ritrovarsi quindi nel proprio altro in forza della sua essenziale estraneità. Si badi, infatti, sotto il nome iper-tecnico di «campo trascendentale impersonale» non si intende qualcosa di adeguabile o di avvicinabile attraverso un movimento che lo supponga esistente al di là di sé. L’esperienza si rivela nella sua fattura cosmogenetica, e quindi non più come l’attributo di un qualche genere di soggettività, soltanto nel momento in cui si mostra nella sua natura pressoché artificiale, nel suo essere il prodotto di una genesi pre-individuale che la pone insieme, simultaneamente, a tutti i suoi altri prodotti (in senso stretto individuali e persino personali). L’effettuarsi dell’esperienza rimane lo stesso, che lo si trovi dal lato del soggetto o da quello dell’oggetto.
L’enunciato chiave della prospettiva di Piatti è perciò il seguente: «L’esibizione delle strutture cosmogenetiche del reale coincide insomma con la costruzione stessa del mondo che si abita» (p. 286). Questo enunciato ha infatti un’implicazione cruciale: esso stabilisce una corrispondenza tra il metodo filosofico e quello scientifico che ci permette di aggirare molte delle difficoltà che affliggono ancora il dibattito speculativo contemporaneo, caratterizzato spesso da una certa, residuale diffidenza nei confronti della scienza o da una simmetrica resa totale nei suoi confronti. Tale enunciato, in altre parole, si pone come il titolo di un programma filosofico che trova la propria scientificità, si parva licet, nel suo prestarsi a una in-finita serie di riformulazioni, ogni volta più approfondite. Il «costruzionismo» di questa concezione fa tutt’uno allora con il carattere a sua volta costruttivo del dispositivo discorsivo scientifico, il quale riconosce nel reale soltanto ciò che può ri-produrre grazie agli apparati formali e materiali delle tecnologie matematiche e sperimentali di cui si dota. Esso si identifica insomma con il non plus ultra del «naturalismo» (p. 287), ovvero, con la sostanza mutevole di una natura non-umana accessibile solo trasformandola. Ecco dunque che la ricognizione condotta da Piatti ci porta su una soglia critica con la quale la filosofia stessa ha da confrontarsi oggi, se non vuole rinunciare al suo compito propulsivo non tanto di scientia scientiarum (ruolo intenibile per tanti motivi) ma, si potrebbe dire, di tecnica delle tecniche, nella loro insindacabile e indispensabile pluralità.
Al di là della maggiore o minore confidenza che si può avere con il dibattito che il libro ricostruisce accuratamente – transitando anche attraverso l’ampia diatriba sulle aporie dell’intenzionalità fenomenologica dipanatasi tra gli anni ‘20 e gli anni ‘50 dello scorso secolo e le traversie del bergsonismo riletto da Vladimir Jankélévicth, Georges Canguilhem, Gilbert Simondon, Bento Prado Jr. e Victor Goldschmidt –, la questione in ballo è quindi immediatamente tangibile. Si sta parlando di vita – cos’altro dovrebbe essere infatti una tecnica delle tecniche? –, una vita da intendersi tanto in termini esistenziali che biologici, a questa altezza inscindibili. Si sta concependo una vita, in breve, che si concreta in una operazione sempre fallita eppure mai veramente evacuata come impossibile, una vita risolta in un tentativo di essere qualcosa di definito, e al limite di definitivo, coincidente però a sua volta con la propria costante messa in questione e quindi con la sua costante trasmutazione. Il vitalismo ostinatamente rivendicato da Deleuze (p. 240 e ss.) è in questo senso oltremodo rivelativo.
Gilles Deleuze
La messa a fuoco del virtuale, nella vicenda allestita da Piatti, assume perciò un valore emblematico, capace di portare alla luce l’agentività stessa del Filosofico e della vita in generale. Il «ricordo puro» di cui parla Bergson in Materia e memoria (1896) e al quale non attribuisce nessuna efficacia determinata, se non quella di un’ipotesi teorica simmetrica a quella altrettanto «di diritto» della percezione pura, si rivela, nel prosieguo dei riarrangiamenti che subisce arrivando nelle mani di Deleuze, dotato di una sua specifica operosità, riconducibile al tentativo di fondare un’esperienza propriamente filosofica, distinta da tutte le altre esperienze di cui la nostra specie è capace. Un’esperienza che ha come sua cifra paradigmatica una certa auto-progressione, un lento procedere non verso qualcosa d’altro, ma verso se stessa, nel suo restare comunque parzialmente opaca al proprio medesimo sapere (come accade d’altronde a tutte le altre nostre attività, almeno sin quando non se ne fa carico, appunto, la filosofia). Un’esperienza che ci rivela inerenti, insomma, al cosmo in quanto è una genesi e non uno stato di cose, più o meno articolato che sia. Ecco perché Piatti, con sottile quanto significativa decisione, insiste col chiamare l’insieme delle immagini bergsoniano un «sistema» (p. 32) delle immagini. Il “sistema” (dal greco synistemi, “raccolgo”) è l’elemento elettivo dell’esperienza filosofante, in quanto resta al di qua (o al di là) di se stessa, nel mentre che ne ricava sempre ulteriori prospezioni. Il virtuale si mostra insomma quale statuto della filosofia, in quanto non riesce mai del tutto nel compito al quale non può comunque rinunciare: istruire un sistema in cui tutte le altre esperienze possano tenere e fare uno. Un’esperienza delle esperienze, insomma, che le raccordi lasciandole essere per quello che sono (e per quello che stanno diventando, soprattutto). In tal senso, le analisi di Piatti sono rilevanti anche nella misura in cui riconoscono una sorta di andamento a soffietto che contraddistingue tanto la metafisica di Bergson, quanto quella dei suoi variegati prosecutori, e che scandisce la stessa forma dinamica dell’universo come cinema in sé. Questo andirivieni conservativo e cumulativo tra presupposto e risultato, tra premessa e conclusione, dà la misura dell’estendersi delle considerazioni bergsoniane da un nucleo soggettivo-interiore (nel Saggio sui dati immediati della coscienza, del 1889) a uno sempre più apertamente cosmologico-evolutivo [in L’evoluzione creatrice e Durata e simultaneità, innanzitutto, (1907, 1922)], con un procedere che mima di fatto la vitalità dello stesso campo trascendentale impersonale. L’archetipo diventa qui simulacro del suo simulacro almeno quanto l’inverso e l’immagine si sutura infine senza scarti al suo referente. È così che viene in chiaro insomma la forma logica della progressività filosofica, manifesta soltanto allo sguardo di chi, con ritrovata consapevolezza del proprio mestiere, non si limita a guardarsi guardare, ma si si impegna a «vedersi vedersi» (Paul Valéry). Di colui, in breve, che tenta di cogliere non solamente il mondo nello specchio della sua apprensione soggettiva, ma come immagine cangiante della medesima dislocazione di sé che è necessario compiere per reperirsi nel mondo, quale essere già da sempre immerso in esso. Per dire la cosa altrimenti, che si scopre quale effetto di un’auto-differenziazione che coincide immediatamente con il divenire delle cose, quali che siano, e che le mette in comunicazione, senza alcun grado gerarchizzato o stratificato di partecipazione, con un principio sempre anche immanente a ciascuna di esse. Donde le splendide osservazioni riservate al processo di cristallizzazione (p. 250 e ss.), come modello di qualsivoglia genesi.
Allo stesso modo in cui è allora possibile leggere nella fisica relativistica un colpo di sonda nelle condizioni di osservabilità empirica del reale (fissate una volta per tutte dal valore-limite della velocità della luce) e nella meccanica quantistica un’insorgenza di quelle relative alla spiegazione scientifica in generale (come ha notato di recente Sergio Benvenuto su Philosophy Kitchen, identificandole nei paradossi della localizzazione che caratterizzano quella disciplina), così è possibile rintracciare nella direttrice di pensiero ripercorsa da Piatti un chiarimento sempre più dirimente di che cosa significa pensare e di come il pensiero non pensi mai altro che se stesso, pensando anche sempre qualcosa di altro da sé. È qui che il filosofo, guardandosi allo specchio, raggiunge il mondo stesso, esce fuori di sé e si confonde con la polvere di stelle di cui è fatto (il) tutto. Per provare quindi a rispondere a Menone, secondo questo impianto teorico, si dovrebbe dire che si cerca sempre quello che non si sa, ma solo perché si crede, si crede solamente, di saperlo già.
Ora, l’uso della scienza da parte della filosofia avviene quasi sempre sul crinale malfermo delle difficoltà incontrate dalla prima. Non è in forza delle convergenze tematiche oggettive tra funzioni scientifiche e concetti filosofici che il filosofo è chiamato a sua volta a dare una sistematizzazione di risultati per altro tra loro non necessariamente (e anzi, necessariamente non) comunicanti, ma grazie appunto alle scuciture, alle esitazioni e alle impasse che caratterizzano e forse caratterizzeranno per sempre il discorso scientifico. Il filosofo ha insomma l’ambizione di ‘curare’, per dir così, l’esperienza efficace della scienza dalla sua pur inevitabile dispersione, di farne il punto di partenza di una qualche sintesi integrale, in cui ci si possa riconoscere anche il famigerato “senso comune”.
Non è vero però l’inverso. Lo scienziato ha sì bisogno di filosofia, ma, come è stato notato per esempio da Canguilhem, non alla stregua di un ausilio finalizzato alla contestualizzazione metafisica delle proprie asserzioni. È piuttosto nella funzione di un’ideologia da scardinare, di un sistema di credenze da far saltare, che la filosofia interviene all’interno del lavorio continuativo dei saperi positivi; è come errore da emendare, insomma, che il palinsesto teorico volto alla “totalizzazione dell’esperienza” può funzionare fruttuosamente nel procedimento della ricerca scientifica, pronta a istruirsi nello spazio vuoto (nello spazio svuotato) lasciato dal primo. Anzi, quando ci si serve di ritrovati filosofici in ambito scientifico si corre spesso il rischio di dogmatizzare inutilmente quanto invece fa la forza dell’impresa scientifica moderna – la sua fallibilità esibita senza vergogna e il suo tenore auto-critico organizzato tecnologicamente e collettivamente. La scienza pretende insomma di curare a sua volta l’intelletto umano dalla sua peraltro irresistibile tendenza alla totalizzazione. A meno che, con una piroetta meta-filosofica degna di un acrobata del pensiero, il filosofo non si chieda che cosa rende concretamente possibile la sua stessa pratica e faccia persino di questa domanda, portando la propria vocazione riflessiva al suo punto critico, l’oggetto privilegiato e inesauribile della propria interrogazione. A meno che, insomma, il filosofo non arrivi a lambire direttamente il cuore della pratica che lo riguarda, cuore isomorfo, nel suo chiedere conto della possibilità medesima del filosofare, alle virtù della scienza in senso stretto, perché esposto, infine, a un continuo e felice fallimento. Per quanto allora non si fondi su un confronto circostanziato con i risultati scientifici della contemporaneità, il lavoro di Piatti fornisce una perlustrazione preziosa tanto da un punto di vista metafisico quanto, a ben vedere, da uno epistemologico e, quindi, meta-filosofico. È infatti in questo nodo – in questo sovrapporsi vertiginoso di immagine e reale o di interrogazione e genesi – che scienza e filosofia si incontrano a loro volta, alla luce, reciprocamente, delle loro insufficienze e dunque del loro (de-)completarsi, per così dire, a vicenda. Tanto il filosofo che lo scienziato scoprono qui di aver a che fare con uno sfondo fungente di processi che li travalica, insediandoli però nella loro postura interrogativa, istituendoli anzi come interrogazione continuata che il mondo opera su se medesimo. L’universo come cinema in sé appare insomma in forma di una domanda che le cose pongono a se stesse, incessantamente (donde la deleuziana attribuzione di statuto del reale al «problematico» in quanto tale). La nostra credenza inossidabile nel reale può perciò coincidere infine con la sua incessante ri-costruzione e la cura scientifica dalla totalità diventare la stessa cosa della cura filosofica dalla disseminazione.
La narrativa cosiddetta cyberpunk nasce all’inizio degli anni Ottanta del secolo scorso. Si presenta da subito come una cesura abbastanza netta tra due epoche diverse della letteratura fantascientifica; una frattura quasi irrimediabile tra un “prima” e un “dopo” destinata non soltanto a lasciare ampia traccia di sé ma anche a contrassegnare una soglia osmotica tra una concezione della realtà – o meglio, della scrittura di quella realtà – e la sua rappresentazione, dischiusa su scenari molto suggestivi. Il cyberpunk – definito spesso in modi diversi nel corso di quegli anni: Radical Hard SF, Outlaw Technologists, Neuromantics – è premonizione di impensabili orizzonti dell’essere, di evoluzioni della società e della tecnologia che nemmeno il più ardito degli scrittori avrebbe mai osato immaginare.
Si possono individuare tre differenti date costitutive del Movimento cyberpunk: nel 1982 viene organizzata una storica tavola rotonda alla convention sulla fantascienza “ArmadilloCon” che si tiene a Austin nel Texas [1]; nel 1984 William Gibson [2] pubblica Neuromante (1986) e due anni più tardi esce l’antologia Mirroshades (1986), a cura di Bruce Sterling [3], un altro importante capofila dei ragazzi dagli “occhiali a specchio”.
Gli occhiali da sole a specchio sono stati un totem del movimento fin dai primi giorni del 1982. Le ragioni di ciò non sono difficili da capire. Attraverso il nascondere gli occhi, le lenti a specchio ostacolano le forze della normalità a comprendere che uno è impazzito e possibilmente pericoloso. Essi sono il simbolo del visionario che fissa lo sguardo al sole, il biker, il rocker, il poliziotto, e fuorilegge simili. Le lenti a specchio – preferibilmente in cromo e nero opaco, i colori del totem del movimento – apparvero in ogni novella, quasi fossero una specie di distintivo letterario. (Sterling 1990, 37)
Il cyberpunk è un prodotto schietto dell’ambiente culturale nord-americano di quel periodo e probabilmente ne è una penetrante rappresentazione. Le sue radici affondano nella tradizione della fantascienza popolare degli anni Sessanta.Ellison, Delany, Spinrad, Aldiss, Ballard, Anderson, Heinlein, senza dimenticare i “giochi di realtà” di Dick: sono questi i precursori e gli ispiratori dei nuovi romanzieri che si stanno misurando con una incipiente fine secolo superiore a tutte le aspettative, inverando senza dubbio molte delle anticipazioni che il Movimento delle lenti scure ha fatto proprie, intuendole nella filigrana della storia. Si è spesso detto dell’analogia tra punk e cyberpunk, entrambi processi di superamento e liberazione che non tagliano i ponti col passato, anzi ne assorbono gli insegnamenti e li manipolano mantenendo con esso accostamenti sonori e sintattici, riletti in chiave esplosiva e spiazzante. Insomma, come il punk scioglie il rock and roll dalle briglie sinfoniche del progressive rock, così il cyberpunk affranca la fantascienza da influenze decennali pur se i suoi rappresentanti sono cresciuti nella tradizione letteraria della Science Fiction. Il corpus narrativo classico sembra essere saturo e la realtà quotidiana sopravanza ogni fantasia possibile. Qualcosa, dunque, si libera in quel decennio e nonostante l’etichetta cyberpunk non sia stata mai scelta da nessuno dei componenti di quella geniale brigata, il termine entra in uso perché sintetizza un intero clima culturale, fatto di high-tech e di pop underground nei quali si mescolano video-rock, hacker clandestini, «tecnologia di strada dell’hip-hop e della musica scratch» (Sterling 1990, 38).
E proprio di quel milieu così particolare, fatto di visioni apocalittiche, esistenze ai margini, ibridazioni tecnologiche e oscure periferie urbane nella quali si muovono esseri umani “ai margini”, ci occuperemo nelle prossime pagine, rovistando tra “regimi discorsivi” e idiosincrasie al silicio per disegnare una cartografia, certamente imperfetta, del dispositivo culturale che la scrittura cyberpunk generò, prima di spegnersi alle soglie degli anni Novanta del Novecento, riecheggiando i motivi di una eterna rivolta contro un ordine sociale incrinato dal confondersi della macchina con la carne, mentre l’”analogico” veniva espropriato dal tumultuoso affacciarsi del “digitale”.
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Di cibernetiche e altri movimenti
Il prefisso cyber proviene dalla parola “cibernetica”, in lingua inglese cybernetics. La cibernetica governa quella parte della sperimentazione scientifica che studia le analogie funzionali tra i meccanismi biologici di controllo e regolazione degli esseri viventi e i meccanismi artificiali delle macchine. Cybernetics è lemma coniato dal matematico americano Norbert Wiener (1948). Wiener riprendeva il concetto espresso in greco antico dalla parola “kubernetes” [κυβερνήτης], pilota di navi, anche se gli attribuiva un significato diverso dopo qualche secolo di evoluzione etimologica, assecondando parzialmente la sua distorsione. Tuttavia, nella cultura greca di allora non si trattava soltanto di saper usare il timone, piuttosto di conoscere ogni singolo componente dell’imbarcazione e il criterio con cui era stato realizzato. In aggiunta, essere un buon pilota significava anche, o forse soprattutto, sapersi orientare, e per farlo bene era necessario possedere solide conoscenze di astronomia, geografia, cartografia ed essere capaci di “annusare il mare” attenti alle variazioni meteorologiche. Con l’arrivo della civiltà latina il pilota divenne gubernator, un individuo più adatto al comando che alla conduzione, secondo il prevalente principio del controllo centrale da esercitare su un vasto territorio quale sarebbe stato l’Impero. Il gubernator svolgeva il suo compito essenzialmente sottomettendo. Wiener, quindi, in maniera più o meno inconsapevole utilizzava il termine filtrandolo attraverso l’accezione romana. La cultura cyberpunk, al contrario, recupera l’etimo greco configurando una “possibilità sociale”, chiamiamola così, affatto diversa.
Almeno sino alla fine degli anni Venti del XX secolo era stato l’orecchio a farla da padrone.Le tecnologie sviluppate fino a quel momento, il telegrafo e il telefono, avevano fatto dell’ascolto il canale privilegiato per la comunicazione. Ascolto, e vocalizzazione quando il telegrafo divenne “parlante” e si scoprì che si poteva trasferire anche la voce oltre ai segnali ticchettanti dei vari codici di trasmissione tra cui primeggiava il Morse (Coglitore 2016). Con l’arrivo negli Stati Uniti della prima, embrionale televisione, intorno al 1927, sarebbe stato l’occhio ad assumere valenza primaria con tutto ciò che ne sarebbe conseguito.
La società occidentale avrebbe dovuto attendere ancora una quarantina d’anni prima che il Personal Computer (PC), televisore interattivo stupefacente all’epoca, facesse capolino nelle case e negli uffici, dopo che Internet si era affacciata alle soglie di quella modernità a lungo covata nei laboratori militari e universitari americani. L’introduzione del PC, a partire dagli anni Settanta, provocò una serie di sensibili cambiamenti, inequivocabili con la sua diffusione di massa dal principio degli anni Novanta. Il PC è un media elettrico, ovviamente. Rispetto ai suoi ascendenti altrettanto famosi, il computer innalza in generale l’indice di produttività e consente a ciascun individuo, lo vediamo benissimo ai nostri giorni, notevoli capacità di elaborazione, di condivisione e di ampliamento della conoscenza che fino a poco tempo prima erano appannaggio di grandi gruppi industriali o di agenzie governative. Scale gerarchiche e distanze sociali si riducono notevolmente e le competenze individuali percorrono la Rete in modo trasversale scavalcando barriere che sembravano invalicabili.
L’attrezzatura informatica consente libero scambio di informazioni e una sostanziale semplicità di utilizzo del medium, che implementa nuove aggregazioni sociali, aziendali e persino politiche. Lo spazio, infine, subisce una rinnovata “conquista” perché le distanze, come era accaduto per telegrafia e telefonia, perdono di significato. L’universo digitale cancella i confini e l’idea stessa di confine. I nostri sensi e le nostre azioni possono estendersi per migliaia di chilometri, ben oltre il nostro corpo come strumento naturale di acquisizione percettiva del mondo circostante; la tecnologia si sostituisce ad esso nella sua condizione di misura della realtà che rimodula proprio attraverso l’approntamento digitale della geografia umana e fisica. Il territorio non è più essenza e presenza delle cose ma sua immagine virtuale, ancorché saldamente radicata poiché lo riproduce nei dettagli; lo ombreggia in una assenza che il medium rende irrilevante, alterando il senso dello spazio materiale e sociale.
Bruce Sterling
Interagire attraverso il computer, senza dimenticarci dello smart-phone, ci isola dall’ambiente circostante e ci lascia sperimentare inedite emozioni. Il “cyberspazio”, luogo della virtualità assoluta, è campo d’azione e non più semplicemente una simulazione dalle qualità sorprendenti: piuttosto, suggerimento per una socializzazione differente, originata nella e dalla relazione di reciprocità che la tecnologia suscita. L’abbandono della tradizionale tridimensionalità degli oggetti fisici, corpi compresi, comporta la sostituzione di una obsoleta “spazialità” con simbologie all’inizio meno rassicuranti ma d’appresso evocatrici di una dimensione della mente che introduce a rappresentazioni sceniche degne di un’allucinazione crudele e curiosa, radicalmente “altro” da tutto ciò che finora avevamo sperimentato. Di più, la morfologia del “cyberspazio” cancella una volta per tutte l’oggettività dell’interpretazione. Si presenta, cioè, come artefatto che sfugge alle regole consuetudinarie, si sottrae a qualsiasi classificazione, muta continuamente nella sua complessità diversificante.
La “cybercultura” (termine con il quale ci riferiremo, in forma contratta, alla cultura cyberpunk) consiste, quindi, quando la indaghiamo dal punto di vista della ricaduta nel sociale, nell’interiorizzazione di queste nuove “estensioni”, comprendendone il potenziale interattivo nella consapevolezza che non potremo che riadattare i sensi a questa modificata condizione. Nuovi fenomeni conoscitivi germogliano attorno a noi e ci riaggregano in un diverso “stato”, lasciandoci galleggiare negli oceani del digitale.
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Informazione/informazioni
La cultura cyberpunk, a questo punto, si definisce in quanto “agente” che si appropria dell’informazione, la trasforma, e per mezzo del suo rimaneggiamento interviene nel mondo cui ci siamo abituati sin dalla tenera età indicando seducenti alternative. La notazione punk, che fa da spalla quasi alla congerie cibernetica in questo gioco delle parti che continuamente si rimescolano, conferisce quella robusta aura di “non regolare” che rompe gli schemi tradizionali rigenerandoli in altro. E cos’era stato il Punk se non divorzio dalla musica “colta”, abbandono dello spartito del “rock progressivo”, involuzione estetica contro ogni dogma della buona società borghese che aveva persino tentato, in piccola parte, una pallida ribellione nei dintorni degli anni Sessanta del Novecento? Cos’era stato se non rivendicazione di una unicità individuale nella produzione artistica? Ben al di là della classica concezione di computer e di Rete in qualità di “arnesi” che facilitano l’attività lavorativa oppure di sistemi di controllo di fiacche volontà, la tecnologia vista nell’ottica cyberpunk diventa snodo del ricondizionamento della realtà. Gli hackers e i più abili esperti di Informatica altro non sono che esploratori di sconosciute lande digitali, apparati di comunicazione e insieme di tecniche d’uso oggetto di una sacralizzazione laica.
La “cybercultura”, in sostanza, non è che il venire in evidenza dell’evoluzione della tecnologia. È già successo altre volte nel dipanarsi discontinuo della storia occidentale degli ultimi duecento anni. La letteratura cyberpunk imprime una particolare connotazione all’idea di cibernetica, approntando nuove grammatiche per la fantascienza, e immagina una società non troppo distante nel futuro zeppa di bizzarri personaggi, a dire il vero molto punk, che lascia agire in canovacci narrativi degni di un viaggio lisergico alla Timothy Leary “prima maniera”. Questa celebrazione dello straordinario e del cupamente introspettivo, in una dolenza che pulsa costante come un battito di cuore artificiale, è un racconto del presente, l’interpretazione verosimile di cose che stanno accadendo o che stanno per accadere. Si tratta di un coacervo di stilemi linguistici e cognitivi che quasi per forza si imbeve di politica, utilizzando il termine in accezione ampia. Perché è davvero la pòlis ad essere oggetto di un’anatomia dissacrante, un frugare arroventato tra le innervature della società occidentale per richiamare l’attenzione su scenari del probabile: lo strapotere delle multinazionali, l’assenza praticamente totale delle istituzioni, l’ossessione per la tecnologia, i linguaggi volutamente oscuri, le “sculture sociali” decisamente pop. Tant’è che una caratteristica di questa letteratura d’arrembaggio è lo studio approfondito dei cambiamenti socio-tecnologici, delle loro cause e degli effetti che producono sugli umani o su ciò che di loro resta. Sui loro corpi “trasformati”.
I corpi. La cultura cyberpunk ne propone l’apologia. Elemento-chiave di questo appuntamento microfisico con la fantascienza è il cyborg. Vediamolo da vicino. Quanto di meccanico deve esserci perché si possa parlare di organismo cyborg invece che di essere umano? (Tagliasco 1999; Caronia 2008, 41-55). Tentiamo una “tassonomia”, e concentriamoci sulle corrispondenti tecnologie di sostituzione che possono essere: “re-integrative”, con il ripristino di funzionalità perdute o di sostituzioni di organi e arti; “normalizzanti”, che riportano ad uno stato originario, riparando anomalie organiche; “riconfiguranti” che danno origine a creature post-umane una volta concluso l’intervento di ricostruzione; e infine, “potenziatrici”, che a scopo militare o industriale generano esseri talmente forti da risultare invincibili.
Al rimodularsi della percezione della realtà con il rafforzamento delle capacità sensoriali, il “cyberorganico” ci proietta in un mondo alieno, diverso sotto ogni rispetto. Il cambiamento si radicalizza ancor più quando il mezzo diventa una nostra estensione, e parti del corpo ci inducono a “sentire” diversamente, a toccare diversamente, a ricevere stimolazioni che mai avremmo immaginato. Il corpo non è più “luogo” di relazioni sociali e mentali; è, semplicemente, “struttura” da modificare e collaudare. Le conseguenze non saranno banali: ciò che siamo individualmente si muoverà su una scala post-evolutiva con esiti scioccanti e inaspettati, segnando sentieri che portano all’inconoscibile. Per il momento in questa attuale, prosaica contemporaneità, ci accontenteremo di rimedi a “bassa intensità”: una correzione della curvatura della cornea per migliorare la vista, un bypass per cuori “ballerini” o un trapianto d’organi che ci permette di sopravvivere.
In verità, la constatazione che attualmente il cyborg è ancora di là da venire, non ci esime da un’altra riflessione, e cioè che potremmo almeno considerarci dei borgs. In una delle tante serie televisive sui viaggi di una celebre astronave, Star Trek-Next Generation, i borgs si spostano negli spazi interstellari in vascelli a forma di cubo e quando entrano in contatto con una specie sconosciuta tendono ad assimilarne componenti e conoscenze facendone dei droni, simulacri di cyborgs connessi al resto della collettività in una indissolubile unione. Ogni singolo individuo pensa a se stesso al plurale, l’Io si è fatto Noi imprescindibile per la stessa sopravvivenza della comunità. E non è questo che siamo diventati negli ultimi decenni utilizzando i media come facilitatori di un pensiero collettivo che si diffonde inarrestabile nella Rete? Molteplicità e unicità convergono assieme attraverso i mezzi di comunicazione con i quali contribuiamo giorno per giorno all’evoluzione di un general intellect che ci trascina fuori dal corpo dopo aver maturato le prime esperienze di spostamento cognitivo suggerite da radio e televisione, embrionali surfs per cavalcare le onde dell’informazione.
È pleonastico rammentare cosa rappresenta Internet oggigiorno con motori di ricerca che danno accesso a miliardi di dati sull’intero scibile umano. Così, ci siamo abituati a percepire il Web come luogo dell’intelligenza filogenetica dove si può sperimentare qualsiasi tipo di conoscenza e dove ciascun processo discende dall’attività comune di milioni di menti collegate in un densissimo tramaglio di modalità esistenziali.
Cyberpunk 2077 Wallpaper - Credits: Bhautik Joshi
I soggetti performanti non sono più definibili con esattezza. Le famose “agenzie di socializzazione” (Parsons 1956) sono scomparse; le organizzazioni istituzionali hanno perso centralità e valore, non sono più “camere di compensazione” delle istanze che interessano la cittadinanza virtuale, giacché essa è ormai governata dalla Rete. Software e hardware costituiscono il milieu “informativo” che plasma questo spazio sociale. La “cibercomunità”, l’occasione è propizia per sfatare uno dei miti di Internet, non è affatto una piazza: l’interazione cui siamo indotti in chat, o tramite un computer, facilita conversazioni che dipendono dall’uso simultaneo di unità al silicio custodite in bunkersotterranei a basse temperature. Il combinato-disposto di programmi e macchine assicura l’incontro in un luogo de-materializzato che esiste in tanto in quanto qualcuno lo occupa. La cultura, in questo reticolo digitale, è sostrato comune per chi frequenta quell’arena virtuale e ognuno porta con sé soltanto ciò che ritiene più opportuno della propria identità, potendola modificare a piacimento o addirittura falsare: il mio avatar sarà altro da me, se lo desidero. L’individuo “cybervirtuale” è di per sé assolutamente anti-istituzionale, e non perché si oppone all’istituzione, ma perché essa non esiste. A guardar bene, c’è una netta prevalenza dell’identità sul ruolo e l’identità si manifesta in un paesaggio astratto; il “cyberspazio” appartiene alla dimensione del vedere, non dimentichiamolo, che non è pura e semplice utopia.
Abbandonato il Sé fisico, perlomeno nel senso in cui noi concepiamo la materialità, il “cyber-Sé” si afferma come costruzione di una coscienza individuale consumata all’interno della rappresentazione virtuale ed è un prodotto schietto del cosmo macchinico inaugurato dalla tecnologia del computer. Il discorso della scienza è linguaggio computazionale che irrora la nostra vita di alimento nuovo propagandolo da una molteplicità di sorgenti negli sconfinati orizzonti dell’“altrove” digitale. Vengono sostituiti i fondali del palcoscenico; l’immanenza della tecnologia ce li rinnova come segno di una evidenza, del corpo e della mente, cui dobbiamo adattarci. Luoghi-non luoghi rimescolano il presente e spalancano una porta sull’infinito.
Cronache da Altroquando [4]
Nei mille universi dell’Elsewherre di Heinlein (conosciuto anche come Elsewhen), i cinque studenti protagonisti della storia si spostano a piacimento nel tempo grazie un trattamento ipnotico. Altroquando è una migrazione nel plausibile che si rifà ad alcune teorie in voga all’epoca anche nella Fisica sperimentale, una diffrazione che la mente può causare se adeguatamente stimolata. L’“altrove” che Gibson e sodali hanno immaginato, invece, pensando più alla lettura di un presente in atto che ad una anticipazione del futuro, è uno spazio-limite debitore alla nozione foucaultiana di eterotopia. Un “altro” rispetto all’organizzazione e alla regolazione di differenze tra gli spazi; ovverossia un “altro” rispetto a tutti gli altri spazi.
Ci sono dunque paesi senza luogo e storie senza cronologia; città, pianeti, continenti, universi, di cui sarebbe certo impossibile trovare traccia in qualche carta geografica o in qualche cielo, semplicemente perché non appartengono a nessuno spazio. […] Ora, fra tutti questi luoghi che si distinguono gli uni dagli altri, ce ne sono alcuni che sono in qualche modo assolutamente differenti. Si tratta in qualche modo di contro-spazi. I bambini conoscono benissimo questi contro-spazi, queste utopie localizzate. […]
La società adulta ha organizzato anch’essa, e ben prima dei bambini, i suoi contro-spazi, le sue utopie situate, i suoi luoghi reali fuori da tutti i luoghi. […] (Foucault 2006, 11-13) [5]
1966: alla radio Michel Foucault introduce il termine “eterotopia”. Tra i cinque principi che Foucault individua come elementi essenziali e costituenti di una eterotopia, il primo, e più importante probabilmente, ci avverte che non esiste società che non promuova la sua. L’“altrove” non è soltanto la geografia della conquista europea, dispiegata nel corso di alcuni secoli, che passa sotto il nome di colonialismo – territori e popolazioni da costringere alle volontà distruttive degli Imperi del Vecchio Continente –, ma anche la necessità impellente di collocarsi da un’altra parte, nei posti appartati del desiderio e del sogno. È evidente che Foucault sta pensando a dislocazioni materiali per quanto eterotopiche: il teatro, il giardino, le case di cura, le prigioni; non avrebbe potuto, per la sua stessa formazione e per il contesto socio-culturale nel quale visse, concepire uno spazio digitale e interrogarsi su di esso. Certamente, però, egli enuclea con la consueta precisione del cartografo avvezzo a disegnare mappe di senso alcune caratteristiche fondanti dell’eterotopia che interessano ai fini della nostra disamina. In generale, la regola aurea di una eterotopia sta nel giustapporre in un luogo reale più spazi che normalmente sarebbero incompatibili (Foucault 2006, 18). Quando Case, il pellegrino del “cyberspazio” protagonista di Neuromante, passa dalle mezze ombre di maleodoranti periferie alla fantasmagoria della Rete nella quale “digita” sé stesso, non fa altro che sovrapporre alla consistenza materica del suo mondo la brillantezza della “matrice”, a prescindere dal fatto che quest’ultima appartenga o meno all’ordine dell’esperibile per come ci è stato conculcato.
Quel che è importante sottolineare, ancora sulla scorta delle osservazioni del filosofo francese, è che le eterotopie “[…] hanno sempre un sistema di apertura e di chiusura che le isola nei confronti dello spazio circostante” (p. 23). In ciascuna di esse si accede sottomettendosi a dei riti di purificazione per acquisire la debita legittimità di ospiti. Il “cyberspazio” è proprio questo, a ben guardare, un affrancarsi dal mondo da cui si proviene, fatto di materialità corrotta, attraverso l’iniziazione che si compie collegandosi alla macchina e innescando nel proprio cervello una reazione chimica che consente di “entrare” nel regno del virtuale.
Si arriva così a ciò che c’è di più essenziale nelle eterotopie. Esse sono la contestazione di tutti gli altri spazi, e questa contestazione si può esercitare in due modi: o creando un’illusione che denuncia tutto il resto della realtà come un’illusione […] oppure creando realmente un altro spazio reale tanto perfetto, meticoloso e ordinato, quanto il nostro è disordinato, mal organizzato e caotico. (Foucault 2006, 25)
Si possono, a questo punto, individuare alcune analogie. Una fra le tante, prima di proseguire: abbiamo sollevato poc’anzi la questione della colonizzazione, illusione eterotopica a sentire Foucault. In quell’universo simbolico che è costruzione di senso, il viaggio fisicamente inteso verso i luoghi “altri” è compiuto perlopiù sovrapponendo gli spazi “vaganti” dei mezzi di trasporto, il più noto dei quali è stato la nave. La nave è per la nostra civiltà uno strumento economico di forte impatto e “insieme la maggiore riserva della nostra immaginazione. La nave è l’eterotopia per eccellenza” (Foucault 2006, 28). E in Rete, infatti, “navighiamo”, per ricordare qui l’espressione con cui indichiamo il movimento negli anfratti del non-analogico.
L’eterotopia sviluppa una differenza assoluta, un contro-spazio nel quale la società si riorganizza contraddicendo l’istanza stessa della sua produzione in un assimilarsi di rimandi reciproci. L’eterotopia è, perciò, prodotto degli insiemi sociali che vanno localizzandola in un assoluto “altrove” variamente configurato e spazializzato. L’apporto della tecnologia ha favorito l’insediarsi dell’ultimissima localizzazione esterna/interna a questa comunità sociale, la nostra, che insiste sulla contemporaneità con un addensamento spazio-temporale durante il quale i cicli degli eventi hanno una durata paradossalmente non storicizzabile, perché appartengono simultaneamente al passato, al presente e al futuro. Allora, l’eterotopia scandisce il ritmo di orologi senza regolarità cronografica, è un campo, una serie di campi, del possibile, anteriore e ulteriore insieme, origine e ugualmente fine del processo di composizione dell’alterità del luogo. E basterà ripensare per un istante a La macchina della realtà di Gibson e Sterling (1992), ucronia che descrive uno spazio dell’“altrove” a partire da una diversa evoluzione della tecnica non meno efficace di quella che abbiamo conosciuto nella nostra linea del tempo.
Caronia, A. (2008). Il cyborg. Saggio sull’uomo artificiale. Milano: Shake Edizioni.
Coglitore, M. (2016). ““Pandaemonium”. Il telegrafo elettrico come fonte per lo studio della storia contemporanea”, Storicamente, 12, 1-27.
Foucault, M. (2006). Utopie Eterotopie. A cura di A. Moscati. Napoli: Edizioni Cronopio.
Gibson, W. (1986). Neuromante. Milano: Editrice Nord.
Gibson, W. & Sterling, B. (1992). La macchina della realtà. Milano: Mondadori.
Parsons, T. & and Bales, R. F. (1956). Family Socialization and Interaction Process. London: Routledge and Kegan Paul Ltd.
Sterling, B. (a cura di). (1986). Mirroshades. A cyberpunk anthology. Arbor House: London.
Sterling, B. (1990). Prefazione a “Mirroshades”. In R. Scelsi (a cura di), Cyberpunk.Antologia di testi politici. Milano: Shake Edizioni.
Tagliasco, V. (1999). Dizionario degli esseri umani fantastici e artificiali. Milano: Mondadori.
Wiener, N. (1948). Cybernetics, or control and communication in the animal and the machine. Cambridge (MA): The MIT Press.
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Note
[1]Le “ArmadilloCon” sono state organizzate a Austin sin dal 1979 e sono da sempre un punto di riferimento per gli scrittori di fantascienza, non soltanto statunitensi. Quella del 1982 si svolse tra l’1 e il 3 ottobre. È ormai passata alla storia la burrascosa tavola rotonda sul cyberpunk (in quel momento ancora definito “fantascienza punk”), organizzata in quell’occasione e intitolata Behind the Mirroshades: A Look at Punk Sf. Su questo cfr. Mark Dery, Velocità di fuga. Cyberculture a fine millennio, Milano, Feltrinelli, 1997, pp. 106 e ss.
[2] Gibson è nato nel 1948 negli Stati Uniti e vive da molti anni in Canada. Autore acclamato della letteratura fantascientifica, è diventato famoso proprio con Neuromante, considerato il primo romanzo del filone cyberpunk. Vincitore del prestigioso premio Hugo nel 1985, Gibson si è imposto fin da subito come elemento di spicco del Movimento che ha rinnovato, o comunque cambiato profondamente, il modulo narrativo della fantascienza con le sue lucide, quasi oniriche, descrizioni di un futuro dominato dall’informatica e da spietate multinazionali che governano un mondo post-industriale, preda di una sofisticata tecnologia, invaso da droghe, computers, spietati traffici e trapianti di organi umani, mentre tutt’attorno dilaga una sfrenata ricchezza in mano a pochi privilegiati. Numerosi i romanzi al suo attivo dopo Neuromante, da Giù nel cyberspazio (Mondadori, 1990; ed. or. 1986), il suo secondo successo editoriale, a Inverso (Mondadori, 2017; ed. or. 2014), fino al recentissimo Agency (Mondadori, 2021; ed. or. 2020).
[3] Sterling è nato nel 1954 negli Stati Uniti, dove ha vissuto fino a quando nel 2007 si è trasferito in Italia, a Torino. Ha curato nel 1986 l’antologia Mirroshades, nella quale venne definito il filone cyberpunk. Tra le sue produzioni più famose ispirate al genere cyberpunk, ricordiamo La matrice spezzata (Editrice Nord, 1986; ed. or. 1985), Isole nella rete (Fanucci, 1994; ed. or. 1988), La macchina della realtà (con William Gibson e appartenente al genere steampunk, Mondadori, 1992; ed. or. 1990).
[4] Altroquando (Elsewhen) è un racconto lungo di Robert Heinlein scritto in origine nel 1939 e pubblicato con alcune modifiche nel 1941 nella rivista “Astounding Science-Fiction” con il titolo Elsewhere. Nel corso della narrazione si ipotizza che la mente umana, sciolta dalla sua appartenenza alla periferia spaziotemporale del nostro “qui e ora”, riesca a muoversi liberamente nel cosiddetto “multiverso”.
[5] Si tratta del testo di una conferenza radiofonica tenuta da Foucault su “France Culture” il 7 dicembre 1966 in un programma dedicato a utopia e letteratura.
In Verso il concreto (1932), Jean Wahl intravedeva nella filosofia a lui contemporanea, con grande spirito di previsione, un nuovo corso realista, votato a una comune reazione nei confronti dell’astrattezza della dialettica hegeliana: Heidegger, Husserl, Bergson, James, Whitehead e Gabriel Marcel – solo per citare alcuni nomi – sembravano ai suoi occhi riorientare il pensiero filosofico verso la concretezza dell’esperienza a partire da tre assi principali: 1. la convinzione che esista un fondo della realtà “non relazionale”, situato al di là di tutte le relazioni che pure costituiscono e vivificano il mondo empirico; 2. la conseguente e inevitabile reimmissione – nel cuore di forme anche radicali di realismo – di una sorta di “idealismo magico” che determina un’impossibilità de facto di raggiungere gli aspetti più profondi del reale; 3. l’apertura a istanze non strettamente filosofiche, ma anche letterarie, poetiche ed artistiche, in grado di riuscire nell’impresa conoscitiva là dove la razionalità del concetto fallisce. Se l’operazione di Wahl è stata a tutti gli effetti seminale nell’influenzare un’intera stagione della filosofia continentale francese (e non solo) in un percorso che giunge sostanzialmente sino al progetto deleuziano dell’empirismo trascendentale, si potrebbe altresì mostrare come le tre caratteristiche intraviste all’opera da Wahl nel pensiero degli anni ’30 siano perfettamente presenti anche nella cosiddetta Ontologia orientata agli oggetti (spesso abbreviata in OOO), a cui è dedicato il primo volume in lingua italiana, curato da Vincenzo Cuomo ed Enrico Schirò, Decentrare l’umano. Perché la Object-Oriented Ontology (a cura di V. Cuomo e E. Schirò, Kaiak Edizioni, 2021).
Sarebbe tuttavia arduo tratteggiare con precisione storia e sviluppi della OOO, movimento ibrido e assolutamente eterogeneo, legato in primis alla figura e al pensiero di Graham Harman, ma nato in seno a un complesso intreccio di rinnovati realismi sorti tra la fine del Ventesimo Secolo e il primo decennio del Ventunesimo, dallo speculative realism di Quentin Meillassoux, etichetta teorica più generale al cui interno si possono forse far rientrare tali realismi, al new materialism, passando per alcune forme dell’accelerazionismo e per il più laterale Nuovo Realismo difeso in Italia da Maurizio Ferraris. Certo, è possibile trovare cifra comune di tale svolta realista nella denuncia del cosiddetto “correlazionismo”, ossia dell’imprigionamento e del ridimensionamento della realtà (e dunque dei suoi oggetti) all’interno dello schema duale soggetto-oggetto, in un percorso moderno che da Cartesio giunge sino Kant; tuttavia l’eterogeneità di tali riflessioni, tale per cui ogni autore afferente a questa svolta professa in fondo una sua personale posizione, è confermata dalla parte antologica del volume, nella quale due dei nomi più prestigiosi associati a questo tournantesibiscono visioni sostanzialmente antitetiche: da un lato il neo-aristotelismo di Harman, il quale elabora una filosofia che dà consistenza alle forme sostanziali e individuali della realtà, da lui battezzate “oggetti” (p. 86); dall’altra il “(neo)platonismo” di Levi R. Bryant, che pare voler abbandonare la staticità dell’ontologia harmaniana in favore di una metafisica processuale della piega e del differenziale di chiara ascendenza deleuziana (pp. 48-53).
I testi presenti nel volume, tanto nella sua parte antologica quanto nella sua parte critica, introducono il lettore di fronte alle principali innovazioni teoriche prodotte dalla OOO. A emergere è innanzitutto la creatività del lavoro interpretativo harmaniano a partire dal corpus delle opere heideggeriane e husserliane: attraverso l’estensione del Dasein e dell’intenzionalità da presupposti di natura correlazionale e soggettivistica a principi insiti nella realtà nel suo complesso, Harman estrapola dalla tradizione “fenomenologica” una filosofia che difende strenuamente la dignità degli oggetti (p. 16) dalla loro riducibilità a componenti/parti (undermining) e/o a effetti/relazioni (overmining). Sono infatti gli oggetti – reali e sensuali – i veri protagonisti del pensiero harmaniano, i quali fungono da grimaldello risolutamente anti-olista attraverso il quale fuoriuscire dall’antropocentrismo insito nella tradizione filosofica moderna, per rilanciare di conseguenza una vera e propria metafisica. A partire da qui si rende comprensibile il denso inventario concettuale elaborato da Harman e ben riassunto dall’introduzione al volume firmata da Enrico Schirò: dal ritiro degli oggetti reali rispetto alle pretese del soggetto conoscente (withdrawal) alla natura piatta e radicalmente antigerarchica dell’ontologia (flatness), fino alla complessa natura della causalità, quasi un contatto senza contatto tra oggetti reali (vicarious causation). Seguendo la strada inaugurata da Harman, Timothy Morton – attraverso uno stile letterario tanto evocativo quanto espressivo – ha poi condotto la OOO verso nuovi orizzonti ecologici attraverso l’analisi delle eterogenee scale temporali (p. 68) dischiuse dai cosiddetti “iperoggetti”: l’importanza delle questioni ambientali – riconosciuta peraltro proprio da Harman, nell’intervista condotta da Thiago Pinho, come più cogente rispetto a una critica del capitalismo (p. 92) – traghettano così la OOO verso alcune delle più pressanti sfide della contemporaneità
Tra i punti di forza del volume, vi è certamente il suo sguardo non apologetico (p. 11): se è vero che la OOO ha effettivamente riaperto i giochi della filosofia continentale in seguito al declinare della stagione postmoderna, ciò non significa che la sua proposta teorica sia esente da criticità. Oltre alla già citata critica di Levi Bryant alla “staticità” della OOO, non va per esempio passata sotto silenzio, secondo Jean Claude Leveque, l’interpretazione harmaniana di Heidegger, certo creativa, ma non priva di imprecisioni (pp. 158-159) né la difficoltà di riconfigurare l’Ontologia orientata agli oggetti in un’ottica di critica del presente (pp. 170-171). Buona parte dei rilievi presenti nel volume si concentra però sulla problematicità di un realismo che, nell’insistere sull’irriducibilità degli oggetti ai modi in cui a essi si può accedere, costruisce una complessa dualità – più (post)kantiana di quanto Harman non voglia ammettere – tra ciò che è “in sé” e ciò che è “per noi”, come sostiene Levi Bryant (p. 43). In questo modo si slitterebbe senza soluzione di continuità verso forme di idealismo che Felice Cimatti – autore del contributo più critico presente nel volume – liquida in fondo come teologiche (p. 202). Non avendo fatto davvero i conti l’eredità trascendentale da un lato e con il linguistic turn dall’altro, la OOO ipostatizzerebbe secondo Cimatti la natura degli oggetti (o iperoggetti) a figure mistiche e divine (p. 230).
Graham Harman. Crediti: Brechtje Keulen / Wikicommons
Non meno importante – per comprendere appieno il valore della proposta della OOO – è misurarne le concrete applicazioni ai diversi campi del sapere: come sottolinea Leveque, buona parte delle più interessanti proposte teoriche contemporanee ha fatto fortuna ben al di là del ristretto campo dei dipartimenti di filosofia (p. 151). La OOO non fa eccezione: si pensi a titolo di esempio all’influenza esercitata sulla programmazione informatica e in special modo videoludica, mediata dalla figura del teorico e programmatore Ian Bogost, o sulla teoria architettonica e il design (Harman insegna filosofia alla Southern California Institute of Architecture). Ma è anche la filosofia della mente a poter trovare nella OOO un buon alleato: come mostra Marco Mattei, si può tentare di collegare le riflessioni di Harman sugli oggetti tanto alla tradizione panpsichista quanto ad alcuni fondamentali contributi provenienti da certo cognitivismo contemporaneo (G. Tononi, A. Chalmers), in nome di una vera e propria “psicologia speculativa”. La OOO sembra poi poter fornire una convincente interpretazione etico-politica della tecnica, come evidenzia Claudio Kulesko attraverso un’affascinante analisi “accelerazionista” dei film Gremlins e Gremlins 2: eradicando l’utensile dall’orizzonte di un accesso soltanto umano e ridonandogli così compiutamente agency, Harman, secondo Kulesko, dischiude la possibilità di pensare un orizzonte tragico nel quale «la “dromosfera” diviene il luogo di una potenziale carneficina» (p. 286).
È però probabilmente il campo della teoria estetica quello nel quale le intuizioni della OOO sembrano poter dare i contributi più significativi. Harman stesso, nel mostrare l’impossibilità di un accesso umano e immediato agli oggetti, rivaluta infatti la potenza euristica del “non letteralismo” proprio per esempio della metafora e considera l’estetica come una vera e propria “filosofia prima” (p. 38). È a partire da queste considerazioni – messe in pratica per la prima volta da Harman nel suo libro dedicato a H.P. Lovecraft – che si muove il contributo di Cuomo, il quale, appoggiandosi al pensiero di Harman e integrandolo con alcune intuizioni decisive di Morton sull’algoritmo culturale agrilogistico (p. 255), mostra con chiarezza come sia possibile concepire un’estetica OOO che colga nell’idea di bellezza un accesso a quella “danza delle cose” (p. 269) situata al di là dell’orizzonte sensuale nel quale percezione e cognizione sembrerebbero dover restare inevitabilmente relegate. In questo modo Harman e Morton sarebbero in grado di confrontarsi con l’eredità kantiana, riprendendo e al tempo stesso rovesciando le principali definizioni del bello presenti nella Critica del giudizio.
Non si può – per concludere – se non salutare con entusiasmo l’uscita di Decentrare l’umano: da un lato perché dà voce a un movimento filosofico passato a lungo inosservato nel panorama filosofico italiano e dall’altro perché ne mostra senza retorica pregi e difetti, capacità di comprensione del presente e aspetti problematici. A emergere dalle pagine del volume è però anzitutto l’aspetto a parere di chi scrive più significativo della OOO, ossia il coraggioso tentativo di rilanciare un pensiero di natura metafisica – una “teoria del tutto” – capace di opporsi a quella liquidazione della filosofia prima che ha purtroppo caratterizzato buona parte delle riflessioni sviluppate nel Ventesimo secolo.
Oltre natura e cultura (2005) di Philippe Descola – riproposto ora da Raffaello Cortina, a cura di Nadia Breda, dopo una prima traduzione SEID del 2014 divenuta presto irreperibile – è un libro che certo non si adopera per nascondere la portata dell’operazione cui si dedica. Ed ecco il primo merito da riconoscere a questo instant classic del pensiero antropologico contemporaneo: il candore nel confessare l’ambizione, e la consequenzialità dello sforzo messo in opera per esserne all’altezza. Le oltre quattrocento pagine (seicento, nell’edizione poche di Gallimard) lungo le quali si articola il volume fanno un uso sapiente dell’esperienza etnografica dell’autore – tra gli Achuar dell’Amazzonia ecuadoregna – così come di una vasta letteratura etnologica e di selezionati riferimenti teorici per rimetter mano a uno dei temi più classici della disciplina: il rapporto tra natura e cultura.
Si tratta di una questione d’importanza capitale per l’antropologia, il campo di una partita «narcisistica» (Viveiros de Castro 2017) in cui ne va delle fondamenta stesse – epistemologiche e politiche a un tempo – della disciplina. Nel primo capitolo de Le strutture elementari della parentela, Claude Lévi-Strauss, di cui Descola è stato discepolo ed erede al Collège de France, aveva indicato nell’incesto il luogo in cui, all’interno dell’avventura umana, la natura prende le forme sempre locali, sempre specifiche, della cultura – delle culture. La natura umana è vuota, mancante, segnata; la cultura, dunque, altro non sarebbe che la maniera in cui gli umani s’ingegnano per riempire questa natura, e così compierla, nelle forme sempre specifiche e mai concluse prodotte e riprodotte dai vari collettivi. All’epoca, si trattava di affermare l’autonomia della disciplina, e l’arbitrarietà del segno linguistico – la violenza muta della castrazione – sembrò sufficiente a garantire l’invalicabilità di una soglia al riparo della quale l’antropologia poteva dirsi scienza. Tale gesto inaugurava quello che ancor oggi va probabilmente annoverato come il momento di maggior lustro della disciplina, stagione di un fortunato contrabbando che avrebbe portato alla diffusione degli strumenti forgiati nel laboratoire d’anthropologie sociale presso psicanalisti, filosofi, storici e linguisti. Lungo le rotte di questo commercio, lo strutturalismo assumeva l’ambizione – se non la solidità – di un paradigma.
In Oltre natura e cultura, Descola si pone esplicitamente nel solco di Lévi-Strauss; e in particolare si ripromette di proseguire una pista additata eppure lasciata inesplorata da parte del maestro, che ne Il pensiero selvaggio aveva scritto:
Il marxismo – se non proprio Marx – ha ragionato troppo spesso come se le pratiche dipendessero direttamente dalla praxis. Senza mettere in causa l’incontestabile primato delle infrastrutture, noi crediamo che tra praxis e pratiche si inserisca sempre un mediatore che è lo schema concettuale per opera del quale una materia e una forma, prive entrambe di esistenza indipendente, si adempiono come strutture, ossia come esseri al tempo stesso empirici e intellegibili (Lévi-Strauss 2010, p. 146, cit. in Descola 2021, 116).
Tra la disposizione simbolica dell’umano e la varietà delle forme concrete cui essa può dar luogo, ecco stagliarsi una terra di mezzo che l’antropologia sarebbe attrezzata per conquistare, e dove potrebbe giocarsi la tenuta del proprio rinnovato progetto intellettuale. Così, Descola ritiene che «sia possibile e necessario risalire […] verso un nucleo di schemi elementari della pratica le cui differenti configurazioni permetterebbero di dar conto di tutta la gamma delle relazioni con gli esistenti, una sorta di matrice originaria dove gli habitus troverebbero la loro fonte e di cui conserverebbero una traccia percepibile in ciascuna delle loro manifestazioni storiche» (Descola 2021, p. 112).
Di questi schemi – disposizioni apprese e largamente inconsce che garantiscono la possibilità agli esseri umani di rapportarsi al mondo senza doverselo reinventare a ciascuna occasione daccapo, script generalissimi d’interazione con l’alterità capaci di darle consistenza e ricondurla ogni volta entro l’ambito del domestico e dell’abituale –, Descola distingue due prestazioni fondamentali: da un lato, essi concorrono a definire l’identità dell’alterità che popola i mondi umani, attualizzando alcune delle affordances che essa reca intrinseche in seno; dall’altro, sulla base dei tratti ascritti alle entità del mondo, determinano il campo delle possibilità interattive con tali entità, rendendo disponibili certi pattern d’interazione e impedendone invece altri. Ma oltre a distinguere i due piani, Descola postula anche una gerarchia precisa che li organizzerebbe: le identificazioni precedono le relazioni; la maniera in cui gli umani percepiscono gli esistenti influenza univocamente le pratiche tramite cui essi vi si relazioneranno.
È in questo primato delle identificazioni che risiede l’originalità della proposta descoliana nel panorama del dibattito contemporaneo. È a tal riguardo, peraltro, che Descola impiega il termine, finito al centro di tante polemiche, che più ha finito per identificare il suo lavoro: ontologia. Se nell’utilizzo fattone da Viveiros de Castro o – con più moderazione – da Stengers o Latour il concetto di ontologia funge da grimaldello anticorrelazionalista, utile a ricercare – per stessa ammissione degli autori, più a tentoni che nell’ambito di un progetto dotato di ambizioni sistematiche – un accesso al mondo e non soltanto alle sue rappresentazioni, nel caso di Descola esso va invece riconosciuto svolgere, curiosamente, un ruolo squisitamente epistemologico. In un impiego del termine in questo senso più prossimo a quello dell’informatica che a quello tradizionalmente proprio della filosofia, le ontologie descoliane sono indistinguibilmente orizzonti di senso e regimi di operabilità del mondo, abitudini cognitive coltivate dai gruppi umani e insiemi di pratiche che ricorsivamente ne rinnovano la pertinenza.
Dettando il profilo degli esistenti, le diverse ontologie limitano dunque i margini entro cui i mondi potranno essere composti e modificati: così, per esempio, se gli Indiani d’Amazzonia non hanno mai addomesticato il pecari, ciò sarebbe in virtù esclusivamente della collocazione che tale animale ha entro gli schemi concettuali che organizzano il loro accesso al mondo, la quale impedirebbe loro di applicare a questo animale un tipo di relazione che pur dimostrano, nel rapporto con altre specie, di conoscere bene. La scena, allora, è quella kantiana: da una parte il soggetto umano, dall’altra un mondo conoscibile e maneggiabile solo in virtù degli schemi che ne organizzano la percezione fenomenica. Al livello di questi schemi, per Descola, ha luogo una – beninteso, inconscia – decisione fondamentale, riguardante la collocazione degli esistenti, da parte del soggetto, su un piano di continuità o discontinuità rispetto a due dimensioni che l’autore giustifica senza troppi imbarazzi come universali della percezione umana: «interiorità» e «fisicalità». Il gioco combinatorio produce una matrice quadripartita: e allora quattro sono, per Descola, le ontologie. Noi moderni, «naturalisti», ci figuriamo in un rapporto di continuità con l’alterità del regno animale e vegetale sul piano della fisicalità (quanto meno da Darwin in poi), mentre ci riteniamo distinti su quello dell’interiorità (delle facoltà cognitive); i popoli «animisti», come gli Achuar studiati da Descola, al contrario, raccontano di un mondo originariamente tutto umano, decaduto in seguito a eventi mitologici sino ad assumere il profilo ingannevole di una fisicalità frammentata; ma la speciazione nasconde una continuità irriducibile e sempre pronta a riaffiorare, lungo il tracciato invisibile – ma non per questo impercorribile – della metamorfosi (Viveiros de Castro 2019). Agli altri due poli della matrice, i «totemisti» – per esempio i popoli aborigeni dell’Australia – riconoscono continuità tra sé e determinate entità non umane su entrambi i piani, delineando così i confini di collettivi che non possono ricercare nella differenza di regno o di specie la garanzia della loro identità; mentre l’ontologia «analogista» – di cui il pensiero cinese costituisce un esemplare prototipico –, postulando discontinuità su entrambi i piani, concepisce un «cosmo composto da immanenze particolareggiate» (Descola 2021, p. 342).
L’assunto che regge l’impianto descoliano va riconosciuto essere in netta controtendenza con buona parte dell’antropologia degli ultimi trent’anni. Dal punto di vista dell’autore, come detto, le identificazioni precedono le relazioni: la diversità delle pratiche, cioè, è da ricondurre alla varietà – ampia ma finita – dei modi in cui gli umani attribuiscono capacità di agire alle entità che compongono i loro mondi. Da una parte gli umani e le loro ontologie; dall’altra, lo schermo immacolato del mondo, sul quale gli umani continuano a prodursi in un’attività in fin dei conti proiettiva. I non umani fanno capolino nel ponderoso volume unicamente come input per la cognizione di esseri umani che, a seconda dell’abitudine, potranno ritenerli più o meno affini a sé, e li tratteranno di conseguenza; ma non hanno mai occasione di dispiegare un’agentività che possa dirsi in senso stretto loro propria. In un tempo in cui proliferano le etnografie multispecie e i tentativi di simmetrizzare la scena epistemologica, Descola porge in dono all’antropologia il campo definito di un oggetto omogeneo e nuovamente tutto umano verso il quale concentrare i propri sforzi.
Ma se è vero che l’apertura postumanista delle scienze sociali, e dell’antropologia in particolare, ha coinciso con la progressiva messa a tema della questione ecologica come affare di cui le humanities non solo avrebbero i titoli per occuparsi, ma di cui esse sole saprebbero elucidare il tenore squisitamente politico, è su questo genere d’implicazioni che conviene chiudere la nostra breve rilettura di Oltre natura e cultura. Se nel gioco combinatorio disegnato dall’autore le relazioni fanno ingresso solo in un secondo momento, quando le entità hanno già acquisito il profilo di un’identità – ovvero sono state identificate da un essere umano –, è entro quei margini che esse saranno passibili di mutamento. Nell’intento di abolire ogni orizzonte evoluzionistico per la classificazione delle tecnologie umane, è la tecnica stessa a finire per sfumare sino a scomparire in uno sfondo nel quale saranno sempre le inferenze di carattere identificatorio a determinare le disponibilità del mondo a essere trattato altrimenti. Al fondo, si potrebbe dire che il mondo – così come l’insieme dei rapporti a esso – esiste, nell’antropologia di Descola, solo come correlato delle differenti visioni che diversi gruppi umani hanno di esso. E a queste condizioni, evidentemente, la storicità si trova ancora una volta ristretta all’umano soltanto – il resto ridotto a materia grezza per le nostre identificazioni. Le ontologie, in effetti – a differenza della cultura, che biologi e antropologi si erano ormai accordati a dismettere quale fattore identificativo di una qualsivoglia singolarità dell’animale umano (cfr. Morin 1974) –, sono affare squisitamente umano; e alla facoltà ontologica spetta il compito d’individuare, come era precedentemente toccato al linguaggio o alla coscienza della propria condizione mortale, una specificità irriducibile dell’essere umano, che assegna alla nostra specie il ruolo di una innegoziabile eccezionalità entro il campo della storia naturale.
Commisurato alla rivoluzione lovelockiana proposta da Latour (2019), allora, lo sforzo di Descola assume il profilo di una restaurazione perfettamente katiano-copernicana: il soggetto umano nuovamente al centro, e attorno a esso un mondo fatto unicamente delle diverse rappresentazioni che esso ne produce. La linea tra natura e cultura che l’opera ambisce a oltrepassare, di conseguenza, si trova rimpiazzata da un’altra linea: quella – inerte, priva di storia, tracciata una volta per tutte e indisponibile a rinegoziazioni – tra l’umanità e un mondo con cui essa intratterrebbe rapporti certo variegati ma comunque unilaterali.
Bisogna concluderne che l’antropologia di Descola ricerca la propria efficacia sugli stessi terreni ove il progetto strutturalista aveva ritenuto di fondare le proprie ambizioni paradigmatiche; e così facendo, finisce per esporsi al medesimo genere di critiche che quel progetto avevano bersagliato sino a minarne le fondamenta. Ma è anche vero che l’etichetta dello strutturalismo, pur esibendo la facciata di un edificio intellettuale possente e dai confini definiti, riesce a stento a tenere assieme le traiettorie di avventure che furono dotate di propositi, ambizioni e percorsi diversissimi tra loro. E ciò implica la necessità di spingersi un passo oltre nel caratterizzare l’eredità intellettuale che Oltre natura e cultura assume e rilavora. Proponendosi di raccogliere il lascito di Lévi-Strauss, in effetti, Descola si ritrova in mano un’opera certo marcata in origine da un dualismo profondo, che vede la struttura e il mondo contrapporsi in maniera frontale, segnando la giurisdizione di due regni radicalmente eterogenei. Tale opera, tuttavia, è anche popolata di trickster, figure mediane che mentre sembrano convocate in quanto punto – arbitrario – di contatto tra i due piani, sono pronte a tradire il proprio ruolo impiegatizio, mostrandosi invece – se interpellati con la giusta malizia – essi stessi artefici della sintesi, geni della significazione. Lo sciamano, per esempio: apparentemente rentier di un privilegio strutturale nel quale risiederebbe il segreto – simbolico – dell’efficacia delle sue pratiche, e in realtà depositario di tecniche e saperi che tale ordine concorrono a fondare e manutenere, «cristo magico» (De Martino 1948) di mondi il cui stare assieme non è garantito dall’arbitrarietà di un segno linguistico che sul piano orizzontale della differenza trova la propria consistenza necessariamente logica, bensì dal lavoro materiale e speculativo che incessantemente compone forma e vita; oppure il mana polinesiano, cui Lévi-Strauss parrebbe attribuire il ruolo di architrave del sistema simbolico – «semplice forma» dal «valore simbolico zero» (Lévi-Strauss 1965, LII) –, ma che a un esame più attento si rivela traccia di un gesto originario il quale, aprendo il campo del simbolico, può solo sopravvivere come cicatrice sulla sua superficie liscia (cfr. Leoni 2019).
In quegli anfratti, l’opera di Lévi-Strauss ospita già una venatura che lo strutturalismo trascende e reimpagina, schiudendo linee di fuga «selvagge» capaci, a volerle seguire, di aprire il sistema e mostrare la struttura nella sua consistenza di gesto e di evento. Non è tuttavia questo, bisogna convenire, il versante dell’opera levistraussiana che Descola percorre e decide di proseguire; bensì quello più saldo e rassicurante del paradigma. Ma come dimostra l’importante libro di Nastassja Martin (2016), che di Descola è stata allieva, messo alla prova dell’etnografia, l’impianto di Oltre natura e cultura rende necessarie ibridazioni che finiscono per snaturare la linearità del progetto che esso propone. Che si tratti dello sguardo latouriano che Martin assume come controcanto all’impostazione del maestro, o quelli resi possibile dai lavori di Donna Haraway (2003), Anna Tsing (2021), o Isabelle Stengers (2018), che in maniera simile potrebbero svolgere un ruolo analogo, le voci della cosiddetta “svolta ontologica” trovano nel testo di Descola l’opportunità per un dialogo capace di esplicitare sino in fondo la radicalità del sommovimento politico-teoretico che interessa l’antropologia da ormai trent’anni.
Alla luce di quanto detto, diviene lecito domandarsi quanto il volume riesca, a conti fatti, negli intenti da cui prende le mosse; in quale misura cioè si mostri capace di dotare l’antropologia della concettualità nuova che le aveva promesso, in grado di addomesticare le terre selvagge che si schiudono varcata la linea che distingue e istituisce gli ambiti speculari di natura e cultura. Come notato anche dalla curatrice nella sua densa postfazione, tuttavia, si tratta di bilanci che sarebbe probabilmente prematuro fare ora, se è vero che nel corso di quest’anno è attesa la pubblicazione del libro dedicato al tema della figurazione cui Descola ha consacrato i suoi sforzi negli oltre quindici anni trascorsi dalla pubblicazione originale di Par-delà. E in ogni caso, considerazioni di una tale portata non possono spettare a questo scritto, che aveva la ben più modesta ambizione di additare il percorso teoretico imbastito da Descola e dettagliare la frizione che esso provoca nel contesto del dibattito antropologico contemporaneo.
È con un auspicio, allora, che conviene chiudere queste note fugaci. Nell’inaugurare un capitolo italiano nella Wirkungsgeschichte del volume, e in attesa dell’uscita del nuovo libro, questa traduzione offre l’occasione perché, anche nel nostro paese, l’antropologia muova passi decisivi verso quel ruolo di primo piano che altrove essa è riconosciuta occupare nelle discussioni sull’ecologia politica. La questione ecologica e il relativo dibattito, in Italia, s’intrecciano infatti alle traversie di un mondo culturale nel quale all’antropologia ancora tocca in sorte una posizione largamente subalterna. Se il testo – accompagnato dalle voci che già vivaci hanno cominciato ad accoglierlo – saprà propiziare movimenti in tale direzione, un passo oltre la linea di natura e cultura sarà effettivamente stato intrapreso.
di Nicola Manghi
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Bibliografia
De Martino, Ernesto (1948), Il mondo magico. Prolegomeni a una storia del magismo, Einaudi, Torino
Descola, Philippe (2021), Oltre natura e cultura, Raffaello Cortina, Milano
Haraway, Donna (2003), The Companion Species Manifesto: Dogs, People, and Significant Otherness, Prickly Paradigm Press, Chicago
Latour, Bruno (2019), Essere di questa terra. Guerra e pace al tempo dei conflitti ecologici, Rosenberg & Sellier, Torino
Leoni, Federico (2019), “Struttura. Antropologia dell’immanenza. Mauss Lévi-Strauss Deleuze”, in R. Panattoni e R. Ronchi (a cura di), Immanenza: una mappa, Mimesis, Milano-Udine, pp. 59-74
Lévi-Strauss, Claude (1965), “Introduzione all’opera di Marcel Mauss”, in M. Mauss, Teoria generale della magia e altri saggi, Einaudi, Torino, pp. XV-LIV
Lévi-Strauss, Claude (2010), Il pensiero selvaggio, il Saggiatore, Milano
Martin, Nastassja, (2016), Les âmes sauvages. Face à l’Occident, la résistance d’un peuple d’Alaska, La Découverte, Paris
Morin, Edgar (1974), Il paradigma perduto. Che cos’è la natura umana?, Bompiani, Milano
Stengers, Isabelle (2018), “The Challenge of Ontological Politics”, in M. de la Cadena e M. Blaser (a cura di), A World of Many Worlds, Duke University Press, Durham, pp. 83-111
Tsing, Anna Lowenhaupt (2021), Il fungo alla fine del mondo. La possibilità di vivere nelle rovine del capitalismo, Keller, Rovereto
Viveiros de Castro, Eduardo (2017), Metafisiche cannibali. Elementi di antropologia post-strutturale, Ombre Corte, Verona
Viveiros de Castro, Eduardo (2019), Prospettivismo cosmologico in Amazzonia e altrove, Quodlibet, Macerata
La meccanica quantistica, occupandosi delle particelle elementari della materia – della sostanza del mondo, diremmo in termini metafisici –, ha dovuto convenire che a quel livello non si incontrano cose, ma solo relazioni. Non c’è una particella in sé, ad esempio l’elettrone, ma una serie di relazioni tra l’elettrone e tutto ciò con cui interagisce.
La grande popolarità riscossa dai libri divulgativi di Carlo Rovelli ha avuto il merito di sollevare questioni filosofiche di fondo a proposito della ricerca fisica di oggi, anche tra non specialisti.
Rovelli è uno dei massimi esponenti della lettura detta “relazionale” della fisica quantistica. Ovvero, spiega – a un pubblico che non dovrebbe essere il proprio – la propria visione scientifica. Approfitterò allora di questo suo testo, Helgoland (Rovelli 2020), per mostrare l’importanza filosofica di alcuni problemi aperti dalla teoria scientifica più rivoluzionaria del XX° secolo, la fisica dei quanti, soprattutto nella prospettiva della filosofia di Wittgenstein.
Quando il fisico fa buona divulgazione, fa per forza filosofia: potremmo dire che le questioni scientifiche diventano filosofiche quando le si guarda fuori dalla pratica scientifica, e infatti nella divulgazione il fisico guarda la fisica dall’esterno, dal punto di vista di chi sa di non sapere. Non entrerò quindi nel merito dell’elaborazione propriamente fisica di Rovelli, piuttosto discuterò la sua interpretazione filosofica (divulgativa) della sua elaborazione.
1.
La teoria [quantistica] non descrive come le cose “sono”: descrive come le cose “accadono” e come “influiscono l’una sull’altra”. Non descrive dov’è una particella, ma dove la particella “si fa vedere dalle altre”. Il mondo delle cose esistenti è ridotto al mondo delle interazioni possibili, la realtà è ridotta a interazione. La realtà è ridotta a relazione (Rovelli 2015, loc. 1632)[1].
Ora, Wittgenstein aveva ricordato ai filosofi (e anche agli scienziati) che essi lavorano sempre con parole, e con parole poste in una successione molto particolare: quella della proposizione. Ogni discorso teorico parla per proposizioni, non con parole alla rinfusa. Questo è il succo di quel che poi si è convenuto chiamare linguistic turn in filosofia: questa non deve mai dimenticare di quale materiale è fatta, del materiale proposizionale.
La proposizione è sempre una relazione. Classicamente si dice che una proposizione è formata da un soggetto e un attributo. Ad esempio in “Giulio Cesare morì pugnalato.”, il soggetto è “Giulio Cesare”, l’attributo è “morire pugnalato”. Wittgenstein nel Tractatus ha semplificato la cosa, dicendo che una proposizione è sempre la relazione tra due oggetti, appunto “Giulio Cesare” e “morire pugnalato.” Questo significa che Giulio Cesare non si è limitato a essere ucciso con pugnalate, ma ha fatto tantissime altre cose. Ed è ovvio che siano morte pugnalate molte altre persone oltre Cesare. Ovvero, i due oggetti si combinano nella proposizione, ma si suppone che esistano indipendentemente dalla loro relazione.
Aggiungiamo (perché questo ci servirà dopo) che secondo Wittgenstein ogni proposizione è un Bild, un’immagine dello stato-di-cose del mondo, di “dati di fatto”: la proposizione di cui sopra ci dà una certa immagine non di Cesare e nemmeno dell’essere uccisi, ma del “dato di fatto” (che sappiamo storicamente vero) che Cesare morì pugnalato. Le proposizioni sono immagini del mondo, non immagini delle cose stesse, dato che il mondo è relazione tra cose per Wittgenstein. Del resto “Giulio Cesare” e “morire pugnalato” sono a loro volta delle relazioni (ad esempio “morire pugnalato” è una relazione tra pugnalare e morire), e così via…. All’infinito? Non arriveremo mai a una cosa veramente elementare? No. Ma qui si apre un altro problema che non tratteremo qui.
Potremmo dire allora che, se “Giulio Cesare morì pugnalato” fosse una proposizione della teoria quantistica (secondo Rovelli), avremmo Cesare solo quando viene pugnalato e muore. Non ci sarebbe un Cesare indipendente dal suo venir pugnalato. Come anche non ci sarebbe un morire-pugnalato che non sia cesarista, per dir così. Il che certo cozza con il nostro senso comune riguardo alla significazione del linguaggio. È quel che Rovelli esprime dicendo che nel mondo delle particelle elementari non ci sono entità, ma solo eventi.
Prima che venisse formulata la fisica dei quanti, alcuni scrittori erano giunti abbastanza vicini a una ontologia del genere. Nel 1893 Henry James (1893) aveva pubblicato un racconto, The Private Life. Tra i personaggi di questo racconto c’è Lord Mellifont, un gentleman perfetto, molto socievole, irreprensibile nel comportamento sociale, il miglior host mondano che si possa incontrare. Ma il narratore scopre un piccolo difetto del Lord: che quando non c’è qualcuno in sua presenza, si dissolve. E si ricompone non appena qualche altra persona appare. Quando Lord Mellifont dipinge un quadro davanti a un’altra persona, se questa si allontana, lui scompare; quando l’altra persona torna, troverà il quadro allo stesso punto in cui il Lord l’aveva lasciato. Persino sua moglie pare non essersi accorta di questo handicap del marito, anche se sembra nutrire qualche sospetto…
Insomma, Lord Mellifont anticipa le particelle elementari secondo la fisica quantistica: esiste se si fa vedere dagli altri. Questo racconto può essere preso come un’allegoria della crisi del pensiero proposizionale a opera della fisica quantistica.
In effetti, su un piano filosofico, la teoria relazionale delle particelle elementari di Rovelli dice che la fisica dei quanti trasgredisce la struttura proposizionale del sapere. Perché la proposizione è sempre una relazione tra cose che vengono presupposte come esistenti al di fuori della loro relazione, abbiamo detto.
Quindi, quando la meccanica quantistica giunge alla conclusione che l’elettrone, ad esempio, è un ente solo relazionale, un evento, si varcano i limiti del linguaggio proposizionale stesso. La scienza, come la filosofia, descrive e spiega la natura attraverso proposizioni: ma quando essa raggiunge il livello del più elementare, questa forma linguistica si mostra inadeguata.
Per questa ragione, si dirà, la scienza preferisce sempre più, anziché parlare per proposizioni, parlare con relazioni matematiche, con equazioni. Ad esempio, con matrici matematiche, come fece Heisenberg, o con “le variabili che non commutano” di Dirac. Perché nessuna proposizione del linguaggio comune può dire i fenomeni degli enti più piccoli. Ora però le equazioni matematiche sono anch’esse delle proposizioni, anche se di tipo particolare.
(Il punto è che Rovelli, non appena si impegna a scrivere opere divulgative, non può fare a meno di ricorrere a proposizioni non matematiche. Insomma, deve dare una forma proposizionale alla fisica dei quanti, anche se questa sembra dare un’immagine non proposizionale della natura. Qui tocchiamo una sorta di paradosso. Ovvero, come esprimere con proposizioni ciò che non è proposizionale?)
Per Wittgenstein le proposizioni matematiche e logiche sono proposizioni analitiche, cioè, in fin dei conti, delle tautologie. Di fatto, esse equivalgono a definizioni. Ad esempio
“5 = 2 + 3”
è sì una proposizione (“cinque è la somma di due e tre”), che di fatto è una delle (infinite) definizioni possibili di “5”. Quelle matematiche sono proposizioni tautologiche o definitorie. Ad esempio “scapolo è un uomo non sposato” potrebbe sembrare una scoperta, in realtà è una semplice definizione di ‘scapolo’, è stabilire una sinonimia tra due significanti (‘scapolo’ e ‘uomo non sposato’).
Ricorrendo sistematicamente a equazioni matematiche, o a equazioni in generale, la scienza di fatto traduce le proprie scoperte in proposizioni definitorie. Per esempio,
“acqua = H2O”
È una definizione dell’acqua? Oggi sì, perché crediamo nella chimica odierna e quindi per acqua intendiamo qualcosa che è formato da due parti di idrogeno e una di ossigeno. Ma quando nel 1783 Lavoisier scoprì questa struttura chimica dell’acqua, allora si trattava di una proposizione sintetica, che dava un’informazione precisa sull’acqua. L’equazione, matematica o chimica che sia, è un atto di forza: scommette sul fatto che una relazione scoperta possa valere come definizione. In questo senso, la scoperta scientifica – ad esempio, la struttura dell’acqua – cambia il senso stesso dell’oggetto di ciò che essa spiega[2]. Da Lavoisier in poi, chiamiamo acqua solo H2O; e tutto ciò che sembra acqua ma non è H2O non sarà acqua (e in effetti, distinguiamo l’acqua dai vari sali che vi sono sciolti). Scoprendo certe strutture, la scienza modifica l’assetto semantico dei nostri linguaggi.
Come in ogni proposizione, anche qui abbiamo entità indipendenti tra loro: l’acqua, l’idrogeno e l’ossigeno. Perché questa formula abbia senso, occorre che i suoi componenti siano già noti, che siano insomma delle entità riconosciute. Se un elemento invece non è noto, avremo un’incognita. Nella scienza non si è contenti finché non si dà il nome di un’entità a questa incognita.
2.
In effetti, dimentichiamo che noi interroghiamo la natura – attraverso la scienza, ma non solo - attraverso il nostro linguaggio, che è strutturato più o meno, come ha dimostrato Noam Chomsky (1970), in un modo che alla scuola media studiavamo come “analisi logica”[3]. C’è una logica del linguaggio (proposizionale) che è a priori, un po’ come le sintesi a priori di Kant. Sostantivo, predicato nominale o verbale, complementi, attributi, ecc. È il tipo di rete che gettiamo sulla natura perché essa ci parli. In effetti, questo non lo dice Wittgenstein, lo dico io elaborando quel che lui dice: fare scienza non è dare semplicemente un’immagine della natura, è prima di tutto una serie di domande che poniamo alla natura e ciò che la natura risponde a esse[4]. È un gioco di domande e risposte. Domande secondo una griglia che lo scienziato appronta, e che può dimostrarsi più o meno perspicua o pertinente. È un po’ come quei sociologi e sondaggisti che pongono alle persone domande con risposta multipla: chi risponde può scegliere, ma solo al di dentro di una griglia data. È previsto anche “Non so”. E in effetti la natura spesso risponde “Non so”. O risponde in modo contraddittorio: per esempio, per secoli la luce, alla domanda “sei fatta di corpuscoli?” o “sei fatta di onde?”, in certi casi rispondeva che era fatta di corpuscoli, in altri casi rispondeva che era fatta di onde…
Ora, le domande poste dalla scienza alla natura hanno una forma proposizionale basilare, anche se, come abbiamo detto, il ricorso a vari tipi di matematica consente di domandare in modo variegato. Il nostro concetto di “ente” in effetti è assolutamente inscindibile dalla forma proposizionale, che implica un sostantivo, qualcosa di sostanziale. Anche se possiamo, a rigore, cambiare il ruolo di sostantivo e attributo. Ad esempio, anziché dire “il mio tavolo è verde” potrei dire “la verdità si particolarizza nel mio tavolo”, dove il sostantivo diventa “la verdità”. Perché no? Probabilmente la forma proposizionale – comune a tutte le lingue, come dimostra la grammatica trasformazionale – è non il nostro modo umano di percepire il mondo, ma di interpretarlo, di ordinarlo ab initio. Comunque è il nostro, non è detto che sia quello della natura stessa. In effetti, se – come asserisce Wittgenstein - ogni proposizione è immagine del mondo, la conseguenza è che il mondo stesso ci dà un’immagine di sé come proposizionale.
Qui avvertiamo l’eco delle fondamentali distinzioni kantiane: c’è uno scarto tra il soggetto e il reale che nessun idealismo potrà colmare. Un’eco kantiana che ritroviamo nell’affermazione di Niels Bohr: “Non c’è un mondo quantistico. C’è solo un’astratta descrizione quantistica. È sbagliato pensare che il compito della fisica sia descrivere come la Natura è. La fisica si occupa solo di quanto possiamo dire della Natura”[5]. Ovvero, la Natura è cosa-in-sé, possiamo dire solo come essa si manifesta a noi. O, in altri termini, una cosa è la natura, altra cosa è quel che possiamo dirne. Ma il paradosso è questo: possiamo dire che di una parte della natura non possiamo dir nulla?
E così, tornando al nostro esempio di “Cesare morì pugnalato”, diamo per scontato che Cesare esista anche quando non viene ucciso. Wittgenstein però si chiede: quando dico a qualcuno “Cesare morì pugnalato”, che cosa intendo per “Cesare”? Per me Cesare è il conquistatore delle Gallie, per te è quello che passò il Rubicone, per un altro è quello che dette a Cleopatra un figlio chiamato Cesarione... Al limite, possiamo associare a Giulio Cesare tratti del tutto diversi, in modo che il mio Cesare non avrà alcun tratto in comune col tuo. Possiamo dire che abbiamo allora “comunicato”? Crediamo di capirci perché usiamo le stesse parole, in realtà per ciascuno di noi le parole significano cose diverse. Gottlieb Frege (1892) direbbe: siamo sicuri che al di là dei Sinne (sensi) delle nostre proposizioni, ci riferiamo alla stessa Bedeutung (denotazione)? Da qui la necessità di definire le nostre parole con altre proposizioni, che a loro volta esigeranno altre proposizioni, e così via….[6] Non all’infinito, perché alla base – si pensa - ci sono degli oggetti sostanziali (“oggetti elementari” dirà Wittgenstein nel Tractatus). Ma lo stesso Wittgenstein si renderà conto che questo presupposto della “sostanza” è puramente immaginario. Per cui darà poi una risposta diversa (nelle Ricerche filosofiche): quando parliamo tra noi, ci capiamo nel senso in cui giochiamo a uno stesso gioco. È come giocare a scacchi: se entrambi conosciamo le regole del gioco, possiamo giocare assieme. Alla base del parlare non ci sono “oggetti” comuni ma giochi linguistici comuni. Parlare in modo sensato non è raffigurare, ma giocare assieme.
3.
Che cosa significa che la scienza viene fatta con proposizioni? Ora, come abbiamo visto in Wittgenstein, le proposizioni sono immagini del mondo, che possono essere anche false, ovviamente. Se dico “Cesare morì di tubercolosi”, dò un’immagine falsa del mondo, ma sempre immagine del mondo è. Quindi la scienza, siccome è un sistema di proposizioni, ci dà un’immagine del mondo, vera o falsa che sia (oggi si parla molto di fake news: ovvero, abbiamo un’immagine essenzialmente falsa del mondo). In filosofia queste immagini del mondo si chiamano modelli. La fisica di Newton ci ha dato una certa immagine dell’universo, Einstein ce ne ha data un’immagine un po’ diversa. E Rovelli ci dice: la fisica dei quanti invece non ci dà alcuna immagine del mondo. E questo al dispetto del fatto che per Rovelli – dico: giustamente – la scienza non si limita a fare previsioni. La scienza non dice solo “se riscaldi l’acqua a 100° C od oltre, allora evaporerà”, del resto si sono fissati 100° C della scala Celsius partendo proprio dal punto di ebollizione dell’acqua… Lo scienziato non avrà pace finché non avrà spiegato il perché l’acqua bolle e a quella temperatura. Ovvero, la scienza non si limita a prevedere, ma cerca di darci un’immagine intellegibile dei fenomeni. Quindi, ci fornisce modelli di come funziona il mondo.
Si prenda la teoria darwiniana, che è comunque una teoria scientifica, vera o falsa che sia: essa non prevede assolutamente nulla del futuro della vita (che in gran parte, del resto, dipende ormai da decisioni umane[7]), ma ci offre un modello storico della vita, cioè ci rende comprensibile ciò che è accaduto e ciò che accadrà degli esseri viventi. Ma rendere intellegibile la natura significa appunto costruire un sistema di proposizioni. La teoria darwiniana è un sistema di proposizioni.
Il punto è che la scienza si trova spesso di fronte a enigmi, ovvero non trova alcuna proposizione per certi fenomeni. Prenderò come esempio un enigma risolto (per ora) e due irrisolti: (1) l’attrazione a distanza tra sole e pianeti nella teoria di Newton, (2) il gatto di Schrödinger, (3) il paradosso EPR.
La teoria di Newton della gravitazione universale all’epoca fu criticata – in particolare dai fisici cartesiani – perché essa supponeva che il sole attraesse i pianeti attraverso il vuoto. Ma come facevano i pianeti a sapere che il sole li attraeva, se tra loro non c’era nulla? Newton non lo sapeva, perciò scrisse “hypothesis non fingo”[8], “non avanzo alcuna ipotesi”. In effetti la difficoltà nasceva dal fatto che i fisici all’epoca accettavano il postulato cartesiano secondo cui ci deve essere contatto diretto tra due oggetti perché l’uno influenzi l’altro. E a distanza non può esserci contatto[9]. Ovvero, certe proposizioni di Newton erano in contrasto con un’altra proposizione considerata fondamentale in fisica, quella del contatto tra gli oggetti perché l’uno fosse causa dell’altro. Riprendendo da Jacques Lacan la nozione di reale[10], dirò allora che l’inspiegabile attrazione a distanza segnalava qualcosa di reale, nel senso che nessuna proposizione fisica all’epoca riusciva a darne un’immagine. L’attrazione a distanza era “miracolosa”.
Dovremo aspettare l’elaborazione della teoria del campo grazie a Maxwell e Faraday, e all’uso che Einstein ne ha fatto, perché l’enigma newtoniano fosse risolto: quella che Newton vedeva come attrazione tra corpi celesti, va interpretata ora come percorrenza in uno spazio curvo. La massa solare curva lo spazio attorno a sé e quindi i pianeti, nella misura in cui vanno dritti… girano attorno. Possiamo quindi dire, col senno di poi, che il campo era il reale per la teoria newtoniana. Quando la scienza è stata in grado di descriverlo – cioè di dargli forma proposizionale – ha cessato di essere reale (nel senso lacaniano).
L’esperimento mentale del gatto di Schrödinger (del 1935) era una provocazione, da parte di Schrödinger, nei confronti dei colleghi quantistici, nel senso che esso sfida un punto fondamentale della teoria dei quanti: l’indeterminatezza. Possiamo dire insomma che Schrödinger stava ai quantistici “puri” (come Bohr e Heisenberg) così come i fisici cartesiani stavano a Newton: entrambi sfidarono i loro avversari facendo appello a un sapere che la teoria non ammette: “come le cose fanno a sapere che…?”
Non descrivo qui il “gatto di Schrödinger” perché basta la descrizione di Rovelli[11]. Va detto comunque che è abusivo dire che, finché non si apra la scatola, il gatto sarà allo stesso tempo vivo e morto, perché il gatto è un oggetto macroscopico. Per gli oggetti macroscopici vale il buon senso, cioè il determinismo: se la scatola fosse trasparente, ad esempio, vedremmo bene che o il gatto resta sempre vivo, oppure a un certo punto muore. Resta però un problema per la fisica quantistica: come spiegare il fatto che a livello macroscopico non si riveli la struttura indeterministica delle particelle elementari? In effetti la fisica dei quanti vale per oggetti molto isolati, mentre nel nostro mondo macroscopico tutto risulta deterministico perché tutto è interconnesso. Abbiamo quindi oggi una visione indeterministica a livello delle particelle elementari, e una visione deterministica a livello degli oggetti macroscopici.
Un altro paradosso, elaborato lo stesso anno del gatto di Schrödinger, è l’EPR (Einstein-Podolsky-Rosen 1935). Il problema sollevato da EPR era la violazione del principio di località, in quanto l'entanglement[12] si mantiene indefinitamente anche tra due particelle (dei fotoni, secondo l’interpretazione più corrente) che hanno interagito e si sono allontanate. Ciò implica che se si misura una grandezza fisica di una, risulta determinata istantaneamente anche quella dell'altra, a prescindere dalla distanza. Anche qui: siccome l’informazione non può superare la velocità della luce, come fa la seconda particella a “sapere” istantaneamente la grandezza della prima e a uniformarsi?
Il paradosso era volto a dimostrare l’incompletezza della meccanica quantistica (essa presupporrebbe cioè delle variabili nascoste). In ogni caso, Wittgenstein diceva che ogni teoria fisica è incompleta[13].
Il termine entanglement non viene mai tradotto nelle varie lingue, data l’ambiguità del suo senso in inglese. Non è una semplice correlazione. Il termine indica qualcosa come groviglio, garbuglio. Il termine più appropriato mi sembra: invischiamento. Ma anche – si badi – imbroglio, truffa… Insomma, il termine connota qualcosa di raffazzonato, se non addirittura di fraudolento… La scelta del termine mi pare che la dica lunga.
Di fatto è la riedizione del dibattito sull’attrazione a distanza: come oggetti sanno quel che succede ad altri oggetti distanti? Sottolineo sanno perché la fisica si basa sul presupposto che “sapere” è una nozione che riguarda solo la mente; la nozione di informazione non implica ipso facto che un oggetto sappia di cosa è informato. Ovvero, la scienza – non solo la fisica – separa nettamente l’epistemico (il sapere) dall’ontico (ciò che è). È quel che Einstein chiamava, a proposito del paradosso EPR, realismo: la fisica dei quanti, secondo lui, infrange il presupposto realista della fisica. Degli animali e degli esseri umani possono sapere, ma una sedia, una foresta, una galassia, non possono sapere… a meno appunto di non riformulare completamente il senso del termine “sapere”, come ha cercato di fare la teoria dei sistemi[14], per esempio. Ma allora, si sospetta sempre un po’ la truffa, l’entanglement…
Eppure il concetto di sapere non solo ammette, ma esige una distanza tra chi sa e cosa è saputo. Sarebbe ridicolo pensare che l’orbita della luna sia deviata dal fatto che un astronomo la osservi con un telescopio. Sappiamo che la luna come massa interagisce con la terra, ad esempio producendo maree. Ma come un puro sapere – animale, per definizione – può interagire con la cosa saputa, che appartiene a tutt’altro ordine ontico? Certo, se sono un osservatore posso interagire con la cosa che osservo: se osservo che mi arriva una palla in faccia, interagisco alzando il braccio e deviando la palla. Ma non interagisco in quanto osservatore, interagisco in quanto massa corporea, il che è molto diverso. L’osservatore in quanto puro osservatore non interagisce, eppure la teoria quantistica dice che si interagisce come osservatori.
Ora, se si segue la falsariga di Wittgenstein, si capirà che la funzione del soggetto (parlante, osservante, percipiente…) è inerente allo stesso concetto di proposizione. Non il soggetto psicologico, sottolineerà Wittgenstein, ma un soggetto che chiamerà metafisico (o trascendentale). Ogni proposizione implica un soggetto che la crea, la dice o la scrive, perché ciò è una conseguenza della definizione stessa di proposizione. Prendo un esempio semplice: “X è in relazione con Y”. Appena leggiamo una proposizione di questo tipo, subito ci chiediamo: Chi l’ha scritta? Quando l’ha scritta? Come l’ha scritta? Che cosa voleva dirci? … Ovvero subito supponiamo un soggetto che sia in relazione con la proposizione “X è in relazione con Y”. Diamo per scontato insomma che ogni relazione, descritta da una proposizione, implichi un’altra relazione, tra la proposizione stessa e chi l’ha emessa. Certo, possiamo giungere alla conclusione che quella frase non l’ha emessa nessuno, che un computer casualmente l’ha prodotta. Ma anche quella tra il computer e la frase che esso ha generato è una relazione.
Ora, voler inserire l’osservatore nell’osservato – come propone Rovelli – significa esplicitare questa relazione? Ad esempio, scrivo
“P scrive che ‘X è in relazione con Y’”
E siccome scrivere è una forma di relazione, possiamo dire anche genericamente: "P è in relazione con 'X è in relazione con Y'"
Come si vede, abbiamo messo una bambolina russa dentro un’altra bambolina russa. Ora la nostra proposizione si occupa della relazione tra P e la sua proposizione. Questo significa che il gioco delle bamboline russe può proseguire potenzialmente all’infinito. Noi che ci occupiamo della proposizione (2) potremmo scrivere a nostra volta:
“Noi N siamo in relazione con “P è in relazione con ‘X è in relazione con Y’””
E così via.
Come si vede, ogni proposizione e ogni meta-proposizione implicherà sempre, da qualche parte, un soggetto enunciante che resta sempre al di qua della proposizione stessa. Un soggetto che viene sempre ricacciato all’indietro. Sartre – ad esempio – chiamò coscienza[15] questo soggetto puntuale, un quasi-nulla, direi un non-nulla. Non si tratta di un soggetto concreto ma di una funzione: ogni proposizione, nella misura in cui è immagine del mondo, rimanda a un per chi questa è immagine. Questo per chi non è nessuno di preciso. Certo possiamo creare immagini del mondo in cui il “per chi” è incluso, ma di fatto non esautoreremo mai la funzione soggettiva implicata da ogni proposizione. Un soggetto resta sempre extra, fuori-del-mondo, per il quale il mondo si manifesta. È come nel mondo polare descritto da E.A. Poe (1838) in Gordon Pym, dove nulla è bianco, tutto è nero o scuro. Ma anche se di fatto non c’è alcuna cosa bianca, “il bianco” è sempre presupposto a ogni cosa proprio nella misura in cui ogni cosa è percepita come nera.
Questo del resto è il limite dell’empirismo filosofico. Esso è consistito nel dire che ogni descrizione del mondo va preceduta da una clausola: “Io vedo (o odo, o tocco, od odoro) che ‘X è in relazione con Y’”, ma si tratta solo di un’inscrizione della descrizione del mondo a un altro livello, che non muta affatto la descrizione del mondo. In questo senso l’empirismo filosofico, nato come scettico (Hume), è stato reintegrato dal realismo più severo: l’aggiungere una clausola soggettiva non muta nulla dell’enunciato oggettivo. Trasforma l’enunciato oggettivo in un enunciato-oggetto da parte di un soggetto, ma non ne cambia affatto la struttura. Dire
“Io penso che il mondo è descritto bene dalla meccanica quantistica”
non cambia nulla della valutazione della meccanica quantistica, equivale insomma a dire:
“il mondo è descritto bene dalla meccanica quantistica”[16]
Possiamo togliere benissimo quell’”Io penso che”. Ogni enunciato assertivo implica sempre un “io penso che”, “io credo che”, “io dico che”… che possiamo togliere senza che il senso generale dell’enunciazione cambi. L’empirismo assoluto de facto coincide con un realismo assoluto[17]. E Wittgenstein si situa su questa linea.
Ma è proprio ciò che non vuol dire Rovelli: non crede che introdurre l’osservatore (o l’enunciatore) nella cosa osservata sia costruire enunciati metalinguistici che includano l’osservatore, perché questi, abbiamo visto, sono superflui. Intende dire, al contrario, che l’osservatore modifica sempre l’osservato, quindi ne è parte.
Da notare che Wittgenstein aveva affrontato il problema nel Tractatus, solo che aveva usato una figura visiva (l’occhio) e non una figura enunciativa (chi dice).
5.632 Il soggetto non appartiene al mondo ma è un limite del mondo.
5.633 Dove, nel mondo, un soggetto metafisico andrebbe visto? Tu dici che questo caso è proprio come quello dell’occhio e del campo visivo. Ma tu non vedi realmente l’occhio.
E nulla nel campo visivo fa concludere che esso sia visto da un occhio.
5.6331 Perché il campo visivo non ha una forma come questa:
5.634 Ciò inerisce al fatto che nessuna parte della nostra esperienza è anche a priori (Wittgenstein 1922)[18].
Quel che Wittgenstein chiama qui soggetto metafisico è qualcosa che non può mai essere incluso nel campo, perché è presupposto a ogni campo – posto prima di ogni campo. Si ritira sempre più indietro, fino a coincidere con un “punto senza estensione”, come abbiamo già visto. È solo la distanza che c’è in ogni enunciato rispetto al suo enunciatore supposto. L’Io metafisico insomma è vuoto, eppure ineliminabile. Non è parte del mondo perché per Wittgenstein il mondo è sempre relazioni che una proposizione descrive, mentre nessuna proposizione può descrivere questo soggetto al di qua di ogni proposizione. È questa la differenza con la fenomenologia di Sartre, ad esempio, che ha sempre cercato di tematizzare proposizionalmente il soggetto metafisico, chiamandolo per-sé.
Ma cosa succede se proviamo invece a introdurre davvero l’enunciante nella proposizione?
Abbiamo visto come Henry James ci abbia descritto un essere puramente relazionale. Due artisti, Picasso e Braque, hanno anch’essi preceduto la fisica dei quanti con il cubismo (peraltro evocato da Rovelli [2020, p. 46] stesso a proposito del q-bismo). Un quadro cubista è costruito mettendo insieme molteplici punti di vista su uno stesso oggetto: il risultato, come è noto, è che non c’è più “oggetto”. In effetti, provate a descrivere un quadro cubista!
Parliamo di arte figurativa quando siamo in grado di descrivere il contenuto di un quadro, ovvero descrivere (enunciare proposizioni su) un oggetto. Ma con quali proposizioni possiamo descrivere un oggetto cubista?
In realtà, pensiamo che un “oggetto” cubista sia il risultato di svariati punti di vista su un oggetto perché ce l’hanno detto i pittori, ma potremmo vedere quei quadri anche come semi-astratti. Ovvero, l’idea cubista di moltiplicare gli osservatori era un modo per dare senso proposizionale a quello che facevano. Vedremo un’operazione simile anche in Rovelli.
Il punto è che, anche dopo questo primo tentativo, si dissolve l’oggetto figurativo, ovvero ci possono essere parole per descrivere un quadro cubista, ma non proposizioni… Forse dovremmo ricorrere piuttosto alla musica per descrivere un quadro cubista.
4.
Ma cosa significa, in fisica, che ogni oggetto è osservatore rispetto all’altro? Qui si attinge al concetto di informazione: le interazioni fisiche possono essere descritte come scambi di informazioni. Eppure “informazione” resta un concetto, se non antropomorfico, certamente bio-morfico: estendiamo alla realtà inorganica quel che attribuiamo a enti viventi. Il che è perfettamente legittimo.
Ora, Rovelli vuol dare a informazione un senso puramente fisico: esclude che informazione debba presupporre una mente informata. Di fatto, riduce il concetto di informazione a quello di interazione. Eppure ogni tanto usa il termine manifestare: dice anzi che un ente esiste solo se un altro si manifesta a lui. Ma il concetto di “manifestazione”, ancor più di quello di informazione, implica una mente. Dico che, quando non è luna nuova, la luna mi si manifesta perché io la vedo. Possiamo dire che la luna si manifesta all’acqua del mare, quando c’è alta marea? Possiamo dirlo in modo metaforico. Ma la scienza può far passare delle metafore come spiegazioni? A meno di non cambiare completamente il senso di “manifestazione”, ma allora occorre aver scoperto qualcosa che legittimi questa modificazione di senso. Ovvero, non è cambiando il senso di alcune parole del linguaggio comune – o creando sinonimi del linguaggio comune - che possiamo fornire una vera spiegazione scientifica.
Il punto forte del gatto di Schrödinger o dell’EPR è che in entrambi i casi si denuncia, per dir così, un presupposto che nemmeno la fisica quantistica può accettare: l’intersecarsi tra epistemologia e ontologia. Altrimenti sarebbe magia. Il mago pretende di fare proprio questo: usa dei significanti, dei simboli, per influire sulla realtà. Pronuncia alcune frasi tipo abracadabra, e afferma che quelle parole agiscano sulla natura. Ma la fisica parte dal presupposto che il rapporto natura-scienziato non è magico. Il significante deve restare separato dalla cosa.
Sarebbe come se Newton per cavarsela di fronte ai suoi critici, avesse detto “la terra e il sole sono due oggetti entangled”. Ma sarebbe stata questa una vera risposta? Il fatto che siano entangled – invischiati l’un l’altro - è un dato di fatto che dobbiamo spiegare, appunto, è un explanandum (qualcosa che deve essere spiegato), non un explanans (qualcosa che spiega). Altrimenti si è tentati di dare a entanglement il senso che pure il termine ha, di inganno.
[Alcuni non credono che la spiegazione scientifica consista nel determinare le cause dei fenomeni. “La causa”, dicono, è un concetto metafisico, ma non esiste. In realtà dobbiamo considerare, come Aristotele, almeno quattro cause. Il punto non è comunque sapere se la causa esista o meno, il punto è chiedersi: nel linguaggio comune come in quello scientifico, che cosa si intende per causa? Cosa vogliamo dire quando diciamo, ad esempio, “il calore ha causato la dilatazione di quel pezzo di ferro”? Certo non esiste l’ente causa, ma che cosa significa dire quella frase? Un’analisi del concetto di “causa” esigerebbe un libro a sé, per lo meno. Qui mi limiterò a dire quel che, secondo me, intendiamo, sia nel discorso comune che in quello scientifico, per “causare qualcosa”. In “il calore ha causato la dilatazione del ferro” diciamo che assumiamo qualcosa – il pezzo di ferro – come stabile, qualcosa che non muta. Poi a un certo punto questo oggetto muta, ad esempio si dilata. Oppure si muove. Assumiamo che qualcosa di esterno al ferro abbia disturbato il ferro, lo abbia dilatato o lo abbia mosso, e per “causa” intendiamo questa forza esterna che l’ha modificato. Il concetto di causa implica sempre una modificazione, la fine di una stabilità, e pensiamo di aver trovato la causa quando possiamo asserire che una certa cosa ha modificato un’altra cosa. Certo la scienza può trovare eventi senza causa, ma questo non significa che li spieghi altrimenti. L’indeterminazione è un limite della spiegazione, non è una spiegazione di ordine superiore. Se scopro ad esempio che quel pezzo di ferro si dilata due volte al giorno sempre alla stessa ora in assenza di qualsiasi aumento di calore, è certamente un successo aver constatato questa regolarità, ma la regolarità non è la spiegazione della dilatazione. La scienza non è costretta a spiegare tutto – può anche semplicemente descrivere – ma quando essa spiega, diciamo allora che ha trovato una causa. Ovvero, ha messo in relazione due fenomeni, in cui il primo ha modificato il secondo.]
5.
In sostanza, Rovelli propone qualcosa che anche Newton avrebbe potuto fare se avesse risposto ai suoi critici “dobbiamo assumere che nello spazio c’è un’attrazione a distanza”, ovvero viene proposta come soluzione una riformulazione del problema stesso. L’attrazione, da explicandum che era, viene messa in posizione di explicans. Ma Newton non ha fatto così, innanzitutto perché questo avrebbe violato il rasoio di Occam (entia non sunt multiplicanda praeter necessitatem), introducendo un ente particolare come l’attrazione a distanza, e soprattutto perché la cosa sarebbe stata accolta come un trucco. Si sarebbe potuta accostare questa sua “soluzione” alla “spiegazione” data dai medici di Molière: “l’oppio fa addormentare perché possiede una virtus dormitiva”. Quei medici ci fanno ridere perché spacciano come spiegazione una semplice riformulazione del fenomeno che dovrebbero spiegare: il potere dell’oppio di far dormire.
Ma ciò che ci fa ridere nel teatro di Molière, smette di farci ridere quando Rovelli dice che, di fatto, l’entanglement, il garbuglio,fra due particelle non è qualcosa che bisogna spiegare, ma è la spiegazione stessa. L’entanglement è si una relazione, ma speciale: un invischiamento. Se due particelle si influenzano, in qualsiasi modo, pur essendo distanti tra loro, ciò che spiega questa informazione senza informazione è il loro entanglement. Come considerare filosoficamente una manovra del genere?
Di fatto, la fisica dei quanti vince ogni obiezione grazie alla sua forza predittiva. Per esempio, Rovelli parla di un’esperienza con un apparecchio fotonico di cui lui stesso è stato testimone (Rovelli 2020, pp. 34-37). Lo sperimentatore spezza un fascio di fotoni facendoli passare per due percorsi paralleli. Dopo di che i due spezzoni si riuniscono e devono “scegliere” tra due percorsi, diciamo “alto” e “basso”. Si constata che, in questo caso, tutti i fotoni prendono il percorso “basso” e nessuno “alto”, e non metà “alto” e metà “basso” come la probabilità farebbe prevedere. A meno che un osservatore non misuri uno dei due percorsi precedenti: allora effettivamente i fotoni prenderanno metà e metà i percorsi “alto” e “basso”. Anche in questo caso, hypothesis non fingo, ovvero la teoria non ha alcuna spiegazione per questa variazione in cui pare prodursi un corto-circuito tra sapere e realtà (tra significanti e cose).
Quel che conta, allora, è che questa esperienza permetta una previsione precisa. Ovvero: “solo se interferisco con uno solo dei fasci di fotoni divisi in due percorsi, potrò avere una distribuzione eguale di fotoni nei due percorsi divaricati successivi”. Posso fare questa predizione, anche se non so perché accade.
Eppure Rovelli aveva detto che la scienza non si limita a prevedere, vuole anche capire perché, vuole rendere intellegibile il mondo. Ora, mi pare che invece la grande forza della teoria dei quanti sia proprio nella sua potenza predittiva, accanto a un deficit esplicativo. Il che non deve sorprenderci. Questo, ancora una volta, accadde con la controversia tra newtoniani e cartesiani. La fisica cartesiana spiegava tutto ma non prevedeva nulla, la fisica newtoniana aveva grandi falle esplicative ma prevedeva tante cose. Alla fine ha prevalso la fisica newtoniana perché la scienza ha messo la capacità predittiva in una posizione preminente: si è auto-promossa come soprattutto gioco predittivo. Non ha certamente buttato alle ortiche ogni volontà esplicativa, comunque ha messo la prevedibilità in una posizione diciamo dirimente. È quel che si ripete oggi con la fisica dei quanti: la sua straordinaria forza predittiva ne assicura il successo. La prevedibilità compensa, per dir così, l’indeterminazione. La filosofia della scienza e la stessa scienza hanno optato per una visione pragmatista.
Possiamo vedere allora questo deficit esplicativo della fisica dei quanti in due modi. Un modo è quello di aspettarci una soluzione, per dir così, dalla storia. Ovvero, accettare il deficit esplicativo della teoria come un deficit effettivo ma provvisorio, e aspettare un nuovo Einstein il quale troverà un giorno la teoria che finalmente darà una ragione all’indeterminismo quantistico, così come Einstein – quello vero – trovò la risposta all’enigma dell’attrazione a distanza. La fisica dei quanti dovrebbe riconoscere un proprio relativo scacco esplicativo, ovvero un’incompletezza che andrà riparata.
C’è poi un altro modo – quello preferito da Rovelli, suppongo – che consiste invece nel dire (nella nostra terminologia) che l’indeterminazione è reale. Ovvero, non ci sarà mai una teoria più forte della fisica quantistica che darà ragione delle indeterminazioni quantistiche. Che davvero, a livello delle particelle elementari, abbiamo scoperto quella che chiamerei la libertà della Natura dal determinismo. Si ripete spesso la frase di Einstein “Dio non gioca a dadi” come critica della fisica quantistica, e così la risposta che gli dette Bohr: “La vuoi smettere di dire a Dio che cosa deve fare?” Ovvero, Dio è libero, può fare quello che vuole. In questa ottica, potremmo anche accettare che Dio (ovvero la Natura) crei qualcosa dal nulla. Perché proibirglielo? (Ammettere che si crei qualcosa dal nulla non implica che ci debba essere per forza un creatore, del resto.) La scienza non dovrebbe partire da alcun presupposto che ci dica a priori che cosa la Natura può fare o non può fare. Che è poi quel che aveva detto Wittgenstein: “nessuna parte della nostra esperienza è anche a priori” (vedi più sopra).
Ovvero, potremmo dire che la teoria scopre, a livello delle particelle elementari, qualcosa che dobbiamo presupporre a livello non del molto grande (sistemi solari, galassie), ma del più grande che ci sia: a livello del tutto. La fisica dei quanti ci dice che le particelle non sono entità, ma eventi. Ora, anche l’universo tutto – a meno che non ci siano altri universi a noi ignoti – può essere descritto solo come evento. In effetti, se è il tutto, non può essere in relazione con altro-dal-tutto. Ovvero, l’universo tutto non può essere determinato, insomma non ci possono essere cause dell’universo. È evento perché è absolutus, assoluto, sciolto da qualsiasi altra cosa: altrimenti non sarebbe tutto l’universo, ma solo una parte.
Oggi la maggior parte degli scienziati accetta la teoria del Big Bang, che sembra una teoria implicitamente creazionista. Il Big Bang ci dice che il nostro universo è conseguenza di un evento singolare, un’esplosione che del resto è ancora in corso, a partire da un volume piccolissimo, probabilmente quello di un protone. Ora, questo evento è connesso a un’assoluta singolarità. Con singolarità si intende qualcosa che è impossibile ma che pure esiste (definizione stessa del reale nella nostra accezione ripresa da Lacan). Nessuna teoria fisica può minimamente descrivere cosa abbia provocato quest’esplosione.
6.
Ora, mi distacco da un commento del libro di Rovelli e cerco di rispondere comunque alla questione di fondo che il suo approccio solleva: che cosa significa spiegare qualcosa in fisica, e nelle scienze in generale?
Le scienze esplicative, prima tra tutte la fisica, pretendono fornirci leggi universalmente valide. Secondo molti, queste leggi universalmente valide (che non ammettono quindi eccezioni) descrivono le vere cause degli eventi. (Secondo Koyré [1965, 1966] e Kuhn [1977, pp. 21-30] la fisica moderna privilegia le cause formali, come direbbe Aristotele, distinte dalle cause materiali, efficienti e finali). E le leggi causali sono dei "come" che trovano il loro senso nell'esigenza del "perché?" È questa la molla che fa sì che la scienza non si accontenti mai della propria capacità predittiva, ma si ponga domande sulle cause vere, allargando grazie a questa pretesa il proprio campo predittivo. L’impostazione di Hume, secondo cui la scienza punta alla pura prevedibilità grazie a regolarità riscontrate (ciò che chiamiamo “causa” è di fatto una concomitanza regolare), senza curarsi di ciò che è reale e ciò che non lo è, non coglie il bisogno essenziale alla base della scienza. Un vero scienziato non si accontenta mai della previsione pratica: punta sempre a capire il perché delle cose. Per esempio, Copernico e Kepler avevano descritto con una certa precisione i moti dei pianeti attorno al sole, ma ben presto i cosmologi si sono chiesti: perché girano? Newton fornì la risposta, interpretando quel “girare attorno” come risultato di un “cadere nel”. E poi a sua volta ci si è chiesti: “perché i corpi cadono nel…?” E così via di seguito. All’infinito?
Come abbiamo detto, la fisica di Newton lasciava inesplicata l'attrazione a distanza. Per due secoli, gli scienziati non hanno smesso di cercare il perché (cioè la causa) dell'attrazione a distanza. Da qui l'ipotesi dell'etere cosmico, ecc. Se la scienza si fosse limitata al "come" della gravitazione, ci saremmo fermati alla fisica newtoniana[19]. È vero però che i "perché?" della scienza sono a loro volta strutture di calcoli predittivi. La scienza rimanda sempre più in là la risposta al why? allargando l'ambito del because. Ma la regola delle sequele di because è in un why? trascendentale, potremmo dire.
In un film di Jean-Luc Godard, Alphaville (1965), siamo in una galassia che assomiglia molto alla terra: qui tutto è dominato dalla razionalità scientifica e da un computer tipo Matrix. Così è proibito dire “pourquoi?” (il why? inglese), si può dire solo “parce que” (il because inglese). L’ideale della scienza è esaurire la domanda esplicativa?
Significa questo che la scienza può imbattersi nell'evento puro, cioè in qualcosa senza causa, sine ratione? Wittgenstein nel Tractatus pensava che "il mondo è tutto ciò che accade [o cade][20]"; allora può anche accadere qualcosa senza causa? Per Wittgenstein la scienza non può scoprire un puro evento senza cause per la semplice ragione che questo non fa parte del proprio gioco. In questo senso la scienza non potrà mai legittimare i miracoli, ad esempio; potrà al massimo dire che certi fenomeni sono provvisoriamente non spiegati.
Immaginiamo, disse Wittgenstein (1967, pp. 5-19), che mentre sto qui parlando la testa di uno dei miei ascoltatori si trasformi nella testa di un leone. Sarà mai ciò un miracolo per un uomo di scienza? No, l'uomo di scienza cercherà di trovare le cause del fenomeno - cioè, cercherà di formulare delle leggi in cui quella metamorfosi potrebbe rientrare. Che ci riesca o meno è solo una questione di tempo, si pensa - l'umanità potrebbe estinguersi prima di aver trovato una risposta.
Eppure, in un certo senso, l'essere umano, lo stesso che poi opta per la scienza, è sempre confrontato - nota Wittgenstein - al miracolo: al fatto che esista l'universo. E ciò - nota Wittgenstein - "mi riempie di meraviglia". La causa di tutto ciò che accade è qualche altra cosa che accade, ma qual è la causa dell'accadere delle cose? A questa domanda la scienza non ha risposta, perché tutte le sue risposte sono un avvicinarsi asintotico a questa risposta impossibile. Ovviamente, nemmeno la riflessione filosofica sarà mai in grado di dare una risposta a questa ingenua domanda.
Scrive Rovelli (2020, p. 34), “Una ‘sovrapposizione quantistica’ è quando sono presenti insieme, in un certo senso, due proprietà contraddittorie”. Ora, in logica la contraddizione ha la modalità dell’impossibile: è come dire “piove e non piove”. La fisica quantistica ci dice insomma che “il reale è l’impossibile” (come diceva Lacan). Ma questo reale o impossibile è il limite della spiegazione scientifica (che quindi risulta incompleta), non il suo trionfo. Ed è proprio questa l’importanza della fisica quantistica: che determina i limiti della fisica stessa. La fisica quantistica è una fisica limitativa della spiegazione fisica, così come – suol dirsi – il teorema di Gödel è una limitazione della dimostrabilità matematica: non tutto il vero matematico è dimostrabile.
7.
Popper ha fatto rilevare, contro la tradizione empirista, che l'aumento di contenuto delle teorie scientifiche è inversamente proporzionale al crescere della probabilità che l’evento descritto dalla teoria si produca. Se chiamo a l'enunciato "venerdì pioverà" e chiamo b l'enunciato "sabato non pioverà", la congiunzione ab avrà ovviamente un contenuto più ricco dei due enunciati isolati, è una proposizione più informativa. Ma, fa notare Popper, questo aumento di contenuto - cioè di informatività - implica anche una maggiore improbabilità, e quindi una maggiore rischiosità della previsione. La previsione "venerdì pioverà e sabato non pioverà" è difatti più improbabile (è un pronostico più rischioso) di dire "sabato non pioverà" o “venerdì pioverà”. Da qui la formula:
Dove Ct(a) è il contenuto di ‘a’, Ct(b) è il contenuto di ‘b’, e Ct(ab) è il contenuto di ‘ab’.
Questa formula, fa notare Popper, è l'inverso della formula classica della probabilità:
p(a) ≥ p(ab) ≤ p(b)
dove p(a) è la probabilità di ‘a’, p(b) è la probabilità di ‘b’, e p(ab) è la probabilità di ‘ab’.
Quindi,
se l'accrescersi della conoscenza significa che operiamo con teorie di contenuto crescente, ciò deve anche significare che operiamo con teorie di decrescente probabilità (nel senso del calcolo delle probabilità). [...] Nella misura in cui la scienza aspira al massimo contenuto, essa aspira all'improbabilità. [...] Il calcolo delle probabilità, nella sua applicazione ("logica") alle proposizioni o asserti, non è altro che un calcolo della debolezza logica, o mancanza di contenuto di questi asserti. (Popper 1972, pp. 373-5).
Il caso estremo sono asserti del tipo
"venerdì pioverà o non pioverà"
Questo asserto è assolutamente vero proprio perché è tautologico, ovvero lapalissiano. I logici di un tempo dicevano che enunciati del tipo (8) sono "veri in tutti i mondi possibili", ovvero hanno probabilità 1 (che equivale alla necessità), ma proprio per questo hanno un contenuto informativo 0. Le verità logiche e matematiche sarebbero di questo tipo: hanno la probabilità massima di essere vere (nel senso che sono necessarie, certe) ma non dicono nulla del mondo esterno, hanno contenuto 0. (Anche se Popper e Wittgenstein si sono sempre cordialmente detestati, bisogna dire che essi danno comunque questo punto come assodato: solo la logica è necessaria, e proprio per questo non dice nulla del mondo.)
Ora, la ricostruzione empirista classica della spiegazione scientifica vedeva le teorie scientifiche come enunciati sempre più probabili, in una convergenza asintotica verso la necessità logica (probabilità 1). Nella filosofia logica moderna è il contrario: le teorie scientifiche, proprio perché mirano a un contenuto più ampio - il cui massimo è il tutto, ovvero l'insieme di tutti gli enti -, tendono a un'improbabilità sempre maggiore, tendono insomma verso l'impossibile, la probabilità 0. "Venerdì pioverà e non pioverà", enunciato sicuramente falso perché enuncia una contraddizione, è ciò verso cui tutte le spiegazioni scientifiche asintoticamente tendono, nel senso che non raggiungono mai questa probabilità zero, questo impossibile. E abbiamo visto, con Rovelli, che la fisica quantistica ci è molto vicina. Ma il fatto che vi tendano presuppone questo evento: è l'evento allo stato puro, senza alcuna causa, più che improbabile. È il fatto che ci sia questo universo di enti e non un altro. Ovvero, il tendervi comporta il fatto che l’universo abbia una storia, piuttosto che essere pura entropia. Il reale come impossibile non è qualcosa che la scienza scopre, insomma, ma qualcosa di presupposto dal suo “gioco”. Così come è presupposto a ogni gioco di scacchi che esso non possa continuare dopo lo scacco matto, per esempio. Il "fatto" che ci siano enti è impossibile, eppure è presupposto dalla scienza. La scienza non può mai porre la creazione, ma deve sempre in qualche modo presupporla – porla come presupposto, porla prima, supporla come precedente - come l’impossibile che contiene le possibilità del mondo.
La scienza biologica, ad esempio, ha eliminato giustamente il vitalismo, che si riduceva a un limite della capacità esplicativa del tutto vivente. La moderna biologia studia i tessuti viventi come fatti chimici, ovvero come fenomeni deterministici. Ma così facendo ha rimandato il paletto all’indietro, dato che la biologia non sa rendere conto come dall’inorganico si passi all’organico nella storia della materia; ovvero, come possa essere accaduto qualcosa di così improbabile, fino a sfiorare l’impossibile, come il formarsi della vita. L’estrema improbabilità della vita – si dice – rende verosimile la tesi che la vita forse si sia sviluppata una volta sola nell’universo, sulla terra.
Ma allora, che cosa succederebbe se tutto l'universo fosse finito[21], e se quindi la scienza ampliasse il proprio contenuto fino a poter spiegare, cioè prevedere, tutto quello che avverrà, da ora in poi, fino alla fine dei tempi, come il Dio di Laplace? Questa amplificazione massima del contenuto coinciderebbe con una probabilità bassissima - e quindi, secondo Popper, con una controllabilità massima? - oppure avverrebbe il salto nell'impossibile? Tutto lascia presumere che saremmo in questo secondo caso. Ergo, è impossibile spiegare il reale, cioè il tutto dell’universo, in quanto reale.
[Qualcuno può obiettare che do l’universo come un tutto, ein Ganz, ma non è detto. Personalmente, non ho alcuna idea di come sia l’universo, se sia finito o infinito, tutto o non-tutto, non so se ci siano infiniti universi o uno solo, ecc. Siccome non sono un metafisico, non ho alcuna idea a priori dell’universo. Considero qui l’universo così come lo concepisce la cosmologia di oggi, 2021, una concezione che un giorno potrebbe dimostrarsi falsa, ovviamente. Che poi nel nostro universo ci possano essere dei buchi che lo mettono in contatto con altri universi, con infiniti universi…. può darsi, ma chi può dirlo? Mi attengo al sapere scientifico, che parla dell’universo come di un tutto chiuso. E che, come tutto chiuso è destinato all’entropia. Tutta la teoria del Big Bang e dell’universo in espansione implica il presupposto che l’universo sia un tutto finito, anche se illimitato].
Prendiamo i dadi. L'enunciato "il dado cadrà su uno dei sei lati" ha probabilità 1 e contenuto informativo 0[22]. Un enunciato che prevedesse il risultato dei prossimi mille miliardi di lanci avrebbe un contenuto esplicativo enorme e una probabilità bassissima. Ma la previsione di tutti i risultati dei lanci possibili sarebbe impossibile, o ancora possibile mantenendo una sua probabilità infinitesima? È una domanda metafisica senza risposta intelligibile?
Ora, spiegare tutto significherebbe anche rispondere alla questione di Leibniz: spiegare perché c'è qualcosa piuttosto che nulla. Il tutto deve restare malgrado tutto contingente, cioè non necessario - altrimenti avrebbe probabilità 1, la sua occorrenza sarebbe certa, e quindi l'onni-spiegazione avrebbe contenuto informativo 0. Questo implica che debba esistere un minimo di non-impossibilità perché appunto il mondo sia. Ma questa infinitesima probabilità che il mondo sia quello che è, che il mondo resti evento - cioè nel suo insieme non necessario - coincide con la differenza infinitesima per cui "spiegare tutto" non sarebbe appunto tale, una spiegazione di tutto. Spiegare tutto – ovvero, rendere ragione del Tutto - è impossibile perché altrimenti il mondo sarebbe necessario, come pensavano le vecchie metafisiche, prima di Kant. E ogni metafisica che voglia spiegare il Tutto finisce sempre con ciò che a Napoli si chiama “finale a tarallucci e vini”, il lieto fine è assicurato: l’ente ha un senso, il mondo è il migliore dei mondi possibili, tutto va bene, Dio è buono…[23] Ma è proprio escludendo la necessità dell'universo nel suo insieme che ha senso la scienza empirica, la scienza tout court. La scienza si sviluppa sulle ceneri di ogni metafisica sorridente che in tutto vede una necessità, dunque un senso, anche nell’orrore della vita.
Il paradosso è questo: che la scienza, escludendo che il mondo sia necessario, ne presuppone l'esistenza come impossibile da spiegare - nel doppio senso, che è impossibile spiegarlo tutto, ma anche un impossibile che pur va spiegato. L'universo nel suo insieme appare alla scienza (questo è corollario del gioco della scienza) come un evento senza probabilità, come uno sprazzo di luce che emerge dalla notte invadente dell'impossibile. L'intero universo risulta, agli occhi della scienza, un’infinitesima differenza dall'impossibile. In questo senso la tesi di Lacan "il reale è l'impossibile" va interpretata come: il reale è impossibile, eppure esiste. Ed è verso questo reale come impossibile - vale a dire il mondo come puro evento - che la spiegazione scientifica si dirige, come Achille di Zenone tende a raggiungere la sua tartaruga, senza raggiungerla mai. La scienza è la corsa infinita che ci avvicina all'impossibile, cioè all'emergenza stessa di ciò che è. La scienza salva il salvabile dell'essere, punta sul resto infinitesimo che separa l'essere dall'assurdo.
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[1] C. Rovelli, La realtà non è come ci appare, Raffaello Cortina, Milano 2015, loc. 1632.
[2] Ho sviluppato questo concetto in Benvenuto (2002).
[3] Il famoso parse tree, albero analitico, di Chomsky ricalca la vecchia analisi logica: ogni frase comprende un Nome e un Tratto verbale, quest’ultimo a sua volta comprende un Verbo e un Tratto nominale (complemento oggetto)….
[4] Mi rifaccio qui alla ricostruzione di Hintikka (1975; 1998; 1999).
[6] In modo più tecnico, Wittgenstein dice che le proposizioni sono funzioni di verità di proposizioni elementari.
[7] A questo proposito, alcuni filosofi che non hanno capito il darwinismo mi dicono che Homo sapiens avrebbe rotto i meccanismi dell’evoluzione darwiniana, dato che l’uomo decide lui, oggi, quali specie devono sopravvivere e quali no. Ma questo potere di Homo sapiens rientra perfettamente nel gioco dell’evoluzione darwiniana: nella quale ogni specie determina più o meno l’esistenza delle altre (così i predatori regolano la demografia delle prede, ad esempio).
[8] I. Newton, “General Scholium”, Principia, Second edition, 1713. Per una discussione su questo enunciato, cfr. Koyré (1972).
[9] Possiamo dire che la fisica è tornata a questo presupposto cartesiano nel XIX° secolo, quando è stato elaborato l’elettromagnetismo.
[10] Spiego la nozione lacaniana di reale in Benvenuto (2013).
[12] Definizione: “L'entanglement quantistico, o correlazione quantistica, è un fenomeno quantistico, non riducibile alla meccanica classica, per cui in determinate condizioni due o più sistemi fisici rappresentano sottosistemi di un sistema più ampio il cui stato quantico non è descrivibile singolarmente, ma solo come sovrapposizione di più stati. Da ciò consegue che la misura di un osservabile di un sistema (sottosistema) determini simultaneamente il valore anche per gli altri.”
[13] “Se cercavate di concepire la fisica come una mera registrazione su dati osservati fino ad oggi, manchereste il suo elemento più essenziale, la sua relazione al futuro. Sarebbe allora come la narrazione di un sogno. Gli enunciati della fisica non sono mai completi. Assurdo pensare che siano completi.” Waismann (1975, p. 101).
[15] Si veda in particolare l’opera di esordio filosofico di Sartre (1936).
[16] Ma non nel caso che io dica (6) “Rovelli pensa che il mondo sia descritto bene dalla meccanica quantistica”, perché Rovelli potrebbe non essere affatto d’accordo con questo giudizio. Quando il soggetto è “un altro” esso non può essere eliminato dalla proposizione.
[17] Wittgenstein non parlava di empirismo ma di solipsismo, il che in fondo è lo stesso. Scriveva nel Tractatus (Wittgenstein 1922): “5.64 Qui si può vedere che il solipsismo, quando si seguono rigorosamente le sue implicazioni, coincide col puro realismo. Il sé del solipsismo si restringe a un punto senza estensione, e vi resta la realtà coordinata con esso”.
[18] È una riformulazione della formula empirista essenziale, articolata da Hume (1748): “Non vi è alcuna cosa tale che la negazione della sua esistenza implichi contraddizione.”
[19] Come è noto, la fisica newtoniana lasciava inesplicato solo un piccolo particolare, all’epoca: la precessione o rotazione del perielio di Mercurio, fenomeno che risultava anomalo. La relatività la spiegò. Ben poca cosa. Certo Einstein non aveva elaborato la teoria della relatività per spiegare quella precessione del perielio…
[20] Tractatus, 1, “Die Welt ist alles, was der Fall ist” (Wittgenstein 1922).
[21] Oggi quasi tutti i cosmologi danno per scontato che l’universo che conosciamo è finito. Se non lo fosse, di notte non ci sarebbe il buio dove poche stelle brillano, ma sarebbe tutto un brillare continuo di tutto il cielo. Alcuni pensano che l’universo sia una bottiglia di Klein, figura illimitata ma finita.
[22] Nella realtà, un dado potrebbe cadere su uno spigolo e restare in equilibrio – evento rarissimo, ma non impossibile. Comunque, basta mettere la regola che per “risultato” si intende solo quando un dado cade su un lato solo.
[23] È da metafisico, non da scienziato, che Einstein poté dire: “Raffiniert ist der Herr Gott, aber boshaft ist Er nicht" (frase riferita da Oswald Veblen, aprile 1921), “Il Signore Iddio è sofisticato, ma non è perfido”. La fisica quantistica, per fortuna, non ci autorizzerà mai a dire questo. Ma nemmeno a dire che Dio è boshaft.
“La violenza è uno di quei temi che incontrano reazioni scettiche trasversali nell’intero spettro politico” (Butler 2020, p. 11): così si apre La forza della nonviolenza. Un vincolo etico-politico, l’ultimo libro di Judith Butler, in cui le questioni politiche della violenza, del governo e della resistenza vengono rilette alla luce delle recenti teorie di genere e femministe. In seguito agli eventi organizzati dal movimento Black Lives Matter negli Stati Uniti e all’ondata di solidarietà antirazzista che ha attraversato il globo, Butler si confronta con l’individuazione degli attivisti afroamericani come terroristi e agitatori violenti da parte della propaganda conservatrice statunitense e non solo. Ma cosa può dirci una teorica gender riguardo la richiesta di una giustizia radicale che viene avanzata dalle strade e che sfida l’immagine del filosofo imperturbabile e atarassico? Come agire in nome dell’eguaglianza se il contesto istituzionale è necessariamente intrecciato con l’utilizzo della violenza? E in che senso la nonviolenza è la chiave di volta per la comprensione dei fenomeni politici sovversivi?
Per rispondere a tali interrogativi, Butler abbandona una concezionestrumentale della violenza, sia essa un mezzo specifico per l’autodifesa o funzionale a un gesto rivoluzionario. Se in quest’ultimo caso la filosofa elabora una critica abbastanza prevedibile riferita all’intenzione e alla durata dell’uso della violenza e al rischio che perseguita ogni techné di divenire autonoma dalla volontà umana (“[…] cosa succede se la violenza sfugge di mano, o se inizia a essere usata per propositi diversi, che eccedono o aggirano le sue intenzioni iniziali?”) (p. 28); la questione dell’autodifesa sembra invece essere l’oggetto di una discussione più stimolante: la messa in uso di un’analisi psico-politica vuole illustrare i posizionamenti individuali nel discorso della violenza come esito di una strutturazione del sé, seguendo un metodo già adottato in La vita psichica del potere (J. Butler 2013, ed. or. 1997). Qual è infatti il sé “difeso in nome dell’autodifesa?” (J. Butler 2020, p. 21),come si determinano la sua struttura e il suo ruolo sociale?
A queste domande si accompagna la convinzione che il concetto di violenza non sia dato una volta per tutte, al contrario, esso è sempre sottoposto interpretazioni che ne manipolano il significato in senso politico. Il modello dello scontro fisico con cui viene fatta coincidere l’azione violenta non ne esaurisce infatti le possibilità di manifestazione, soprattutto nel suo aspetto sistemico. Il termine “violenza sistemica”, che recentemente sembra essere utilizzato con tanta nonchalance quanta vaghezza, viene qui chiarito una volta per tutte: “la violenza è sempre un concetto interpretato. Ciò non significa che la violenza non è nient’altro che interpretazione […]. Al contrario, significa che la violenza si dà sempre all’interno di contesti molto ampi, talvolta in conflitto tra loro, e dunque appare in modo diverso – o non appare proprio – a seconda di come le cornici implicate operano sulla questione” (p. 29).Si tratta cioè di un concetto contestualizzato, che dipende da una struttura politica in oscillazione costante, equivoca e performativa. Questo il fenomeno di fronte a cui ci si trova; o meglio, i fenomeni, dal momento che le strutture di violenza sono molteplici e interpellano i cittadini in maniera diversa.
La proposta critica di Butler si sviluppa su una prima, importante disequazione: che l’aggressività non coincida completamente con la violenza, per cui esisterebbero forme di violenza non aggressiva, ma, soprattutto, forme di nonviolenza aggressiva. Aspetto imprescindibile ai rapporti umani, l’aggressività, come la rabbia e il lutto, sono fenomeni che Butler non è in grado di espungere dalla riflessione filosofico-politica soprattutto in seguito alle recenti proteste contro l’oppressione razziale. L’aggressività, chiarisce Butler, è sempre orientata verso un oggetto e, per questo motivo, costituisce una modalità di articolazione dei rapporti sociali. Ancora di più, poiché essa non si esplica necessariamente nella realizzazione di un’azione violenta, prende consistenza la possibilità di una nonviolenza aggressiva, che consente al contempo una critica alla concezione individualistica del soggetto.
Condividendo i presupposti di una prospettiva piscoanalitica, Butler conduce una critica alla nonviolenza come pratica di difesa dell’individuo a partire proprio da cosa sia un individuo. La tradizione contrattualistica, sia per come fu elaborata da Hobbes, sia nella forma criticata da Rousseau, stabilisce un’omologia fra l’individuo pre-statale e quello assoluto: alla stregua di Robinson Crusoe, l’individuo astratto dal politico vorrebbe essere del tutto capace di provvedere a se stesso, libero e autosufficiente. Tuttavia, il sogno moderno di un individuo autonomo viene infranto con l’emersione di un’alterità che Butler media dalla lettura di Cavarero (A. Cavarero, 2013)e che viene identificata nella figura del genitore che aiuta il figlio a sopravvivere per poi venire spazzato via dalla sua volontà di indipendenza. Facendo il verso alla famosa tesi di Beauvoir, Butler potrebbe affermare che individui non si nasce, ma lo si diventa e, con Lacan, che la dipendenza, dal genitore o dal trotte-bébé che reggono l’infante di fronte alla propria immagine speculare (J. Lacan 1974, ed. or. 1949), è costitutiva dell’uomo. La fine del soggetto liberale, già annunciata da una certa french theory, viene dunque ripresa in questo volume come atto inaugurale della discussione sulla nonviolenza, sia attraverso l’introduzione dell’aggressività come rapporto che costituisce l’individuo legandolo agli altri, sia mediante la decostruzione della fantasia pre-statale nutrita da autori come Hobbes e Rousseau. Il problema dell’uso della violenza come strumento di autodifesa è quindi aggirato, proprio perché il “sé” che si vorrebbe difendere in realtà esiste solo in una molteplice relazione con gli altri.
Tuttavia, l’argomentazione di Butler fa un passo in avanti, includendo anche le dinamiche di autodifesa dei gruppi. In questo caso, l’uso della violenza viene giustificato se a rischio sono comunità riconosciute nella loro somiglianza al proprio sé, per esempio se a essere minacciati sono la famiglia, gli amici o il clan a cui il singolo appartiene. Ci troviamo di fronte a un ragionamento paradossale che viene illustrato come una doppia interdizione: all’interno del clan, tra i membri del gruppo, vige il divieto all’uso della violenza, ma la forza di tale interdizione ritorna una seconda volta come imperativo di uccidere nel caso in cui una minaccia esterna si rivolga a uno dei membri del gruppo; in altri termini, la violenza è consentita solo verso l’esterno, nell’eventualità che a rischio sia un gruppo in cui il sé si riconosce ed è giustificata, in ultima analisi, dallo stesso argomento per l’autodifesa individuale. La prospettiva sarebbe allora quella di una guerra tra gruppi, entro cui la violenza viene proibita, ma fra cui l’uccisione viene permessa: una dinamica psichica che limita la nonviolenza a un ristretto gruppo di individui riconosciuti come simili.
Proprio sul concetto di riconoscimento, quindi, si deve riarticolare una nuova pratica globale (e non gruppale) della nonviolenza: l’argomentazione di Butler diventa tanto più stringente quanto più si considera la realtà delle minoranze razziali o di genere. Esse vengono infatti identificate come “altri” nel discorso pubblico, secondo una demografia che non li riconosce nel sé collettivo, impedendo l’accesso alla protezione offerta da una politica dell’autodifesa. Tale disconoscimento fa tutt’uno con la svalutazione della dignità di lutto: i gruppi che indichiamo come minoranze sono tali perché la loro scomparsa o eliminazione vengono ritenute un prezzo adatto al mantenimento dell’ordine sociale, dal momento che le loro vite sono spendibili e indegne di essere piante. La possibilità di una pratica della nonviolenza aldilà della retorica dell’autodifesa, tanto individuale quanto collettiva, si basa al contrario sul riconoscimento che la perdita di ogni vita conta, non già per un suo intrinseco valore, bensì per la globalità delle relazioni che essa chiama in causa. Riconoscere che la presenza o l’assenza di un individuo fa la differenza diventa il marchio di una nuova obbligazione globale alla nonviolenza.
In quest’accezione, precisando quanto detto sul ruolo dell’aggressività nella nonviolenza, Butler afferma che la dinamica aggressiva è ciò che lega i soggetti in un rapporto tanto ambiguo quanto vincolante. Tale ambiguità è però anche la fonte del riconoscimento della vulnerabilità dell’altro, che mi sta davanti come oggetto potenziale della mia aggressività; poiché, infine, l’aggressività è anche un rapporto che mi struttura come soggetto (analogamente all’inclinazione di cui parla Cavarero o al rapporto speculare di Lacan), allora il legame aggressivo-dipendente è il punto originario da cui si riconosce la grievability di ciascuna vita. Al contrario, il sé che si autodifende violentemente definisce anzitutto ciò che conta come “sé” e con ciò realizza la propria esclusione rispetto a determinati gruppi. Questi ultimi non saranno riconosciuti come adatti a un intervento di difesa e, perciò, non verranno riconosciuti nella loro dignità di lutto, secondo un’ineguaglianza di principio. Da ciò la seconda equazione sulla cui base si regge il libro di Butler: la nonviolenza è difesa dell’eguaglianza il cui indice è la dignità di lutto.
La grievability viene infatti ritradotta nella riflessione di Butler come il dato che denota l’uguaglianza fra individui e gruppi. La sua definizione allude a un orizzonte biopolitico, in cui le vite vengono gestite sulla base della loro sostituibilità: la questione della dignità di lutto si sposta dal piano del lutto individuale a quello collettivo e politico, che riguarda quali gruppi meritano di essere difesi (con il rischio riconosciuto ma non veramente affrontato del paternalismo dei cosiddetti “gruppi vulnerabili”). Legare la grievability a forme di gestione della socialità garantisce a Butler un approccio costruttivista: gli individui e i loro posizionamenti sociali sono l’esito della distribuzione della possibilità che le loro vite vengano piante, per cui una determinata vita si posizionerà all’interno del contesto sociale sulla base delle modalità con cui la sua perdita sarebbe elaborata e, più radicalmente, se tale perdita verrà riconosciuta come tale. D’altra parte, il costruttivismo adottato da Butler non si compone di dispositivi omogenei nella gestione effettiva della popolazione; infatti, la dignità di una vita è distribuita eterogeneamente e viene perciò riconosciuta in maniera diversa dai diversi attori sociali, come testimoniano le proteste luttuose delle Donne in Nero o delle Nonne di Plaza de Mayo. Ma soprattutto, la differenza di grievability si dimostra nel suo carattere retroattivo. La tesi della Butler adotta qui un criterio argomentativo ipotetico, per cui una vita è degna di lutto se, nel caso in cui venisse persa, essa sarebbe pianta, ovvero, se la si preserva in quanto insostituibile.
Il rimando alla sostituibilità è un importante punto di svolta: anzitutto, Butler associa l’argomentazione morale (tanto prescrittivista quanto consequenzialista) all’assioma per cui un atto è buono se, anche nel caso in cui sostituissimo soggetto e oggetto dell’azione, esso verrebbe ugualmente compiuto; in questa prospettiva, Butler argomenta a favore di una fondamentale implicazione della fantasia di sostituibilità nel ragionamento morale, per cui solo grazie all’immaginazione si riesce a determinare quanto un’azione possa essere buona o cattiva. Tuttavia, è anche la “sostituibilità reciproca a contribuire alla costruzione di un mondo che conduce verso una violenza maggiore” (J. Butler 2020, p. 115), per esempio, se si considera la vita di un gruppo sociale sostituibile.
Per evidenziare la centralità della fantasia nella discussione etico-politica, Butler analizza il discorso sulla sostituibilità attraverso la psicoanalisi, questa volta di Klein. Con il modello di relazione madre-figlio messo a punto dalla psicoanalista austriaca, Butler individua nella sostituibilità un processo di fantasmagorizzazione per cui il seno materno viene in un solo momento individuato come oggetto di affezione e oggetto di aggressività, determinando al contempo la volontà da parte del bambino di preservarlo (in virtù del riconoscimento che la sua distruzione annienterebbe entrambi in un solo gesto) e di eliminarlo (poiché solo in questo modo sarebbe possibile realizzare un’autonomia totale e fantastica) (M. Klein e J. Riviere 1969, ed. or. 1953). Si tratta di un’“insopportabile dipendenza […] al punto da dar luogo a una furia omicida che, se fosse messa in atto, data la loro reciproca dipendenza, li abbatterebbe entrambi contemporaneamente” (J. Butler 2020, p. 132). Ma proprio da questo fastidio ontologico che l’individuo prova nei confronti di ciò da cui non può che dipendere e che vorrebbe comunque distruggere si genera uno strano legame basato sul senso di colpa. Lungi dal definire la colpevolezza come una dimensione che isola l’individuo nella propria intimità, secondo Butler il senso di colpa è l’occasione per una riarticolazione del legame sociale. Posto che il significato della sostituzione interdipendente come inteso da Butler sia equivalente all’identificazione del seno nella riflessione di Klein, allora la differenziazione fra “io” e “altro” diventa estremamente sfumata, se non impraticabile: “nell’incontrarti, incontro anche me, ma anche te, a duplicare la mia rovina; e io non sono solo me, ma anche lo spettro che ricevo da te, mentre sei alla ricerca di una storia diversa rispetto a quella che hai avuto fin qui” (p. 137).
Socialmente vincolato dal senso di colpa per un’aggressività che, forse un po’ cinicamente, le consente di descrivere l’incontro con l’altro come doppia rovina, la soggettività nonviolenta descritta da Butler risulta non solo attraversata dai fantasmi della psicoanalisi, ma anche dai dispositivi della biopolitica. L’ormai consuetudinario appello a Foucault, consente l’abbozzo di una spiegazione della razzializzazione dei corpi, ricorrendo al contempo a Pelle nera, maschere bianche (F. Fanon 2015, ed. or. 1952): per quanto il richiamo a Fanon nell’ambito della nonviolenza possa perplimere il lettore, la lettura che Butler ne offre sembra soddisfare il bisogno di comprendere la violenza contro i gruppi razzializzati. La definizione di biopolitica come strumento di distribuzione differenziale della dignità di lutto e la descrizione del razzismo come fantasia che condensa e inverte la violenza sull’estraneo minaccioso, tornano utili a Butler per la spiegazione tanto del razzismo statunitense contro la comunità afroamericana quanto di quello europeo contro i migranti transnazionali, dal momento che entrambi fenomeni descrivono il proprio oggetto di violenza come nemico che, fantasticamente, potrebbe distruggere l’identità della comunità o dello Stato.
L’utilizzo del testo di Fanon, in cui la violenza è cruciale per la liberazione dal governo coloniale, sembra cozzare con la tematizzazione di una pratica nonviolenta globale. Tuttavia, la descrizione della violenza razzista, fornita da Fanon e ripresa da Butler, spiega che la significazione di determinati atti di rivolta come violenti può essere l’esito di una serie di fantasie persecutorie e proiezioni paranoiche: la stessa guerriglia anticoloniale sembrerebbe essere sottoposta alla logica per cui qualsiasi iniziativa volta a destituire la violenza del potere viene censurata in quanto violenta. Al contempo esplicativo ed esemplare, il testo di Fanon, indicherebbe che il monopolio statale della violenza si compone di un’intera episteme e, contemporaneamente, ne illustrerebbe gli effetti, diventando un “testo ostile”: “[…] la critica della guerra viene presentata come un sotterfugio, un’aggressione, una forma dissimulata di ostilità. La critica, il dissenso e la disobbedienza civile vengono costruiti come attacchi alla nazione, allo stato, persino all’umanità. […] Tutte le posizioni, in altre parole, per quanto dichiaratamente nonviolente, vengono considerate come permutazioni della violenza […] nell’ambito di un’episteme governata da una logica rovesciata e paranoica” (J. Butler 2020, p. 199).
Ed è proprio nella potenzialità di una guerra costante, che viene falsamente ritrovata anche nelle azioni espressamente nonviolente, che l’autrice trova il vincolo etico a un’azione nonviolenta. Proprio perché ogni individuo è sempre capace di realizzare quella distruttività pulsionale che eliminerebbe l’altro da cui al contempo dipende, diventa allora necessario comprendere perché non dobbiamo dare adito a tale impulso di morte. L’ultimo Freud conclude la riflessione di Butler sulla nonviolenza attraverso il concetto di Todestrieb alla luce in particolare dello scambio epistolare con Einstein (A. Einstein, S. Freud 1979, ed. or. 1915) e di Lutto e melanconia (S. Freud 1977, ed. or. 1917), di cui l’autrice si è già servita nel famoso Questione di genere (J. Butler 2013, ed. or. 1990) e nel già ricordato La vita psichica del potere. Dall’analisi del corpus dell’ultimo Freud, la cui disomogeneità crea non pochi problemi ai teorici queer, Butler deriva una visione forse troppo manichea, per cui il principio di morte si oppone al principio erotico, poco importa che ne sia una dimensione interna o esterna: “[…] ‘amore’ (parola con cui Freud si riferisce sempre a ‘Eros’) nomina soltanto uno dei poli dell’ambivalenza emotiva. C’è l’amore e c’è l’odio. L’amore, dunque, o nomina la costellazione ambivalente di amore e odio, oppure è un polo della struttura binaria amore/odio” (J. Butler 2020, p. 218).
In questo senso, Butler presta effettivamente il fianco a una critica della più recente svolta antisociale nella teoria queer, in cui è il sessuale a entrare come protagonista nella struttura erotica presentandone anche gli aspetti più sado-masochisti e ripugnanti. Tuttavia, tale distinzione binaria consente all’autrice di fornire un’efficace interpretazione del processo di elaborazione del lutto come occasione politica. Se nel testo di Freud il percorso ordinario e quello patologico del lutto non sono distinguibili in maniera netta, ciò non impedisce alla filosofa di affermare con sicurezza che due sono le tendenze della malinconia, cioè della risposta alla perdita d’oggetto erotico: da una parte troviamo l’autorimprovero che il Super-Io conduce verso l’Io, dall’altra invece la mania, che porta a una disidentificazione dell’Io da se stesso. Nel primo caso, infatti, il Super-Io interiorizza l’oggetto perduto punendo l’Io per la sua perdita e, per questo motivo, la dinamica freudiana si arricchirebbe di un elemento superegoico che, accecato dal principio distruttivo, tende ad annichilire l’Io stesso (qualificandosi come una “coltura pura della pulsione di morte”) (p. 223). Ma è il secondo aspetto, quello maniacale, che Butler sottolinea con particolare originalità: nella mania, l’Io tenta di disidentificarsi, di staccarsi da sé e di fissarsi su un oggetto altro in maniera da sopravvivere in una dimensione dove la realtà perde i suoi chiari connotati. Questa spinta verso l’alterità e il differimento da sé viene interpretata da Butler come una forma di resistenza psichica alle tendenze suicide del Super-Io e, in questo senso, come il punto di partenza di qualsiasi analisi di una resistenza per defezione alla violenza: portando a compimento quel lavoro di decostruzione del sé che viene protetto nell’auto-difesa, Butler afferma che
Se il Super-Io assurge a unico controllore della distruttività, questa non può che tornare indietro al soggetto, mettendo in pericolo la sua esistenza. Nella melanconia, infatti, l’ostilità non viene esternalizzata e l’Io diventa il bersaglio di un’ostilità potenzialmente omicida, il cui potere è tale da distruggere la vita dell’Io e l’organismo stesso. La mania,al contrario, introduce in questo quadro un desiderio irrealistico di esistere e persistere, che non è fondato su una realtà percepibile e non ha alcuna possibilità di esserlo nell’ambito particolare regime politico […]. La mania può introdurre un vigoroso “irrealismo” in quelle forme di solidarietà che mirano a rovesciare i regimi violenti, insistendo, contro ogni probabilità, su un’altra idea di realtà (pp. 230-231).
Mania, irrealtà e nonviolenza sono, in conclusione i termini che denotano la prospettiva della vita politica egualitaria immaginata da Butler in seguito agli eventi odierni legati al Black Lives Matter Movement e alle proteste dei collettivi femministi Ni Una Menos. L’attivismo non istituzionalizzato e, in un certo senso, agitato di questi due gruppi è proposto come un nuovo approccio etico-politico, che lega gli individui sulla base della loro vulnerabilità: la caratteristica universale di essere condizionali e condizionati nel rapporto agli altri. Non si tratta, tuttavia, di una posizione semplicisticamente pacifista, ma, nelle parole di Einstein, di un pacifismo almeno militante, in cui l’aggressività non viene espunta immediatamente in quanto violenta, ma viene re-indirizzata a una difesa strenua di qualsiasi minaccia all’uguaglianza. In questo fedele alle origini ribelli e arrabbiate dei movimenti di liberazione omosessuale, Butler elabora un concetto di resistenzanonviolenta che fa propri sentimenti e moti dell’animo apparentemente poco pacifici: la collera, il lutto e il rifiuto, perché proprio a partire da un “no” inaugurale può cominciare quel processo di cambiamento che, con la nonviolenza, sovverte i regimi esistenti di oppressione.
di Denis De Almeida Barros
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Bibliografia
J. Butler, La vita psichica del potere. Teorie del soggetto (1997), Mimesis, Milano 2013
J. Butler, Questione di genere. Femminismo e sovversione dell’identità (1990), Laterza, Roma-Bari 2013
A. Cavarero, Inclinazioni. Critica della rettitudine, Cortina, Milano 2013
A. Einstein, S. Freud, Perché la guerra?, in S. Freud, Opere. Vol. XI, Bollati Boringhieri, Torino 1979
F. Fanon, Pelle nera, maschere bianche (1952), ETS, Pisa 2015
S. Freud, Lutto e melanconia (1917), in Id., Opere, Vol. VIII, Bollati Boringhieri, Torino 1977
M. Klein, J. Riviere, Amore, odio e riparazione (1953), Astrolabio, Roma 1969
J. Lacan, Lo stadio dello specchio come formatore della funzione dell’io (1949), in Id., Scritti, Einaudi, Torino 1974
Il campo semantico che gravita attorno alla parola “mistico” è comunemente riferito a riflessioni e, ancor più, a esperienze che sembrano riguardare esclusivamente l’ambito dell’esperienza religiosa o della rivelazione. Il vocabolario online dell’EnciclopediaTreccani, per esempio, indica come significato primario del termine mistico ciò ch’è relativo alla mistica, una «esperienza di vita interiore che porta il soggetto verso un’intima unione con una realtà superiore, diversa, assoluta, fuori delle forme ordinarie di conoscenza e di esperienza». Poco più avanti, invece, esso è riferito a ciò che potremmo chiamare il “misticismo”, termine con cui s’indicano quegli atteggiamenti e quelle posizioni che interpretano la realtà trascendendo «i dati sensibili» e rapportandoli «con forze soprannaturali». A un primo sguardo, dunque, il termine “mistico” sembra essere direttamente riassorbito nel dominio di pertinenza della mistica e del misticismo, che interseca le sfere del religioso e della metafisica. Uno sguardo più attento, però, è in grado di rivelare una situazione ben più complessa: un filone importante della riflessione filosofica del Novecento ci ha insegnato che con “mistico” si può indicare un’esperienza che non collima necessariamente con questi due significati. E che, anzi, proprio la definizione e l’esplorazione della dimensione aperta da quest’ulteriore esperienza possono condurci al cuore di nodi e problemi teorici cruciali per determinare il senso dell’esperienza umana in genere.
L’ultimo libro di Stefano Oliva, intitolato Il mistico. Sentimento del mondo e limiti del linguaggio, pubblicato per i tipi di Mimesis nel 2021, sembra far propria quest’ultima constatazione, da cui prende le mosse, per proporre un percorso teoretico di ampio respiro e di grande attualità attraverso alcuni fra i principali luoghi teorici del pensiero novecentesco. Come si legge nelle pagine dell’Introduzione, con “Mistico” (la maiuscola ricalca la grafia prediletta dall’autore) si designa qui, innanzitutto e soprattutto, un sentimento «connesso a una specifica modalità di visione del mondo» e «radicato in ciò che più di ogni altra cosa caratterizza la forma di vita umana», ovvero la «facoltà di linguaggio» (p. 9). Tale sentimento non va inteso pertanto nel senso di una rivelazione «riservata a pochi eletti, spiriti elevati o patologicamente eccitabili», bensì dev’essere compreso come una «esperienza paradossale» che «costituisce una possibilità antropologica basilare, inscritta nella stessa articolazione linguistica del pensiero umano» (ibid.). Anche per questo motivo l’interrogazione di Oliva sulla specificità dello sguardo mistico è condotta sempre in relazione a ciò che lo distingue dallo sguardo dell’uomo comune.
Il rapporto fra questi due è uno dei fil rouge più evidenti del libro, continuamente ripreso fino al capitolo conclusivo, in cui l’autore sancisce che la differenza fra il sentimento mistico e lo sguardo comune è dovuta alle rispettive modalità di relazione al mondo che essi dischiudono (cfr. p. 94-98). Più precisamente, nella prospettiva istituita e indagata da Oliva il Mistico possiede alcuni caratteri che in filosofia sono stati a lungo «attribuiti all’esperienza estetica», ovvero «i tratti della riuscita e del compimento» (p. 96). Uno degli aspetti che contraddistinguono la modalità propria del Mistico è, infatti, quello della finalità senza fini, che almeno da Immanuel Kant in poi ha rappresentato per il pensiero critico ed estetico uno dei segni distintivi del bello. Per esempio, immerso nel sentimento mistico è, come si legge nel testo, il camminatore che avanza «con la gratuità di chi è senza meta e può così dedicarsi semplicemente al fatto stesso di camminare» (p. 95), di chi cammina, a rigore, “senza perché”. Similmente, osserva Oliva, l’osservazione del mondo sub specie artis «vuol dire vederlo al di fuori dei consueti interessi pratici che indirizzano la nostra attenzione» (p. 96). Per tale motivo la locuzione “senza perché”, che ricorre sovente in relazione al tema del mistico (in particolare nella mistica renana), possiede una «risonanza» potente con l’ambito estetico e permette pertanto di comprendere il Mistico come un’esperienza la cui possibilità è radicata nella struttura esistenziale dell’essere umano.
Il quotidiano e il Mistico, in altre parole, divergono per atteggiamento, per modalità, e non per essenza, ontologicamente. Così, a nostro avviso il libro di Oliva si propone come una riflessione sul secolo Mistico nel duplice senso cui la parola secolo può rinviare: da una parte, il periodo di riferimento principalmente (ma, come vedremo, non esclusivamente) indagato dall’autore, ovvero il pensiero filosofico del Novecento che sul Mistico è ritornato in numerose circostanze; e, dall’altra, il Mistico nel suo radicamento nella dimensione della quotidianità, dunque di ciò ch’è secolare in quanto contrapposto alla vita spirituale, religiosa o ultraterrena.
Nel primo dei sette capitoli che strutturano il testo, Oliva riprende appunto la distinzione citata in apertura fra mistico, mistica e misticismo per impostare la propria indagine. Questa necessaria operazione preliminare di precisazione terminologica è condotta con riferimento alle opere di Michel de Certeau e alla sua analisi della mistica, ad alcune note di Bertrand Russell sul tema del misticismo e ad alcuni passi di Ludwig Wittgenstein. È il pensiero di quest’ultimo, infatti, a costituire la stella più luminosa della costellazione filosofica che guida il testo: dalle pagine del filosofo austriaco è possibile ricavare strumenti teorici accuratissimi per affrontare una lettura rigorosa e profonda del secolo mistico poiché troviamo in esse, formulato con la massima radicalità, il problema cruciale incarnato dall’esperienza-limite del mistico, quel «sentimento del mondo come totalità delimitata» (Tractatus Logico-Philosophicus, prop. 6.45) indagato da Oliva. Dal momento che l’intenzione di quest’ultimo è di non relegare il Mistico esclusivamente alla sfera dell’estatico e del religioso per indagarlo piuttosto nel campo del quotidiano e, più generalmente, per cogliere il senso ch’esso può rivestire in riferimento alla struttura esistenziale dell’essere umano, allora è proprio Wittgenstein il filosofo che ha inaugurato tale pista interpretativa e più di tutti ha saputo ricavare dall’esperienza del mistico un inedito e proficuo angolo prospettico per osservare la costituzione dell’animal loquens. Tale proficuità è dimostrata dall’autore anche nel capitolo successivo, che insiste e scava ancor più profondamente nella filosofia di Wittgenstein mostrando come non siano soltanto i passi più noti ch’egli dedica al tema del Mistico – con riferimento a das Mystische che appare nelle celebri proposizioni finali del TractatusLogico-Philosophicus (1921) – a rappresentare un terreno di confronto fruttuoso per una simile indagine, ma rilevando la persistenza, composta beninteso pure attraverso tensioni e slittamenti, di problemi affini a quelli del Mistico anche nella sua produzione successiva, riferendosi per esempio alla Conferenza sull’etica (1929) e ad alcuni passi delle Ricerche filosofiche (1953). Infatti, le occorrenze del Mistico presenti nelle proposizioni finali del Tractatus, che, sottolinea Oliva, si configurano sia in forma di sostantivo sia in luogo di aggettivo (cfr. p. 24), sembrano riflettere e, insieme, istituire i limiti fra il mondo e l’ineffabile lasciando aperto il problema di un sentimento «senza soggetto e senza oggetto, ma che non per questo perde la propria specifica connotazione affettiva» (p. 27). In altre parole, il Mistico nel Tractatus appare connesso a una «visione del mondo sub specie aeterni» (p. 35) senza però che la dimensione dischiusa da quest’ultima sia esplorata fino in fondo, in linea con l’ultima proposizione dello stesso Tractatus la quale prescrive di tacere su ciò di cui non si può parlare. In tal senso, il Mistico rinvia qui a un’esperienza pre-logica, al di qua del linguaggio e al limite del mondo, che precede ogni possibile analisi logico-filosofica. Nel “secondo Wittgenstein”, invece, pur diradandosi i riferimenti espliciti al mistico (in merito cfr. p. 84), sono presenti talvolta passi e considerazioni in cui sembra affiorare una configurazione logica e problematica simile a quella che scaturisce da esso – come nella Conferenza sull’etica, dove il filosofo austriaco si confronta col sentimento di stupore per l’esistenza del mondo e con quello di assoluta sicurezza. Secondo Oliva, la distinzione e la «divaricazione» fra queste due fasi del pensiero wittgensteiniano in merito alle configurazioni problematiche ingenerate dal mistico «si gioca sul terreno logico e modale» (p. 30): il mistico del Tractatus si lega alla «contingenza del mondo […] vista come necessità» (p. 35), mentre la meraviglia per l’esistenza del mondo è un sentimento riconducibile alla “possibilità” dell’esistenza del mondo.
Col terzo capitolo Oliva tenta quasi una prosecuzione delle riflessioni wittgensteiniane attraverso i testi di Simone Weil, autrice che, pur apparendo molto lontana dai temi e dai problemi affrontati dal filosofo austriaco, sembra possedere nondimeno alcuni punti di contatto singolari con la sua produzione che riguardano perlopiù il tema dell’impersonalità e dell’indipendenza dalla forma soggettiva. In primo luogo, la prospettiva adottata dall’autore rileva nel concetto weiliano di persona impersonale «una delle possibili traduzioni» del Mistico wittgensteiniano poiché ne specifica un aspetto caratteristico. Nel Mistico, infatti, sarebbe esibito un «divenire-mondo» dell’individuo che, «coinvolto in un simile processo trasformativo», giunge a deporre la forma soggettiva, «il proprio Io», per divenire «impersonale […] ‘morendo’ come persona» (pp. 40-41). La configurazione logico-sentimentale del mistico, dunque, possiede un carattere impersonale che Weil sembra esplorare laddove l’analisi di Wittgenstein si arresta molto prima. In secondo luogo, nel «sentimento di realtà» che secondo Weil accompagna l’esperienza mistica si ravvisa un movimento concettuale analogo a quello presente nell’analisi wittgensteiniana poiché, similmente a quanto accade per quest’ultimo, nel sentimento di realtà «non vi è più un soggetto che stia lì a provarlo» e, «liberato dalle profondità interiori entro cui viene abitualmente relegato» tale sentimento sprigiona la propria «natura effusiva e atmosferica» (p. 43). Occorre aggiungere, infine, come rileva puntualmente Oliva, che questi accostamenti sono resi possibili anche dai lavori di alcuni allievi di Wittgenstein, come Maurice O’Connor Drury, Drush Rees e Peter Winch, che hanno in qualche misura favorito l’evidenziazione di prospettive teoriche inedite fra le posizioni dei due autori.
Nel quarto capitolo è soprattutto Jacques Lacan a figurare come l’intercessore privilegiato del percorso sulle tracce del Mistico compiuto da Oliva. Da una parte, lo psicoanalista francese ha disseminato qui e lì nel proprio insegnamento e nei propri scritti riferimenti e considerazioni su questo tema. In merito si possono ricordare, per non fare che qualche sparuto esempio, tanto l’affermazione contenuta nel SeminarioXX secondo cui i suoi scritti apparterrebbero all’ordine della mistica, quanto le sezioni del medesimo in cui riflette su desiderio e godimento a partire dal Camino de Perfección di Teresa d’Avila, dalla mistica di Hadewijch di Anversa e san Giovanni della Croce; tanto il commento ad alcuni brevi passi del Peregrino Cherubico di Angelus Silesius nel Seminario I, quanto l’idea che l’accesso al godimento sia accessibile soltanto alla mistica esposta fulmineamente con la consueta allusività durante il corso del Seminario VI. Dall’altra parte, invece, la nozione lacaniana di «Reale» e l’insistenza con cui, almeno a partire da un certo momento, egli vi ritorna per svilupparla, rivela dei tratti e delle sfumature che collimano con i caratteri del Mistico indagati da Oliva in questo libro. Entrambe le nozioni, infatti, si situano aldilà di ciò che cattura e costituisce la rete del simbolico e del linguistico; entrambe si determinano come un punto cieco degli strumenti categoriali che il soggetto utilizza per la propria autopoiesi e per la strutturazione del mondo; entrambe sembrano implicare un sentimento, un modo di sentire, come testimoniato dall’analisi della «gioia dolorosa» osservata da Simone Weil (punto di partenza concettuale del capitolo) e dal godimento indagato da Jacques Lacan; entrambe, infine, come mostra Oliva passando attraverso e riformulando un accostamento di Alain Badiou, possono essere accostate grazie al concetto lacaniano di matema, il cui «contatto con il reale […] condivide con il Mistico l’individuazione dei limiti del linguaggio come operazione che ha luogo all’interno del linguaggio stesso» (p. 63). Un paragrafo del medesimo capitolo, inoltre, compie un breve détour che ha per oggetto il «non-sapere» di Georges Bataille, inquadrato criticamente attraverso alcune annotazioni di Alexandre Kojève – secondo il quale è contraddittorio, come fa Bataille, contrapporre l’«esperienza interiore» alla «speculazione filosofica» determinando una sorta di ritiro al di qua della parola per parlare del quale, tuttavia, è necessario l’uso del linguaggio. Secondo Oliva, in tal modo Bataille «scade nel misticismo», secondo l’accezione prima osservata, poiché, diversamente dal Mistico «inteso come mossa integralmente filosofica di ‘interruzione della filosofia’», le sue posizioni compiono un «un passo oltre l’“estremo del possibile”», terreno dove non può darsi alcun progetto, foss’anche «quello di uscire dal campo del progetto» (p. 53).
La sezione successiva, invece, osserva le riflessioni di Martin Heidegger relative alle «tonalità emotive», seguendone le vicissitudini, gli avanzamenti e gli slittamenti sino a sorprendere nel concetto di Stimmung «il limite del domandare e del chiedere ragioni» (p. 79). E il sesto capitolo prende le mosse da questo limite per far ritorno ancora una volta a Wittgenstein e per considerare le proposizioni contenute nella sua ultima grande opera – Della certezza (pubblicata postuma nel 1969) – rilevandone alcune possibili consonanze proprio con la fenomenologia heideggeriana della tonalità emotiva. Tanto nell’indagine heideggeriana sulle tonalità emotive fondamentali – come l’angoscia che appare in Essere e tempo (1927) e in Che cos’è metafisica? (1929) o la noia abbordata nel corso I concetti fondamentali della metafisica (1929-1930) – quanto la riflessione dell’ultimo Wittgenstein, infatti, a tenere banco sono la questione dei limiti del linguaggio e quella della visione del mondo «come tutto concluso» (p. 80). Entrambe “compendiate” nella lettura del Mistico esposta al termine del Tractatus, tali questioni sembrano risuonare in numerosi luoghi degli itinerari filosofici dei due autori, conducendo il lettore al settimo e ultimo capitolo, di cui abbiamo anticipato precedentemente alcune argomentazioni, che si conclude riflettendo sulla modalità che abita intrinsecamente il gesto del Mistico. Come abbiamo visto, per Oliva ciò che tiene insieme tutte queste riflessioni apparentemente disparate che vanno dagli albori agli anni conclusivi del XX secolo è l’aver rilevato, osservato, approfondito e studiato una peculiare modalità di guardare il mondo dischiusa dal mistico. Esso si configura pertanto come un gesto che trasforma lo sguardo comune. In questo esso non è un gesto necessariamente filosofico, eppure è di grandissima pregnanza per la disciplina perché esibisce e suscita esemplarmente alcune questioni al centro dell’interrogazione filosofica del Novecento. In ciò il Mistico figura come «un gesto conclusivo che, in una inaspettata inversione del pensiero wittgensteiniano, non aggiunge nulla sul piano del ‘che’ ma modifica – come in un improvviso cambiamento d’aspetto – la determinazione del ‘come’» (p. 96). In altre parole, nel Mistico non è più ciò che vediamo di fronte a noi a determinare il nostro sguardo, ma è quest’ultimo a presentarsi secondo una modalità radicalmente altra.
Ai sette capitoli sin qui osservati, si aggiungono, inoltre, una postfazione a firma di Daniela Angelucci, la quale sottolinea la pregnanza delle argomentazioni di Oliva per il modo in cui quest’ultimo riconfigura ed elabora la «dimensione estetica» connessa al tema del Mistico rivendicandone «la pesantezza, la necessità, la solidarietà con gli aspetti essenziali della nostra vita» (p. 123); e, soprattutto, un denso Post-scriptum sul quale vogliamo soffermarci per terminare le nostre considerazioni. In questa sede, infatti, Oliva prolunga ulteriormente la riflessione sul “secolo mistico” mostrando la persistenza dell’interesse per il mistico nella filosofia contemporanea più recente.
Il poscritto inquadra il prepotente ritorno, sulla scena filosofica mondiale degli ultimi quindici-venti anni, di posizioni che a vario titolo si richiamano al realismo (dal nuovo realismo di Maurizio Ferraris al realismo speculativo di Graham Harman) concentrandosi in particolar modo su Quentin Meillassoux e il suo libro Dopo la finitudine (2006). La critica al «correlazionismo» avanzata da quest’ultimo, infatti, giunge a considerare il Mistico e dipingerlo come una figura affatto rivelatrice, a suo dire, di alcuni esiti estremi cui la filosofia correlazionista del Novecento può dar luogo. Il Mistico, rileva l’autore, «diviene nelle pagine di Meillassoux la figura di una riduzione della filosofia a pietas, in cui l’accettazione dei limiti della pensabilità si traduce in una apertura nei confronti della credenza irrazionale e del fanatismo» (p. 103). Eppure, a ben vedere, grazie a un’argomentazione puntuale, Oliva rovescia le posizioni del filosofo francese mostrando che, contrariamente a quanto egli afferma, ciò ch’è contenuto nella declinazione wittgensteiniana (quella considerata da Meillassoux) del Mistico «non è il frutto scettico-fideistico del correlazionismo forte», bensì, piuttosto, «l’incarnazione di un realismo ancor più radicale di quello speculativo» (p. 108). Tale rovesciamento è operato da Oliva attraverso la dimostrazione che la maniera adottata da Meillassoux per inquadrare il Mistico (o, perlomeno, la sua declinazione wittgensteiniana) è viziata da un errore piuttosto vistoso. Il filosofo di Vienna, infatti, «non ha mai inteso il Mistico in maniera diversa da un assoluto» (p. 106) e dunque comprenderlo come l’esito di una posizione correlazionista vuol dire, in realtà, non averlo compreso affatto. Il poscritto si chiude con una riflessione che prende le mosse dalla constatazione di Badiou secondo cui in Wittgenstein si disvela il compimento di un atto teorico definibile come «arci-estetico» (cfr. p. 110) e gettare le basi per la formulazione di un «realismo mistico» o «estetico» (p. 113).Il mistico è un testo decisamente rilevante per numerosi problemi che interessano e abitano il dibattito filosofico contemporaneo. Essi vanno dal rapporto fra l’uomo e il mondo, in un’epoca di globalizzazione e crisi ecologica in cui diventa sempre più urgente la riflessione sulle modalità in cui esso si realizza, all’interrogazione della specificità dello sguardo estetico contemporaneo; dalla diatriba contemporanea sui nuovi realismi, sui correlazionismi e sul senso del filosofare oggi, alla discussione dell’eredità filosofica consegnataci dal Novecento; dalle nuove possibili configurazioni della teoria psicoanalitica, alla questione, sempre aperta, relativa ai limiti del linguaggio. Il libro di Oliva pone così il lettore di fronte a un’esperienza radicale, e lo invita a riflettere sui possibili sensi che la determinano e che a partire da essa si dipanano, fedele all’esigenza filosofica di riflettere sui limiti che ci attraversano e ci costituiscono.
A Tebe, sul frontone della porta d’entrata della biblioteca di Ramsès II sono presenti dei geroglifici, tradotti in greco da Diodoro di Sicilia (I secolo a.C.) come « psukhès iatreon » letteralmente « dispensario, ospedale dell’anima». La biblioteca come farmacia è un’immagine antica e trova le sue radici già nell’antico Egitto, verso il 4000 a.C, momento in cui la biblioterapia è una pratica che consiste nell'ingerire dei pezzi di papiro scritti. Sempre in Egitto, Thôt, il dio dalla testa d’ibis, portatore di conoscenza, è considerato sia come il dio della guarigione e della medicina sia come l’inventore della scrittura. Ancora nelle Diatribe di Epitteto (I-II secolo), la scuola di filosofia è luogo che gli allievi frequentano in particolare per curare - in greco « therapeutêsomenoi » - momento in cui si apprende il metodo per prendersi cura dell’animo come del corpo in modo specifico e individuale. Nel libro La littérature peut-elle soigner? pubblicato nel 2018 da Honoré Champion, Isabelle Blondiaux, psichiatra e psicoanalista di formazione medica, letteraria e filosofica, si interroga sulla lettura e la letteratura terapeutiche, intese come attività, in cerca di legittimazione scientifica, utili a migliorare le condizioni psicologiche dei pazienti.
Fin dalle prime pagine Blondiaux propone un’archeologia delle pratiche di lettura terapeutica correlate alla psicoterapia, analizzandone nel dettaglio le origini e la diffusione negli ospedali psichiatrici con la nascita della moderna psichiatria - la lettura è, ad esempio, una delle modalità privilegiate del «traitement moral» promosso in Francia da Philippe Pinel e a seguire dal suo allievo François Leuret. La panoramica storica che apre il libro, sviluppandosi nei successivi quattro capitoli, informa che la biblioterapia appare per la prima volta svincolata dalla supervisione medica negli ospedali psichiatrici all’inizio del ventesimo secolo, momento in cui « le pratiche di lettura cessano di essere una questione di trattamento morale e passano gradualmente sotto la responsabilità del personale formato per lavorare negli ospedali. In senso stretto, significa l'integrazione dei bibliotecari ospedalieri nel sistema di cura. » (trad., p.18). Pioniere della materia, Edith Kathleen Jones instaura un programma di lettura destinato ai pazienti, riattualizzando le immagini antiche della biblioteca-farmacia e del libro-medicina. All’inizio del XX secolo sono proprio i bibliotecari ospedalieri ad integrarsi attivamente all’interno del percorso di cura: si cita ad esempio Sadie Peterson Delanay (1889-1958) che sviluppa a partire dal 1924 dei gruppi di lettura per malati mentali, invalidi di guerra, alcolizzati, ecc. La biblioteca stessa diventa luogo terapeutico, in quanto spazio di accoglienza, di esperienza relazionale e di libertà rispetto alle costrizioni dell’ospedale. Il principio terapeutico della biblioterapia è quello di aiutare il paziente a ritrovare la sua voce, la fiducia in sé stesso e negli altri, a favorire il dialogo e la concentrazione, in breve ad offrire ai malati « un'avventura mentale e un rilassamento costruttivo » (trad., Darrin 1959).
Lungo tutto l’arco del Novecento e degli anni duemila, le pratiche terapeutiche legate alla letteratura si sono moltiplicate e il suo rapporto con le pratiche della biblioterapia presenta delle variazioni considerevoli: la letteratura appare “espropriata” dal campo letterario e inscritta anche in quello medico. Tre grandi approcci possono riassumere, dal punto di vista medicale, le pratiche terapeutiche della lettura: il primo è l’approccio cognitivo informativo della lettura che assimila il libro ad un puro utensile; in tale prospettiva il potere terapeutico della lettura si identifica con una tecnica di counselling che raggruppa i cosiddetti libri di self-help, libri di informazione generale sulle malattie e le rispettive cure e i manuali di auto-diagnosi e cura. Il suo metodo educativo si attua attraverso l'acquisizione di conoscenze e strategie comportamentali, di abilità necessarie per compiere gesti tecnici che richiedono apprendimento: « […] si tratta di proporre la lettura di libri incentrati su una sola difficoltà: una patologia (depressione, diabete) o una situazione di vita dolorosa (divorzio, morte) con l'idea che una volta conosciuti i dati teorici e pratici, basterà applicarli nella vita quotidiana per risolvere il problema. Come se fosse sufficiente conoscere per sapere come fare e farlo correttamente » (trad., p.38). Approccio nettamente differente nella biblio/poesia-terapia, che condivide con la psicoterapia i fini e i postulati teorici, mirando a facilitarne e migliorarne l'efficacia attraverso i testi e le figure di stile – metafore, analogie, allegorie. Questa pratica, che necessita della figura essenziale del terapeuta, si basa sulla potenza della suggestione durante la lettura e della mobilizzazione di un ricco ventaglio di emozioni che permettono il processo di identificazione con i personaggi del testo, la catarsi o liberazione delle emozioni e un miglioramento momentaneo “dell’insight”. Contribuzione importante allo sviluppo della poesia-terapia viene dall’America attraverso l’approfondimento di due punti principali: aver sottolineato la potenza della suggestione della letteratura e aver stabilito il potere terapeutico della scrittura espressiva (“expressive writing”). La poesia-terapia costituisce una forma di biblioterapia-affettiva che introduce le emozioni attraverso immagini verbali. Come sottolinea poi Lucie Guillet, citata da Blondiaux, « I principi attivi della terapia della poesia, ritmo, respiro e attività riflessiva, possono essere paragonati ai tre elementi che compongono il "fluido poetico » (trad., p.66).
Terzo approccio, unico non definito “utilitaristico” dall’autrice, è quello psicoanalitico, in grado di ripristinare una mediazione immaginaria « suscettibile di rilanciare il processo di simbolizzazione attraverso il transfert e la sua analisi » (trad., p.105). La psicoanalisi e la letteratura si prendono in prestito l’una con l’altra incessantemente, da Freud fino a Lacan che ha portato particolare attenzione alla dimensione di transfert nell’atto di lettura.
Tutti questi approcci terapeutici si associano a diverse pratiche di scrittura, « come incoraggiamento all'espressione metaforica di sé o come valutazione dell'attività di lettura » (trad., p.105), ma solamente la psicanalisi sembrerebbe, per Blondiaux, svincolarsi dall’azione di espropriazione e strumentalizzazione della letteratura. I termini di espropriazione e strumentalizzazione si riferiscono a come i due primi approcci intendano la letteratura: nel suo senso generale di insieme di “cose da leggere” senza distinguere la natura del supporto (dematerializzato o no) e come accompagnamento alle pratiche di consiglio. La psicoanalisi la impiega talvolta come “mediazione terapeutica” conferendo al libro, “aux mots parlés” (Dolto), lo statuto di oggetti transizionali. La lettura è intesa dalla psicoanalisi come possibilità di ri/appropriazione di una vita soggettiva nascosta dalle catastrofi intime personali; in particolare Jacques Lacan predilige la messa in gioco delle funzioni dialogiche, la funzione significante, la polisemia e di conseguenza l’opacità del linguaggio. Affare di incontro e di relazione, la lettura come la scrittura riguardano il desiderio; ogni lettura passa sotto il filtro del desiderio incosciente del lettore che, scrive Blondiaux: « non solo legge, ma è letto dal testo che legge, poco importa la natura della sua lettura, se di semplice intrattenimento o estetica, privata o professionale » (trad., p.91). Forte legame con i concetti fondanti della psicoanalisi, la lettura, intesa anche come godimento estetico, rileva di una comunicazione profonda “da un inconscio all’altro”. Detto altrimenti, la lettura si avvicina al sogno, « è una strada reale verso l'inconscio » che coinvolge totalmente l’essere « che coinvolge mente e corpo, coscienza razionale e moti inconsci, facoltà intellettuali ed emozioni, affetti e pulsioni » ( trad., p.91).
Lo scopo di Isabelle Blondiaux, come emerge in questi capitoli, è quello di rendere conto di una doppia vocazione medica ed esistenziale della biblioterapia e dei discorsi che la sostengono, situati al crocevia epistemologico del medico, del religioso e del filosofico. Dallo sviluppo personale, all’introspezione psicologica, come trattamento palliativo o come pratica benefica per la salute, la potenza terapeutica prestata alla letteratura si inscrive tanto alla branca tecnica della medicina, la terapeutica, quanto al registro filosofico-religioso del terapeutico che trova le sue origini nelle pratiche antiche dell’attenzione e della cura del sé. Ma qui si pone una domanda sostanziale alla quale Blondiaux cerca di rispondere con il sostegno degli studi di sociologia della cultura di E. Illouz: qual è la linea sottile tra le pratiche terapeutiche intese come cura, sostegno alla ricerca di un’indipendenza emotiva, di un percorso conoscitivo di sé e degli altri, infine di un appoggio alla costruzione di una rete relazionale, rispetto ad un discorso terapeutico finalizzato alla normalizzazione delle emozioni, ad una codificazione culturale normativa del linguaggio, del corpo e della famiglia ? Il “discorso terapeutico” sembra essere diventato un nuovo paradigma socio- culturale farcito di pratiche narrative che intendono istituire una “cultura dell’emozione” estesa alla vita privata e a quella pubblica, proponendo dei modelli di interazione con gli altri e di autorealizzazione personale. Nel saggio Saving the Modern Soul. Therapy, Emotions and the Culture of Self-Help (2008), Illouz mostra come nel “discorso terapeutico” contemporaneo - in cui le pratiche della lettura sono interamente inserite - emergano i caratteri della cultura capitalistica e del suo linguaggio. L’uso preponderante di emozioni e sentimenti all’interno del “discorso terapeutico” permette loro di infiltrarsi all’interno della vita sociale americana, psicologizzandola: è un processo che la sociologa chiama un "nuovo ethos sociale", quello del "capitalismo emozionale" e delle sue tecniche di gestione e coordinamento delle emozioni e delle relazioni umane. Il discorso terapeutico diventerebbe allora una forma di doxa contemporanea (Le Lay, 2020) basata su « un corpo specializzato e formalizzato di conoscenze, e anche come quadro culturale, che guida le rappresentazioni delle percezioni di sé, le concezioni degli altri, e genera specifiche pratiche emozionali » (trad., p.119). È in breve il completamento « della dominazione ideologica degli USA» (trad., p. 124), che tende a caratterizzare il nuovo ethos contemporaneo dominante nelle società occidentali attraverso la distruzione « dell'autonomia del pensiero, degli intellettuali, dei centri di elaborazione del pensiero e dell'azione sul cambiamento sociale» (trad., p.124). Tuttavia, il termine terapiaè sovente associato a “trattamento, cura” ed è quindi suscettibile di essere utilizzato in ogni discorso. Bisogna dunque ritornare alla distinzione tra « le pratiche del discorso terapeutico, medico, e quelle del registro terapeutico, filosofico-religioso ». Come ricorda la studiosa Piroska Nagy esiste un’antica tradizione introspettiva in Europa che precede ampiamente la "cultura psicologica" descritta da Illouz, diffusa grossomodo attraverso i diversi strati mediatici delle nostre società, una pratica meditativa che ha a che fare con l'ascetismo cristiano e che ha potuto resistere per secoli, da Platone a Sant'Agostino, fino all'emergere del soggetto (Le Lay 2020). Riflettendo sullo statuto epistemologico della biblio/poesia-terapia, Blondiaux riconosce che il crescente successo delle pratiche di lettura terapeutica deve molto al dominio del "discorso terapeutico", ma riconducendo il termine terapia alle sue accezioni originarie conclude :« È difficile capire cosa significhi il trattamento a cui si riferisce la biblio-poesia/terapia se non lo si mette in relazione con le origini nella cultura occidentale delle pratiche che hanno contribuito ad affinare la differenziazione delle razionalità mediche e filosofiche, in particolare attraverso la nozione di "cura di sé"» (trad., p.128). Ed è proprio questa “cura di sé” delle pratiche antiche la lezione principale da tenere a mente. Esse sono curative perché considerano l’essere nel suo trasformarsi, nel suo divenire, aprendo alla temporalità e, dando accesso al senso, permettono la creazione della soggettività. Scrive Blondiaux nelle ultime pagine : « Esse sono etiche perché, creatrici di soggettività, aprono o riaprono alla vita dello spirito. Aprendo alla vita dello spirito, anche se non ci liberano dalla nostra condizione mortale, esse rendono possibile una vita sulla quale la porzione di tempo che definisce il nostro destino, il tempo cronologico, non ha presa e che è la durata profonda della relazione e della vita umana, che è potenzialità creativa» (trad., p.179).
Il saggio di Isabelle Blondiaux, elaborato a partire da una forte conoscenza della psicoanalisi, della psicoterapia e della filosofia, fornisce una discussione dell'epistemologia delle pratiche di lettura terapeutica. La sua qualità principale è quella di analizzare la ricaduta nel reale, con i suoi aspetti terapeutici ed estetici, delle pratiche biblioterapiche. Il saggio offre un punto di vista singolare e rilevante su un approccio "pragmatico" alla letteratura: « l'archeologia delle sorgenti cognitive, ideologiche e socioculturali di queste pratiche evidenzia la loro innegabile inclusione nella nebulosa dello sviluppo personale sottolineando i rischi di manipolazione ideologica, ma ci invita anche a collocarle in un'antica tradizione di lettura come ascesi e confessio (autoesame), costitutivo dell'avvento del soggetto moderno » (trad., Le Lay 2020). Attraverso la lettura incontriamo l’altro, nell’incertezza dell’incontro intessiamo reti relazionali, aprendo un libro ci addentriamo in un percorso di trasformazione ed esplorazione spesso dato dal caso, che permette al nostro essere di avvenire. Per concludere con le parole di Blondiaux : « Le pratiche, letterarie, mediche o altro, riguardano gli esseri umani viventi. Si rivolgono a coloro che esistono. Ma ex-sistere ("sistere ex") è essere fuori di sé, fuori dal proprio essere. Questo non significa essere in una quarta dimensione, o "lasciarsi andare", ma essere tesi verso la relazione con l'altro, essere aperti alla possibilità dell'incontro e di essere afferrati dall'altro, allo sconvolgimento dell'essere ». (trad., p.180).
di Francesca Quey
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Bibliografia
R. Darrin, The Library as a Therapeutic Experience, Bull Med Libr Assoc, 47(3), Jul 1959. M. Le Lay, La lecture comme thérapie, Acta fabula, vol.21/6, Essais critiques, Juin 2020.
L’analogia accompagna la storia della filosofia sin dai suoi albori[1]. Questa nozione viene elaborata nel contesto della riflessione matematica greca, in particolare da autori come Euclide ed Eudosso di Cnido, i quali la caratterizzano come un’uguaglianza di rapporti quantitativi, cioè una proporzione per cui A : B = C : D. Nella riflessione filosofica è utilizzata già da Platone, che nel Timeo la definisce “il più bello dei legami” (Plato, Tymaeus 31c) e nella Repubblica delinea la celebre analogia tra il Sole e l’Idea del Bene (Plato, Respublica 508d). Ben presente anche nella riflessione degli Accademici successivi, in particolare Speusippo, essa viene ripresa da Aristotele, che più di tutti ne fa un uso ampio e trasversale, applicandola ai diversi ambiti della sua speculazione filosofica e scientifica. A dispetto delle numerose occorrenze di questo termine negli scritti aristotelici, lo Stagirita ne fornisce una esplicita definizione soltanto in poche occasioni. Ad esempio, nella Poetica, dopo aver menzionato la metafora per analogia, spiega: «per analogia dico quando sono in uguale rapporto il secondo elemento con il primo e il quarto con il terzo. Si dirà allora il quarto per il secondo o il secondo per il quarto» (Aristoteles, Poetica, 21, 57b 16-33.). Nell’Etica Nicomachea, nel presentare il giusto come qualcosa che si stabilisce per mezzo di un’analogia, Aristotele afferma che questa costituisce «un’uguaglianza di rapporti, e si ha tra almeno quattro termini» (Aristoteles., Ethica Nicomachea, V, 6, 1131a 30 – 31). Infatti la giustizia, in modo particolare quella distributiva, si realizza nell’uguaglianza proporzionale tra le persone coinvolte e i beni assegnati. Ancora, nelle opere biologiche si fa un largo uso dell’analogia, intesa soprattutto come identità di funzione tra i termini considerati, al fine di istituire connessioni utili alla comprensione del mondo vegetale e animale:
Intendo per analogia che alcuni animali hanno il polmone, altri non hanno il polmone ma un altro organo che sostituisce la funzione svolta dal polmone negli animali che lo possiedono; ancora, alcuni hanno il sangue, altri qualche cosa di analogo che possiede le stesse proprietà presentate dal sangue negli animali sanguigni (Id., De partibus animalium, I, 5, 645b 6-1).
L’analogia viene chiamata in causa anche in alcuni importanti passi della Metafisica. Nel libro V, trattando dell’uno per sé, Aristotele distingue livelli diversi di unità: per numero, specie, genere e analogia. Quest’ultima è definita come la relazione per cui questo sta a quello come altro sta ad altro, ed è presentata come il tipo più ampio e debole di unità, l’unico in grado di oltrepassare le distinzioni tra le categorie e così abbracciare la totalità dell’essere (Aristoteles, Metaphysica, V, 6, 1016b 30-35). Nel libro IX si afferma esplicitamente che le nozioni di potenza e atto, per via della loro generalità e del loro carattere fondativo, non possono essere definite, ma possono essere comprese soltanto mediante l’analogia. Infatti, è possibile dire che l’atto sta alla potenza come chi costruisce sta a chi può costruire, chi è sveglio a chi dorme, chi vede a chi ha gli occhi chiusi pur avendo la vista. Di conseguenza, tutte le cose si dicono in atto non nello stesso modo, ma solo per analogia: «come questo sta in questo o rispetto a questo, così quest’altro sta in quello o rispetto a quello» (Aristoteles, Metaphysica, IX, 6, 1048b 7-8). Alcune cose sono dette atto in quanto movimento rispetto alla quiete, altre come forma rispetto a una certa materia: stati diversi che però condividono il fatto di attualizzare in un determinato modo una potenza. Il libro XII, poi, contiene la famosa dottrina secondo la quale tutti gli enti in un certo senso possiedono i medesimi princìpi, mentre in un altro senso no. Quello che Aristotele intende dire è che tutti gli enti possiedono gli stessi princìpi non secondo il numero, come sostenevano i platonici, bensì soltanto per analogia, nella misura in cui enti diversi hanno princìpi diversi, i quali però svolgono la medesima funzione. Per ogni ente è infatti possibile individuare qualcosa di corrispondente al sostrato, alla privazione, alla forma e alla causa motrice, senza che questi siano numericamente identici per tutte le cose (Aristoteles, Metaphysica, XII, 4, 1070a 30 – 1070b 35).
Questa veloce panoramica ci consente di capire quanto sia pervasiva la presenza dell’analogia nel pensiero aristotelico: questa viene impiegata come una modalità di ragionamento duttile, dinamica, adattabile a contesti diversi e dalla spiccata capacità euristica. Aristotele mantiene comunque sempre fermo il nucleo di fondo della sua concezione dell’analogia, cioè l’idea che si tratti di una relazione che coinvolge due coppie di termini, delle quali si stabilisce l’uguaglianza (quantitativa o qualitativa) di rapporto. La tradizione successiva, tuttavia, finirà con l’attribuire ad Aristotele una concezione molto più ampia dell’analogia, facendovi rientrare anche la situazione descritta in un altro passo della Metafisica, uno dei più celebri dell’opera.
All’inizio del quarto libro Aristotele esordisce affermando che esiste una scienza che studia l’essere in quanto essere. Infatti, benché questo si dica in molti modi, tutti questi sono riferiti a un’unica natura, cioè alla sostanza. Tale relazione pros hen(letteralmente: “verso un’unica cosa”), cioè il riferimento costitutivo alla sostanza che tutte le categorie presentano, è ciò che conferisce all’essere, nonostante la dispersione dei modi in cui si manifesta, quel grado minimo di unità sufficiente a farne oggetto di scienza.
La tradizione esegetica successiva, nel tentativo di fornire una versione il più possibile sistematica del pensiero dello Stagirita, ha riservato un’attenzione particolare al primo paragrafo delle Categorie, dove vengono distinte le cose omonime (aventi lo stesso nome e una definizione diversa, come “animale” detto di un uomo e di un dipinto)[2], quelle sinonime (aventi lo stesso nome e la medesima definizione, come “animale” detto di un uomo e di un bue)[3] e quelle paronime (il cui nome deriva da un altro attraverso la modifica della terminazione, come “grammatico” da “grammatica”). Soprattutto a partire da Porfirio, i commentatori hanno cercato di comporre le indicazioni sparse nel corpus aristotelico circa i diversi tipi di relazione per elaborare una griglia esaustiva, che in seguito Severino Boezio, traducendo e commentando le Categorie, ha contribuito in modo determinante a diffondere nell’Occidente latino medievale:
All’interno di questa griglia è importante osservare principalmente due cose. Innanzitutto, viene sviluppata una suddivisione interna all’omonimia, per cui si distingue l’omonimia casuale (non c’è alcun legame tra l’attribuzione del nome e la definizione della cosa nominata) e quella razionale (c’è un certo legame tra l’attribuzione del nome e la definizione della cosa nominata). Tra i tipi di omonimia razionale compaiono sia l’analogia (cioè la proporzione, ad esempio quella in virtù di cui l’unità e il punto sono entrambi princìpi, rispettivamente del numero e della superficie), sia la relazione pros hen, che esprime il riferimento di tutte le categorie alla sostanza. In secondo luogo, la paronimia comincia a essere interpretata non soltanto come una relazione di tipo grammaticale (così come la intendeva Aristotele), ma, platonicamente, anche come una relazione di partecipazione reale, in virtù di cui, ad esempio, il coraggioso può essere detto tale nella misura in cui partecipa del coraggio.
Le varie riproposizioni e riformulazioni di questo schema avanzate dai commentatori greci tardo-antichi e dai filosofi arabi hanno prodotto, nel lungo periodo, una sovrapposizione tra tipi di relazione che in origine erano distinti: la relazione pros hen e la paronimia finiscono per fondersi, andando a occupare contemporaneamente una collocazione intermedia rispetto alle altre, e in riferimento a esse si comincia a utilizzare il lessico dell’analogia. Questo fatto viene registrato puntualmente nel Liber de praedicabilibus, trattato di logica composto da Alberto Magno:
Analoghi sono i termini che convengono proporzionalmente, come dicono gli arabi: sono intermedi tra gli univoci e gli equivoci e sono imposti a cose diverse nell’essere e nella sostanza in virtù del riferimento a un’unica cosa alla quale essi sono proporzionati (Albertus Magnus, Liber de praedicabilibus, I, 5).
Dalla tradizione araba gli europei ricavano quindi una nuova classe di termini, che non compariva come tale nella griglia elaborata da Porfirio e trasmessa da Boezio. I termini analogici sono presentati come intermedi tra quelli univoci (che Aristotele chiamava sinonimi) e quelli equivoci (omonimi), nella misura in cui sono meno rigidi dei primi e, rispetto ai secondi, garantiscono un grado minimo di unità e coerenza del discorso. I termini analogici sono utilizzati nelle situazioni in cui si riscontra un ordine di anteriorità e posteriorità nelle realtà nominate, dove perciò non è possibile ricorrere alla predicazione univoca. Questo è il caso dell’essere: dal momento che, aristotelicamente, si dice in molti modi, senza che questi possano essere risolti in una forma superiore di unità che li ricomprenda tutti, occorre spiegare in che modo l’essere conservi un certo grado di unità e in che senso sia la sostanza sia le altre categorie possono essere chiamate “enti” nonostante la superiorità della prima, dalla quale le altre dipendono quanto alla loro esistenza. Se Aristotele, come abbiamo visto, aveva giustificato l’unità dell’essere introducendo, nel IV libro della Metafisica, la relazione pros hen, i medievali cominceranno ad affermare che l’essere praedicatur analogice, si predica analogicamente. Oltre a questa applicazione ontologica, l’analogia si afferma anche come strumento fondamentale in teologia. A partire da una tradizione neoplatonica che ha in Proclo il suo punto di riferimento (e che si diffonde in ambito cristiano grazie agli scritti dello pseudo-Dionigi Aeropagita e in ambito islamico grazie al Liber de causis[4]), l’analogia viene impiegata anche per descrivere il modo in cui l’essere e le varie perfezioni vengono comunicate dalla Causa Prima a tutta la creazione proporzionalmente alla capacità recettiva di ogni ente, cioè alla sua maggiore o minore eminenza.
In conformità con questo duplice campo di applicazione, Tommaso d’Aquino è solito introdurre l’analogia distinguendone due accezioni principali:
il Creatore e la creatura si riconducono in unità non per una comunanza di univocità, bensì di analogia. Tale comunanza, però, può essere di due tipi: quello per cui alcune cose partecipano di alcunché di unico secondo anteriorità e posteriorità, come la potenza e l’atto partecipano della nozione di ente, e similmente la sostanza e l’accidente; oppure quello per cui un’unica cosa riceve dall’altra l’essere e la nozione, e tale è l’analogia che intercorre tra la creatura e il Creatore (Thomas De Aquino, Scriptum super I Sententiarum, Prologus, q.1, art. 2, ad 2.).
Tommaso è l’autore di solito accostato più strettamente all’analogia dell’essere, ma bisogna tenere presente che l’espressione analogia entis non compare mai nei suoi scritti. Egli chiama in causa l’analogia occasionalmente, in varie opere, presentandola di volta in volta in modo leggermente diverso in funzione del problema specifico che sta affrontando. Nella maggior parte dei casi, l’Aquinate se ne serve in un contesto teologico, al fine di precisare quale tipo di analogia ci consenta di attribuire a Dio l’essere, la bontà, la giustizia e altri attributi essenziali a partire dal modo in cui li sperimentiamo nelle creature. Nel corpusthomisticum coesistono perciò diverse formulazioni dell’analogia, che hanno posto gli interpreti di fronte alla difficoltà di capire se al riguardo esista effettivamente una dottrina tommasiana ufficiale, e se sì, quale sia. A prescindere da questo annoso problema, è possibile osservare che il maestro domenicano distingue spesso tra analogia duorum ad tertium (di due cose a una terza) e analogia unius ad alterum (di una cosa all’altra): la prima descrive il diverso rapportarsi di due cose a qualcosa di anteriore a entrambe, come quello della sostanza e dell’accidente alla ratio entis; la seconda descrive il rapporto esclusivo di una cosa verso ciò da cui dipende, come avviene per la creatura nei confronti del Creatore. Un’altra distinzione rilevante, che assume un’importanza preponderante all’interno della tradizione tomista successiva, è quella tra analogia di attribuzione (o proporzione) e analogia di proporzionalità. In realtà, questa terminologia non è strettamente tommasiana, ma deriva dall’opuscolo De nominum analogia composto dal commentatore tomista rinascimentale Tommaso De Vio, detto il Gaetano, che per secoli è stato considerato come la presentazione ufficiale della dottrina tommasiana dell’analogia. L’analogia di attribuzione descrive il fatto che tante realtà diverse sono tutte in relazione a un’unica e medesima natura, da cui dipendono; quella di proporzionalità mette in risalto l’identità di rapporto tra coppie diverse[5]. La prima è la relazione pros hen aristotelica, sovrapposta al movimento neoplatonico di exitus e reditus della creazione rispetto alla Causa Prima, che esprime il possesso, da parte delle creature, delle varie perfezioni (essere, bontà, sapienza etc.) pre-contenute in maniera sovraeminente in Dio; la seconda corrisponde al senso originale dell’ἀναλογία aristotelica. Entrambi questi significati, per Tommaso, costituiscono un tipo di analogia:
Costituiscono un’unità per proporzione o analogia tutte le cose che convengono nel fatto che questa sta a quella come una cosa sta a un’altra. Questo, poi, si può intendere in due modi: o nel senso che due cose presentano relazioni diverse a un’unica cosa, come “sanativo” detto dell’urina significa la relazione di segno della salute, mentre è detto della medicina perché significa la relazione di causa rispetto alla stessa. Oppure nel senso per cui si dà un medesimo rapporto tra due cose e cose diverse, come quello della calma rispetto al mare e del sereno rispetto all’aria: infatti la calma è la quiete del mare, il sereno quella dell’aria (Thomas De Aquino, In XII libros Metaphysicorum Aristotelis Expositio, V, lec. 8, par. 879).
La tradizione tomista attribuirà grande importanza al ruolo svolto dall’analogia all’interno del pensiero dell’Aquinate, dando luogo a un dibattito interno, giunto sino ai giorni nostri, circa la superiorità dell’analogia di attribuzione o di quella di proporzionalità[6]. L’analogia in Tommaso è stata a lungo considerata un elemento perfettamente coerente con l’impianto aristotelico del suo pensiero, tanto che si è parlato di “dottrina aristotelico-tomista dell’analogia”. A partire dalla metà del secolo scorso, gli studiosi hanno messo in discussione questo assunto, soprattutto con l’obiettivo di tornare a una lettura diretta di Aristotele senza alcuna mediazione tomistica. Nel far questo, si è cominciato a valorizzare anche la tradizione esegetica antica, tardo antica e medievale araba, al fine di reperire quali slittamenti terminologici e concettuali abbiano reso possibile il progressivo costituirsi di quella che noi oggi conosciamo come la dottrina dell’analogia dell’essere.
di Giovanni Gambi
[1] Per una panoramica generale dei testi relativi alla filosofia antica e medievale e per la bibliografia rimando a G. Catapano, C. Martini, R. Salis (2020).
[2] Il termine zoon in greco significa sia “animale” sia “dipinto”, “ritratto”.
[3] L’uomo e il bue sono specie del genere animale, per cui ad essi il predicato “animale” si applica con lo stesso significato.
[4]Il libro del filosofo Aristotele sull’esposizione del Bene puro, sintesi sincretistica realizzata nel IX secolo nel circolo di al-Kindī sulla base degliElementi di Teologia di Proclo, conoscerà una larghissima diffusione in Europa a partire dal XIII secolo con il titolo di Liber de Causis.
[5] In Quaestiones disputatae de veritate, q. 2, art. 11, Resp. Tommaso distingue tra convenientiaproportionis e convenientiaproportionalitatis; in Summa theologiae, Pars I, q. 13, a. 5, Resp. distingue l’analogia per cui multa habent proportionem ad unum e quella per cui unum habet proportionem ad alterum.
[6] Per un veloce riepilogo delle posizioni sostenute in questo dibattito cfr. A. Donato, Il ruolo dell’analogia di attribuzione e di proporzionalità nella dottrina dell’Essere di Tommaso d’Aquino, «Medioevo. Rivista di storia della filosofia medievale», 28 (2003), pp. 163-190; spec. pp. 163-171.
A. Donato, Il ruolo dell’analogia di attribuzione e di proporzionalità nella dottrina dell’Essere di Tommaso d’Aquino, «Medioevo. Rivista di storia della filosofia medievale», 28 (2003), pp. 163-190.
Plato, Timæus.
Thomas De Aquinas, Quaestiones disputatae de veritate.
Diceva Peirce che il pensiero di uno scrittore vivente risiede maggiormente nelle copie stampate dei suoi libri piuttosto che nel suo cervello (CP 7.364). Ovviamente, con questa formulazione, Peirce non voleva affatto mettere in luce la mera dimensione quantitativa della produzione di un autore, quanto piuttosto sostenere che è nella pratica di scrittura – condivisa, corporea, intersoggettiva e proprio per questo valutabile e aperta al dibattito – che si discutono le idee, che i pensieri acquisiscono corpo e che diventa possibile saggiarne la consistenza e l’effettività pratica. La filosofia del gesto di Giovanni Maddalena,nella versione italiana appena pubblicata, conferma in qualche modo questa idea del pragmatista americano. Mentre The Philosophy of Gesture, uscito nel 2015 per la prestigiosa casa editrice McGill, si presentava come un testo più corposo e tecnico, la versione italiana è invece più agile e diretta e nasce dall’esigenza di far arrivare la proposta teoretica di questo testo ad un pubblico più ampio di quello degli studiosi e degli specialisti del pragmatismo. Giovanni Maddalena è professore ordinario di filosofia teoretica all’università del Molise e si occupa principalmente di pragmatismo americano, della semiotica di Charles Peirce, della logica della continuità e dello studio dei grafi esistenziali.
Per inquadrare agilmente la struttura di questo testo, si potrebbe dire che è suddiviso in due parti. Con un piccolo nota bene però: che con questa operazione – e dunque con questo gesto – si è già tradita in qualche modo la complessità e la sinteticità di questo nuovo modo di intendere la pratica gestuale, dove teoria e prassi, mente e corpo, comunicazione e pensiero sono già da sempre coinvolti in un’unità dinamica e creativa.
Nella prima parte Maddalena discute, sul versante teoretico, in quale senso quello del gesto sia un nuovo paradigma di ragionamento sintetico. Nella seconda parte, invece, l’autore fornisce un ventaglio di applicazioni pratiche entro cui questo nuovo paradigma di ragionamento può muoversi e contribuire, dalle riflessioni sulla tecnologia alla religione, dal diritto alla pedagogia.
Sin dalle prime pagine, questo testopresenta le ragioni per cui è necessario pensare ad una filosofia del gesto: l’obiettivo polemico di questo nuovo paradigma di ragionamento è infatti il come della distinzione kantiana tra analitico e sintetico. Nella Critica della ragion pura, Kant definisce analitico quel giudizio che, basandosi sul principio di contraddizione, presenta le caratteristiche di necessità e universalità; definisce invece sintetico quel giudizio che, basandosi sull’esperienza, permette di acquisire nuove conoscenze. Di più: partendo da questa distinzione, Kant si chiedeva se fosse possibile trovare dei giudizi che fossero allo stesso tempo universali, necessari e sintetici. Secondo Kant, i giudizi della matematica e della geometria (si ricordi il famoso esempio 7+5=12) incarnano la struttura dei giudizi sintetici a priori, poiché permettono di conoscere un contenuto nuovo senza però dover rinunciare alla necessità e all’universalità. La critica che Maddalena rivolge a Kant è che i giudizi sintetici a priori, per come vengono intesi e esposti da Kant, hanno caratteristiche di universalità e necessità ristrette. Si applicano cioè solamente ad un certo tipo di spazio e di tempo. In breve, “la sintesi a priori kantiana si appoggia su uno schema tutto-parte che è identico a quello dell’analitica…La sintesi dunque funziona, cioè mantiene universalità e necessità, perché è analitica” (p. 26).
Oltre a Kant, vi è poi un altro obiettivo polemico di cui occorre fare menzione per comprendere il quadro teorico entro cui si colloca la filosofia del gesto. Dopo un breve storia della gestualità volta a scardinare l’idea antica e moderna che i gesti costituiscano un linguaggio primordiale e incoativo, Maddalena si confronta con i gesture studies e quindi con la classificazione dei gesti di Adam Kendon. Secondo Kendon, i gesti si suddividono in 1) gesticolazione, 2) gesti language-like, 3) pantomine, 4) emblemi, 5) lingue segnate.
Maddalena riconosce il contributo di autori come Kendon e Austin nell’averci insegnato che si possono fare cose con le parole, ma intende, attraverso gli strumenti concettuali della teoria segnica di Peirce, mostrare la necessità di allargare questo paradigma di ragionamento, assumendo un diverso approccio per trattare la complessità delle pratiche gestuali: “i problemi classici dello studio dei gesti, i tipi vecchi e nuovi di parallelismo e continuismo, possono in questo modo essere compresi senza creare alternative: la gesticolazione è un modo di conoscere ma l’aspetto simbolico-linguistico riveste una parte fondamentale affinché tali gesti giungano a una completezza” (p. 94).
È vero che in questo testo le sottili analisi della semiotica di Peirce sono maggiormente lasciate sullo sfondo rispetto al precedente Philosophy of Gesture; è altrettanto vero che sarebbe impossibile prescindere dal progetto peirciano per comprendere la struttura di questo testo. Uno dei meriti di questo testo sta proprio nel vedere la teoria del segno di Peirce come un punto di rottura con la filosofia kantiana e in particolare, con la distinzione tra fenomeno e noumeno, così come tra sintetico e analitico.
Per descrivere al meglio in cosa consista questo nuovo paradigma di ragionamento, Maddalena, in contrasto con Kant, ci invita a guardare la sintesi non come “il rovesciamento dell’analisi ma come un processo originale per cui conosciamo mentre facciamo e mentre comunichiamo” (p. 9).
Il ragionamento, sostiene Maddalena, non è bipartito ma tripartito e pendolare e comprende l’ambito analitico, quello sintetico e, infine, quello vago. Sintetico è il ragionamento che riconosce l’identità nel cambiamento mentre invece quello analitico è il ragionamento che la perde. Il giudizio vago rappresenta la transizione tra l’analitico e il sintetico, il confine liminare tra il riconoscimento e la perdita dell’identità nel cambiamento. Delinea dunque una zona del ragionamento ancora inarticolata. La nozione di identità in mutamento è fondamentale per comprendere la critica che Maddalena rivolge alle filosofie della coscienza così come per strutturare questo nuovo paradigma gestuale. In ambito matematico, il termine mutamento si traduce con “continuo” ed è per questo motivo che i punti da tenere fermi per capire l’urgenza di ragionamento sintetico gestuale sono l’identità e il continuo.
Entrando nel vivo della strutturazione del gesto, Maddalena ne distingue due aspetti, uno semiotico e uno fenomenologico: più nello specifico, per quanto riguarda il versante semiotico, il gesto, secondo la celebre tripartizione peirciana, si compone di icona, indice e simbolo. Iconico è quel segno che rappresenta il proprio oggetto per similarità, indicale quello che lo rappresenta per connessione diretta mentre simbolico è quel segno che richiede una mediazione interpretativa per poter rappresentare il suo oggetto. Sul versante fenomenologico (o, come direbbe Peirce, faneroscopico), il gesto si articola in firtsness, secondness e thirdness. Queste tre categorie traducono sul piano fenomenologico i tre modi del segno prima accennati “ma ne sottolineano la trasmissione del significato” (p. 39). La dimensione fenomenologica permette di intendere simultaneamente le modalità del segno e la pratica comunicativa che le istanzia.
Un gesto è completo quando produce una sintesi, cioè quando operano in completa sintonia sia gli aspetti semiotici che quelli fenomenologici, permettendo di acquisire un nuovo significato. Un gesto è invece incompleto quando non vi è una piena collaborazione di questi aspetti e dunque non è possibile produrre una sintesi completa. Ovviamente, precisa Maddalena, seppure incompleti, tali gesti non sono però inutili; anzi, “coincidono con gran parte delle nostre azioni ed hanno una funzione” (p. 37).
A questa gran parte delle nostre azioni occorre accennare, facendo così emergere la trattazione applicativa di questo nuovo paradigma di ragionamento, fondato sulla struttura semiotico-fenomenologica dei gesti completi e incompleti. Anche se il focus del testo è rivolto alla distinzione tra analitico e sintetico e alla sua riformulazione, non bisogna dimenticare la terza partizione del ragionamento, ossia la vaghezza. Il ragionamento vago è infatti un costituente irriducibile del gesto poiché rappresenta il punto di partenza di ogni azione e dunque di ogni pratica gestuale. La dimensione vaga mette in luce l’orienza del significato, la potenziale qualità differenziantesi che, in the long run, condurrà alla costituzione di una generalità significante. Certo la conoscenza umana è fallibile, sempre in difetto e correggibile: in breve, in cammino. Quello che però non bisogna omettere da questo racconto è che il nostro rapporto quotidiano con il mondo è costantemente regolato da un groviglio di certezze, di abiti cristallizzati e di pratiche per lo più non tematizzate che ci permettono un incontro gestuale e corporeo con esso. Uno dei contribuiti a mio parere più interessanti di questo testo sta nel riconoscere che “il nostro modo di affrontare, conoscere e comunicare la realtà è innanzi tutto vago” (p. 47). L’origine del significato è vaga poiché è praticamente certa, o meglio, stabilizzata da una parte della conoscenza che “ha a che fare il corpo, con l’esistenza, con l’azione” (p. 7).
In questo senso occorre considerare le riflessioni di Maddalena sul lavoro, inteso come “modo quotidiano di ragionare sinteticamente” (p. 81), capace di offrire una comprensione della propria identità e di quella altrui grazie alla prospettiva simbolica che accompagna lo sforzo del lavoro. Oppure l’analisi che l’autore rivolge al mondo della tecnologia e del digitale, vedendo la tecnologia come il motore del pensiero e gli strumenti tecnologici come prolungamenti macchinici dei nostri gesti.
In conclusione, concluderei questa recensione con una citazione di Nietzsche, tratta dallo Zarathustra e dedicata ironicamente ai dispregiatori del corpo, che ben sintetizza l’impianto e la tonalità pragmatista di questo libro: “V’ha maggior ragione nel tuo corpo, che non ne contenga la tua miglior sapienza. E chi sa mai perché il tuo corpo ha proprio bisogno della tua miglior sapienza?”.
Nel presente contributo cercheremo di analizzare lo strano caso del Random Darknet Shopper, opera d’arte che, avendo come perno un meccanismo aleatorio, mette in discussione il concetto di soggetto, inteso questo nella sua accezione filosofica, a partire dalle sue risonanze giuridiche. Software programmato ad acquistare casualmente merce sul darknet, ha avuto in sorte lo scontro con alcune antinomie giuridiche. Vedremo infatti come (§1) il principio di colpevolezza alla base del regime di discorso giuridico in cui l’opera si innesta si ritrova innanzitutto sul problema dell’individuazione: cos’è (oppure – forse meglio: quale parte è) il soggetto in causa? Il software? La mostra, intesa come luogo fisico? Oppure la mostra intesa come organizzazione di eventi? Già in quest’ambiguità iniziale possiamo rinvenire il fine primo e ultimo dell’“opera” in questione, quella di perturbare. In secondo luogo, il problema filosofico sollevato è se e come è possibile ritenere l’alea (come se fosse) un soggetto. Questa necessità giuridica non può non confliggere con il carattere meramente finzionale dell’attribuzione di una volontà a qualcosa di assolutamente caotico. Così facendo, il regime giuridico non può che ritrovare il suo ‘oggetto’ al di là o al di qua dell’evento stesso, ovvero nelle istanze enuncianti o enunciate individuabili del dispositivo stesso. Ad onor del vero, questo processo è sotteso a qualsiasi giudizio e l’interruzione discorsiva, l’individuazione di un’istanza, è proprio l’effetto che il discorso giuridico produce, non ciò su cuisi articola. In modo eclatante, l’opera che andremo ad analizzare non fa altro che rendere manifesto questa dinamica. Attraversandone la storia, dalle sue esibizioni (§2) alla ricezione sui rotocalchi (§3), andremo ad esaurire la bibliografia filosofico-giuridica che vi si è interessata, mostrando i tentativi e le proposte risolutive di richiudere in un discorso morale lo scandalo aperto da questo paradossale “soggetto caotico”(§4).
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1. L’opera
Random Darknet Shopper (abbr. RDS) è un progetto di computer art del duo svizzero !Mediengruppe Bitnik (al secolo Carmen Weisskopf e Domagoj Smoljo) svoltosi tra il settembre 2014 e il 2016. Come anticipato, l’“opera” è costituita da un software finalizzato a selezionare sul darknet in modo casuale, quindi ad comperare, merce del valore massimo di 100$ in bitcoin. Durante le mostre, il software procede a un acquisto a settimana. Gli articoli vengono così spediti direttamente sul luogo d’esposizione e collocati in apposite teche, che si riempiono progressivamente fino al termine della mostra. Come spiegato dagli autori sul loro sito, «Once the items arrive they are unpacked and displayed, each new object adding to a landscape of traded goods from the Darknet» (https://wwwwwwwwwwwwwwwwwwwwww.bitnik.org/r/).
Evidenziamo fin da subito un’ambiguità relativa all’identità del progetto. Con ‘RDS’ si intende, infatti, a seconda dell’aspettualizzazione: (1) l’oggetto, ovvero il software (secondo l’attorializzazione), (2) il luogo dell’esposizione e la collezione dei vari oggetti progressivamente acquistati (per spazializzazione e temporalizzazione terminativa) e (3) le sue performance, le varie acquisizioni avvenute nelle cosiddette editions (qui temporalizzazione incoativa). Poiché ogni edition è indipendente dalle altre, la raccolta del materiale inizia di volta in volta daccapo, l’acquisto degli oggetti è, come detto, casuale e il riempimento delle teche è durativo nel tempo. In breve RDS si presenta, proprio per la sua «capacità di assumere diverse impreviste strutture fisicamente inattuate», come un’opera in movimento (Eco 1980: 44).
In secondo luogo, notiamo che, se da un lato RDS è un dispositivo situato, occupando specifici punti dello spazio (il PC che gli fa da hardware e la merce esposta), dall’altro la relazione tra il suo discorso e l’ambiente rende il dispositivo sia pervasivo che – coniando un termine da aggiungere a quelli di Eugeni (2010: §3.2) – esclusivo. Infatti l’articolazione del senso di RDS gioca sul fatto che il suo automatismo non permette in alcun modo di essere partecipi dei criteri d’acquisto. Non si sa quale prossima chincaglieria troverà sul web, se non quando questa verrà direttamente portata sul luogo via posta. Si comprende allora come i !Mediengruppe Bitnik abbiamo potuto concepire RDS come «a landscape of traded goods» provenienti dal darknet cui si aggiungono nuovi elementi una volta «unpacked and displayed».
Una pervasione, dunque, dovuta a una collezione che riempie gradualmente l’intera sala dedicata. Wunderkammer contemporanea, RDS ostenta il privato e il proibito nel pubblico, funzionando così da dispositivo di sacrificio(Agamben 2005: 84).
Inoltre, l’aspettualizzazione temporale presenta RDS come una performarce artistica, confermando in questo modo l’«ipotesi» di lettura secondo la quale le avanguardie siano la «lucida e spesso consapevole ripresa di un paradigma essenzialmente liturgico», da leitourgia: «‘opera, prestazione pubblica’» (Id. 2017: 24 e 21). Si spiega dunque il motivo per il quale il duo svizzero possano definire RDS «a live Mail Art piece».
Ma “live piece” tematizza chiaramente l’Unheimlichkeit di Freud (1919), condizione – banalizziamo – in cui si ha terrore che prenda vita un oggetto inanimato, che gli oggetti rimossi possano (ri)attivarsi e (ri)entrare nella nostra vita cosciente. Era questo un meccanismo già presente nelle Wunderkammern: qui «lo statuto dell’esperienza museale attuale» vacilla, avendo davanti un «processo di accumulo quasi automatico di cui si fa fatica a comprendere la logica» cui deriva quell’«effetto di senso particolare, quello della meraviglia» da cui il nome (Donatiello 2016: 64). In breve, RDS è una macchina enunciativa automatica di un contenuto oscuro come il darknet, dispositivo hauntologico (Derrida 1994) grazie al quale il fantasma di una parte remota della rete si manifesta nella “casa” infestandola di simulacri, a mostrare il caos che alberga ogni cosmos, come suo rovescio e suo fuori.
Considerando che non permette di anticipare nulla sui suoi acquisti, RDS presenta un «regime» di interazione «dell’incidente», nel quale l’alea si costituisce come soggetto. Da un lato !Mediengruppe Bitnik programmano RDS per fargli ottenere una «motivazione in qualche modo concessiva», poiché l’esecutore, il Destinatario, obbedisce ciecamente alla volontà del Destinante che l’ha programmato; dall’altro, però, la programmazione è assolutamente autoneutralizzante, poiché, come già detto, l’oggetto di valore cui deve tendere il bot è, al di là dei limiti materiali imposti, un oggetto qualunque (Landowski 2005: 43).
Il ‘soggetto’-RDS emerge come se marchiato da una perversione della massima agostiniana «Dilige et quod vis fac», “ama e fa' che vuoi” (In Io. Ep. tr. 7, 8), dimostrandosi vera e propria forma-di-vita (Agamben 2011 : 17). In altre parole, esso è un’attorializzazione dell’alea. La macchina randomica apre quindi alla «minaccia del rischio puro al di sopra di tutti i sistemi di sicurezza», installando serenamente l’«attesa dell’inatteso» (Landowski 2005: 74). Come «se all’origine tutto fosse [...] discontinuità», RDS «non consent[e] alcuna forma di comprensione, ci pon[e] davanti all’insensato; escludendo ogni possibilità di anticipazione, non ci offr[e] moralmente alcuna sicurezza» (Greimas 1987: 89 e 74-5). Questo regime è ciò cui tende la ricerca dei !Mediengruppe Bitnik: «Randomness implies a loss of control. Loss of control is something we intentionally seek in our works: we create situations and let them play out». In RDS, infatti, «loss of control is part of the concept by delegating the buying decision to a software bot» (2015: 41).
RDS, “soggettivando l’alea”,incarnandola come attore e riproponendone le dinamiche costitutive, apre a una serie di paradossi. Innanzitutto «è solo nella sua manifestazione, realizzandosi[,] che il caso si auto-istituisce, in atto [...] in quanto legge di se stesso», andando così a coinvolgere la responsabilità indiretta dei suoi Destinanti solo ad azione compiuta (Landowski 2005: 80). Allo stesso modo, è solo tramite l’ostensione dei suoi acquisti che RDS si autocostituisce, retroattivamente, come un tipo particolare di soggetto. O – meglio – ha avuto modo di autocostituirsi.
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2. Il caso
Tre sono state le editions di RDS: alla galleria non profit Kunst Halle di San Gallo in Svizzera nella mostra “The Darknet – From Memes to Onionland. An Exploration” (14/10/2014-15/01/2015), alla Horatio Junior Gallery di Londra (11/12/2015-05/02/2016) e, infine, all’Aksioma Institute for Contemporary Art di Lubiana (24/02/2016-25/03/2016).
Ripercorrendo la prima edition attraverso l’ironico commento di Jon Lackman (2016), scopriamo che a san Gallo, «città svizzera dalle forti radici religiose» (ivi: 3), RDS si è collegato all’Agora shop, il più grande negozio illegale al mondo, dove ha acquistato ed esibito, nell’ordine: una chiave universale dei vigili del fuoco, 40$ di stecche di Chesterfield Blue provenienti dalla Romania, una borsa falsa di Louis Vuitton, la trilogia completa de Il Signore degli Anelli in ebook, altre 200 sigarette, una carta di credito VISA dorata, 120 mg di ecstasy in pillole dalla Germania prese a soli 48$, delle sneakers (false) della Nike firmate da Kanye West comprate a 75$ (le originali andavano sui 245$), un cappello da baseball con telecamera nascosta, una lettera di richiamo, un contenitore per farmaci a forma di lattina di Sprite, dei jeans, e infine la scannerizzazione di un passaporto.
La pietra dello scandalo è stata certo la partita di droga. I !Mediengruppe Bitnik constatano con sorpresa, sul loro sito, come «The parcel was sent from Germany and crossed the border and customs to Switzerland without any problems», problemi giunti solo il 12 gennaio 2015, a mostra appena conclusa, quando la polizia svizzera sequestra il bot e tutta la merce esposta.
Soltanto il 15 aprile, dopo aver testato che le pillole contengono MDMA (90 mg, non i 120 promessi), la polizia le distruggerà – così ha dichiarato –, restituendo invece tutto il resto. I !Mediengruppe Bitnik hanno così esultato sul loro sito:
At the same time we also received the order for withdrawal of prosecution. [In it] the public prosecutor states that the possession of Ecstasy was indeed a reasonable means for the purpose of sparking public debate about questions related to the exhibition. The public prosecution also asserts that the overweighing interest in the questions raised by the art work [RDS] justify the exhibition of the drugs as artefacts, even if the exhibition does hold a small risk of endangerment of third parties through the drugs exhibited. We as well as the [RDS] have been cleared of all charges. This is a great day for the bot, for us and for freedom of art!
Sebbene ci sia stato un acquisto di droga, questo non è stato voluto. Sebbene ci sia stata detenzione di droga, ciò è avvenuto a fini artistici: RDS ha creato dunque un vuoto giuridico dove, generando un illecito come evento, non è stato possibile attribuirgli un autore come responsabile. Solo la cornice artistica ha potuto rendere impunibile l’ostensione di questo gesto. In questa sede ci soffermeremo analiticamente solo sulla prima mostra. Della seconda, i curiosi sappiano che RDS, connesso questa volta ad Alpha Bay, ha acquistato: una t-shirt Lacoste falsa, due devices per l’estrazione di Bitcoin comprati con 25$, una copia elettronica di un libro di cucina francese in inglese del 1961, un cellulare con distorsore vocale, 1.825.380 indirizzi email a 100$, la scannerizzazione di una bolletta del gas inglese, concludendo con un PDF su come Hacking a Coca Cola machine.
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3. La ricezione
La notizia è salita subito agli onori della cronaca, dove si è scherzato sul fatto che il computer abbia una personalità umana e sia soggetto giuridico di diritti e doveri. Su TheGuardian Kasperkevicbalbetta che la polizia svizzera abbia «arrested – er, confiscated» un computer (2015); Kharpal le fa eco su CBSN (2015). Per Grey del Daily Mail RDS è addirittura un «cyber criminal!» che è stato «ARRESTED» (2015), mentre Grant dell’Indipendent sente l’imbarazzo di dover spiegare come «the consumer behind these purchases is not actually a human, though – it is an internet “bot”» (2015). RDS sembra quindi essere un soggetto pieno. Come «example of a nearly autonomous thing that bought things», esso desidera, acquista e commette crimini come tutti noi: questa è la novità su cui apre in modo clamoroso (Noto La Diega & Walden 2016: 4 nota 15).
Tant’è che a RDS si attribuisce un nome proprio, se non addirittura un genere. Come ha infatti raccontato Smoljo degli stessi !Mediengruppe Bitnik, «People also call him Randy. Normally, we try to give it a female name but this is what came out in this case» (https://exposingtheinvisible.org). Lackman invece, cercando inutilmente di non risultare sessista, attribuisce al bot il genere maschile: «For me [RDS] is not an /it /but a /he/.//Why not a /she/? I'm not sure. Only a sexist would assume an obsessive shopper is a she, right? Plus: men quail in stores, they choose stuff at random just to be done» (2016: 3). Ciò che vorremmo in ogni caso evidenziare è come la questione del soggetto giuridico comporti quella del genere e il binarismo sottesi, altrimenti non pertinenti.
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4. L’anomia
Galati ha commentato l’episodio delle pasticche evidenziando come, al di là «del risvolto potenzialmente ironico, [RDS] genera evidentemente delle domande che segnalano dei buchi giuridici sulla responsabilità degli algoritmi» (2018). La questione etico-morale è stata da subito sollevata, a partire da Power (2014), fonte di tutta la bibliografia successiva su questo «provocative example of such a shopping bot» (Gal & Elkin-Koren 2017: 315).
Una risposta viene tentata da Alves de Lima Salge e Berente (2017). Rifacendosi al kantismo di Rawls, per valutare il valore morale di un algoritmo come RDS, essi propongono un algoritmo di livello logico superiore, ovvero un meta-algoritmo. È già chiaro il pericolo della regressione all’infinito (critica avanzata da subito da Shaw 2018). Rischio, quello della regressio, contro il quale la giuscibernetica, fin dalle sue prime teorizzazioni, ha sempre invocato la necessità di un limite (Losano 1969: 169 ss).
Alves de Lima Salge e Berente, in ogni caso, si chiedono: sebbene sia stata violata una legge di Stato (il bot ha acquistato della droga vietata sul mercato regolare e un passaporto falso), si può ritenere il suo comportamento «unethical»? Per questo motivo, gli autori ritengono necessario un giudizio sulla sua attività. Il meta-algoritmo che propongono si articola di tre domande: (1) l’azione del social bot ha infranto la legge?, (2) la sua azione è ingiustificabile? (3) è coinvolto qualche inganno? Un bot, ma più in generale qualsiasi soggetto morale, non si comporta eticamente se la sua azione risponde affermativamente in progressione alle tre domande. La conclusione e il fine cui vogliono tendere gli autori – vero e proprio imperativo categorico – è che i «Social bots should always act truthfully» (ivi: 30).
Poiché il fine era artistico e l’ecstasy «in this presentation was safe», come indicato dalla polizia, gli autori dell’articolo possono ritenere il comportamento del bot «not unethical» poiché giustificabile con la moralità diffusa della comunità. Qui, però, l’impasse: per i due studiosi, che si rifanno all’Etica Nicomachea (III, 1111a), un soggetto-bot etico emerge come tale se e solo se la sua azione è allo stesso tempo saputa e voluta. Come già evidenziato, RDS si comporta come l’alea, alla quale è assolutamente finzionale attribuire una qualunque consapevolezza della propria volontà. Il bot sembra quindi muoversi a latere del meta-algoritmo, nello spazio di un vuoto giuridico.
Sorge inoltre un ennesimo problema, sollevato da Turner, per il quale RDS sarebbe un “Case Study” sulla domanda: «Could a Robot Commit a Crime?» (2019: §4.5). Per il principio del habeas corpus, anche se si individuasse la volontà del bot, questa resterebbe un carattere di una mera ψυχή (RDS è un software), cui non sarebbe relato alcun corpo punibile di reato. È il motivo di clamore del Washington Times (2015) per il quale è sorprendente che sia stato arrestato un «moving conglomeration of bits and bolts, conceived and fashioned by flesh and blood men».
Non resta dunque che dare la colpa agli sviluppatori: «Therefore, culpability rests on the knowledge of the developers» (ivi: 31), ovvero i Destinanti. Ma, anche in questo caso, si tratta di una soluzione particolare, che solo a volte può essere attuata. Si attribuisce la sostanza di soggetto al firmatario, in quanto primo riferimento fisso della catena di enunciazioni che si è venuta a creare. Ma in questo caso non si tratta di una colpa, al massimo un dolo. Si mostra così un conflitto tra due regimi discorsivi, quello del Diritto che cerca un elemento primo cui ricondurre la catena di enunciazioni (Latour 1998: 92 ss), come ad esempio un firmatario che emerge retroattivamente dalla sua firma (Derrida 1997: 393-424), e il regime discorsivo della tecnica che si articola in débrayages attanziali dove ogni attore così proiettato vive di una sua autonomia (Latour 1998: 82). Allo stesso tempo, però sono proprio i diritti d’autore, correlati della responsabilità autoriale (Franceschelli 2019), a permettere al duo svizzero di rivendicare per sé la genesi dell’opera. In breve, la funzione-autore è un «oggetto di appropriazione» la cui forma è storicamente seconda, in rapporto a ciò che di potrebbe chiamare l’appropriazione penale. I testi , i libri, i discorsi hanno cominciato ad avere realmente degli autori […] nella misura in cui l'autore poteva essere punito, vale a dire nella misura in cui i discorsi potevano essere trasgressivi. Il discorso, nella nostra cultura (e in altre probabilmente) non era, all’origine, un prodotto, una cosa, un bene; era essenzialmente un atto – un atto posto nel campo bipolare del sacro e del profano, del lecito e dell’illecito, del religioso e del blasfemo (Foucault 1971: 9).
Abbandonando così l’ipotesi d’“accusare delle cose di un crimine”, la colpa è dei programmatori, in quanto si prendono la responsabilità delle azioni del loro bot che hanno previsto. Si darebbe colpa a un bot se e solo se si potesse dimostrare che questo abbia deviato volutamente dal proprio programma, ovvero dal volere dei propri destinanti: «In such absence of deviation, it is easier to prove human involvement in the AIS’ illegal conduct. In other words, the programmer of [RDS] may also be held liable because it creates an AI to shop in the illegal market» (Andrini 2018: 79). Per lo stesso motivo, «si tratta di un reato punibile a titolo di dolo» poiché il «bot non è stato progettato o impiegato con l’intenzione di commettere il reato, ma il programmatore e/o l’utente hanno irragionevolmente accettato una serie di rischi che hanno portato al verificarsi della condotta criminosa», motivo per il quale «l’utilizzatore e/o il programmatore saranno ritenuti penalmente responsabili per il reato commesso dal bot» (Lagioia 2016: 126 e 129).
Ribadiamo: che siano colpevoli, gli artisti ne sono ben consci: «We are the legal owner of the drugs – we are responsible for everything the bot does, as we executed the code», ammette Smoljo. «But our lawyer and the Swiss constitution – continua – says art in the public interest is allowed to be free» (Power 2014).
È proprio il mondo dell’arte (Danto 1964) che infine si instaura come terzo discorso che permette di neutralizzare qualsiasi tipo di colpa da parte di RDS o dei suoi autori. I !Mediengruppe Bitnik infatti rivendicano di appartenervi.
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Conclusione
Perniola (2015) aveva individuato nell’arte più recente una certa svolta fringe, secondo la quale «Nulla è di per se stesso arte» ma «lo diventa attraverso molti fattori» in un processo detto di «artistizzazione». Evidenziamo come RDS si muova nella direzione opposta, poiché esso è da sempre costituito come opera d’arte. È il vuoto giuridico che crea a far scoppiare un conflitto discorsivo tra il mondo dell’arte e quello legale. RDS non è un’opera fringe verso altri domini: sono gli altri domini ad implodere su di esso.
Coglie bene l’essenza di RDS Volkart Schmidt nell’inserire il progetto nella cosiddetta Ästhetik der Störung, «disturbo» dato nello specifico dalla «Kollision der Systeme». Abbiamo visto come questo progetto artistico utilizzi il proprio dominio per generare cortocircuiti in quelli altrui, innanzitutto giuridico e, conseguentemente, sociale. Ciò è stato possibile grazie alle possibilità offerte dalla rete, non intesa qui ingenuamente solo come «spazio libero dal diritto», a richiamare «vagamente le origini euforiche di Internet» (2015: 4). Come spiega Boris, «Aquella emancipación del ciberespacio [...] nos parece hoy un poco ridícula». La rete non è più – o, meglio, non è mai stata – quel grande spazio orizzontale di chissà quale regno dei cieli sulla terra. Si necessita dunque di «entender el horizonte digital como un campo fundamental de esta hipergeografía que estamos habitando», per stabilire così «Términos y Condiciones de una ontología digital libertaria» (2017).
In conclusione RDS si presenta come emblematico «example of hacktivist guerrilla communication» (Delmas 2018: 75), la cui sola ragione d’esistenza, «l'esecuzione dell’atto di semplice consumo» (Volkart Schmidt 2015: 4), è una «reflection on the shadowy parts of the Internet without calling for any specific legal change, or articulating any specific political claim» (Delmas 2018: 75). RDS non vuole portare al cambiamento in nessuna legge corrente, ma sollevare una riflessione sui limiti delle legislatura stessa. Considerando che «c’è arte solo se e quando (resiste)» (Carmagnola 2019: 156), RDS è arte proprio nella sua rivendicazione.
Derrida (1996: 14 nota 1) era convinto che «la democratizzazione effettiva si misura sempre con questo criterio essenziale: la partecipazione e l’accesso all’archivio, alla sua costituzione e alla interpretazione». Se ormai la rete è la sostanza esterna del nostro inconscio tecnologico, grande produzione archiviale costantemente riattualizzata (Galati 2017: §3), RDS ne è macchina da guerrilla semiotica (Eco 1967) che, a partire dal territorio specifico dell’arte, può portare a rimetterne in discussione confini e geografia.
di Francesco Di Maio
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Il corpo umano ha una storia, oltre che una natura, una storia che risponde all’insieme, mutevole e indefinito, delle sue protesi e dunque delle sue potenze. Ecco perché definire le potenze del corpo umano ha sempre rappresentato un’impresa pressoché disperata. Nel momento in cui si comincia a enumerarle, non sono già più le stesse. Per questo il sapere tragico greco preferiva caratterizzare il nostro modo d’esistenza ricorrendo al titolo, a un tempo onorifico e problematico, di «il più inquietante» (todeinoteron: SophAnt. vv. 333; Sofocle 1982, 83): il corpo umano può sempre di più di quello che sembra, si proietta sempre in un processo di ampliamento «postorganico» (Macrì 2006) delle sue potenze che ne incrementa il novero almeno quanto ne altera sistematicamente il tipo. È sempre insomma un corpo intrinsecamente allargato e allargabile. La tecnica, in effetti, funziona innanzitutto come uno ‘sviluppatore’ (in estensione e in intensione) delle possibilità relative alle interazioni che il corpo può intrattenere con l’ambiente esterno e con gli altri corpi che lo abitano. Le determina nella stessa misura in cui le modifica in (quasi) tutta la loro profondità.
Ora, questa storia, la cui vicenda si sovrappone in larga parte alla storia delle sue riuscite evolutive, è anche la storia di come abbiamo imparato, per così dire, a non preoccuparci e ad amare il nostro destino di animali incompleti. Sappiamo infatti che, nonostante le innumerevoli difficoltà a cui andiamo sistematicamente incontro, esiste la possibilità ventura di risolverle, facendo leva su quella naturale propensione all’alterazione tecnica, e cioè all’artificializzazione al contempo del nostro corpo e dell’ambiente circostante, che contraddistingue dasempre l’operato, individuale o collettivo, della specie a cui apparteniamo. È in questo quadro che si inserisce allora il portato di quanto attualmente si definisce “medicina digitale” e le cui implicazioni sono ancora soltanto sul punto di manifestarsi in tutta la loro sconvolgente ampiezza. Oggi, infatti, al tempo della medicina digitale, il corpo parla sempre di più direttamente dei suoi stati, descrive con precisione inaudita la vicenda una volta segreta dei suoi umori, si squaderna sul fuori di un’automazione sempre più capillare e pervasiva, rivelandosi così allo sguardo indagatore del mondo e rendendosi disponibile per i nuovi attori (e, soprattutto, per i nuovi attanti automatizzati) di questo mondo. Sembrerebbe quasi che non ci sia quasi più nulla di inquietante, più nulla di ignoto o di impregiudicabile, in esso; che l’ignoranza del corpo in cui veniamo da sempre al mondo sia insomma, finalmente, un ricordo ormai lontano.
L’introduzione di metodi, pratiche e dispositivi clinici che fanno appello a una qualche forma di supporto digitale è perciò il segno di una rivoluzione epistemologica e performativa senza precedenti. Una rivoluzione che si delinea innanzitutto sul piano di quanto potremmo battezzare il nuovo regime di immediazione – ovvero, di paradossale convergenza di mediazione e immediatezza – che qualifica l’esperienza ricalcolata dalla sua massiva conversione digitale. Se c’è infatti un tratto definitorio dell’infosfera digitale esso risiede nell’implementazione sistematica e capillare di tecnologie di «terzo ordine» (Floridi 2017, 28 sgg.), ovvero di tecnologie che non mediano più semplicemente tra l’umano e la natura, o tra l’umano e altre tecnologie, ma tra tecnologie e tecnologie, in una catena di passaggi indefinitamente estensibile. Questa situazione incide infatti in maniera straordinaria sulla percezione che abbiamo del nostro rapporto con il reale e soprattutto con la nostra corporeità. Il corpo coinvolto nella digitalizzazione appare sempre di più come un corpo tanto cognitivamente trasparente quanto pragmaticamente indisponibile, perché sequestrato dalla sua stessa capacità di estendersi oltre il proprio perimetro organico. Il corpo che si guarda attraverso le interfacce di un apparato tecnologico in cui non c’è limite, in via di principio, al numero di immediazioni possibili mediante le quali supplementarlo, appare insomma come un prodotto che si sottrae al controllo individuale, presentandosi piuttosto come il dato di fatto insindacabile di un operare che nessuno ha deciso in piena scienza e coscienza.
Partiamo quindi da un esempio, senz’altro tra i più impressionanti. Esistono già farmaci «con integrato un sensore assimilabile dal corpo umano che, dopo l’ingestione, viene attivato nello stomaco al contatto con i succhi gastrici» (Collecchia, De Gobbi 2020, 148). «L’attivazione determina il rilascio di un segnale elettrico che, trasmesso a un apposito cerotto applicato sul corpo del paziente, viene trasmesso via bluetooth alla app del suo smartphone, che segnala al medico o al caregiver l’effettiva assunzione del farmaco» (Collecchia, De Gobbi 2020, 148). Il medico, o chi per lui, non è più costretto allora a chiedere conto al paziente della sua condotta, per verificare se sia compliante o se invece resista alla somministrazione della cura: ci pensa l’azione combinata della chimica farmaceutica e delle intelligenze artificiali associate. Il corpo comunica automaticamente con dispositivi che ‘parlano’ a loro volta con l’operatore sanitario di turno. L’interno del corpo ‘discetta’ insomma dei suoi stati, acquisendo così una trasparenza senza precedenti, a detrimento della stessa capacità del diretto interessato di riferire, o meno, sul loro corso, come del destinatario di interrogare in maniera direzionata e non casuale quel corpo. Mai come oggi la domanda sulle potenze del corpo sembra dunque sul punto di poter ricevere una risposta risolutiva. Il monito deleuziano-spinoziano «noi non sappiamo che cosa può un corpo» (Deleuze 1999, 169) non sembra avere appunto più la cogenza di un tempo. È la stessa postura metafisica dell’essere umano a conoscere in tal modo un fondamentale punto di non ritorno: una volta preso atto del nuovo sapere in merito alle potenze del nostro involucro terreno, non c’è più speranza di tornare all’innocenza edenica di chi ignora il proprio stesso ignorare, al non-sapere di non-sapere che qualifica inizialmente la condizione vitale. Si badi, infatti, quel che davvero costituisce una novità, in questo scenario, è non soltanto l’immediatezza, almeno apparente, della comunicazione con cui i dati organici diventano disponibili, cosa non certo inedita (l’uso di uno stetoscopio su di sé lo rendeva già possibile, banalmente), ma l’impossibilità di intervenire in modo volontario e puntuale, insomma: individuale, sulla loro acquisizione e sulla loro modulazione. La suddetta immediazione non implica altro che questo: siamo in presa diretta su noi stessi, abbiamo piena aderenza sulle variabili fisiologiche dalle quali dipende il buon funzionamento del nostro corpo e persino, in taluni casi, la sua stessa sopravvivenza, ma siamo completamente estromessi dal controllo su come questo avvenga.
Una prima considerazione di senso comune conduce però a sostenere che un corpo non è mai un sistema in cui il sapere e il potere possano andare completamente di pari passo. C’è come uno scarto costitutivo tra il sapere qualcosa e il poterlo essere, uno scarto per il quale vale il motto lacaniano «penso dove non sono, dunque sono dove non penso» (Lacan 2002, 512), ammettendo che ogni sapere risposi necessariamente su un pensiero di qualche tipo. In fin dei conti, la nota definizione della salute quale «vita nel silenzio degli organi»[1] esprime esattamente questo fatto primordiale. Il corpo sano è un corpo che non si sente (che non si sa o che non si pensa), al cui uso non corrisponde necessariamente e anzi necessariamente non corrisponde un sapere riguardo quest’uso: la cui presenza a sé, in altri termini, coincide con una paradossale assenza da sé. In materia di corporeità, l’opacità cognitiva fa tutt’uno insomma con la disponibilità pragmatica: il non-sapere che cosa può un corpo è parte integrante dell’essere un corpo sano, performante ed efficiente. Un corpo non potrebbe sapere allora di essere sano, continuando indisturbatamente a esserlo. Tra l’essere in salute e il sapersi in salute vi sarebbe come una discrasia archetipale, la cui forma potrebbe benissimo essere identificata con una sorta di basilare e impregiudicata incoscienza. Un certo grado di incoscienza risulterebbe indispensabile alla salute e direttamente proporzionale, in ultima istanza, al suo pieno dispiegamento. Questa, d’altronde, è una buona definizione di quella condizione di ‘ingenuità biologica’ in cui consiste la salute pre-patologica, ancora non incrinata dall’avvento della malattia. Il vivente come tale sarebbe incosciente di sé (del proprio corpo in azione) e per questo risulterebbe sano.
In tal senso, l’arte medica – e assumiamo qui che la medicina sia soprattutto «una tecnica o un’arte situata su un crocevia tra diverse scienze, piuttosto che una scienza in senso proprio» (Canguilhem 1998, 9-10) – si è configurata storicamente come una pratica di restaurazione dell’ignoranza perduta circa la propria corporeità. In altre parole, la medicina si è presentata per lo più come un insieme di procedimenti atti a far sì che dalla condizione dell’avere un corpo (dell’averlo come oggetto di un sapere), ingenerata dalla malattia, si potesse tornare semplicemente ad esserlo, come avviene tipicamente quando si è in salute (in cui si è il proprio corpo, e basta). La differenza tra stato fisiologico e stato patologico, sul piano del vissuto più immediato (sul piano in senso lato fenomenologico), risiede infatti in questa minima ma fondamentale discrepanza tra due relazioni verbali eterogenee con la propria corporeità: il corpo oggettivato, e quindi posseduto, è sempre l’esito di una qualche forma di distanza patologica, mentre il corpo vissuto, come una realtà immediatamente presente a se stessa, è il segno inequivocabile della salute. In altre parole, la medicina ha funzionato prevalentemente come l’arte che induce una restituzione alla propria genuina ignoranza, separandoci così da quel sapere (ciò che si è) in cui ci insedia invariabilmente la malattia. La medicina è un vettore di non-sapere, innanzitutto.
Tuttavia, la salute non si identifica sic et simpliciter con la normalità. Come è stato fatto notare magistralmente dal medico e filosofo Georges Canguilhem, la salute eccede la normalità, in forza di una differenza di natura che implica necessariamente un qualche rapporto con il non-sapere sul proprio corpo (con il suo possedere potenze ancora ignote). L’organismo sano non si limita infatti a essere normale. Piuttosto, è in grado di istituire nuove norme in relazioni alle «infedeltà dell’ambiente» (Canguilhem 1998, 162), ovvero, in termini meno antropomorfici, in relazione alle sue fluttuazioni (cfr. Canguilhem 1998, 162). In tal senso, essere sani non equivale a incarnare un qualche modello nomologico precostituito, ma a innovare il proprio comportamento psicofisiologico in funzione dei cambiamenti, anche drammatici, imposti dal mondo circostante. Un organismo sano è capace insomma di darsi la regola da solo, di essere, in una parola, auto-nomo. L’autonomia, d’altro canto, è la prova provata che per un essere vivente non basta adattarsi all’ambiente, interno o esterno, ma occorre anche saper adattare quell’adattamento specifico alle proprie esigenze individuali, per fare sì che tra norma data e norma preferibile (cfr. Cesaroni 2020, 136) vi sia una qualche coincidenza possibile. E questo è un compito sempre da ricominciare, se si considera che nulla nell’organismo è dato una volta per tutte, che “essere in salute”, in altre parole, vuol dire realizzare una sorta di convergenza tra stabilità e modificazione (cfr. Canguilhem 2007, 58). La medicina digitale, da questo punto di vista, non fa quindi che scoperchiare una situazione preesistente, la cui consapevolizzazione diventa ogni giorno più improrogabile e che reimmette brutalmente l’umanità nella continuità con il resto del mondo vivente. Non c’è mai stata un’innocenza biologica virginale per l’animale che supplementa il proprio agire protesicamente, come non c’è per un qualsiasi animale incapace di accedere alla possibilità di prolungare tecnicamente la propria corporeità (e di sapere quindi che non era normale). L’animale umano è sempre in cammino verso la propria digitalizzazione, non foss’altro perché la malattia, separandolo dal suo essere un corpo, e conferendogli quindi un sapere in merito da implementare in quella pratica che si chiama “medicina”, lo separa altresì dalla propria normalità, incitandolo a cercare una salute «più che normale» (Canguilhgem 1976, 235): normativa. Il digitale rivela[2] perciò una proto-digitalizzazione inclusa nella stessa natura normativa della salute, ovvero nel suo instaurarsi sempre sul limite di una frattura incoativa (cfr. Canguilhem 1998, 249), nel suo funzionare come un modo autonomo di avere il proprio corpo. Cosa altro può voler dire, d’altronde, che il senso proprio dell’essere sani contempla «l’abuso della salute» (Canguilhem 1998, 162), come sostiene sempre Canguilhem? Il digitale deve aver già fatto irruzione nel nostro sentire e nel nostro essere, rispetto al quale spetta sempre a noi di provare di nuovo a de-coincidere, come si potrebbe pure qualificare l’essere normativi, ossia la capacità di cambiare a proprio modo la normalità specie-specifica illustrata dal sapere bio-medico. È per questo motivo che il sapere di non-sapere svolge un ruolo capitale nella salute: senza di esso non c’è lo spazio, letteralmente, per fare qualcosa di quel che solamente si è. Al di là infatti dell’azione della vis medicatrix naturae, il cui portato risponde alla logica del puro non-sapere-come che informa in generale il vivere, la guarigione è sempre un processo dialettico, in cui non si ha mai una totale restitutio ad integrumdella situazione pregressa, quanto piuttosto l’acquisizione di una nuova norma di vita, talvolta persino superiore alla precedente, fondata necessariamente sulla consapevolezza della rottura biologica intercorsa nel frattempo.
Non è un caso allora che la relazione medico-paziente si sia strutturata in forma duale e che da questa dualità dipenda anche in larga parte la sua portata terapeutica: il sapere concernente la propria corporeità deve essere esternalizzato a sua volta presso un altro corpo (vivente e parlante), in cui, in breve, si possa essere a distanza da sé senza saperlo, riguadagnando quell’ignoranza senza cui la salute diventa letteralmente impossibile. Si può sperare di superare la distanza prodotta della malattia soltanto mediante la produzione di una distanza ulteriore, allineata e sovrapposta alla prima, che permetta così all’organismo di riconquistare la sua incoscienza rispetto a se stesso (fatto particolarmente evidente, d’altro canto, nella relazione psicoterapeutica). Soltanto una distanza al quadrato ricongiunge con il senza distanza della salute. Persino il monito evangelico “medice, cura te ipsum” ha un senso dunque assai relativo. Anche un medico può (ri)conoscere la propria corporeità, di cui peraltro è stato edotto dai suoi studi, soltanto nello sguardo dell’altro medico e può intervenire adeguatamente, al fine di ristabilire la propria salute, solo diventando altro da sé, reintroducendo così nel rapporto col proprio corpo la dualità che caratterizza per il resto, e in via di principio, la relazione medico-paziente. Che cosa succede, nondimeno, quando questa dualità supplementare e salvifica tende a decadere, in favore di una relazione immediata tra la tecnica e il corpo, e quindi tra tecnologie e tecnologie, come avviene esemplarmente nella medicina cosiddetta “digitale”? Che cosa non può (non può più o non può ancora) questo corpo, una volta che è stato dapprima separato dalla propria ignoranza e rimesso poi nella condizione di aderire sempre più compiutamente a se stesso, nello specchio dei suoi dati? L’analisi dell’intervallo tra questi due tempi – quello del distacco e quello della ricongiunzione digitale con la propria corporeità – è dunque essenziale per capire cosa stiamo diventando e, soprattutto, per capire come esserne all’altezza.
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Una normalità senza salute
L’ambito della medicina digitale si ritaglia all’incrocio di un vasto insieme di tecnologie – legate, essenzialmente, alla fase più recente di sviluppo delle intelligenze artificiali (dunque, dell’infosfera) – e prende la forma di sistemi di supporto decisionale (basati sul machine learning), di un monitoraggio continuo, remoto o meno, di variabili fisiologiche (per esempio attraverso l’utilizzo di wereable devices e/o di app specifiche) o, infine, mediante pratiche di telemedicina (che permettono di fare a meno, almeno in teoria, delle limitazioni e delle incertezze in cui incorre la relazione fisica medico-paziente). Quello che succede davvero, allora, è che la medicina comincia a poter fare a meno dei medici, dopo aver imparato a fare a meno, nel corso del secondo Novecento, del vissuto del paziente. Alla medicina ‘senza malati’ della tarda modernità (quella fondata sulle tecnologie diagnostiche di imaging e sull’uso sempre più diffuso di protocolli) si sta sostituendo infatti una medicina senza medici, il cui effetto può essere tanto un nuovo centramento sul malato e sul suo vissuto, improntato a una «democratizzazione della medicina e [a una] personalizzazione delle cure» (Moretti 2020, 84), quanto una sua definitiva esautorazione. Su questo crinale si apre insomma un campo di battaglia, definibile in termini di medicina postorganica. L’ambito del vissuto soggettivo, che si esprime anche fattivamente in una negoziazione possibile tra le richieste del medico e le esigenze di vita del paziente, è infatti l’occasione in cui prende piede e si articola la stessa normatività del corpo vivente e sofferente, nella forma di un adattamento individuale della cura che può comprendere anche, al limite, il suo rifiuto informato (o perlomeno un suo accomodamento imprevisto). Un ambito che oggi è in questione, proprio perché attaccato, per così dire, su entrambi i suoi due fronti.
Il superamento della dualità medico-paziente in favore di una immediazione della medicina che rende virtualmente possibile una medicina senza operatori consapevoli è dunque sì un punto di non ritorno, come abbiamo detto, ma, allo stesso tempo, lo è soprattutto perché illumina, ancora retrospettivamente, una situazione per nulla nuova. Quando il corpo vivente, ossia un corpo capace di ammalarsi, diventa il prodotto di risulta di una panoplia di pratiche e dispositivi sempre più pervasivi, succede insomma qualcosa di veramente rivelatore: la medicina, da tecnica di restaurazione dell’essere, diventa principalmente una tecnica di produzione dell’avere, scardinando così l’illusione che ci faceva credere di essere dei corpi esclusivamente organici, costretti ancora una volta a cercare fallimentarmente la salute in un’ignoranza vitale originaria (in un non-sapere di non-sapere come tale inattingibile). La digitalizzazione della medicina ci rivela insomma che il nostro corpo è un problema e non una soluzione data da sempre, in attesa soltanto di essere riattivata, un problema che si identifica con il modo umano di essere un vivente. La stessa possibilità di trasferire su supporti digitali le informazioni relative ai nostri processi corporei deriva d’altronde anch’essa dalla sottostante normatività che contraddistingue l’operare tecnico della specie umana: anche la medicina, con tutte le sue tecniche più o meno sofisticate, è insomma un metodo intersoggettivo per cercare la salute o un’espressione collettiva della nostra capacità di adattarci a nostra volta l’adattamento impostoci dall’ambiente (interno ed esterno). E tuttavia, nell’atto di rendere visibile questa situazione, la medicina digitale la rende altresì individualmente inagibile.
Negli ultimi tempi, insomma, la nascita e la diffusione della Digital Health ha inaugurato appunto un nuovo frangente di complicazione nella percezione e nell’attuazione della nostra corporeità, che rende indiscernibili componenti sociali e componenti organiche, componenti tecniche e componenti biologiche, in una maniera che si fatica a non bollare come definitiva (per quanto sia tutt’altro che irenica). Il paziente è messo infatti in contatto direttamente con un sapere medico sempre più anonimizzato, ridotto a un insieme di procedure codificate socialmente come procedure valide, ma che non si fondano in ultimo sul confronto sistematico né con il suo vissuto, né con il procedere incerto e indiziario del singolo medico. La medicina digitale, con il suo incessante self-tracking, grazie all’idea di una quantificazione completa e sistematica del vivente umano, sembra autorizzare insomma una sempre più pervasiva disseminazione di quell’unità super partes (emergente) che è un organismo, in favore di un’epistemologia centrata sull’assenza di qualsivoglia referente altrimenti che (già sempre) datificato. In breve, sull’assenza di un qualsiasi supporto non digitale del digitale stesso, secondo una logica che annulla le premesse del suo stesso funzionamento. Il digitale è infatti possibile sempre in forza di una discontinuità strutturale con il suo altro: l’analogico, il complesso, l’emergente: l’organico, appunto. La tecnologia di terzo ordine è un effetto immanente, e quindi non-indipendente, dalle tecnologie di secondo e soprattutto di primo ordine. È perché abbiamo il bisogno di mediare tra noi e la natura, anche interna, che ci siamo attrezzati di strumenti che ‘parlano’ direttamente tra di loro, non il contrario. Il processo che porta il corpo a essere relegato in se stesso dalla propria tecnologia nega in altre parole la stessa incompletezza problematica che lo rende possibile.
È insomma lontano ormai il tempo in cui si poteva dire, con Canguilhem, che la regola di esistenza (l’ideale) di un organismo è data dalla sua stessa esistenza, a differenza dell’organizzazione sociale, che non possiede alcuna finalità intrinseca, interna o immanente. Oggigiorno, ormai, il fine della medicina non è più «la restaurazione dell’organismo nel suo stato di organismo sano» (Canguilhem 2007, 56) e quindi come organismo ignorante della propria condizione di salute. La medicina contemporanea mira a instaurare un corpo che si sa in permanenza normale, senza al limite poter essere sano, e che si ausculta incessantemente attraverso la mediazione del novero crescente di dispositivi che lo circondano, senza con ciò potere più non-sapere che cosa è e quindi senza potere più di quel che è. Non potere (più) il proprio non-sapere circa la propria corporeità è insomma una condizione che si situa al di qua della stessa distinzione tra salute e malattia e instaura piuttosto una condizione di insana normalità, nella quale tra uno stato attualmente patologico e uno solo potenzialmente tale non c’è più una alcuna differenza di natura: il corpo che si è si allontana ormai in una inappellabile coincidenza con se stesso. La figura del «malato asintomatico»[3], divenuta arcinota dopo l’esplosione della Pandemia di Coronavirus del 2020, è in questo senso doppiamente significativa: rivela l’essenza della medicina attuale e del suo andare in direzione di un’esautorazione dei professionisti della medicina (in favore, in sostanza, di quelli dell’intelligenza artificiale): porta alla luce una situazione nella quale il trattamento medico precipita verso la creazione di una crisi permanente analoga a quella che caratterizza l’organizzazione sociale (nella sua differenza da quella organica). Insomma, la medicina digitale produce una situazione nella quale la norma dell’organismo non è più immanente, ma nemmeno in senso stretto trascendente: essa diventa piuttosto in via di principio intrascendibile, risultato dell’iniziativa di attori sociali che non hanno più come interesse primitivo la sua salute, ma, in tutta evidenza, altro: la conformità comportamentale di quelli che sono ormai da capo a piedi dei semplici consumatori[4]. Questo significa che non si ha più un corpo (come nella malattia), né tantomeno lo si è più a pieno titolo (come nella salute pre-patologica): è il corpo stesso, con il suo mutare imprevedibile, che sparisce come tale, o diventa una corporeità interamente indisponibile, se è vero che la cifra dell’organismo malato è di non coincidere più senza scarti con il proprio ideale e di avere dunque da reinventare la propria coincidenza di secondo livello con la sua corporeità. Una corporeità che si estende al contesto tecnico che la supplementa in permanenza e in cui si coglie non tanto il riflesso del proprio non-sapere, ma la necessità di non-essere altro da quel che si è attualmente, è insomma una corporeità che si limita a essere normale, e basta. Ma, facile rendersene conto, una normalità sempre normale non è normale, e anzi coincide con una dimensione patologica ormai interamente situata sotto la soglia del riconoscimento fenomenologico, al di qua della sua cogenza vissuta; coincide con il massimo possibile della deinotes, nella misura in cui l’umano è estraniato anche da ciò che gli è più vicino e che gli è restituito surrettiziamente come tale: il proprio corpo, presentato come un essere rispetto al quale non è più possibile alcuna de-coincidenza.
La salute è infatti sempre il predicato di un soggetto individuale – anche nel caso in cui l’individualità si predichi a più livelli (a livello cellulare, a livello tissutale, a livello dell’organo, ecc.). Non c’è una salute (una saggezza) dell’organizzazione sociale, se non per effetto di un’analogia tanto diffusa quanto discutibile. La stessa dualità in forza della quale la relazione medico-paziente è possibile e proficua – nella misura in cui in essa prende piede la differenza specifica tra salute e normalità, o tra normatività e normalità – non è più applicabile al corpo integralmente socializzato – al corpo postorganico – del paziente digitale, poiché esso non è più un corpo, ma una fascio di variabili misurabili in rapporto solamente con se stesse, di cui non si può più ignorare la presenza e in forza delle quali la trasparenza cognitiva della propria corporeità fa tutt’uno, appunto, con la sua indisponibilità pragmatica.
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Due modi di non essere malati
Nessuno si sogna di negare (non ancora, perlomeno) l’imprescindibilità del professionista della salute nella gestione delle malattie (nella formulazione della diagnosi, nella escogitazione e nella somministrazione della terapia, ecc.). Siamo ancora tutti pressoché convinti che l’incontro clinico sia un momento che, con la sua antica ritualità, riveste un ruolo fondamentale nell’esercizio della medicina. A discapito infatti delle critiche che la tarda modernità ha elaborato a indirizzo della corporazione medica e del suo operato espropriante (cfr. Illich 2004), la situazione in cui un medico incontra un paziente ha ancora una funzione indiscutibile nella pratica della cura e lo ha per un motivo ben preciso: che entrambi i poli di questa relazione si rapportano consapevolmente, al suo interno, con il proprio non-sapere. In essa accade infatti qualcosa di unico: il paziente scopre la ‘verità’ sulla propria malattia nella stessa misura in cui il medico scopre la ‘verità’ sul malato, nella sua irriducibile singolarità.
Si prenda nondimeno il caso del cosiddetto “pancreas artificiale ibrido”, diffusosi negli ultimi anni tra i malati di diabete di tipo 1. Si tratta di un dispositivo composito che collega un sensore di glucosio e un microinfusore di insulina, facendo sì che il loro funzionamento reciproco possa essere sorvegliato e modulato dall’utente solo in occasione di alcune situazioni specifiche (i pasti e l’attività fisica), mentre per il resto se ne occupa l’algoritmo, senza preoccuparsi di informare il paziente sul modo in cui lo fa. Il malato che se ne serve può infatti affidare una larga parte di quei processi di cui un tempo aveva bisogno di concertare passo passo con lo specialista, e di cui doveva farsi carico in proprio, al sistema automatico in questione. È insomma nella condizione di sapere come funziona il suo corpo (nello specifico, di conoscere i valori della sua glicemia) e, allo stesso tempo, non può più decidere a pieno titolo come modificarne il funzionamento (modulando la somministrazione di insulina in relazione alle fluttuazioni quotidiane della glicemia), poiché non sa nécome questa modificazione avviene effettivamente, né che non ha più modo di rendersi conto che non lo sa (ha infatti l’impressione precisa di avere tutto sotto controllo). Non solo quindi il suo ambiente esterno racchiude ora una serie di indicazioni circa il suo ambiente interno, che si ritrova in tal modo estroflesso e raffigurato, per così dire, fuori di sé, ma assume anche lo statuto di qualcosa di assolutamente immodificabile e imperscrutabile, al contempo. Egli saprà allora che sa qualcosa, in quanto non si limita più a ricevere le informazioni sulla propria malattia da un medico, rispetto al quale continuerebbe a essere in una posizione di domanda, ma non può più non agire il suo sapere, ormai completamente incorporato nel dispositivo di cui si serve e nel suo funzionamento automatizzato. Al contrario infatti di quel che si crede generalmente, l’effetto principale del digitale, in ogni campo al quale si estende, è di distruggere lo spazio elettivo dell’ignoranza consaputa (del sapere di non-sapere), ovvero le condizioni di scarsità epistemica indispensabili all’insorgenza e alla crescita del sapere, che dalla consapevolezza del non-sapere dipendono entrambi invariabilmente. Digitalizzare equivale insomma in molti casi, se non in tutti, a instillare negli utenti del digitale stesso una convinzione, inevitabilmente illusoria, di sapere (ovvero, un sapere di sapere) senza precedenti.
A differenza infatti di un sapere semplice, di un sapere questo o quello di determinato, un sapere di secondo livello – un sapere di non-sapere o un sapere di sapere – è sempre legato, e per certi versi perfettamente adeso, a una qualche forma d’agentività concreta. Se è vero infatti che, di contro al detto baconiano secondo il quale «la sapienza e la potenza umana coincidono» (Bacon 1992, 49), c’è sempre, nelle nostre condotte, un’eccedenza strutturale del potere rispetto al sapere – tale per cui possiamo sempre più di quel che sappiamo, e viceversa: sappiamo meno di quel che possiamo – è anche vero che, una volta riflesso in se stesso, il sapere finisce per coincidere con una forma esplicita di potere. La medicina digitale allestisce allora una specola di auto-riflessività corporea in cui l’innocenza perduta dell’animale duetta con le delizie, e le torture, di una nuova performatività, di cui diventa impellente chiarire la natura, non foss’altro perché da essa dipende la nostra stessa salute (e, latamente, anche il nostro sentirci dei corpi). Ecco allora che ci si rende conto subito di un fatto: che esistono in verità due modi, essenzialmente diversi, di non essere malati, entrambi implicati dalla necessità per il corpo di essere a distanza da se stesso – di potersi estrinsecare nello spazio vuoto, per così dire, di un iato aggiuntivo rispetto al proprio stesso essere – e che, inoltre, l’innocenza biologica, per l’animale umano, non è mai esistita da nessuna parte. Nello specifico, “sapere di non sapere” significherà, in un contesto digitalizzato, poter agire ciò che non si è e che pure non si conosce ancora, ovvero poter trascendere il dato che la medicina ci restituisce come la nostra sola verità, mentre “sapere di sapere” implicherà l’attuazione immediata di quel che si è, unicamente di quello, e di cui abbiamo continua attestazione nei dispositivi di cui ci siamo dotati. Nel secondo caso, in altre parole, quello in cui si sa di sapere che non si è malati, l’organismo si identifica senza resti con le proprie norme organiche e, in ultima istanza, con la normalità riconosciuta dal sapere bio-medico (codificato nelle procedure che informano i nuovi dispositivi digitali). Nel primo, al contrario, l’organismo si mostra come più che solamente normale e si instrada sistematicamente verso un superamento delle sue condizioni date, scoprendosi già da sempre supplementato dalle proprie protesi tecniche e per questo in grado di gestirle consapevolmente e autonomamente. Il che equivale a dire, in parole povere, che un corpo potrà così, eventualmente, innanzitutto la propria fondamentale ignoranza sul proprio funzionamento, mai esclusivamente biologico, mentre non potrà non il sapere quel che lo concerne qui e ora, al quale è messo al cospetto dalla panoplia di dati che ormai lo riguardano e quasi lo cercano a ogni momento. In breve, potrà scegliere se restare normale o provare a essere sano, se essere il proprio avere, senza scarti, o avere il proprio essere, scegliendo come farlo. La performatività in questione è allora relativa a una condizione di normalità indotta, e per certi versi coatta, che la possibilità di un’altrasalute – di una salute allargata – deve provare a rimettere in questione e, possibilmente, a rilanciare di nuovo in direzione impreviste.
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Una salute allargata
Quel che scopriamo ora con un’evidenza irresistibile è dunque che la risposta alla domanda che cosa può un corpo non è mai di carattere puramente biologico: concerne perlomeno anche componenti sociali e politiche, oltre che, evidentemente, tecnologiche. Un corpo vivente, insomma, non può mai limitarsi solamente a essere, deve poter eccedere l’essere che è, ovvero, deve potersi trovare nella condizione di mutare autonomamente le condizioni alle quali il suo essere è concretamente possibile. Il novero delle potenze che ci attraversano, come organismi umani, è quindi da sempre la risultante di un gioco complesso e non lineare di fattori naturali e artificiali, fattori che fanno di noi degli ibridi almeno altrettanto difficili da collocare quanto lo sono alcuni prodotti delle nostre pratiche tecno-scientifiche più all’avanguardia [si pensi all’esistenza «fatticcia» (Latour 2005) del neutrino e al suo situarsi in una zona mediana tra costrutto e dato: non si può dire a priori quanto pesi la componente artificiale e quanto quella naturale].
La depositaria di tutto questo sapere riguardo la natura allargata del corpo umano è allora da sempre la medicina, in tutte le sue forme. Determinare che cosa può un corpo, al di là della sua esistenza data, è infatti sempre il risultato cangiante e derivato della definizione delle sue impossibilità correnti, il sottoinsieme mutevole dei suoi impedimenti dati. È l’effetto immanente alla circoscrizione di una sua qualche défaillance, e cioè di eventi (malattie, infermità, disturbi, errori) che ne intralciano il dispiegamento, chiamando così a una qualche forma di intervento e rivelandone il funzionamento pregresso. È la risultante di una dialettica mai risolta una volta per tutte tra istinto e intelligenza, tra esecuzione e deviazione, tra programma e improvvisazione. Per questo «non sappiamo [mai esattamente] che cosa può un corpo»: perché, per saperlo, si deve intervenire su di esso, sottoporlo a operazioni che ne cambiano la configurazione, trasformandolo in direzione di nuove possibilità e perciò di nuove inconseguenze. L’ignoranza circa le potenze corporee è tutt’uno con l’incompletezza della loro determinazione e dunque con la normatività in cui consiste davvero la salute. La vera salute si definisce insomma in forza di una condizione verbalmente ibrida: dal nostro avere liberamente il corpo che siamo, di contro all’essere senza rimedio il corpo che abbiamo. È questa la vera differenza tra la salute, da un lato, e una normalità che si sovrappone senza resti con la patologia, dall’altro, perché incapace, infine, di trascendersi.
Quando infatti la funzione rivelatrice della medicina incrocia la tendenza attuale verso la digitalizzazione integrale dell’esperienza questa situazione si svela nello stesso momento in cui tende a diventare impraticabile. L’infosfera contemporanea impatta insomma sull’incompletezza propulsiva dei corpi spogliandoli della loro capacità di eccedersi individualmente, proprio grazie ai frutti della loro eccedenza tecnologica pregressa, ma collettiva, oltre il perimetro del mero corpo organico. Questa condizione, ascrivibile come dicevamo al registro di quanto si potrebbe chiamare immediazione, forclude infatti la possibilità di essere veramente sani, e cioè non solo normali ma normativi. L’implementazione di tecnologie di terzo ordine si ripercuote sul corpo suturandolo alla sua natura biologica, senza scampo. Siamo costretti ormai a essere senza mediazioni il nostro avere un corpo, senza riferimento altro dal suo essere quel che è qui e ora, piuttosto che ad avere autonomamente il nostro essere un corpo, in maniera ogni volta creativa, imprevedibile e singolare.
In altre parole, scopriamo che un corpo è un complesso problematico di tecniche, situazioni e contesti in cui queste tecniche possono realizzarsi, un misto in corso d’opera di ritenzioni e di protensioni che ne delineano la conformazione transeunte e mai del tutto stabile; ma in quel momento, la gestione autonoma di questa consapevolezza ci è sottratta una volta per tutte. È allora su questa esigenza di dare una nuova forma alla nostra nuova normalità imposta che va data battaglia, in un modo che non può tassativamente essere prescritto a priori, ma deve essere inventato in itinere, prodotto nel vivo delle nuove relazioni paziente-dispositivi e dispositivi-medico, affinché il paziente stesso, con la sua ricerca di salute, e cioè di normatività (con il suo vissuto problematico), non scompaia del tutto. È qui che si colloca la scommessa di una salute allargata, fondata su un sentire esteso al di là del corpo individuale a com-prendere la sensibilità protesica del nostro ibrido essere al mondo[5], che permetta insomma di riscoprire la presenza di un sapere di non-sapere costitutivo, concernente l’insieme sempre incompleto delle potenze del corpo umano. È qui, inoltre, che si collocano le sfide lanciate per esempio da esperimenti come We are not waiting. Per i sostenitori di questo progetto, l’uso del pancreas artificiale ibrido nel diabete di tipo 1 deve essere infatti informato dai principi dell’etica open source, secondo una strategia da dispiegare in anticipo sulle stesse soluzioni fornite dalle multinazionali che producono dispositivi medici (cfr. Kesavadev et al. 2020). È necessario insomma portare un’offensiva frontale contro l’idea di una normalità senza scampo instaurata dalla medicina digitale, in funzione ancora delle possibilità di individualizzazione concreta della cura.
D’altronde, anche in questo quadro così profondamente mutato «non vi è nulla nella scienza che non sia apparso dapprima nella coscienza: il punto di vista vero è in definitiva [sempre] quello del malato» (Canguilhem 1998, 65). Per quanto infatti i procedimenti implementati dagli algoritmi possano risultarci opachi, e le tecnologie di terzo ordine diventare onnipresenti, è sempre grazie al lavoro precedente dei medici, istruiti a loro volta dal sentire dei pazienti, che la progettazione, la realizzazione e l’addestramento dei sistemi automatici in uso nella medicina digitale sono stati possibili. Anche nel caso della medicina digitale deve essere insomma l’esperienza centrata soggettivamente a dirimere in ultima istanza la salute dalla normalità pura e semplice, per quanto risultante ormai da una corporeità riconosciuta come postorganica. Una medicina all’altezza della digitalizzazione dovrebbe mirare perciò a incrementare la consapevolezza dei suoi pazienti al di là del perimetro del loro corpo organico, al fine di metterli nella condizione di scegliere sempre più autonomamente come gestire questa situazione. Non siamo più infatti solamente il nostro corpo organico, come non lo siamo mai stati di fatto (anche se non ne abbiamo mai sinora certificato appieno il diritto), ma non possiamo limitarci a non averne più uno, senza intravedere più nemmeno la possibilità di discutere in che modo. Da questa espropriazione, sebbene ancora embrionale, occorre poter guarire. L’ipotesi di una salute allargata al complesso di fattori esosomatici che ci travalicano incessantemente, nel mentre che rilanciano le nostre potenze autoctone, può essere allora il nome di questa sfida, la cui importanza, non solo clinica, spetta con ogni probabilità ai malati, prima di tutto, provare a rivendicare, cominciando col sottolineare il loro ruolo nella costituzione del sapere sul corpo di cui il digitale applicato alla medicina è ormai il veicolo e persino il volano, ma non mai il creatore esclusivo.
di Daniele Poccia
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[1] La definizione, come è risaputo, è di René Leriche, anche se è stata resa celebre da Georges Canguilhem, che la cita nel suo Il normale e il patologico (1998, 74).
[2] Sulla funzione rivelatrice della tecnica, e della tecnica moderna in particolare, cfr. Ferraris 2021, 98 sgg.
[3] «Tutti gli uomini sono, in questo senso, virtualmente dei malati asintomatici» (Agamben 2021).
[4] Come è stato notato, l’unico ruolo non surrogabile dalle intelligenze artificiali è quello del consumatore (cfr. Ferraris 2021, X).
[5] In merito alla problematizzazione della concezione organica della corporeità, e a una eventuale valorizzazione, è indispensabile richiamare il lavoro pioneristico di Donna Haraway (cfr. 2018).
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‹‹Detto in maniera più critica, è tempo di mettere in discussione il tipo di civiltà in cui gli esseri umani vogliono vivere›› (p. 167): questo è uno dei periodi conclusivi de La sfida del cambiamento climatico. Globalizzazione e Antropocene, una raccolta di saggi e interviste di Dipesh Chakrabarty pubblicata da Ombre Corte (Febbraio 2021), con prefazione e curatela di Girolamo De Michele. Il volume comprende testi scritti e rilasciati tra il 2012 e del 2020, periodo in cui lo storico indiano ha dato un contributo fondamentale nel problematizzare la questione dell’Antropocene attraverso un una prospettiva originale che connette dati scientifici, aspetti storici e implicazioni filosofiche. Il valore dell’opera di Chakrabarty - fin dal capolavoro Provincializing Europe (2000), per arrivare al celebre articolo sul concetto di Antropocene The Climate of History del 2008 - consiste non solo nell’interdisciplinarietà della sua analisi, ma nella messa in evidenza di una commistione di fondo che soggiace ai fenomeni, naturali e sociali che siano, e alle loro cause. Tale mescolanza impossibilita, secondo Chakrabarty, l’incanalamento per vie epistemologiche univoche, conchiuse e che difendono la primalità della propria indagine a rispetto alle altre. Bisogna stare all’altezza del fenomeno, preservare la complessità di ciò che si intende analizzare. Nel caso specifico, secondo Chakrabarty, si tratta di non ridurre lo studio dell’Antropocene né a una mera critica del capitalismo, né di circoscrivere il problema in una dimensione puramente tecnico-scientifica. Attenzione, non si tratta di eludere questi due aspetti. Chakrabarty evidenzia spesso la rilevanza che queste prospettive possiedono nel tentativo di ricostruire un quadro complessivo e quanto più possibile esaustivo dell’Antropocene. Anzi, secondo Chakrabraty tutti i fenomeni che costellano il contemporaneo – dalla deforestazione, all’industrializzazione al consumo di combustibili fossili - appartengono, per esempio, alla storia del capitalismo. Non si può negare questo. Molto più semplicemente si tratta di non rivendicare nessun primato, nessuna assolutezza rispetto a quelli che possono essere altri contributi, appartenenti a prospettive e discipline differenti, che permettano di illuminare il fenomeno nella totalità delle sue sfaccettature e implicazioni. Quando si studiano eventi e fenomeni globali quali possono essere il cambiamento climatico o la globalizzazione, la settorializzazione delle discipline in ambiti circoscritti diventa un limite nonché un rischio. Conviene approfondire questo punto e mostrare come Chakrabarty motivi i suoi dubbi rispetto a certe tendenze delimitanti.
Esattamente all’interno di quest’ambito di delimitazione epistemologica si consuma il folto, talvolta esasperato, dibattito sul nome Antropocene. La ragione per cui si discuta tutt’oggi sulla validità o meno di tale denominazione deriva dal fatto che, alla base delle diverse articolazioni o dei diversi mutamenti del nome, soggiace un concetto di Antropocene completamente diverso, da prospettiva a prospettiva. Non sono pochi coloro che mettono in discussione il neologismo in virtù della sua derivazione dal nome greco anthropos, che da un lato indurrebbe a credere che ogni uomo, povero o ricco, sia responsabile dei disastri ambientali, dall’altro consoliderebbe un’ennesima prospettiva di antropocentrismo che non sarebbe in grado di tenere conto delle ripercussioni che l’Antropocene ha su altre forme di vita. D’altra parte, molti climatologici, afferma Chakrabarty, ritengono che il termine Antropocene si possa utilizzare unicamente in ambito tecnico e sconsigliano categoricamente il suo utilizzo all’interno delle scienze sociali. Il nucleo di questa richiesta di divieto consiste nella necessità di preservare un evento di natura strettamente geologica da un suo utilizzo e da un suo ri-maneggiamento a supporto delle finalità critiche più disparate. Contrapposti a tale filone, si collocano coloro che avvertono la necessità di estirpare l’Antropocene da una circoscrizione tecnico-scientifica manifestando l’urgenza di porlo al centro del dibattito pubblico e politico. All’interno di questa prospettiva, distanziare eccessivamente la questione Antropocene dalla comunità vivente dell’oggi rischia di portare ad un’atrofia politica che non può che ostacolare il germogliare di un senso comune, di un dialogo pubblico e quindi di una risposta politica globale, tutte dinamiche che richiedono di essere attivata al più presto. Prima di mostrare come Chakrabarty si posizionerà tra queste tendenze apparentemente opposte, è necessario integrare un altro approccio centrale nel dibattito in questione, quella di Jason Moore. La proposta di Moore (cfr. 2017) presenta come nucleo centrale un importante cambio di paradigma. Nella sua prospettiva, se si vuole rendere la riflessione antropocenica produttiva e consistente, non si può omettere la considerazione che la storia attraverso cui l’uomo sia diventato una forza geologica – cioè il percorso attraverso cui l’essere umano è diventato detentore di una consistente capacità di modificare e incidere sulla salute del pianeta – non sia altro che la storia del capitalismo. L’idea di Moore in realtà è più complessa, presenta degli spunti molto interessanti, tra cui l’idea che la natura, all’interno della storia del capitale, non sia considerabile come oggetto, come indipendente dal capitale stesso. Il capitalismo non è altro che una delle combinazioni dei possibili rapporti che sussistono tra umani e natura, è un dispositivo esperienziale e relazionale che si articola e dispiega storicamente secondo modalità differenti. Tuttavia, tutto questo non comporta mai, come nota De Michele nella prefazione, un livellamento totale del naturale al culturale. Questo tentativo di produzione, modificazione, sopraffazione della natura provoca uno schianto, uno scontro frontale con una dimensione che si rivela irriducibile e che rimane. Questo comporta un risultato inaspettato. Non è solo il capitalismo a modellare la natura, ma è anche la natura, in virtù della sua eccedenza e residualità, a rendere necessaria una trasformazione periodica del capitale. Sulla scorta di tutto ciò, si comprenderà meglio perché Moore al concetto di Antropocenepreferisce quello di Capitolocene, da concepire attraverso ‹‹un ripensamento del capitalismo all’interno della rete della vita›› (Moore 2017, p. 31). I fattori antropocenici che hanno contribuito al riscaldamento globale sono tutti determinati dall’impeto capitalistico eurocentrico, che secondo Moore affonda le proprie radici nel 1500, in un’epoca pre-capitalistica in cui sono in gestazione ambizioni e politiche di industrializzazioni colonizzatrici. Fissare come punto di partenza l’anthropos, l’uomo neutro e indifferenziato in quanto specie, rischia di offuscare tutte le violenze, i rapporti di potere e produzione, le disuguaglianze che sono alla base della fondazione – e ora della distruzione – del mondo moderno. (Moore 2017, pp. 37-38).
Secondo Chakrabarty, il limite della prospettiva di Moore consiste nel fatto che, impostato così il problema, l’Antropocene possa essere ritenuto un fenomeno riducibile non solo a ciò che si è consumato negli ultimi cinquecento anni di storia ma, soprattutto, ciò vorrebbe dire che l’Antropocene sia un evento che riguarda, coinvolge, interessa solamente gli esseri umani. Bisogna difendere con fermezza l’idea che ‹‹la storia umana non può più essere raccontata dalla prospettiva dei soli cinquecento anni (al più) del capitalismo›› (p. 141), questo non significa assolutamente eliminare la storia del capitalismo ma, come si diceva pocanzi, tenere conto che ‹‹possiamo considerare noi stessi e la storia umana da molte prospettive contemporaneamente›› (p. 142). L’Antropocene costringe a un’apertura storica su scala geologica in cui è necessario ripensare la nozione e il ruolo dell’umano. Se l’uomo, a partire dalla fine del 18esimo secolo, ha assunto una portata sempre più massiccia nell’influenzare il clima del pianeta, ciò significa che egli è divenuto co-detentore di un potere che in passato apparteneva unicamente alle forze geologiche. Qui si instaura la possibilità di ripensare il ruolo che l’uomo ha all’interno della natura, di sviluppare un discorso ecologico e filosofico sulla statuto della soggettività e sui modelli di razionalità da adottare o rigettare.
Questa modalità di esistenza simile a una forza, non umana, dell’essere umano ci dice che non siamo semplicemente una forma di vita cui è stato donato un senso dell’ontologia. […] Ma nel diventare una forza geologica fisica nel pianeta, abbiamo anche sviluppato una forma di esistenza collettiva che non ha alcuna dimensione ontologica. Abbiamo bisogno di modi non ontologici di pensare l’umano. (p. 52)
Si noti la differenza con l’impostazione di Moore. L’Antropocene invece di essere riletto alla luce di un Capitolocene, è l’occasione – o meglio – pone l’urgenza di ri-mettere sul tavolo una delle questioni centrali dell’antropologia filosofica: il rapporto soggetto-oggetto e quindi di cultura-natura. L’uomo è diventato forza geologica ma la forza geologica, scrive Chakrabarty attraverso Latour (cfr. Latour 2008), ‹‹non è né un soggetto né un oggetto›› (p. 52). Il punto centrale è che, se si sostiene che gli esseri umani stiano fungendo da forza geofisica, si deve accettare di star paragonando ‹‹gli esseri umani a un agente non umano, non vivente›› (p. 50). L’umano si intinge di un’inedita contraddittorietà che lo scinde: ‹‹l’essere umano e l’umano non umano›› (ibidem). Le ripercussioni sono innumerevoli, una delle più evidenti consiste nella necessità di elaborare un nuovo tipo di storia. Se l’uomo è arrivato a esercitare un ruolo nella storia geologica del mondo, ciò significa che quella in cui siamo immersi ‹‹non è più né storia strettamente “naturale” né strettamente “umana”›› (p. 48). L’uomo è diventato protagonista della natura e questo non può che richiedere un ripensamento delle principali categorie con le quali si è tematizzato il suo rapporto con il mondo, una decostruzione critica della dicotomia tra storia naturale e storia umana è quanto mai necessaria.
La parete divisoria fra storia naturale e storia umana che era stata eretta nella prima età moderna e rinforzata nel diciannovesimo secolo, quando le scienze e le discipline degli esseri umani erano consolidate, si è incrinata in modo serio e permanente (p. 48).
La proposta di Chakrabarty consiste nel tentativo di tenere insieme due dimensioni dell’umano che troppo si tende a ritenere come inconciliabili: l’uomo in quanto homo (soggetto politico) e l’uomo in quanto anthropos (forza geologica). Solo attraverso l’accettazione di questo paradigma contradditorio si può evitare l’homocentrismo antropocenico, che consiste nel non tenere conto che l’Antropocene ha ripercussioni sul mondo inanimato, colpisce e riguarda le altre forme di vita, l’esistenza geologica del pianeta in quanto tale. Ecco perché non è un fenomeno unicamente riconducibile alla sfera politica, all’ambito di un’etica globale. Non c’è di mezzo solo l’uomo in quanto uomo, ma dell’uomo in quanto specie, in quanto non solo umano. Per questo motivo è necessario stare attenti, dice Chakrabarty, a fondare la coscienza epocale sulla ragione, come ha fatto Jaspers. Il rischio è quello di partire con mezzo piede nell’homocentrismo, rischiare di disperdere il punto di partenza del discorso: l’Antropocene non è semplicemente un capitolo della storia umana, coinvolge l’inumano. Non a caso lo storico indiano fa riferimento ai wicked problems, ovvero a una tipologia di problemi di varia natura disciplinare che possono essere determinati ma di cui non si può dare una soluzione univoca, completa ed esaustiva. In questo contesto Chakrabarty si avvale di Heidegger, autore che sembrerebbe distante anni luce dalla sua prospettiva. L’Analitica Esistenziale, lo statuto ontologico privilegiato in cui è situato l’Esserci, ostacola la possibilità di imbastire un dialogo autentico con il mondo naturale, in particolar modo con quello animale. Nonostante questo, il riferimento ad Heidegger c’è ed è centrale. La nozione di Grundstimmung, di uno stato d’animo che sta alla base, è ciò attraverso cui si può instaurare un nesso proficuo e sincero tra homocentrismo e zoecentrismo. Lo stare al mondo significa di per sé essere collocato in un Ci, in un luogo di per sé attinto da una connotazione emotiva; è recuperando il senso, la concretezza di tale stato d’animo che il mondo si dischiude più agevolmente e l’Esserci recupera il senso proprio Ci. Come nota Chakrabarty, la conoscenza per Heidegger non ha luogo, solamente lo stato emotivo coinvolge lo spazio (pp. 109-111). Nel Ci dell’Esserci risiede la fusione originaria tra l’appartenenza dell’uomo al mondo e la tonalità emotiva dell’esser-situato. Per consolidare un tale riconoscimento è necessario incentivare la maturazione di quello che De Michele definisce ‹‹sguardo strabico›› (p. 22), un dispositivo di visioni in grado di saper cogliere la differenza e la connessione tra umano e naturale, tentando da un lato di smuovere le tematizzazioni dicotomizzanti con le quali ci si è abitualmente relazionati alla natura, dall’altro mantenendo una rigida manutenzione dell’alterità naturale, di cui però dobbiamo riconoscere di far parte. Si tratta di interrompere ogni brama sintetizzante e di vivere nella contraddizione di questa condizione.
La possibilità di prelevare l’uomo dalla storia degli sviluppi geofisici è terminata. Se fino a pochi secoli fa gli eventi e i cambiamenti terrestri – come oggi la pandemia – erano pensati come uno sfondo, come anomalie separabili dal raggio d’azione umana, oggi ‹‹siamo diventati consapevoli che lo sfondo non è più solo uno sfondo›› (p. 105), ci siamo resi conto di essere diventati parte di qualcosa che abbiamo tradizionalmente concepito come un oggetto a noi esterno. Se oggi lo sviluppo della tecnologizzazione tende a essere definito come un prolungamento della natura e dei suoi limiti, bisognerà interrogarsi sulla rilevanza estensiva che esercita l’uomo nel mondo in quanto forza geologica. Non deve stupire che per Chakrabarty la pandemia COVID-19 ‹‹rappresenta anche un momento nella storia della vita biologica di questo pianeta in cui gli esseri umani hanno agito da amplificatori di un virus il cui serbatoio ospite potrebbero essere stato alcuni pipistrelli in Cina per milioni di anni›› (p. 165). Ogni fenomeno ambientale non è relegabile a una storia globale, questo è il punto. Rendendo necessaria l’introduzione di criteri, confronti e relazioni tra vita umana e inumana, tra vivente e mondo, tra storia naturale e storia umana, l’Antropocene richiede nuove modi di porsi domande, nuove modalità d’esperienza e di istituzione.
Ma al tempo stesso la crisi del cambiamento climatico, gettandoci nelle linee temporali della vita inumana e della geologia, ci sottrae anche all’homocentrismo che ci divide. […] Le nostre storie politiche continueranno a dividerci mentre ci facciamo strada attraverso questa crisi: ma dobbiamo pensare queste storie politiche divise non semplicemente nel contesto della storia del capitalismo, ma nel quadro molto più generale della storia evoluzionistica. Possiamo seguire Lovelock e chiederci: riusciranno gli esseri umani, anche dentro e attraverso i loro conflitti e le loro differenze, a riconoscere “i bisogni della Terra anche se il [loro] tempo di risposta è lento?” Questa rimane la questione critica per il futuro. (p. 112)
A undici anni dalla pubblicazione di Sortir de la grande nuit (2010; trad. di D. Contadini, Emergere dalla lunga notte, Meltemi 2018), Achille Mbembe, critico della decolonizzazione e originale lettore della french theory, rimette mano a testi pubblicati nel corso dell’ultimo decennio, raccogliendoli nell’edizione della Columbia Press sotto il titolo Out of the Dark Night: essays on decolonization. L’edizione del volume in lingua inglese, che include pagine non comprese in quella francese, solleva anzitutto la domanda sul significato della sua comparsa in una lingua fruibile da un pubblico (accademico e non) ben più ampio di quello francofono.
La scelta di una pubblicazione modificata in inglese può essere anzitutto riferita alla rilevanza che la critica decoloniale sta assumendo in un’ottica globale: la riflessione di Mbembe, la sua forte critica alle politiche (neo)colonialiste francesi e l’interesse per la posizione specificamente africana nel contesto internazionale, non si esauriscono in un’opposizione manichea fra Centro e Periferia. Il contesto geopolitico post-coloniale è a oggi una realtà il cui riverbero si fa sentire in questioni eminentemente filosofiche: dal continente africano si propaga un’esigenza critica, un paradosso che, nella sua specifica irriducibilità, si rivolge ancora ai fondamenti epistemologici occidentali.
Sia chiaro: comprendere il testo di Mbembe a partire da un’opposizione teorica alla centralità euro-americana è una semplificazione eccessivamente ingenua. Le prime pagine si aprono infatti con una sicura affermazione del panorama culturale mondiale come entangled, correlato nelle sue diverse zone geografiche. E questo è sempre stato vero: dallo sviluppo di una ragione umanistica e universale alla sua applicazione in senso colonialista, dall’elaborazione di saperi nazionalisti al recupero di governi autoritari nelle ex-colonie, la teoria e il suo supporto politico sono sempre stati dislocati nei più remoti angoli del globo. È in quest’ottica che gli eventi della decolonizzazione assumono il loro carattere più propriamente filosofico e mostrano tutta la permeabilità della teoria a ciò che ne è ambiguamente estraneo: “Besides traditional northern Atlantic research institution and centers of learning, alternative circuits of circulation (South/North, North/East, South/East) have emerged during the last quarter of the twentieth century. This worldwide dissemination of thought has been buttressed by a worldwide circulation and translation of concepts and the denationalization of the great academic debates” (Mbembe 2021, p. 13). Ma ciò non significa nient’altro che un cambiamento epistemologico, un riposizionamento degli archivi e una modificazione della critica seguendo il paradosso che il continente africano ha rappresentato nell’ultimo mezzo secolo: una teoria delle soglie (o, theory of threshold) che spieghi il tessersi vicendevole di epistemologia e prassi, dei continenti e dei popoli.
Che farsene quindi dell’Europa? Può darsi che l’aspetto più originale della riflessione di Mbembe sia il relativo disinteresse con cui viene affrontata la questione. In alcuni testi capitali della decolonialità, tra cui il caposaldo Provincializzare l’Europa (Chakrabarty 2004, ed. or. 2000), affrontare la questione dell’autodeterminazione dei popoli cominciava proprio da una decostruzione dell’europeità del pensiero. Con questa impostazione, tuttavia, la possibilità dei movimenti indipendentisti sconta l’ipoteca teorica dello sguardo del colonizzatore, non comprendendo che questi sono stati guidati da un’autonoma volontà di umanizzazione. È qui che Mbembe introduce una seconda dimensione del progetto decolonizzatore, ovvero quella ontologica: la decolonizzazione nella sua verità evenemenziale è stata il giungere all’umanità degli ex coloni, l’assunzione della capacità di poter dire “io”: “In anticolonial thinking, humanity does not exist a priori. Humanity is to be made to rise through the process by which the colonized subject awakens to self-consciousness, subjectively appropriates his or her I, takes down the barrier and authorizes him or herself to speak in the first person” (Mbembe 2021, p. 62). Lo spazio aperto dall’Evento della decolonizzazione è spazio di costruzione del sé, dove l’apertura, il gap ontologico è un vuoto funzionale all’esistenza di un mondo post-razziale. D’altra parte, quale altro movimento può ridefinire i fondamenti ontologici classici se non avanza pretese sulla divisione millenaria e globale costituita dalla demarcazione razziale? E in effetti di globalità si tratta, dal momento che la prospettiva ontologica aperta dalla riflessione decoloniale si realizza nell’ideale di condivisione e relazione delle differenze (la métisse umana). È solamente a questo punto che il confronto con l’Europa può entrare in scena: se è vero che “In black thought analysis of decolonization […] cannot be dissociated from the question of Europe” (p. 64), è anche vero che il telos di divenire-europei dei non europei viene scalzato dall’obiettivo del divenire Altro dell’Europa, ovvero, seguendo la riflessione derridiana, di assumere l’altrove che abita il qui europeo come punto di rottura con le ontologie ed epistemologie tradizionali.
Voltare le spalle all’Europa, come indicava Fanon cinquant’anni prima della pubblicazione di questo testo (Fanon 2015, ed. or. 1952), significa quindi assumere come punto di vista critico la prossimità dell’Altro alla supposta purezza europea. È questo il senso delle pagine dedicate da Mbembe all’analisi della situazione francese. L’esempio non si esaurisce nell’illustrazione di come la razza funzioni da principio di divisione e socialità (secondo la costituzione di un interno razzialmente superiore demarcato da un esterno, aldilà della frontiera europea, sede di popoli degenerati); bensì, sviluppa la critica a un pensiero umanistico universalizzante, rappresentato dagli ideali rivoluzionari francesi, che non può fare a meno di istituire la discriminazione come suo punto fondamentale a partire dall’affermazione dell’indifferenza delle differenze. L’astrattezza dell’ideale civico francese e la sua messa in pratica mediante politiche cieche alla differenza, ha come correlato psichico una negazione della possibilità di lutto: non si sottovaluti questo aspetto, poiché la capacità di piangere una vita, secondo l’argomentazione di Mbembe, è il riflesso diretto della sua dignità umana. Necropolitica è allora il titolo dell’ultimo capitolo del colonialismo europeo privo di qualsiasi epitaffio allo straniero, indegno in quanto inumano e inumano in quanto non europeo.
Ma come far sorgere ancora la dignità dell’Altro? La domanda è fondamentale perché chiarisce al contempo che cosa significhi una prospettiva globale e relazionale: la questione dell’entanglement, costantemente sottolineata da Mbembe, assume dei contorni più definiti. Si tratta di un rapporto di restituzione che riassume i due aspetti epistemologico e ontologico della decolonizzazione. A partire da una rivalutazione estetica dell’artefatto africano, in cui non è solo la soggettività umana a parlare, ma una molteplicità virtuale di entità anche extra-mondane, l’oggetto d’arte africana si riposiziona entro un’economia di segni generativa di conoscenza e partecipatoria dell’individuo nella costruzione di umanità. In questo senso il dibattito sulla restituzione “must be recentered around the historical, philosophical, anthropological and political stakes of the act of restitution. One then sees that every authentic politics of restitution is inseparable from a capacity for truth, such that honoring truth and acts of repairing the world become, by the same token, the essential foundation of a new connection and a new relationship” (p. 161). È quindi il valore propriamente filosofico dell’artefatto che dà forma alle due economie della restituzione: uno scambio compensatorio o restaurativo, che, necessariamente parziale, fa i conti con il danno storico e umano; uno scambio veritativo, che considera la possibilità della tradizione e innovazione teorica africana di organizzarsi in proposizioni vere o false.
Effettivamente la verità di cui l’Europa è debitrice all’Africa ci sembra quantomeno ambivalente, operante secondo collusioni, saturazioni e aperture senza termine. Anzitutto nel definire il primo dei dispositivi di controllo discorsivo, cioè lo Stato-nazione. Seguendo una tendenza comune negli ultimi anni della riflessione decoloniale ed esemplificato dall’opera principale di Aihwa Ong (1999), Mbembe concorda nel considerare la struttura statale modificata sostanzialmente dai flussi transnazionali che attraversano il continente africano e i suoi oceani. Ciò che colpisce è tuttavia l’originale articolazione del discorso transnazionalista su quello psicoanalitico: lo spostamento di popoli attraverso le penetrabili barriere statali ha permesso il risorgere delle conflittualità per il controllo dei corpi e della loro capacità di muoversi; la loro violenza deriva dal conseguente doppio significato di cittadinanza, secondo sangue o secondo stato, che ricalca a sua volta la distinzione fra uno spazio civico intra-muros, sede del discorso sulle origini, e uno extra-muros, sede dell’altrove diasporico. Ma se il conflitto è la prima forma di controllo del movimento, esso non ne esaurisce le possibilità che sono altrimenti garantite dall’elaborazione della domanda su cosa possa fare un corpo nei termini della sua significazione di genere o sessuale. È in questo senso che Mbembe può affermare come ogni lotta politica è una lotta sessuale (“the political struggle, almost always takes on the form of a sexual struggle” Mbembe 2021, p. 193) ed è ancora in questo senso che la lotta per la liberazione femminile e omosessuale può avvenire. Seguendo un percorso tipico che attribuisce all’economia fallica la repressione omosessuale e femminile, Mbembe designa la lotta anale come il punto di svolta nella liberazione dello stesso continente africano. Se infatti il discorso di liberazione focalizzato sull’identità dello Stato-nazione dipinge la liberazione come l’esito di una lotta tra uomini per il controllo totale di un territorio secondo la fantasia di un godimento assoluto, allora la possibilità della castrazione, il godimento escrementizio legato all’analità e il potere di dare vita contenuto nell’immagine del recipiente-vulva sono tutte strategie che fanno tentennare il legame fra subordinazione sessuale e discriminazione civile:
The psychic life of power originates from […] power’s desire for an infinite erection. The project of an infinite erection itself corresponds to a longing for absolute sovereignty – empty infinity. […] This is, indeed, an insatiable desire. It is explicable only in power’s awareness of being surrounded at once by the threat of vulnerability and feminization for which the vulva is the primordial emblem, and by the possibility of emasculation that anality – indeed, the seat of shame, but equally the symbol of the other of omnipotence – represents. Only by turning itself into an even more powerful excrement can the thing fend off the challenge of anality (pp. 203-204).
Ma dal godimento ricomincia anche la ricostituzione di un afropolitismo (afropolitanism).L’ultima mossa teorica di Mbembe, l’innesto della psicoanalisi attraverso Lacan, Deleuze e Bataille, consiste al contempo nella svolta verso un discorso positivo. Il passo fondamentale è qui segnato dal riferimento ai poeti della Négritude: in questa poetica antinazionalista, il plus-godere prende la forma dell’eccesso che viene espulso in quanto detrito, immondizia, rifiuto. Su una montagna di immondizia (un tas d’immondices) si costituisce la comunità prospettata dai poeti della Négritude: è la consapevolezza del legame profondo che unisce inestricabilmente il reale al suo eccesso, l’individuo alla pluralità, lo Stato-nazione alla sua comunità diasporica. In questo modo è la questione del movimento a divenire centrale, proprio perché esso consiste nell’intervallo che intercorre fra un’entità politica astratta e fissata e l’altrove delocalizzato che ne costituisce la possibilità intrinseca. Afropolitismo, conclude Mbembe, è quindi la realtà storica, culturale ed estetica dell’imbricazione del qui con l’altrove: “the presence of elsewhere and vice versa, this relativization of roots and primary belongings and this manner of embracing, with full knowledge of the facts, the foreign, the foreigner, and the far-off” (p. 215).
In una contemporaneità che ha fatto della lotta antimperialista e antirazzista solo l’ennesima tendenza mediatica o l’ultima spiaggia del politically correct, il testo di Mbembe restituisce lo spessore e la complessità della lotta per una decolonizzazione mai compiuta. In essa non vi è alcuna profezia per il futuro a venire, tantomeno una certezza teorica a cui aggrapparsi: vi si trova invece la necessità di confronto con il globale realizzarsi della teoria, il suo posizionarsi entro una cornice geoestetica. Vi si trova il corpo in movimento diasporico dell’Africa, l’afropolitismo come “migrant and circulatory form of modernity, born out of overlapping genealogies, at the intersections of multiple encounters with multiple elsewheres” (p. 221).
È arduo elaborare un quadro unitario ed esaustivo degli interrogativi con cui il punto di vista fenomenologico si è confrontato nella sua storia relativamente breve. Il rischio è quello di risultare riduttivi. Le interpretazioni della filosofia husserliana, infatti, si moltiplicano parallelamente alla comparsa di nuovi ambiti applicativi del metodo fenomenologico, spesso tra loro eterogenei: estetica, neuroscienze, filosofia della mente, gli studi sulla natura e sul vivente. La difficoltà del compito di fornire un quadro unitario delle sfide intraprese dalla fenomenologia sembra perciò derivare da un’esigenza più storica e filologica che teorica. Ciononostante, confronti ragionati tra i principi della fenomenologia e altre prospettive teoriche possono non solo allargare il campo di indagine, ma anche gettare nuova luce sui problemi centrali del pensiero di Husserl. È ciò di cui è particolarmente convinto Enzo Paci, uno degli esponenti più noti della fenomenologia italiana del novecento, nonché il principale artefice dell’introduzione delle opere di Husserl in Italia nel secondo dopoguerra. Pur aderendo con grande convinzione al metodo fenomenologico, Paci non ha mai smesso di tentare di avvicinarlo a questioni e prospettive apparentemente distanti quali il pragmatismo, la filosofia di Whitehead, l’antropologia e il materialismo dialettico, spesso attirandosi le critiche e i sospetti di buona parte del mondo accademico.
Parallelamente al suo programma teorico e ai progetti accademici, Paci conduce un ampio lavoro di divulgazione dei contenuti della filosofia e della scienza. Diversi sono i volumi che, secondo un intento propedeutico, spiegano il contesto storico e il significato ancora attuale di correnti di pensiero e scoperte scientifiche succedutesi dall’antichità all’età contemporanea. Con uno stile decisamente inconsueto e originale rispetto ai più classici saggi, il Diario fenomenologico si pone in questo filone. Pubblicato originariamente nel 1961 e fino ad oggi mai più ristampato, il Diario non riporta il semplice resoconto degli eventi vissuti da Paci tra il 1956 e il 1961, ma costituisce anche una ricca fonte di osservazioni utili alla comprensione della speculazione di Paci e della fenomenologia in generale. L’ampiezza dei contesti teorici a cui Paci fa riferimento, inoltre, fa sì che queste osservazioni convergano in un punta di vista complesso e del tutto originale sulla filosofia di Husserl.
A dispetto dell’odierno proliferare di prospettive a impianto fenomenologico, nell’Italia degli anni sessanta buona parte degli studi fenomenologici non è accolta con favore unanime. Se fraintesa come forma di idealismo o soggettivismo, la fenomenologia trascendentale può in effetti essere rimproverata per la scarsa attenzione riservata all’oggettività. Gli sforzi di Paci sono perciò volti in primo luogo a dimostrare l’intima unità delle diverse fasi del pensiero husserliano e a prevenirne le possibili interpretazioni idealiste. Nemmeno le proposte teoriche del fenomenologo italiano, tuttavia, godono di grande consenso. Con la pubblicazione, nel 1963, di Funzione delle scienze e significato dell’uomo,si apre una proficua e mai abbandonata linea di indagine volta a integrare le prospettive filosofiche di Husserl e di Marx. Sia da un punto di vista politico sia da uno filosofico, un simile progetto desta la perplessità di molti studiosi, tra cui quella di Norberto Bobbio, che per gli assunti del materialismo dialettico auspica una verifica scientifica, piuttosto che una fondazione filosofica – strumentale, peraltro, a una rinnovata interpretazione di Husserl.
In linea con i presupposti fondamentali del materialismo dialettico, in ogni caso, le riflessioni di Paci non si limitano alla mera speculazione teorica: al contrario, anche alla luce delle categorie husserliane, mirano a un effettivo cambiamento dei saperi e delle prassi storicamente costituite che stanno alla base dei rapporti sociali. Proprio nel Diario, in una nota del 10 settembre 1958, Paci scrive che il suo «tentativo è quello di influenzare la filosofia e la cultura italiane con la fenomenologia» (p. 75). Questa ambizione si traduce, in primo luogo, in un lavoro di rifondazione fenomenologica delle scienze, in particolare delle scienze umane. Il principio fondamentale di questa rifondazione stabilisce che l’uomo, in quanto soggetto intenzionale, non può essere considerato da alcuna scienza come mero oggetto, poiché misurazioni e analisi quantitative falserebbero il suo vero essere. Il modello delle scienze naturali, anzi, comporterebbe lo stesso effetto di oggettivazione e alienazione implicato dai modi di produzione capitalista. Andando oltre le sole considerazioni epistemologiche, la fenomenologia, nella trattazione di Paci, sembra quasi costituire un imperativo morale per le scienze umane: la psicologia, per esempio, viene riconosciuta come «scienza che ha una sua funzione intenzionale… per la costituzione di una società umana libera dallo sfruttamento» (Paci 1963, p. 313). Quando Paci formula simili considerazioni nel tentativo di tracciare le linee di una sociologia intenzionale, è Pietro Rossi a intervenire criticamente, osservando che considerare l’uomo secondo un approccio contrapposto a quello delle scienze naturali contravverrebbe al metodo analitico-formale husserliano.
Alla luce di tale giudizio, sembra ironico che la nuova ristampa del Diario fenomenologico, edita da Orthotes (https://www.orthotes.com/diario-fenomenologico/), sia dovuta proprio all’iniziativa di un sociologo. In effetti, nonostante certe proposte possano sembrare azzardate, dagli scritti di Paci si possono trarre considerazioni ben diverse da quelle dei suoi interlocutori diretti. Nella Postfazione, Massimo Cerulo mostra così che l’importanza che le note del Diario danno all’interazione sociale e al contesto storico nell’indagare l’individuo umano è in particolare consonanza con le teorie di noti sociologi come Alfred Schutz, Erving Goffman e Pierre Bourdieu. Sebbene il tono dei suoi scritti sia spesso ispirato, Paci medita a fondo problematiche e concetti provenienti da numerosi ambiti teorici, trovando legami e tratti in comune tra teorie solitamente considerate incompatibili. Psicologia, fisica, sociologia, biologia, antropologia: Paci esplora appassionatamente e considera analiticamente i maggiori risultati di tutte queste discipline al fine di spiegare l’uomo nella sua specificità e, al tempo stesso, nelle radici naturali della sua esistenza. La natura e il suo rapporto con l’uomo, in effetti, rappresentano due temi centrali per il pensiero più proprio di Paci, quel relazionismo che, alla luce delle riflessioni più mature, può a buon titolo essere inteso anche come fenomenologia relazionista. Il Diario fenomenologico condensa i nuclei fondamentali di questa complessa proposta filosofica che assume la relazione e il processo come categorie più fondamentali dell’essere, e testimonia del periodo in cui si compie la vera e propria svolta fenomenologica di Paci.
Nonostante l’esplicito rifiuto di ogni ontologia, le prime formulazioni del relazionismo paciano possono essere comprese come una peculiare posizione metafisica. In primo luogo, sono la natura e gli enti naturali di ogni sorta a essere costituiti secondo un principio relazionale e processuale. Ben presto, tuttavia, il concetto di relazione è sempre più spesso impiegato da Paci secondo una prospettiva gnoseologica. È infatti il punto di vista intenzionale della fenomenologia a costituire il miglior alleato nella critica al sostanzialismo, vale a dire l’erronea attribuzione di una realtà fissa e immutabile al mondo fisico e a quello spirituale. A quest’ultima tesi si oppone, appunto, il relazionismo, che propone un’immagine dell’uomo coerente con quella della natura, secondo cui ogni individuo, piuttosto che una sostanza, è essenzialmente un processo costitutivo, un farsi attraverso l’esperienza. Il soggetto non è quindi una posizione assoluta, ma è preso in una stretta relazione di interdipendenza con i propri vissuti. A supporto di tale rivisitazione della soggettività, Paci trova preziosi alleati nello Husserl inedito.
L’incontro con i manoscritti, più volte raccontato nel Diario, segna una fase importante nella speculazione di Paci: come in quelle pagine muta e si approfondisce il pensiero di Husserl, così, nel leggerle, in virtù di una «affinità profonda» (p. 96), muta lo sguardo di Paci sulla filosofia, sul mondo e sull’uomo. Più precisamente, i manoscritti dei gruppi C, D, E e K portano Paci a dare sempre più importanza agli aspetti precategoriali e genetici della vita intenzionale. Ogni conoscere si rivela come il risultato di un atto sintetico che è in prima battuta fondato su un’esperienza che anticipa la riflessione e che è già di per sé sintetica. La relazione come fondamento della conoscenza, quindi, porta Paci a riconoscere un particolare valore ai concetti husserliani riguardanti ciò che precede l’autocoscienza, tra cui la motivazione, la sintesi temporale e l’associazione. Le leggi delle sintesi passive e la fenomenologia genetica in generale approfondiscono il lavoro inaugurato da Husserl con le indagini sul tempo delle Zeitvorlesungen. Con rinnovata radicalità, come anche recentemente non si è mancato di evidenziare, le lezioni sulla sintesi passiva rimettono in questione la presenza del soggetto a sé e, più in generale, l’unità della coscienza. Paci affronta tali problematiche, proseguendo la riflessione sulle dinamiche dell’esperienza che precedono gli atti di coscienza alla luce delle analisi sulla temporalità e sulla natura relative al primo periodo relazionista degli anni cinquanta.
Le considerazioni sul tempo e sulla fenomenologia genetica, insieme all’interpretazione del materialismo, confluiscono nel più profondo nucleo teorico del relazionismo, ovvero quel naturalismo non riduzionista che, attraverso la fenomenologia e, in particolare, il concetto di Lebenswelt, vuole rivelare la coscienza trascendentale nel suo «fondo naturale» (p. 63), cioè come natura vivente e non reificabile. Questo peculiare naturalismo, in buona parte influenzato dal pragmatismo di Dewey e James, oltre che dall’organicismo di Whitehead, si declina in una sorta di prospettiva non egologica per cui «il cogito, alla fine, è l’operazione, la Leistung del cogitare» (p. 69). Porre al centro della speculazione di Paci lo statuto della coscienza, perciò, consente di mettere le riflessioni sul materialismo dialettico in una prospettiva eminentemente teoretica, a dispetto dei rischi di sconfinamento in questioni extra-filosofiche contro cui mette in guardia buona parte dei commentatori. Molte considerazioni che Paci fa a partire dagli studi sul materialismo possono apparire ingenue o superflue, ma non minano la complessità e la coerenza della sua riflessione.
Durante il soggiorno di studio a Lovanio, Paci si dimostra pienamente consapevole dell’originalità della propria interpretazione di Husserl: «Normale incomprensione degli studiosi per la praxis in Husserl. Il conoscere stesso è praxisin quanto costituito di operazioni, di Leistungen che nel loro operare tendono al significato, alla verità» (p. 95). Di qui, si comprende non solo il senso dell’avvicinamento ai temi marxiani, ma anche il significato più generale che Paci attribuisce alla filosofia di Husserl. Come osserva Pier Aldo Rovatti nella Prefazione, l’intento fondamentale del Diario è dare prova della «concretezza dell’esercizio filosofico» (p. 8) come tratto essenziale della fenomenologia. Allo stesso tempo, tuttavia, il testo fornisce una presentazione della vera stoffa di cui è fatto l’io fenomenologizzante. I luoghi, gli incontri e gli eventi che Paci vive innescano complesse meditazioni che portano a riconoscere la natura del soggetto stesso come un intreccio di relazioni.
In ultima analisi, il Diario fenomenologico è l’illustrazione più fedele della fenomenologia come gesto, come costante «invito alla descrizione» (p. 82) di ciò che si presenta all’esperienza. L’intima relazione tra fenomenologia e vita si spiega così nell’immer wieder, il motto husserliano tanto caro a Paci. Sintesi per essenza incompiuta di biografia e riflessione teorica, il Diario contrasta ogni forma di essenzialismo, collocando l’uomo e la filosofia in un orizzonte teleologico aperto, in un processo di «scoperta e riscoperta continua che si pone tra l’oscurità dell’infinito del non percepire e la luce dell’infinito del vero» (p. 64).
di Federico Tosca
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Bibliografia
E. Paci, Funzione delle scienze e significato dell’uomo, Il Saggiatore, Milano 1963.
Un’indagine sui rapporti tra Jacques Derrida e la letteratura sarebbe necessariamente vastissima. Non basterebbe infatti esaminare il modo in cui il filosofo ha letto determinati autori, sia che abbia dedicato ad essi interi volumi (Joyce, Artaud, Ponge, Blanchot, Celan, Cixous), sia che delle loro opere abbia parlato in capitoli di opere saggistiche (è il caso di Baudelaire, Flaubert, Mallarmé, Valéry, Kafka, Genet, Jabès, Sollers, per fare solo qualche nome). Occorrerebbe anche considerare la maniera in cui egli ha rielaborato e messo in discussione, sul piano teorico, nozioni strettamente connesse alla pratica letteraria, come quelle di «genere», «opera», «libro», «titolo», «firma», «traduzione», «metafora». Inoltre andrebbe affrontato il tema degli stili di Derrida, non in quanto il filosofo abbia voluto presentarsi nelle vesti di letterato, ma perché la singolarità della sua scrittura e l’assidua sperimentazione di forme espositive diverse consentirebbero di guardare alle sue opere sotto questa specifica angolazione.
Si può tentare di ridurre il campo di ricerca limitandosi a considerare il modo in cui Derrida ha riflettuto sulla nozione stessa di letteratura. È questa una tematica che si è imposta alla sua attenzione fin dall’inizio. Interessandosi alla fenomenologia di Husserl e avendo notato che negli scritti di quest’ultimo si parla, in maniera quasi incidentale, del ruolo della scrittura nel «costituire degli oggetti ideali comunicabili», Derrida riteneva di poter giungere al punto che più gli stava a cuore, ossia «l’iscrizione letteraria. Che cos’è un’iscrizione? A partire da quale momento e in quali condizioni un’iscrizione diviene letteraria?»[1]. A tale argomento intendeva dedicare un lavoro specifico: «Verso il 1957, avevo dunque depositato, come si dice, un primo soggetto di tesi. Lo avevo allora intitolato L’idealité de l’objet littéraire. […] Questo titolo si capiva un po’ meglio nel 1957, in un contesto più segnato, rispetto ad oggi, dal pensiero di Husserl. Si trattava allora per me di piegare, più o meno violentemente, le tecniche della fenomenologia trascendentale all’elaborazione di una nuova teoria della letteratura, di quel tipo d’oggetto ideale molto particolare che è l’oggetto letterario. […] Poiché, devo ricordarlo un po’ massivamente e semplicemente, il mio interesse più costante, direi anche prima di quello filosofico, se possibile, era rivolto verso la letteratura, verso la scrittura cosiddetta letteraria. Che cos’è la letteratura? E innanzitutto, che cos’è lo scrivere? In che modo esso giunge a disturbare la stessa domanda “che cos’è?”, e perfino “che significa?”? In altri termini […], quando e come l’iscrizione diventa letteratura e cosa avviene in quel caso?»[2].
La tesi su L’idealité de l’objet littéraire non verrà scritta, ma resta comunque significativo il fatto che Derrida l’abbia progettata. E in ogni caso egli non cesserà mai di interrogarsi sullo statuto del testo letterario, e in particolare sul rapporto che si può individuare fra esso e il testo filosofico. Si tratta di un problema che lo riguarda anche in prima persona, perché, date le modalità assai creative che adotta nella scrittura, deve spesso rispondere alla domanda se il suo intento non sia eventualmente di tipo letterario. Alla domanda egli risponde in questi termini: «Dirò che i miei testi non appartengono né al registro “filosofico” né a quello “letterario”. In tal modo essi comunicano, o almeno lo spero, con altri che, per aver operato una certa rottura, continuano ad essere definiti “filosofici” o “letterari” solo per una sorta di paleonimia» (Derrida 1975, p. 102). Egli si sta riferendo agli scritti di autori quali «Artaud, Bataille, Mallarmé, Sollers. Perché? Per una ragione, almeno, che ci spinge a nutrire sospetti verso la denominazione di “letteratura” e verso quanto ne assoggetta il concetto alle belle lettere, alle arti, alla poesia, alla retorica e alla filosofia. Nel loro stesso movimento, questi testi operano la manifestazione e la decostruzione pratica della rappresentazione che ci si faceva della letteratura»[3].
Ciò tuttavia non va inteso nel senso che egli accolga con favore l’idea che sia lecito e auspicabile confondere i due tipi di discorso:
«Io non ho mai assimilato un testo cosiddetto filosofico a un testo cosiddetto letterario. I due tipi mi sembrano irriducibilmente diversi. Inoltre bisogna sapere che i limiti fra loro sono più complessi […] e soprattutto meno naturali, astorici o già dati di quanto si dica o si creda. I due tipi possono intrecciarsi in uno stesso corpus secondo leggi e forme il cui studio è non soltanto interessante e nuovo, ma indispensabile […]. Non occorre forse interessarsi alle convenzioni, alle istituzioni, alle interpretazioni che producono o mantengono in vita questo apparato di limitazioni, con tutte le norme e dunque tutte le esclusioni che comportano? Non è possibile affrontare tale insieme di questioni senza chiedersi, ad un certo momento: “Che cos’è la filosofia?” e “Che cos’è la letteratura?”. Tali domande, difficili e più aperte che mai, non sono esse stesse (per definizione e perlomeno se vengono poste in maniera effettiva) né semplicemente filosofiche né semplicemente letterarie» (Derrida 1992, p. 230)
Chiedersi cosa sia la letteratura non significa però, alla maniera della filosofia tradizionale, andare alla ricerca di una risposta di tipo essenzialistico. Secondo Derrida, infatti, tale risposta sarebbe indebita perché non terrebbe conto dei fattori di ordine contestuale, che sono invece determinanti per stabilire se un enunciato o un’opera si trovino ad essere ascritti alla letteratura:
«Lo stesso testo, la stessa frase, può in situazioni diverse appartenere ora al campo letterario, ora a ciò che si potrebbe chiamare la lingua ordinaria di tutti i giorni. Per conseguenza, non è una lettura interna di un fenomeno linguistico che consente di riservargli questo o quell’ambito. La stessa frase, in condizioni pragmatiche differenti, tenuto conto di altre convenzioni, può essere una semplice frase di giornale qui, e poi un frammento poetico là, o un esempio filosofico altrove. Ciò dipende dal fatto che la determinazione di tali ambiti non è mai decidibile in una lettura interna o un’esperienza interna della lingua, degli enunciati linguistici, ma a partire da una situazione i cui limiti stessi sono difficili da riconoscere e in ogni caso sono molto mutevoli» (Derrida 1990, p. 396)
Conviene precisare che questo non vale unicamente per i testi scritti, ma per le opere artistiche in generale:
«Non si potrebbe dire che il criterio che definisce la traccia come opera sia un criterio interno: non è analizzando la struttura interna della traccia che possiamo decidere se questa sia un’opera d’arte o meno. Credo che nessuna criteriologia interna, nessuna lettura intrinseca della traccia, ci consenta di farlo. Bisognerà piuttosto introdurre dei criteri esterni che coinvolgano delle convenzioni sociali, delle contestualizzazioni […]. Si ha comunque a che fare con un giudizio: si tratta di un giudizio sociale che implica un linguaggio, delle condizioni, una memoria, una storia, ecc. Un giudizio che trasforma la traccia, o un insieme di tracce, dando loro statuto d’opera» (Derrida 1998, pp. 23-24).
Derrida ha ricordato più volte che la nozione stessa di letteratura non è qualcosa di prestabilito, tale da poter attraversare indenne i secoli e i millenni, bensì un prodotto storico. A suo giudizio, per comprendere la concezione tradizionale della letteratura occorre risalire molto indietro, fino alla filosofia greca: «Platone pone la questione della poesia determinandola come mimesis, e aprendo così il campo nel quale la Poetica di Aristotele, dominata per intero da tale categoria, produrrà il concetto di letteratura che regnerà fino al XIX secolo» (Derrida 1989, p. 187). Per Platone, «la scrittura in generale non è certamente la scrittura letteraria. Ma altrove, nella Repubblica per esempio, il poeta non è forse giudicato, e poi condannato, in quanto imitatore, mimo che non pratica la “narrazione semplice”?» (Derrida 1989, p. 210). Il filosofo greco infatti, pur attribuendo costantemente all’arte un carattere mimetico, opera delle distinzioni. A suo giudizio, l’imitazione assume un valore negativo sia quando il poeta riproduce qualcosa di eticamente riprovevole, sia quando svolge il proprio compito in maniera troppo coinvolgente, adottando la voce del personaggio rappresentato (narrazione mimetica) invece di limitarsi a parlarne dall’esterno (narrazione semplice): «Lo si può verificare rileggendo il passaggio della Repubblica sulla narrazione semplice e sulla mimesis». (Derrida 1989, p. 211)[10]. Certo, non bisogna affrettarsi a confondere i vari generi poetici cui Platone fa riferimento con quello che noi siamo abituati a considerare oggi come l’ambito letterario. Derrida, da parte sua, sostiene «che non c’è – o appena, così poco – letteratura; che in ogni caso non c’è essenza della letteratura, verità della letteratura, essere-letterario della letteratura», ma aggiunge subito che ciò «non deve impedire, anzi tutto il contrario, di lavorare per sapere che cosa si è rappresentato o determinato sotto questo nome – letteratura – e perché» (Derrida 1989, p. 253.
Un modo piuttosto diverso di impostare il problema, da parte del filosofo, emerge in testi posteriori di qualche decennio. Nella parte iniziale di Demeure, Maurice Blanchot, egli si confronta con un classico della critica novecentesca, Letteratura europea e Medio Evo latino di Ernst Robert Curtius (Derrida 2001, pp. 99-103 e E.R. Curtius 1992). Nel suo ampio volume, lo studioso tedesco sosteneva la necessità di superare il privilegio, dettato anche da una sorta di miopia nazionalistica, concesso a certi periodi della cultura europea a spese di altri, che venivano per contro ingiustamente trascurati. Di conseguenza, affermava che «solamente chi padroneggia tutte le epoche da Omero a Goethe può acquisire una visione globale della letteratura europea» (Curtius 1992, p. 13). Da parte sua, Derrida ricorda che «letteratura» è una parola latina, quindi ha poco senso far partire, come pretende Curtius, la letteratura europea con Omero (in Grecia non c’era ancora un’istituzione simile a quella che chiamiamo letteratura) né, del resto, farla finire con Goethe. Si chiede pertanto: «Esiste, nel senso stretto e letterale della parola, qualcosa come la letteratura, come un’istituzione della letteratura e un diritto alla letteratura in una cultura non latino-romano-cristiana, e più generalmente, benché le cose siano qui indissociabili nella loro storia, non europea?» (Derrida 2001, p. 100). E pare incline a rispondere negativamente alla domanda.
Secondo lui, infatti, quand’anche esempi di letteratura, nel senso proprio del termine, fossero reperibili in altri continenti, ciò dipenderebbe comunque da un influsso europeo: «Letteratura è una parola latina. Questa appartenenza non è mai stata semplice, essa viaggia, migra, lavora e si traduce. La filiazione latina si esporta» (Derrida 2001, p. 99). Ma in altre occasioni gli capita di esprimersi in termini ancor più drastici:
«Io sosterrò, a rischio di dire una cosa che appaia eurocentrica, che non esiste letteratura non europea. […] Fuori dall’Europa esiste un certo numero di scritti, di opere, che sono forse più interessanti della letteratura stessa, ma non sono, in senso stretto, letterari. […] Ciò che occorre prendere sul serio, non è solo la parola letteratura, ma tutto l’insieme degli assiomi, delle istituzioni, dei presupposti – un certo numero di cose che costituiscono il concetto di letteratura, che non ha alcun senso fuori dall’Europa. Ora, il fatto che oggi, in uno spazio mondiale, abbiamo una letteratura cinese o una letteratura giapponese significa che questo concetto, con tutto l’insieme di assiomi, nomi e presupposti, persino quelli cristiani, sono stati esportati o mondializzati. Ma il concetto, il nome del concetto, di letteratura è, strettamente parlando, non soltanto europeo ma anche cristiano» (Derrida 2007, pp. 406-407)[16].
Tutto ciò rientra dunque, come un caso particolare, all’interno di quel più vasto processo storico che egli designa col neologismo mondialatinisation (Derrida 1995, pp. 3-73).
Non si può certo dire che il suo ragionamento risulti convincente. È vero che parlare della letteratura come si trattasse di qualcosa che è rimasto immutato attraverso i millenni e i continenti (dall’epopea di Gilgameš fino alla poesia e narrativa contemporanee) comporta una forzatura: se lo si fa abitualmente è soprattutto per ragioni di comodo e sulla base di una convenzione. Tuttavia, non appena Derrida si propone di restringere, nel tempo o nello spazio, l’uso che ritiene preciso del vocabolo «letteratura», insorgono problemi di vario genere. Infatti, se si trattasse della parola in sé, non basterebbe neppure lasciare da parte le culture più lontane nel tempo o quelle extraeuropee. Roland Barthes, riferendosi al termine littérature, ricordava che in Francia «l’idea, se non la cosa, non è molto antica; è un’idea storicamente borghese, nata press’a poco al tempo della Rivoluzione (la parola stessa è del 1762 circa)» (Barthes 1966, p. 11). E su questo, come vedremo fra breve, Derrida concorda. Ma se si prende in considerazione, anziché il vocabolo, il concetto di letteratura, secondo lui le limitazioni dovrebbero spingersi ancora oltre: «Sovente io distinguo la letteratura in senso stretto, che è una cosa moderna, relativamente recente, dalle Belle Lettere, dalla poesia, dal teatro o dall’epica in generale» (Derrida 2004, p. 33). Viene allora spontaneo chiedersi perché mai quel che resta della produzione letteraria una volta detratti da essa l’epos, la lirica, il teatro – dunque quasi unicamente i testi narrativi e memorialistici – dovrebbe essere considerato «letteratura in senso stretto», e quale utilità possa avere, sul piano teorico, una simile opzione.
Quanto poi all’idea secondo cui sarebbe stata l’Europa a trasmettere al mondo il proprio sistema di categorie, valori e pratiche, letteratura inclusa, si tratta palesemente, nonostante le denegazioni derridiane, di una concezione eurocentrica, che non manca di precedenti. Ciò vale nel caso che si veda in tale trasmissione una sorta di dono prezioso offerto ai popoli degli altri continenti, secondo le parole di Valéry: «Di tutte queste realizzazioni, le più numerose, le più sorprendenti, le più feconde sono state compiute da una parte piuttosto ristretta dell’umanità, e su un territorio assai piccolo rispetto all’insieme delle terre abitabili. L’Europa è stato questo luogo privilegiato; l’Europeo, lo spirito europeo l’autore di questi prodigi» (Valery 2014, pp. 1426-1442)[20]. Ma vale anche nel caso che, come Heidegger, si guardi con inquietudine all’avvento di «un’epoca in cui devono prepararsi delle trasformazioni, o nella quale, in primo luogo, questo immane processo di europeizzazione del pianeta giunge semplicemente al suo compimento» (Heidegger 1992, p. 203).
Altro tema tipico di Derrida è quello della letteratura intesa come istituzione legata alla democrazia. Il rapporto viene stabilito sulla base del fatto che chi scrive un testo letterario deve poter disporre di una totale libertà enunciativa. Ecco come il filosofo presenta la questione:
«In generale, insisto sulla possibilità di “dire tutto” come diritto riconosciuto in linea di principio alla letteratura, per indicare non l’irresponsabilità dello scrittore, di chiunque firmi della letteratura, ma la sua iper-responsabilità, ossia il fatto che la sua responsabilità non risponde di fronte alle istanze già costituite. Poter dire tutto a titolo di finzione, o perfino di fantasma, significa indicare che […] la letteratura in senso stretto è un’istituzione indissociabile dal principio democratico, cioè dalla libertà di parlare, di dire o non dire ciò che si vuole dire. Naturalmente so che la letteratura non è sempre vissuta in un regime democratico e che rimuovere la censura, massiccia o sottile che sia, è una faccenda molto complicata. Nondimeno il concetto di letteratura è costruito sul principio del “dire tutto”» (derrida 2004, pp. 32-33).
A giudizio del filosofo, dunque, tale concetto e quello di democrazia sono da ritenersi inscindibili: «Non c’è democrazia senza letteratura, non c’è letteratura senza democrazia. Si può sempre non volerne sapere né dell’una né dell’altra, e non si manca di farne a meno sotto tutti i regimi; si può non considerarle come dei beni incondizionati e dei diritti indispensabili. Ma non si può, in alcun caso, dissociare l’una dall’altra. Nessuna analisi ne sarebbe capace. E ogni volta che un’opera letteraria è censurata, la democrazia è in pericolo» (Derrida 2019, p. 85). È interessante notare che Derrida cerca di correlare fra loro l’idea di una letteratura intesa strictu sensu e la possibilità di «dire tutto», a suo avviso tipica della democrazia: «C’è una storia della letteratura, del concetto di letteratura in senso moderno, che si distinguerà forse dalla Poesia o dalle Belle Lettere. In quanto tale, la letteratura è press’a poco contemporanea di una certa autorizzazione a dire tutto e a non cedere a nessuna censura, cosa che non si può scindere da una certa idea della democrazia o dell’Illuminismo» (Derrida 2011, pp. 105-106). Si manifesta qui la coincidenza quasi perfetta fra l’inizio dell’impiego del vocabolo littérature in Francia, la proclamazione di certi valori di libertà da parte dei filosofi illuministi e l’avvio di quella che, secondo Derrida, costituisce la pratica specificamente letteraria.
Il nesso fra quest’ultima e la democrazia non dev’essere pensato soltanto in rapporto agli ultimi secoli, ma va visto anche come proiettato nel futuro. Il «dire tutto» letterario non cessa di far cenno verso possibilità inesplorate. È quanto Derrida afferma in un’intervista, sostenendo che la letteratura è «quell’istituzione della finzione che offre, in linea di principio, il potere di dire tutto, di affrancarsi dalle regole, di spostarle, dunque di istituire, di inventare e persino di mettere in dubbio la tradizionale differenza tra natura e istituzione, natura e legge convenzionale, natura e storia. Occorrerebbe porre qui delle domande giuridiche e politiche. L’istituzione della letteratura in Occidente, nella sua forma relativamente moderna, è legata a un’autorizzazione a dire tutto, e senza dubbio anche al divenire dell’idea moderna di democrazia. Non in quanto essa dipenda da una democrazia già in atto, ma in quanto mi sembra inseparabile da ciò che invoca una democrazia a venire» (Derrida 2009, p. 257). L’idea verrà ribadita, in forma ancor più sintetica, in un volume successivo, Donner la mort: «La letteratura (in senso stretto: come istituzione occidentale moderna) implica in linea di principio il diritto di dire tutto e nascondere tutto, motivo per cui è inseparabile da una democrazia a venire» (Derrida 2002, 184).
Ma come mai il filosofo associa in più occasioni il diritto di dire a quello di tacere, presentando anzi quest’ultimo come uno dei tratti che accomunano la letteratura alla democrazia? Egli chiarisce altrove che solitamente «il concetto stesso di democrazia è basato sulla responsabilità del soggetto, cioè sul suo dovere di rispondere», ma se una democrazia fosse davvero effettiva «dovrebbe garantire, insieme, il diritto di rispondere e quello di non rispondere» (Derrida, Ferraris 1997, p. 24). Per quanto concerne i testi letterari, Derrida si dichiara affascinato dal fatto che implicano cose non dette, che restano segrete: «Se, pur senza amare la letteratura in generale e per se stessa, io amassi in essa qualcosa che soprattutto non si riduca a una certa qualità estetica, a una certa fonte di godimento formale, sarebbe nel luogo del segreto. Nel luogo d’un segreto assoluto. Lì sarebbe la passione» (Derrida 2019, 85). Questo può apparire in contrasto con la totale libertà enunciativa che dovrebbe caratterizzare tali testi, ma secondo il filosofo non è così: «Esiste nella letteratura, nel segreto esemplare della letteratura, una possibilità di dire tutto lasciando intatto il segreto. Quando ogni ipotesi è concessa, senza fondo e all’infinito, sul significato di un testo o sulle intenzioni ultime di un autore […], quando non ha neppure più senso decidere sulla presenza o meno di un segreto dietro la superficie di una manifestazione testuale (ed è tale situazione che io chiamo testo o traccia), quando è il richiamo di tale segreto che […] tiene in sospeso la nostra passione e ci fa dipendere dall’altro, proprio allora il segreto ci appassiona» (Derrida 2019, pp. 87-89).
Esistono un segreto nella letteratura e un segreto della letteratura, che tuttavia in certo modo coesistono: «Come segreto della letteratura, si trova il potere infinito di mantenere indecidibile, e quindi non svelabile, il segreto di ciò che essa, la letteratura, dice […]. Il segreto della letteratura è pertanto il segreto stesso. È il luogo segreto in cui essa si istituisce come la possibilità stessa del segreto» (Derrida 2003, p. 27). Anche quando uno scrittore sembra voler confessare, in un proprio testo, qualcosa che in precedenza aveva tenuto celato, non sapremo mai se ciò che dice è vero o se si tratta di una finzione, e in ogni caso qualcosa di taciuto permane sempre. Il segreto ha dunque a che fare con la letteratura, che lo «custodisce (garde) assolutamente in proprio possesso pur dandovelo da osservare (re-garder), senza lasciarvi la minima possibilità di appropriarvelo» (Derrida 2003, p. 58).
Talvolta, però, il filosofo sembra riferirsi a qualcosa di più o di diverso dal fatto, innegabile, che ogni testo letterario rilevante contiene in sé una riserva di significati e si presta dunque a letture sempre nuove (il che spiega fra l’altro la sua durevolezza attraverso i secoli). «Erede spergiura, in questo, delle Sacre Scritture, erede nel contempo più che fedele e imperdonabilmente blasfema di tutte le Bibbie, la letteratura resta il luogo assoluto […] del segreto come esperienza della legge venuta dall’altro» (Derrida 2003, p. 58). Si ha qui l’impressione che il non-detto inerente alla letteratura si trasformi in qualcosa di mistico o religioso. Ciò comporta dei rischi, poiché se si sacralizza l’opera d’arte anche il compito di interpretarla può suscitare un eccessivo e irragionevole senso di inadeguatezza: «Sono sempre in colpa di fronte a un’opera, […] perché non arriverò mai a esaurirne il senso, in quanto l’opera eccede sempre ogni appropriazione possibile. Per questo spero e desidero che l’opera mi si doni e mi perdoni, là dove ciò è impossibile, là dove io sono imperdonabile. Non posso commisurarmi a essa. Mi eccede infinitamente, e sono colpevole, pur non avendo commesso alcun crimine: sono colpevole a priori» (Derrida 1998, pp. 32-33).
A questo proposito, la posizione di Derrida appare oscillante, perché se da un lato egli dichiara di non voler sacralizzare i testi che commenta, dall’altro ammette, almeno in parte, di farlo: «Beninteso, io tendo a diffidare delle procedure di sacralizzazione, o in ogni caso ad analizzarle, ad analizzarne le leggi e le fatalità. Provo in effetti ad affrontare i testi non senza rispetto ma senza presupposti religiosi nel senso dogmatico del termine. Tuttavia, nel rispetto al quale mi piego, c’è qualcosa che s’inchina davanti a una sacralità, se non proprio davanti al religioso. […] Ho cercato di mostrare, particolarmente in Donner la mort, che la letteratura, nel senso stretto e moderno, europeo, del termine, conserva la memoria (al tempo stesso sacralizzante, desacralizzante, colpevole, pentita) dei testi sacri, in verità biblici» (Derrida 2010, p. 26). Quest’ultima osservazione in certi casi può essere vera, ma resta comunque indebito voler dedurre da essa che chi si confronta con tali opere letterarie debba attribuire loro un carattere di sacralità.
I diversi modi in cui Derrida si rapporta, nei propri libri, alla nozione di letteratura sono senz’altro originali e interessanti, benché risultino spesso poco persuasivi. Un aspetto che appare invece valido e meritorio è la capacità, della quale egli ha sempre dato prova, di saper muoversi «tra filosofia e letteratura, non rinunciando né all’una né all’altra, cercando forse oscuramente un luogo a partire dal quale la storia di tale frontiera potrebbe essere pensata o persino spostata: nella scrittura stessa e non soltanto in una riflessione storica o teorica» (Derrida 2009, p. 254)
di Giuseppe Zuccarino
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[1] Derrida 2004, pp. 28-29; si avverte che i passi delle traduzioni italiane cui si rimanda vengono spesso citati con modifiche.
[2] Derrida 1999, pp. 227-229). Come precisa Benoît Peeters (in Derrida 2010, p. 131), il deposito del titolo era avvenuto nel 1959, non nel 1957.
[3]Ibid., p. 93 (tr. it. pp. 100-101). Saggi su questi scrittori sono compresi nei volumi derridiani L’écriture et la différence (Derrida 1971) e La dissémination (Derrida 1989).
[5] Osservazioni analoghe si leggono in Premier entretien avec Jacques Derrida: «La Solidarité des vivants» (2004), in Derrida 2016, p. 139: «La letteratura, l’invenzione della letteratura, è un fatto europeo, almeno alla sua origine. Non voglio dire eurocentrico, voglio dire che la letteratura in senso stretto è un’invenzione, un’istituzione europea»
[6] Questo passo viene citato in Derrida 1991, p. 20.
The Sexual Politics of Meat: A Feminist-Vegetarian Critical Theory è stato pubblicato per la prima volta nel 1990 negli Stati Uniti, ma la connessione che opera tra etica vegetariana e femminismo germina nella mente di Carol J. Adams già dal 1974. La natura della relazione tra l’oppressione patriarcale e l’oppressione animale resta a lungo una consapevolezza sfuggente per l’autrice; più di una semplice analogia eppure non ancora definita, visibile solo in trasparenza nella sessualizzazione degli animali e nell’animalizzazione delle donne. La lettura del libro Bearing the word di Margaret Homans le suggerisce nel 1987 la connessione mancante, il referente assente: un concetto che si origina nella linguistica ad indicare la condizione di un segno il cui referente è vuoto, indefinito o mancante. Finalmente dopo oltre vent’anni di studi, confronti e raccolta di materiale questa intuizione prende forma in una complessa e ben documentata teoria che si svolge nelle tre parti fondamentali del libro.
In Italia una prima traduzione di alcuni capitoli è stata proposta dalla rivista di critica antispecista “Liberazioni”, infine il libro integrale e completo di diverse prefazioni è stato tradotto e pubblicato dalla casa editrice VandA col titolo Carne da macello. La politica sessuale della carne.
Carne da macello è soprattutto un libro che riflette sul linguaggio e sui discorsi che costituiscono le relazioni del potere dell’uomo sulla donna e dell’umano sull’animale, collocandosi a pieno titolo nell’area dell’ecofemminismo vegetariano.
Gli argomenti patriarcali della carne
Nella prima parte del testo l’autrice illustra i vari aspetti di quella che definisce “la politica sessuale della carne”, mostrando innanzitutto come il consumo di carne sia parte fondamentale della costruzione dell’identità di genere maschile eteronormata (e cis-normata, si potrebbe aggiungere) nel mondo occidentale, attraverso la creazione del mito della virilità che si nutre contemporaneamente dei corpi animali e dei corpi femminili. «Mangiare carne misura la virilità individuale e sociale» (p. 57). La carne è l’alimento del vero uomo, pertanto la donna ne è spesso esclusa. «Quest’abitudine patriarcale si risconta ovunque» (p. 58) sia nelle civiltà che l’autrice definisce tecnologiche sia in quelle che definisce non tecnologiche, dall’Indonesia passando per l’Africa Equatoriale fino all’Europa (pp. 58-59). L’esclusione delle donne dal banchetto di carne nell’Occidente bianco è anche stata una pratica patriarcale di controllo sul corpo e sulla sessualità femminile (si veda Fobia della carne?, p. 281). Se la carne è l’alimento virile che porta forza, vigore e capacità di agire violenza, allora i vegetali come cereali, verdure, legumi e frutta sono alimenti femminili, femminilizzanti e passivi. La carne diviene simbolo del patriarcato e «gli uomini che scelgono di non mangiare carne ripudiano uno dei loro privilegi maschili» (p. 76).
Nell’Occidente razzista e coloniale la carne è l’alimento del vero uomo, e dunque dell’uomo bianco. Nel capitolo La politica razziale della carne (p. 62) l’autrice riassume e mostra chiaramente l’intersezione tra discorso carneo e oppressione colonialista e razzista. Dal momento che «la gerarchia delle proteine della carne rinforza la gerarchia della razza, della classe e del sesso» (p. 63), l’idea che la carne sia la migliore e insostituibile fonte di proteine perpetra un discorso alimentare razzista, non solo misogino[1].
Lo stupro degli animali, la macellazione delle donne.
Il secondo fondamentale nesso tra cultura carnea e patriarcale viene esplicato nel secondo capitolo, ed è l’intuizione forse più importante nel lavoro di Carol J. Adams. Come sostiene l’autrice, «attraverso la macellazione gli animali diventano referenti assenti» (p. 81) in tre modi: vengono fisicamente uccisi, i pezzi del loro corpo vengono rinominati per poter essere consumati, e infine diventano metafore per descrivere esperienze umane di violenza estrema. Nel nostro orizzonte culturale il mangiar carne è possibile in quanto l’animale è linguisticamente celato dai termini che trasfigurano in pietanze le parti del suo corpo fatto a pezzi. Dispositivo certamente vero per i grandi mammiferi (ovini, bovini e suini) trasformati dal coltello del macellaio in filetti, pancetta, prosciutto, arrosto, bistecche e polpettoni, ma quasi inesistente per gli animali che suscitano minore empatia da parte dell’umano: insetti, pesci e uccelli. «La somiglianza tra un uccello morto e uno vivo sfida la struttura del referente assente, perché il corpo dell’uccello vivo continua ad essere un referente anche da morto. Non è assente neanche quando viene consumato» (p. 315).
Le stesse vittime di violenza e stupro, e così molti dei discorsi femministi, usano il referente assente animale come paragone per descrivere la propria esperienza di estrema vulnerabilità e violenza subita: «sentirsi come un pezzo di carne significa essere trattati come un oggetto inerte mentre si è (o si era) un essere vivente senziente» (p. 105). Adams decide di usare consapevolmente la donna come referente assente nel descrivere “lo stupro degli animali” proprio per suscitare una riflessione in quella parte del mondo femminista che si appropria del referente assente animale senza però riconoscere ed includere nella propria lotta l’oppressione animale. Per Adams il femminismo è necessariamente vegetariano[2].
Il corpo delle donne viene usato come referente assente metaforico anche nella sessualizzazione degli animali. La sessualizzazione degli animali – o dei loro pezzi smembrati – è profondamente radicata nell’immaginario comune e commerciale, ed è evidente soprattutto attraverso il linguaggio della pubblicità. La sessualizzazione dell’immagine femminile è una delle caratteristiche iconiche dell’oppressione patriarcale e viene sfruttata dall’industria del marketing in ogni contesto possibile, dalla vendita di vernici alla promozione di spazzolini da denti. Eppure nell’ambito del consumo di carne – sempre rivolto al pubblico maschile – il linguaggio simbolico cambia registro. A questo proposito Carol J. Adams ha raccolto nei decenni una mole impressionante di materiale da tutto il mondo, confluito nell’opera The Pornography of Meat. L’ormai iconica Ursula Hamdress è sconcertante nella sua esplicitezza: un maiale morto (o sedato?) vestito come una pin-up e messo in una grottesca posa seducente su una rivista che non a caso si chiama Play Boar. Tra le diverse immagini raccolte appare immediatamente come nella commercializzazione della carne la figura femminile non sia semplicemente seducente e sessualizzata, come in altri ambiti, ma rimandi chiaramente ad un immaginario di stupro e violenza, fino ad una vera e propria macellazione. Lo stesso immaginario che si appropria dei corpi animali senza consenso, anzi che li rappresenta disponibili e felici di essere consumati, rappresenta allo stesso modo anche la donna/animale che ne promuove i prodotti: un oggetto che non necessita di consenso e invita al possesso totale. La sovrapposizione dei due referenti assenti collega la violenza sulle donne e quella sugli animali, normalizzandole e legittimandole, rendendole a tutti gli effetti strutturali e invisibili. I corpi femminili e quelli animali vengono descritti come corpi passivi, disponibili, consumabili dall’appetito maschile.
Il testo evolve poi in un’analisi accurata del dominio patriarcale sul linguaggio utilizzato per mascherare la violenza e la reificazione del referente assente, intersecando intuizioni femministe e un’analisi linguistica che resta fruibile soprattutto nella critica all’antropocentrismo e al maschio-centrismo, ma che purtroppo è in parte lost in translation passando dall’inglese all’italiano. Sicuramente importante in questa sezione è la connessione tra la pratica femminista e la pratica vegetariana/antispecista, impegnate ad esplicitare la violenza linguistica per opporvi una descrizione letterale (ad esempio: mangiare cadaveri) spogliata dal significato simbolico del referente assente. «Così come le femministe dichiarano che “lo stupro è violenza, non sesso” i vegetariani desiderano nominare la violenza del mangiar carne» (p. 130).
Proprio in questa sezione viene affrontato un termine cruciale per contestualizzare l’opera di Carol J. Adams, ovvero le proteine femminilizzate (p. 146). Per quanto nel testo l’autrice parli di vegetarianesimo, è lei in primis a dirsi vegana e ad includere nella sua critica anche lo sfruttamento animale finalizzato a produrre latte e uova. Proprio questi prodotti vengono definiti come proteine femminilizzate, in quanto prodotti da corpi femminili. L’autrice rileva inoltre come anche nella produzione di carne «noi ci sosteniamo in larga misura con carne femminile» (p. 135) e «mangiamo continuamente le madri […] proclamiamo e rinforziamo il trionfo del dominio maschile mangiando pezzi di carne identificati al femminile» (p. 325).
In questa denominazione Adams rende esplicita una visione comune nel femminismo della seconda ondata da cui si origina il suo pensiero, ovvero la sovrapposizione del sesso e del genere. È un punto problematico perché rinforza una connessione che sta alle fondamenta stesse del sistema etero-cis-patriarcale, ovvero quella tra il corpo femminile e la capacità riproduttiva, tra la donna e l’utero. Connessione che non solo ci ingabbia – in quanto donne – in un destino riproduttivo, ma che esclude dal genere femminile le persone che non hanno una capacità riproduttiva di questo tipo, ad esempio tutte le persone trans e intersex che si identificano col genere femminile. Questo tema rappresenta uno dei fronti più caldi dell’attuale dibattito tra femminismo e transfemminismo, e risulta quindi di particolare interesse analizzare in prospettiva il libro di Adams. Sarebbe interessante anche interrogarsi sulla validità del costrutto culturale umano del genere applicato al mondo animale, un interrogativo che apre scenari che vanno ben oltre questa analisi.
Dal ventre di Zeus
La seconda parte del libro si concentra su un’antologia storico-letteraria che tratteggia una profonda connessione tra femminismo e vegetarianesimo in Gran Bretagna e negli Stati Uniti partendo dal 1790 ad oggi. Un’analisi storica e letteraria che si interroga sulle caratteristiche del linguaggio letterario vegetariano, la “parola vegetariana” che sfida sia la politica sessuale della carne sia il ruolo della donna. Adams parte dalla letteratura inglese dell’Ottocento, dai circoli del vegetarianesimo romantico e dal movimento inglese per il suffragio delle donne (da Mary Shelley con il suo Frankenstein, la cui creatura era vegetariana, alla mitopoiesi di un mondo arcaico, un’età dell’oro vegetariana e matriarcale), analizzando poi i testi prodotti dopo la Grande Guerra, dove appare fortemente centrato il tema del pacifismo e del rifiuto della guerra. Certamente un corpus di testi notevoli e tradizionalmente mai considerati nel loro complesso come parte di una letteratura di ribellione nei confronti dell’alimentazione carnea e dell’oppressione animale, oltre che femminile. Purtroppo resta assente da questa antologia una delle voci femministe più potenti, la comunarda e anarchica Louise Michel, il cui pensiero circa la comune origine dell’oppressione e della violenza su animali e umani – in particolar modo sulle donne – è pionieristico nell’Europa della seconda metà dell’Ottocento. [3]
Mangia riso e abbi fede nelle donne
Nella terza parte del libro Adams identifica quattro fasi storiche della storia umana: la prima è stata il vegetarianismo, seguita dalla caccia, poi dall’agricoltura di sussistenza e infine nell’Occidente industriale dall’agrobusiness zootecnico – esportato attraverso il colonialismo in tutto il mondo. Queste fasi coincidono con una sempre maggiore perdita di potere da parte delle donne e una crescita di intensità da parte del patriarcato ed inoltre con la perdita della salute, perché il nostro corpo sarebbe naturalmente vegetariano (pp. 261-264). Questo “corpo vegetariano” è anche un corpo che si riappropria del controllo e della libertà su sé stesso, un corpo autodeterminato: in questo contesto il vegetarianismo diventa necessariamente una pratica femminista, dal personale al politico. L’autodeterminazione del corpo vegetariano suscita naturalmente una violenta reazione da parte della norma carnea, che opera distorsioni notevoli per sminuire, ridicolizzare e silenziare l’esperienza vegetariana.
L’autrice si spinge oltre nella sua analisi storica, analizzando specificamente le teorie di Sylvester Graham, divulgatore vegetariano ed igienista del XIX secolo piuttosto controverso per le sue idee sull’astinenza sessuale e sulla masturbazione, che influenzarono anche i fratelli Kellogs (i famosi cereali nacquero come rimedio dietetico contro la masturbazione degli adolescenti). Proprio attraverso le teorie igieniste di Graham il vegetarianismo interessò alcuni discorsi femministi per una serie di ragioni: il rifiuto della carne come riappropriazione del proprio corpo e della propria autonomia, la liberazione dalla schiavitù dei fornelli per le lunghe preparazioni di pasti di carne per il marito, e infine persino come tentativo di controllo della sessualità maschile come mezzo di protezione della donna e di controllo delle nascite. Un interessante precedente storico che dimostra l’attrattiva vegetariana in termini di autonomia, anche se francamente poco auspicabile per i suoi risvolti moraleggianti e sessuofobici.
Nell’ultimo capitolo l’autrice ci invita infine a ricostruire la storia del femminismo in un’ottica vegetariana e a sviluppare una teoria e una pratica femminista-vegetariana intersezionale contro il mondo carnivoro e patriarcale. Rinunciando al privilegio di specie dell’alimentazione carnea e dando voce alle donne che ne parlano si sfida la politica sessuale della carne ad ogni pasto, ad ogni lettura. Una call to action che definisce Carne da macello non solo come un saggio femminista sul linguaggio patriarcale che sottende la violenza comune contro animali e donne, ma come un libro militante che invita ad un’azione personale e diretta i cui mezzi siano in accordo con i fini.
Nella prefazione all’edizione per il decimo anniversario, Carol J. Adams scrive:
«Non propongo nemmeno una visione essenzialista delle donne. Non credo affatto che le donne siano per natura più protettive degli uomini o abbiano un’indole pacifista, malgrado molte fonti femministe vegetariane ne siano convinte. Io credo che chi possiede meno potere, all’interno di una cultura dominante, sia più incline a cogliere altre forme di sottomissione. Le posizioni di privilegio resistono all’autocritica, quelle di sottomissione no» (p. 34).
Una puntualizzazione necessaria perché lungo tutto il libro, e soprattutto nella scelta e nell’analisi dei testi proposti, si ritrova continuamente l’archetipo patriarcale della madre protettiva, l’associazione tra natura e femminile, l’eterno ritorno delle dicotomie binarie di maschile e femminile, natura e cultura, animale e umano. Sicuramente in questo testo non si opera una sufficiente critica dell’adesione alle norme del genere e una convincente decostruzione dei binarismi che Adams stessa identifica come base fondante della gerarchia uomo bianco / non bianco / donna / animale. Nonostante questo, Carne da macello resta una pietra miliare di necessaria lettura all’interno del discorso eco-femminista e antispecista, insieme ad altre autrici come, per esempio, Greta Gaard. Inoltre, nei trent’anni trascorsi dalla prima pubblicazione del libro, in tutto il mondo si sono sviluppate teorie e pratiche antispeciste, transfemministe decoloniali e queer che ci mostrano come sia possibile attualizzare l’opera di Carol J. Adams e ripristinare il referente assente senza aderire a nessuna forma di essenzialismo sulla natura maschile e femminile e sulla definizione del genere binario legato al sesso biologico.
di CDL Felix
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Note
[1] Per un approfondimento sui temi di veganismo nero e decoloniale si veda delle sorelle Aph Ko e Syl Ko, AFRO-ISMO. Cultura pop, femminismo e veganismo nero, VandA, Milano 2020.
[2] «Il pensiero femminista radicale partecipa linguisticamente allo sfruttamento e alla negazione del referente assente. Macella lo scambio culturale animale/donna raffigurato nello schema del referente assente e rivolge il proprio interesse esclusivamente alle donne, capitolando così di fronte a quel referente assente che appartiene alla stessa struttura che vorrebbe modificare.» Carol J. Adams, Carne da macello, p. 117.
[3] «Nel fondo della mia rivolta contro i forti, il più remoto orrore che ricordo è per le torture inflitte alle bestie. […] È che tutto va insieme, dall’uccello di cui si distrugge la covata, fino ai nidi umani decimati dalla guerra. La bestia muore di fame nella sua tana di terra, l’uomo muore lontano dai confini. E il cuore della bestia è come quello umano, il suo cervello è come quello umano, suscettibile di sentire e di comprendere. Malgrado si calpestino i diritti e la vita degli animali, calore e scintilla si risvegliano sempre.Fino allo scolatoio del laboratorio, la bestia è sensibile alle carezze o alle brutalità. È soggetta più spesso alla brutalità. Quando una sua parte del corpo è sviscerata, si continua con l’altra, talvolta, malgrado le corde la immobilizzino, si torce per il dolore nel tessuto delicato delle sue carni in cui si lavora. Allora una minaccia o un colpo gli insegna che l’uomo è il re degli animali. […] Forse la nuova umanità, al posto delle carni putrefatte a cui siamo abituati, avrà degli impasti chimici contenenti più ferro e principi nutrienti privi di sangue e della carne che assorbiamo». Louise Michel, è che il potere è maledetto e per questo io sono anarchica, a cura di Anna Maria Farabbi, Il Ponte Editore, Firenze 2017, p. 145.
Inevitabilmente, la considerazione più immediata che ci assale quando pensiamo ad un vortice è quella di un fenomeno caratterizzato da un movimento incontrollato, un flusso o un risucchio in un evento in cui non si può trovare ordine o fine. Anche la letteratura ci ha lasciato tale concezione del vortice, si pensi al turbine di anime lussuriose descritte da Dante nel V canto della Divina Commedia, scosse eternamente in tutte le direzioni dai venti infernali a espiazione del loro peccato. Il lavoro di Tuppini però si propone di trasformare tale concezione del vortice, presentandolo invece come un modello esperienziale proprio dell’uomo e, più generalmente, come uno schema ontologico riscontrabile in più aspetti del reale. Il libro, infatti, analizza il concetto di vortice sotto vari punti di vista: culturale, artistico, psichico e fisico, mostrando come noi, volenti o nolenti, siamo costantemente trascinati in un vortice.
Tommaso Tuppini è professore associato di filosofia teoretica presso l’Università di Verona. I suoi campi di studio si muovono dalla filosofia morale, nello specifico il criticismo kantiano, all’ontologia, specialmente in ambito americano e fino al post-strutturalismo francese. Questa varietà di interessi viene espressa in Vortici: si coglie molto bene come l’autore sappia far dialogare tra loro diverse correnti e aspetti del pensiero.
Il testo inizia con una disamina ontologica e teoretica del concetto di vortice, prendendo subito le distanze dalla teoria definita del “trascendentalismo”, cioè quel pensiero che ricerca costantemente un fondamento altro (trascendentale) su cui fondare la realtà, affermando invece come il vortice sia una messa in discussione di tale paradigma. Tuppini, rifacendosi alla Object Oriented Ontology americana, afferma che la critica principale da muovere al trascendentalismo è quella di un’impropria assunzione dell’uomo come unico ente-soggetto in grado di ordinare la realtà, mentre l’intera esistenza non è altro che un’interdipendenza di relazioni tra soggetti che popolano il mondo, piante, animali e computer, che formano una rete, un vortice di esperienze e legami tra di essi: «se l’essere è partizione, è sbagliato pensare che qualcuno o qualcosa eserciti un possesso esclusivo su un tratto ontologico qualsiasi» (p.7). Perciò non è solamente l’esistenza umana ad essere esperienziale, ma lo sono tutte, in opposizione alle teorie che esaltano un accesso privilegiato ed esclusivo all’ente, quali il soggettivismo estremo, il relazionismo radicale e il sostanzialismo. L’autore conia in queste pagine un’analogia che tornerà continuamente nel corso del testo, quella della rete. L’esistenza infatti si può esprime con la figura della rete e gli enti-soggetti mondani come i fili che costituiscono tale tessuto, creando nodi e intrecci nel loro relazionarsi. L’incontro dato dai fili è casuale, senza fine o programmazione e questo intreccio non è altro che l’interdipendenza tra i vari soggetti dell’esistenza che in tal modo possono individuarsi. Questo è il vortice: «Le cose si individuano secedendo da un ambiente con il quale però non smettono di comunicare. Individuarsi significa stringere un nodo che si distingue dall’ambiente nel quale è immerso, cioè dai fili con i quali il nodo è stato tessuto» (p. 10). Così il vortice si presenta come un punto di non determinazione del reale, il quale sfugge da mere classificazioni teoriche, mantenendosi e cancellandosi per via dei suoi stessi elementi costitutivi. Esso è sempre in bilico tra organizzazione e disorganizzazione dell’esperienza, essendo l’instabilità, l’esser turbolenza, l’aspetto più insito e profondo del vortice. Ma esso, in tale processo, genera anche degli effetti che sono stabili, cioè delle relazioni. Pertanto, il vortice è un tessuto di nodi che formano il reale, il quale regola gli scambi energetici tra le parti che lo costituiscono mettendo il tutto in reciproca comunicazione. Il vortice è «un vuoto, una soglia di passaggio, uno spazio di articolazione» (p.20), un canale tra passato e futuro, senza sostanza o individualità in sé, che genera un movimento spiralico del reale.
Queste sono dunque le basi teoriche su cui si muove il testo di Tuppini: mostrare come il vortice sia una struttura energetica che attraversa la realtà, il virtuale, la società, le arti e la psiche, e come esso si possa utilizzare come strumento analogico per interpretare il mondo e dar ragione delle sue differenze. Il lavoro svolto nelle pagine introduttive consiste nel mostrare il piano concettuale sul quale si intende lavorare e dal quale creare, nei successivi capitoli, le varie esemplificazioni del vortice, realizzando una rete che tiene insieme i testi di De Sade e Merleau-Ponty, la mescalina e il gioco degli scacchi, arrivando fino alle particelle atomiche e alla cinematografia contemporanea.
Il primo confronto con un vortice che viene presentato nel libro è quello presente nel De Sade letto da Bataille. Questi autori si oppongono a ciò che viene definita la “società omogenea”, cioè il mondo in cui viviamo, riassumibile dal binomio lavoro-consumo. Gli scritti di De Sade, secondo Bataille, sono un solvente per tale società. Egli, nei testi del nobile francese, trova quel lato recondito che non ha espressione in altri posti. L’autore sintetizza questo fenomeno con il concetto di scarto o «escrezione» (p.27), cioè la produzione di impulsi ambivalenti dati dall’incontro con un corpo estraneo, sul quale agiamo e che al contempo agisce su di noi. L’escrezione è l’atto finale di un vortice in cui oggetto e soggetto fuoriescono come esausti e dal quale emergono gli aspetti più nascosti di entrambi. Questo è un bisogno che non riusciamo a controllare e a spiegare, ma a cui diamo il nome di godimento, cioè «la condizione di massima intensità ed eterogeneità di cui il vortice umano può fare sperienza» (p.34). Il capitolo si conclude con la presentazione dei due tipi di vortici presenti nei testi di De Sade, la rivoluzione e l’apatia. Il primo viene definito come l’articolazione esterna e interna del godimento, data dall’intreccio di potenza tra individui, un accrescimento del singolo nel piacere, un vortice che si diffonde e si perpetua. L’altro vortice è invece quello dell’apatia, cioè dell’indifferenza, la solitudine che muove gli uomini nel mondo tra un godimento e l’altro, e che esemplifica la chiusura e l’oppressione presente dentro di noi. Ma unicamente dal contatto tra queste due entità, conclude Tuppini, si sprigiona il vortice dell’energia che De Sade ci descrive e dal quale siamo travolti.
Il vortice però non è appannaggio esclusivo della letteratura. Un altro campo nel quale esso si dà è quello psichico-percettivo, come espresso nel capitolo Sensazione e sonno e in quello denominato Mescalina. Nelle pagine di Sensazione e sonno viene analizzato il rapporto che oggigiorno noi abbiamo con il dormire e di come esso sia in simbiosi con la percezione. Infatti, non solo un corretto ciclo del sonno influisce sulla nostra sensazione, ma la stessa esperienza onirica è da considerare come un evento sensitivo. Bisogna specificare, però, che la sensazione non è percezione, poiché non è chiara e distinta, come direbbe Cartesio, ed ha, secondo Merleau-Ponty uno «statuto pre-intenzionale» (p.46). Con la sensazione, come nel sonno, noi abbiamo davanti a noi delle qualità sensibili non ben specificate, mai definitive o definite: la sensazione è quel senso di vaghezza prima di una percezione-comprensione. Perciò la sensazione è un vortice, un flusso di elementi differenti che appena vengono elaborati svaniscono, un movimento o una distonia, come viene chiamata nel testo. Questo fenomeno è analogo a quello del sonno, della confusione onirica notturna, in cui i flussi di pensieri sono in perenne movimento senza mai darsi completamente, dispiegando una nuova dimensione in cui l’asse del vortice è il soggetto assopito nel quale nuove relazioni si danno e si disfano continuamente. Così anche il sonno, il più tranquillo dei momenti, cela in realtà un quieto trambusto di sensazioni che termina con il destarsi del corpo e la lucidità del risveglio. Ma non solo nel riposo è possibile alterare la nostra comprensione, anche nel mondo fattuale è praticabile una distorsione della percezione, ad esempio con l’utilizzo di droghe psichedeliche come la mescalina. Ovviamente Tuppini non intende fare un’apologia di tali sostanze, vuole invece esporre come gli allucinogeni siano una droga-vortice per l’accesso ad un campo extrasensoriale. Di fatto quello della mescalina non è propriamente un vortice, ma una turbolenza, poiché non presenta ordine ma solo dis-ordine, «La turbolenza mescalinica è uno stato incoativo che si prolunga oltre ogni limite dentro uno spazio che rigurgita, spazio di gestazione, di trasformazione, di moltiplicazione, proliferazione sterile» (p.67). Colui che assume tale sostanza perde la sua soggettività intenzionale, esso non sa più distinguere i confini spaziali diventando un flusso continuo con l’esperienza. Il risultato è un movimento che non si può fermare ma, a differenza del sonno, non è un vagare confusionario, bensì uno scendere nel profondo della realtà, un vagliare le varietà di forme del mondo con un cambio prospettico su di queste. Il trip derivante dall’allucinogeno è come un’onda che si espande per poi dissolversi, un vortice che crea un altro vortice, un giramento infinito senza causa.
Il vortice però ha anche un fascino artistico, il suo movimento fluido è stato d’ispirazione per moltissime correnti culturali ed esso «diventa immagine quando il nodo di cui è fatto riesce a catturare l’immagine» (p.82). Questo concetto lo fece proprio il Vorticismo inglese, nato sotto l’influenza del futurismo italiano agli inizi del 1900, ed è, come l’ispiratore italiano, un’avanguardia non solamente pittorica, ma anche poetica e sociale. Tuppini si sofferma in particolare sull’interesse di molti esponenti di questo movimento per il gioco degli scacchi, mostrando come anche un gioco così estremamente codificato celi dentro di sé un vortice. Esso è un gioco di movimento e torsi, di incontro e di scontro tra pezzi, un annodarsi di mosse che crea la rete della scacchiera. Tale idea di vortice come struttura viene poi ripresa e approfondita nel capitolo successivo, Atomo, dove l’autore illustra in che modo il costituente basilare dell’esistenza, il mattone più piccolo dell’universo, cioè l’atomo, per via analogica si possa interpretare come un vortice che trasversalmente attraversa, con il suo movimento vorticoso, ogni ordine e grandezza. Tuppini avvalora queste sue tesi sull’atomo come forma energetica riprendendo gli esperimenti di inizio Novecento sul mulinello idraulico, condotti dai fisici inglesi Willliam Thomson e Peter Tait. Costoro sostennero che l’atomo vorticoso faccia sfumare con il suo movimento la materia, rivelando come questa non sia alla fine che un intreccio di energie in movimento, «L’atomo vorticoso è semmai una materia energetica o un’energia materiale» (p. 100). Quest’atomo si esprime con il moto a spirale, presentato lungo tutto il corso del libro, dando come risultato un cono, un vortice, nel quale si incontrano le varie dimensioni spazio-temporali e gli stessi elementi si danno e si disfano nel loro relazionarsi. Così in queste pagine viene confermata la tesi iniziale: tutto è vortice e ogni entità vi è dentro.
L’ultimo aspetto trattato dal libro è quello del movimento, presentato nel sesto capitolo del testo: Kìnêma. Il titolo del capitolo è una ripresa del termine greco kinesi, movimento, dal quale deriva la nostra parola cinema, essendo il cinema un fenomeno che è al contempo statico e in movimento, e che in greco si esprime appunto con la parola kìnêma, mosso. La particolarità di questa sezione, però, risiede nel fatto che l’autore esponga questa tematica attraverso l’analisi cinematografica del film Uncut Gems. Il parallelismo condotto durante tutto il capitolo è quello tra le tesi di Zenone di Elea sul movimento e le vicissitudini del protagonista di Uncut Gems, un gioielliere ebreo di New York che vive immerso nei debiti di gioco e che ha l’opportunità di vendere un prezioso opale per fare la “vincita della sua vita”. Tuppini, riprendendo l’insegnamento zenoniano per cui, «ciò che si muove non si muove né nel luogo in cui è, né nel luogo in cui non è» (p. 115) mostra come il movimento verso un luogo, da A a B, sia illusorio poiché composto e mediato da infinite tappe intermedie; così come il protagonista del film che non esce mai dal circolo delle scommesse e dei debiti, la sua corsa verso la vincita è sempre spezzata da molteplici insuccessi. Il risultato ultimo è quello di mostrare come sia impossibile assegnare al movimento un valore assoluto, essendo questo fisico e mentale, lento e veloce, regressivo e progressivo, ossia imprevedibile. Oltre all’analisi di Uncut Gems, Tuppini mostra come il genere cinematografico sia immerso nella questione filosofica del movimento, essendo il film, nella sua composizione, un susseguirsi di fotogrammi, mentre il risultato finale è un unico flusso continuo di immagini. Il primo punto di vista è quello dello sceneggiatore, il quale deve comporre l’azione del film, mentre il secondo caso è relativo allo spettatore, che nel film deve trovare quella coerenza che si aspetta dalla trama. Eppure, anche nel movimento vorticoso del cinema, che sia in fotogrammi o in un flusso, è presente un momento in cui il moto e l’immobilismo della scena si incontrano: l’attimo del primo piano, poiché «Il primo piano scioglie e riannoda il tessuto del racconto» (p.135). Questa tecnica registica conferisce o toglie il senso alla trama, è un coinvolgimento, anche emotivo, con il personaggio, un face to face tra lo spettatore e l’attore. Questo è l’attimo in cui movimento e paralisi, corpo mosso e corpo fermo si danno, cioè il kìnêma.
In conclusione, il vortice studiato e presentato da Tuppini nel corso del libro non è altro che il movimento, la sensazione e la turbolenza che incontriamo negli eventi con cui ci relazioniamo e con il quale dobbiamo intessere una rete composta da nodi esperienziali, i quali compongono i caratteri più profondi di questo sistema e, dunque, della nostra esistenza.
A distanza di oltre trent’anni dalla prima traduzione italiana per Laterza, Meltemi ripubblica i Diari segreti di Ludwig Wittgenstein, formidabile documento di un’epoca, di una temperie culturale, di una vita. Scritte durante la Prima guerra mondiale, mentre il filosofo era impegnato come volontario al fronte, le annotazioni qui pubblicate costituiscono una parte degli appunti presi da Wittgenstein nel periodo 1914-1916. Ma, come suggerisce il titolo, questi diari hanno la particolarità di essere scritti in codice: «dividendo la sequenza alfabetica a metà, Wittgenstein sostituiva simmetricamente le lettere, vale a dire al posto della “a” (prima lettera) scriveva la “z” (ultima), al posto della “b” la “w” ecc., e viceversa» (p. 160). Appunti criptati, dunque, il cui contenuto si rivela da subito molto personale: sfoghi sulle condizioni di vita in guerra, considerazioni sui commilitoni («le persone con cui sto, più che volgari, sono incredibilmente limitate!», 8.5.’16), resoconti sull’avanzamento della riflessione filosofica (indicata da Wittgenstein semplicemente come «il lavoro»), ma anche preghiere («Oggi dormo sotto il fuoco della fanteria, e probabilmente perirò. Dio sia con me! Per sempre. Amen», 16.5.’16), meditazioni sul senso della vita, unitamente a più prosaiche descrizioni delle pratiche igieniche e delle abitudini sessuali del filosofo. La condizione materiale del linguaggio cifrato e la qualità dei contenuti convinsero Elisabeth Anscombe e George H. von Wright, esecutori letterari di Wittgenstein, a non includere queste annotazioni nell’edizione dei Quaderni 1914-1916, i cui appunti provengono dagli stessi taccuini ma sono scritti in chiaro. Come scrive nella prefazione Luigi Perissinotto, la mancata inclusione di questi materiali nell’edizione dei Quaderni costituisce un importante capitolo della ricezione del pensiero di Wittgenstein e risponde a precise scelte di ordine interpretativo: secondo Anscombe evidentemente la biografia doveva essere tenuta ben distinta dal pensiero filosofico, evitando commistioni mosse da indebiti pruriti voyeuristici.
Quello che Anscombe sembra qui suggerire è che solo una malsana e ben poco filosofia curiosità poteva giustificare la pubblicazione di annotazioni che lo stesso Wittgenstein aveva inteso proteggere con un codice, lasciandoci così intendere che esse non dovessero essere divulgate. Non è facile, tuttavia, condividere questo atteggiamento. Innanzitutto, perché esso si basa sull’assunto, tutt’altro che scontato, che nel lascito di un filosofo il materiale privato (il personale) sia sempre facilmente distinguibile dal pubblico (dal filosofico). Forse questo vale per alcuni filosofi o tipi di filosofi, ma non è affatto certo che valga anche per Wittgenstein o per quel tipo di filosofo che egli era o aspirava a essere (p. 14).
Perissinotto argomenta in maniera convincente a favore della ‘filosoficità’ degli appunti personali di Wittgenstein, nell’ottica di una confluenza tra vita e pensiero che tende all’indiscernibilità dei due poli. Sono due in particolare le circostanze riportate nei Diari segreti che vengono indicate come particolarmente significative sul piano teoretico: la lettura di Nietzsche, e più precisamente dell’ottavo volume dell’opere (quello contenente l’Anticristo), e la ‘svolta’ del luglio 1916, in cui Wittgenstein prospetta una connessione tra le sue ricerche sulla logica e la tematica etica, che diventerà preponderante nelle proposizioni conclusive del Tractatus logico-philosophicus.
Partiamo da quest’ultimo punto. Il 6 luglio 1916 Wittgenstein annota in una pagina di quelli che diventeranno i Diari segreti: «Nell’ultimo mese ho avuto colossali strapazzi. Ho riflettuto a lungo su ogni cosa possibile, però stranamente non riesco a stabilire una connessione con i miei ragionamenti matematici». Il giorno dopo però aggiunge: «Ma la connessione verrà stabilita! Ciò che non può dirsi, non può dirsi”». Senza trascurare l’evidente assonanza tra questa ultima esclamazione e la prop. 7 del Tractatus, è interessante qui accostare la pagina criptata alla pagina in chiaro, quella pubblicata nei Quaderni 1914-1916. Già l’annotazione dell’11 giugno introduceva riflessioni su Dio e sul fine della vita apparentemente estranee all’indagine filosofica fino ad allora condotta da Wittgenstein. Gli appunti del 5 luglio e dei giorni immediatamente successivi testimoniano un approfondimento di questo genere di riflessioni, che potrebbero sembrare osservazioni vibranti ma estemporanee o in ogni caso non connesse in maniera organica al resto delle riflessioni, di ordine logico-matematico. La pagina dei Diari segreti in questo caso chiarisce come lo stesso autore considerasse i due versanti del suo pensiero destinati a connettersi. Difficile negare dunque il valore filosofico di un appunto che, sebbene criptato (e dunque, secondo i curatori dei Quaderni, strettamente personale), risulta della massima importanza sul piano interpretativo.
L’altra circostanza cui si faceva riferimento, la lettura di Nietzsche condotta da Wittgenstein al fronte, risulta ancora più evidente e dimostra non soltanto l’interesse filosofico dei Diari, ma anche la già menzionata indiscernibilità tra vita e pensiero. Durante la sua esperienza come volontario, Wittgenstein legge alcuni autori che si riveleranno particolarmente significativi per il suo lavoro. Nei Diari vengono citati Tolstoj, Emerson e, appunto, Nietzsche:
Nella mattina ho marcato visita a causa del piede: distorsione muscolare. Non ho lavorato molto. Ho comprato l’ottavo tomo di Nietzsche e ne ho letto una parte. Sono rimasto fortemente colpito dalla sua avversità al cristianesimo. Perché anche nei suoi scritti è contenuto qualcosa di vero. Certamente il cristianesimo è l’unica via sicura per la felicità. Ma che succede se si rifiuta quel tipo di felicità?! Non sarebbe meglio andare tristemente alla deriva nella lotta senza speranza contro il mondo esterno? Ma una vita del genere è priva di senso. E perché non condurre una vita senza senso? È indegno? Come si accorda questo con il punto di vista rigorosamente solipsistico? Ma cosa devo fare affinché la mia vita non vada sprecata? Devo sempre essere cosciente dello spirito – esserne sempre cosciente – (8.12.’14).
Un filosofo che legge un altro filosofo è una circostanza evidentemente non solo biografica, così come sostiene Perissinotto. Ma un antifilosofo che legge un altro antifilosofo è un evento in cui teoria e vita tendono a coincidere. È questo il punto di partenza dell’interpretazione di Wittgenstein proposta da Alain Badiou, che inserisce l’autore del Tractatus nell’album di famiglia degli antifilosofi, accostandolo in questo modo proprio a Nietzsche e citando esplicitamente la lettura dell’Anticristo condotta da Wittgenstein al fronte. Scrive Badiou, dopo aver ricordato l’appunto wittgensteiniano citato poc’anzi:
La nostra prima domanda sarà: qual è questa “parte di verità” che Wittgenstein riconosce nelle imprecazioni di Dioniso contro il Crocifisso? E la seconda: che cosa può mai essere il cristianesimo di Wittgenstein se, a dispetto di questa “parte”, egli viene profondamente ferito dalla legislazione anticlericale del pazzo di Torino? Domande decisive, se si considera che Nietzsche e Wittgenstein in questo secolo, l’uno dopo l’altro, hanno dato il la a una certa forma di disprezzo filosofico per la filosofia (Badiou 2018, p. 17).
Il nome di questo disprezzo filosofico per la filosofia è, secondo Badiou, antifilosofia; le tre caratteristiche principali di quest’ultima sono rintracciabili, secondo il filosofo francese, tanto in Nietzsche quanto in Wittgenstein: «Una critica linguistica, logica, genealogica, degli enunciati della filosofia […]. Riconoscimento della non riducibilità della filosofia, in ultima istanza, alla sua apparenza discorsiva, alle sue proposizioni, alla sua fallace esteriorità teorica. […] L’appello fatto, contro l’atto filosofico, a un altro atto radicalmente nuovo che verrà detto sia, in modo equivoco, filosofico […] sia, più onestamente, sopra-filosofico e perfino a-filosofico» (Badiou 2018, pp. 18-19). Nel compimento di questo atto che, secondo Badiou, nel caso di Wittgenstein consiste nell’accesso a una «vita santa», si consuma quella perfetta saldatura tra biografia e teoresi che rende la distinzione tra le due inservibile. Di nuovo, sottolinea Badiou, questa saldatura paradossalmente viene suggerita a Wittgenstein da Nietzsche: «il cristianesimo designa la vita ordinata al suo senso indicibile, la vita “bella”, che è la stessa cosa della vita santa. Esso è sinonimo di felicità. Wittgenstein lo scriveva già nel suo diario, a proposito di Nietzsche. Poiché continuava: “Il cristianesimo è l’unica via sicura per la felicità”» (Badiou 2018, p. 24).
Sulla scorta dell’interpretazione di Badiou, e riprendendo le parole di Perissinotto, appare chiaro come la comprensione di quel tipo di filosofo (un antifilosofo?) che Wittgenstein era, o avrebbe voluto essere, non solo non può prescindere dal materiale biografico a nostra disposizione ma, più radicalmente, deve tenere in conto il proposito del pensatore in questione: quello di superare la dimensione esclusivamente teorica della filosofia, in vista della produzione di un atto che coinvolga l’esistenza e la trasformi in una vita santa, vale a dire felice e compiuta. In quest’ottica, la ripubblicazione dei Diari segreti risponde a un bisogno degli studiosi del pensiero (e della vita) di Wittgenstein, un bisogno che non può essere di certo derubricato a mera curiosità. E forse su questo, possiamo aggiungere, lo stesso filosofo che scriveva «sì, il mio lavoro s’è esteso dal fondamento della logica all’essenza del mondo» (Wittgenstein 1964, p. 181) sarebbe stato d’accordo.
di Stefano Oliva
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Bibliografia
A. Badiou, L’antifilosofia di Wittgenstein, traduzione postfazione di S. Oliva, Mimesis, Milano-Udine 2018.
L. Wittgenstein, Quaderni 1914-1916, in Tractatus logico-philosophicus e Quaderni 1914-1916, Einaudi, Torino 1964.
Nel settembre del 2020 si chiude il terzo tempo dell’incontro di aut aut con Lacan: si tratta in realtà di una chiusura-apertura, potremmo dire una chiusura-cerniera, il cui effetto è di lasciare il “problema Lacan” aperto. La prima tappa di questa riflessione – affidata al volume A partire da Lacan, numero 177-178 del 1980 – accoglieva il gesto di “dissoluzione” inferto alla psicoanalisi e alla filosofia dall’ultimo seminario lacaniano inedito (Dissolution). Il primo fascicolo pare aver agito après coup: dissolvendo, Lacan mostra di aver fondato la possibilità di una nuova attualità, di un pensiero che continua a scriversi – temi a cui è dedicato Leggere Lacan oggi, numero 343 del 2009. Ma vale la pena chiedersi quale sia l’urgenza di Ripartire con Lacan, che muove il terzo numero. Non esageriamo col dire che la filosofia contemporanea ne farebbe volentieri a meno, in quanto la pratica psicoanalitica è una “scienza senza sapere”, un pensiero senza Weltanschauung, un’immistione spuria e ibrida nel rigore argomentativo del discorso. Il numero 387 di aut aut “stressa” la tendenza onnicomprensiva a cui certa filosofia ambisce, che in termini lacaniani definiremmo un tutto-sapere immaginario. E lo fa interponendosi a una logica forte, ossia barrandola. I diciassette interventi del volume si misurano infatti con il buco della comprensione di un pensiero: non lo suturano, con nuove interpretazioni o “scritture”, ma consegnano, con esso, dei percorsi concentrici di approssimazione, secondo il movimento del desiderio.
Non Un Lacan – declinato secondo le rigidità del lacanismo – né il Lacan dell’Uno, ma i molti Lacan che proliferano, articolati soggettivamente dai margini del discorso. Condizioni liminali in cui le paranoie (sforzi di fare Uno) delle varie Scuole lacaniane e dell’Università si indeboliscono. Da qui, la scelta di parlare ancora, e con più vigore di quarant’anni fa (1983), di pensiero debole, con effetti di spazi di gioco imprevisti: la cifra del contributo di Pier Aldo Rovatti in questo volume (pp. 44-56) sta nell’aprire una «reciprocità di sguardi» tra lacanismo e pensiero debole per abbassare ironicamente tonalità “alte”, smascherando la complicità di queste col discorso del padrone (cfr. p. 49). L’ironia stempera anche il tragico di quel manque-à-être che sostiene le nostre esistenze: sfuggire, abbassare, oscillare sono i significanti di un re-tour a Lacan che ha tanto di un ritorno quanto di un giro attorno, con l’eventualità che possa trattarsi di un giro a vuoto, come spesso ci accade in analisi. Ma attorno al vuoto del re-tour si crea la condizione di possibilità di un ri-pensamento dell’impensato. Che fare? Tagliare la corda. Interrompere la sequenza. Lasciare uno spazio bianco, per non turare buchi costitutivamente non suturabili. “Saperci fare con” ciò che non si riempie sarà un “saperci fare con” la soggettività (p. 53).
Rilanciare la soggettività non è una sfida scontata, oggi, in filosofia. Rispetto allo spopolare di ontologie nude e pure nel dibattito contemporaneo, il contributo di Massimo Recalcati ha il merito di ri-centrare i processi di soggettivazione sul soggetto, che non è mai un oggetto tra gli oggetti. Come «fare a meno del soggetto» se «è l’esistenza del soggetto a innescare il processo di soggettivazione» (p. 59)? Il sospetto è che se si avanza verso i «territori impersonali di un godimento Uno» si facciano dei tagli, che colpiscono direttamente l’etica della psicoanalisi, che è un’etica del desiderio. Il sospetto, ancora, è che non solo si faccia a meno «della mancanza a essere, del desiderio e dell’Altro» ma, più radicalmente, dell’intero «riferimento alla categoria di soggetto» (p. 57). Basta aprire gli occhi sullo stato dell’arte per constatare come l’henologia (pensiamo all’Uno-tutto-solo di Jacques-Alain Miller e Antonio Di Ciaccia) e le ontologie del processo (senza soggetto) siano precipitate anche nell’analisi. Recalcati, ricordando che l’analisi non è impersonale, produce nella scrittura un «annodamento topologico del soggetto all’Altro […] che diviene essenziale per pensare il problema della soggettivazione» (p. 59). A ogni Uno va ricordato che l’Altro è condizione del suo vedersi. Qual è la dinamica che li annoda? L’identificazione, con la sua portata «non solo clinica, ma anche politica», spesso tenuta fuori dai dibattiti teorici e qui riportata al centro da Ilaria Papandrea (pp. 22-28) come operazione fondamentale del fare legame. L’analisi è un buon modo per guardarsi dal «potere narcotizzante delle identificazioni» (p. 26), dalle «passioni identitarie e dalla furia razzista che scatenano» (ibidem). Lo scandalo e la scommessa dell’analisi è, infatti, il poter far esperienza di se stessi come soggetti non identificati per vie immaginarie o insegne simboliche. La ricaduta, immediatamente politica, è di indebolire la consistenza del grande Altro: a partire dall’analista “modello” fino al grande Altro che vorremmo assumesse una posizione di comando per indirizzare le nostre vite, incarnando il verbo dell’universale. Nessuna identificazione può invece afferrare «il resto opaco di un godimento» (p. 25) che è inconscio. Da qui la portata della rivoluzione psicoanalitica, soprattutto quella lacaniana, che permette di bucare le logiche identitarie e identificatorie, i dispositivi di legame, le organizzazioni del collettivo. Ripartire con Lacan – annodando, al collettivo, il singolare – significa «fare un passo e un altro ancora, un numero incalcolabile di volte, per scavare un incavo nelle verità pretese» (p. 23), ovvero in impianti che si (sup)pongono totali.
Eppure permangono resistenze nell’accettare il ruolo politico della psicoanalisi, che è al centro dei contributi di Muni (Foucault e Lacan. L’amicizia, il discorso, il soggetto etico), Greblo (Lacan con Laclau) e Colucci (Quel muro tra Lacan e Basaglia). Andrea Muni ritesse bio-bibliograficamente le ragioni delle difficoltà di applicazione della psicoanalisi alle biopolitiche, a partire dal disamore tra lacaniani e foucaultiani, in cui ha un certo ruolo la coppia Deleuze-Guattari e il conservatorismo attribuito a Lacan per la sua militanza mancata. La militanza di Lacan si sarebbe invece giocata sul piano squisitamente foucaultiano di una materialità dell’immateriale. I significanti material-pulsionali coincidono infatti coi soggetti governati e (auto)sorvegliati: il soggetto politico lacaniano-foucaultiano è un effetto di discorso; si trova “doppiato” dal discorso come sua causa, in un’attivo-passività che è la stessa del corpo pulsionale della psicoanalisi (si veda il contributo di Andrea Muni, p. 82). Date queste premesse, soggetto (politico) e significante hanno la stessa struttura: da qui Edoardo Greblo via Laclau, e Laclau via Lacan, applicano la logica dell’inconscio strutturato come linguaggio alla soggettività politica, verificandola nella sua «discontinuità aperta» rispetto alla realtà (cfr. p. 197). Come il soggetto del significante, il soggetto politico risulta scisso, separtito, perché l’universale della società (immaginaria) in cui si dà è barrato. Non esiste, cioè, la società, se non come cornice simbolica. Ma cos’è il simbolico senza il reale? Totalità vuota. Serve un «nocciolo che resista alla simbolizzazione» (p. 200), qualcosa che impedisca la chiusura del circolo, che è condanna del definitivo e dello stesso. Ciò che resiste, che non funziona, che non chiude, è il reale, qui declinato politicamente come il negativo dell’antagonismo e del conflitto. Per una politica che rifletta il rimando (negativo)-differenziale tra soggetti-significanti, la proposta di Greblo – in linea con la sinistra lacaniana di Laclau, Mouffe, Butler, Žižek – è di una politica «non-tutta, incompleta, aperta, politicamente negoziabile» (p. 206), scommessa del negativo e delle contingenze singolari che intaccano l’universalità solo presunta della “società”.
Altro snodo del volume è il modo in cui la politicità del significante si riverbera nell’istituzione (discorsiva) di spazi di segregazione: per Lacan i muri dell’istituzione psichiatrica. Ma non solo per lui. Anche Franco Basaglia si colloca nel solco di quella corrente etico-politica ed epistemologica affine all’operazione lacaniana. Entrambi nascono come fenomenologi e arrestano, ricorrendo all’epoché, una deriva impietosa della psichiatria che andava verso la psichiatria d’organo, ottusamente (solo) biologica e iper-medicalizzante. Mario Colucci, psichiatra lacaniano, fa dunque cadere «quel muro tra Lacan e Basaglia» (p. 28), attribuendone l’esistenza alla differenza di identità culturali, laddove in Italia predominava una vocazione politica, atta a sfondare il muro dell’istituzione, e in Francia una vocazione terapeutica, estremamente ricca sul piano teorico ma incapace di mettere in crisi l’istituzione stessa. Tuttavia la vocazione politica italiana si lega a un’estrema laicità che non esclude da sé un certo scientismo: da qui la psicoanalisi lacaniana come semi-sconosciuta o preziosa rarità nei servizi di salute mentale in Italia, e l’urgenza di ripartire, non solo da Lacan, ma da Lacan con Basaglia. Oggi la presenza di Lacan nella psichiatria italiana rappresenta la possibilità di forare il recinto simbolico delle segregazioni con il reale della parola gettata – angosciosamente – al silenzio dei muri. Annodare Lacan e Basaglia significa porsi all’incrocio fra due angosce: «il comune affetto d’angoscia che li lega è la sola garanzia che non ci ingannano» (p. 43). Contro la deriva segregazionista della psichiatria dei muri, Colucci traccia un solco dove «due saperi incompleti si toccano sul punto della loro mancanza e si scoprono vulnerabili» (ibidem).
Un affondo clinico decisivo nel volume sta nella proposta della filosofa e psicoanalista Silvia Lippi di «psicotizzare la psicoanalisi» (p. 128). In linea col tardo Lacan di Le Sinthome, L’Étourdit e le conferenze del ’70, l’interesse di Lippi non è rivolto a una migliore clinica della psicosi, ma a un ripensamento radicale dell’intera pratica analitica a partire dalla psicosi, per pensare la direzione della cura tout-court, per dischiudere un linguaggio non polarizzato dal senso, dove il significante sia «vettore di godimento» (p. 134). La psicosi diventa così il luogo di lalingua, invenzione singolare, particolare a chac’Un. È infatti dal «linguaggio de-strutturato dello psicotico» (ibidem) – in termini deleuziani linguaggio senza articolazione – che si trae qualcosa di paradigmatico dell’inconscio, sottraendolo ai residui di un’ermeneutica infinita e alle maglie dell’esegesi del senso. Quale lalingua, nella psicosi? Non il linguaggio della comunicazione o della trasmissione, bensì il «linguaggio crudo del corpo […] desiderante e, certamente, godente» (p. 134). È qualcosa che non può prodursi se non in un’analisi, e mai senza corpo. Legittimo chiedersi, a questo punto, cosa abbia provocato, nella ricezione psicoanalitica, la de-corporeizzazione, la corporeità in perdita, inflitta dal cogito. Sebbene Lacan abbia dovuto smembrare il cogito in “penso dove non sono, sono dove non penso” – anzi proprio per questo – Cartesio resta tra i suoi interlocutori privilegiati. Le scienze cartesiane, vagliate nell’intervento di Antonello Sciacchitano, sono tutte quelle scienze «del dubbio e dell’incertezza», altrimenti definibili come congetturali o umane. Si tratta cioè di quelle scienze «diversamente scientifiche» (p. 161), che tendono a una certezza non dell’ordine dell’universale o dell’oggettivo, ma del soggettivo. In esse, il cogito si configura come «ipotesi di lavoro», che sostiene una logica della congettura. Ma, al di là, della congettura, c’è del sapere. Un sapere che è nel reale, è nell’inconscio. Come «l’inconscio è un sapere che non si sa di sapere», così il desiderio inconscio è un «desiderio che non si sa di desiderare» (p. 166): da qui una scienza che fa congetture su un sapere che non sa se stesso. Lacan ha così «dissotterrato dal reale – che non cessa di non scriversi – un sapere che a volte – non sempre – riesce a scriversi» (p. 168). E soprattutto, che si scriva non è garanzia del fatto che riesca a leggersi. Qui subentra l’impasse dell’ovvietà delle nostre letture e il bisogno di un gesto ulteriore.
Non potendo render conto della specificità di ogni contributo, per cui si rimanda alla lettura integrale del volume, sceglieremo di percorrere infine un crinale teoreticamente denso, che vede Lacan, Deleuze e Derrida intrecciati nel problema della rappresentazione, attraverso le letture di Raoul Kirchmayr, Sergio Benvenuto e Federico Leoni. Che cosa si rappresenta? Quello che non c’è. È propriamente quel che fa il fantasma, indice di non-rapporto, ossia del rapporto sessuale che non c’è. Non si tratta qui di un vezzo, di voler recuperare un apoftegma, un abusato motivetto tra lacaniani (“non c’è rapporto sessuale”), bensì di voler sfidare ancora la nozione di soggettività con una formazione dell’inconscio, una micro-struttura narrativa – il fantasma – che mette in crisi un certo rapporto diadico, lineare e ingenuo tra soggetto e oggetto.
Nella lettura di Leoni, prevale un’idea di fantasma come di impersonale singolare, sulla scia di una lacaniana Logica del fantasma che si incrocia con la deleuziana Logica del senso, per cui il «fantasma-bolla è una monade-simulacro» (p. 124). Il simulacro non è di qualcuno, ha una «sovrana autonomia» (p. 120) rispetto a ciò di cui dovrebbe essere rappresentazione, né si dà propriamente qualcuno che lo rappresenti. I simulacri (fantasmi in Lacan) «giocano con l’oggetto» che dovrebbero rappresentare, ma giocano anche col soggetto (cfr. ibidem). Procedendo su questa linea, perveniamo a un assunto impegnativo per lo stato dei processi di soggettivazione. Il soggetto e l’oggetto sarebbero «dispiegamento interminabile […] di una sostanza comune» (p. 125). Quanto al fantasma, «non è mai altro che la linea sempre in cammino e sempre incompiuta del suo soggettivarsi e oggettivarsi» (ibidem). Ma quanto la lettura secondo cui «soggetto e oggetto sono loro stessi le divisioni dell’impersonale» regge, se applicata alla pratica analitica?
Sergio Benvenuto rimarca come ci troviamo davanti a interi archivi di fantasmi, non solo sui lettini di analisi ma anche nei siti porno o, meglio, in quei film pseudo-pornografici (come La vie d’Adèle di Kechiche) in cui il rapporto è supposto: non si vedono penetrazioni, scambi di liquidi, organi turgidi ed eccitati, per cui ci si chiede se il rapporto, di fatto, ci sia. Cosa significa quindi supporre un rapporto? Rappresentare soggettivamente il reale – incredibile, impossibile – di ciò che è inconsciamente irrappresentabile, e fare di tale trauma – come il coito – qualcosa che sia foriero di godimento (cfr. p. 115).
La costruzione fantasmatica ha direttamente a che fare con ciò che non si può rappresentare, e che per questo si rappresenta. Differentemente da certi modi di fare ontologia forcludendo il soggetto, le hantologie (teorie generali della spettralità) tallonano il luogo del margine in cui il soggetto sembra non essere oggetto e viceversa, mostrandone lo statuto labile, poroso. Il fantasma è sì «un primo schema topologico su cui fondare una teoria della singolarità del soggetto» (pp. 94-95), ma anche una sfida a ogni idea precostituita di soggettività: fa posto a due elementi assolutamente eterogenei, legandoli attraverso il simbolo della losanga, che nella matematizzazione lacaniana delinea un buco, indice di non-rapporto ($◊a). Ripartire dal non-rapporto significa rilanciare la soggettività dal reale, «l’assente di ogni struttura psichica» (p. 93).
La portata di questo volume consiste nel fatto che esso si costruisca attorno a un centro assente e che smobiliti, attraverso la proliferazione di voci che rifuggono un neolacanismo dogmatico, la statica di qualsivoglia discorso identitario. Leggendolo, si stacca pezzo per pezzo l’identità del “lacaniano”, assieme a una forma di “dover essere” lacaniani: quel che resta è un punto reale in cui filosofia e psicoanalisi si specchiano in modo complementare e si mancano, lasciando a ogni lettore la possibilità di abitare quel buco tra due saperi con la propria invenzione teorica.
Ispirato dal Deutsches Werkbund, l’associazione fondata nel 1907 da Herman Muthesius per avvicinare architetti e industrie, e in cui Walter Gropius entrò nel 1912, il Bauhaus nasce nel 1919 come occasione di rinnovamento della Scuola d'arte applicata (di cui Gropius sperava di diventare direttore) e dell’Istituto superiore di belle arti. Una scuola pubblica, accessibile, che ambiva a una “nuova costruzione del futuro che sappia unire ogni disciplina, architettura, scultura e pittura, e che un giorno salirà al cielo dalle mani di milioni di lavoratori come il chiaro simbolo di una nuova fede” (cito dal Manifesto di Gropius). Un obiettivo altissimo e che implica una nuova unità culturale tra le varie arti e la permeazione dell’avanzata industriale: e che, soprattutto, si traduce in un modello formativo di straordinario interesse. La scuola era articolata in corsiteorici – ad esempio “teoria della forma”, “teoria del colore” e così via – e laboratori – di tessitura, vetreria, legatoria, grafica, architettura, fotografia e così via. Ma ciò che davvero elevava questa in fondo tradizionale alternanza tra teoria e prassi è il corso propedeutico: un corso che non doveva dare propriamente delle competenze, quanto sviluppare le attitudini e la personalità degli studenti. Il modello didattico basato su corsi e laboratori è del tutto attuale: si ritrova in tutte le facoltà di architettura ma anche in molte di ingegneria. Ma quel “corso propedeutico” oggi è scomparso, fagocitato dall’ansia verso la competenza (certificabile attraverso la misurazione della performance) e dalla riduzione dei laboratori di progetto a luoghi di soluzione dei problemi. In questo senso, l’avanzata contemporanea di modelli didattici come le challenge e modelli progettuali come il brain storming meriterebbero approfondite riflessioni. Invece, usualmente ci si limita a celebrare il Bauhaus, spesso semplificandone le vicende, complesse e non prive di incoerenze: vicende che attraversano più di un decennio, con varie periodizzazioni a seconda della sede (Weimar, Dessau, Berlino), del direttore (Gropius, Meyer, Mies van der Rohe), delle prospettive culturali (artigianali, sociali, economiche ecc.) e così via.
Il periodo weimariano, tra il 1919 e il 1924, rappresenta la fase più sperimentale e forse equilibrata del Bauhaus. Siamo agli inizi del Movimento Moderno, e alcuni tratti della scuola (dagli insegnanti come “maestri” alla chiara accentuazione dei corsi di artigianato) la avvicinano al movimento Arts and Crafts: una vicinanza che viene troppo spesso data per scontata, dimenticando quanto diverso sia l’approccio del Bauhaus, che non mirava a un recupero romantico del perduto tempo artigianale in opposizione alla fredda industria, ma a permeare quest’ultima. Infatti, soprattutto dopo il 1921, con l’ingresso di Theo van Doesburg, il leader del movimento olandese De Stijl, la scuola accentua la sua dimensione rivoluzionaria. Culmine di questo periodo è l’esposizione, nel 1923 (anno di pubblicazione di Vers une architecture di Le Corbusier), della Haus am Horn, una casa modello progettata da Gorg Muche insieme a Gropius stesso e altri docenti che sintetizzava nello spazio fisico per eccellenza – la casa – gli esiti sperimentali della scuola, definendo il più alto livello tecnico e artigianale, la massima economicità e la miglior soluzione distributiva e spaziale. Il confronto – un confronto impari e da fare con cautela – tra questa casa e un’altra casa paradigmatica del Moderno, la corbusiana Villa Savoye costruita cinque anni dopo, mostra chiaramente le due facce del Movimento. Dove nella Villa Savoye la cura squisita della forma obbliga la tecnica a virtuosismi che inevitabilmente falliscono, nella Haus am Horn l’efficacia costruttiva – la casa era sovvenzionata da un commerciante in legname che avrebbe potuto produrla e venderla – porta a sacrificare la qualità spaziale interna: una inversione di priorità, tra forma e tecnica, che riflette le diverse risorse economiche della committenza, in questo mostrando, come ho altrove sostenuto, di non scalfire davvero la struttura della società come il Moderno idealmente avrebbe voluto.
Le elezioni del 1924 segnano la fine di questo primo periodo: il neoeletto governo nazionalista dimezza i fondi pubblici su cui il Bauhaus si basava e questo porta in breve a dover chiudere la scuola. Ma la storia del Bauhaus non si arresta: la città di Dessau la “adotta” come scuola comunale, sovvenzionandone la riapertura e il trasferimento (nel 1926) nel nuovo edificio progettato di Gropius che diverrà l’icona della scuola. Una nuova sede per un Bauhaus diverso: con meno corsi artigianali, uno statuto universitario e un rafforzato dipartimento di architettura diretto da Hannes Meyer. D’altra parte dalla fine degli anni ’20 il Movimento Moderno ha una grande accelerata: iniziano i Congressi Internazionali di Architettura Moderna (i CIAM), viene realizzato il Weißenhof a Stoccarda, Alexander Klein codifica l’Existenzminimum, Le Corbusier realizza Villa Savoye dopo una serie di sperimentazioni radicali sulle case minime, Mies van der Rohe costruisce il padiglione tedesco all’expo di Barcellona e così via. Infatti, nel 1928, Gropius si dimette per proseguire la propria attività professionale, e al comando va Meyer. Inevitabilmente, la nuova direzione porta notevoli cambiamenti: da un alto aumenta la spinta verso il funzionalismo, e questo porta non a caso aumentano le commesse reali – ad esempio verranno realizzati vari blocchi di appartamenti – dall’altro, la scuola aumenta il carattere politico della scuola, con un aumento dei corsi economico-sociali a scapito di quelli più pratico-operativi. Ma le tesi marcatamente marxiste di Meyer non lasciano indifferente il governo, che ne impone il licenziamento nel 1930, ponendo fine a quella che tradizionalmente viene detto secondo Bauhaus.
La scuola prosegue senza soluzione di continuità nel suo terzo periodo, quello che vede Ludwig Mies Van der Rohe come nuove direttore, nonostante i tentativi del sindaco di Dessau di riavere Gropius al timone (in fondo, ora come allora, il ruolo dell’envisioner è essenziale). Nuovamente riorganizzata e de-politicizzata, la scuola assume una direzione più architettonica e legata a progetti industriali, riducendo sensibilmente le ambizioni sociali: e la nuova impronta in effetti funziona. Gli oggetti che rendono immortale il Bauhaus nascono in questo periodo, infatti: pezzi d’arredo e di design spesso prodotti ancora oggi e ricercatissimi come oggetti da collezione quando originali. Una eredità fatta di icone (cioè di esiti), più che di metodo: lo stile del Moderno è sopravvissuto più della sua cultura e, anzi, come abbiamo visto, proprio il fallito tentativo di rinnovarne lo stile porterà alla diaspora architettonica del Postmoderno. E proprio lo stile diventa il problema del Bauhaus. Infatti, benché rispetto al modernismo i regimi avessero un rapporto ambiguo – apprezzandone ovviamente le tendenze funzionaliste e industriali – dal 1930 il ministro nazionalsocialista degli interni e della pubblica istruzione Wilhelm Frick inizia una lotta verso ciò che è inutilmente “moderno”. Così i finanziamenti si riducono ulteriormente e, nel 1932, il sindaco di Dessau deve chiudere definitivamente il Bauhaus. Qui la storiografia tende ad assegnare al Bauhaus un ruolo di eroica resistenza al nazismo, benché i fatti siano diversi: infatti Mies van der Rohe cedette a tutte le richieste man mano avanzate dal partito nazionalsocialista – a questo proposito, segnalo Mies in Berlin, curato da Terence Riley e Barry Bergdoll.
Conferma ne è l’ultima incarnazione del Bauhaus, cioè la scuola che Mies fonda nel 1933 a Berlino ignorando le offerte Magdeburgo e Lipsia. Una scuola privata, pagata da rette altissime e dai brevetti del Bauhaus, che visse solo un anno prima di essere additata dalla Gestapo come bolscevica. Ma che rinacque subito, in una forma nuovamente privata che rispettava le direttive di Alfred Rosenberg (neo-ministro della cultura): dal licenziamento di personalità scomode come Kandinsky e Hilberseimer all’espulsione di docenti e studenti ebrei, dall’assunzione di docenti appartenenti al partito a un programma di studi orientato in senso nazionalsocialista. L’ambigua relazione tra Moderno e nazismo, che come abbiamo visto riguarda anche altri maestri come Le Corbusier e Philip Johnson, termina, di nuovo, per questioni di stile. Nel 1935 infatti Albert Speer diventa l’architetto del Reich e convince Hitler a recuperare i fasti imperiali e la dimensione vernacolare: l’architettura minimalista di Mies non ha più speranze, e la sua scuola deve chiudere, mentre la sua attività professionale si riduce tanto che nel 1937 deciderà di trasferirsi nel Wisconsin.
A ormai oltre 100 anni dalla sua fondazione, sono quindi molti i temi che continuano a destare interesse. Certo molti sono i testi che ripercorrono e interpretano la storia nel suo complesso – dal primissimo libro di Herbert, Bayer Bauhaus 1919-1928, pubblicato alla fine degli anni ’30, a Bauhaus di Frank Witford, uscito a 50 anni dalla chiusura della scuola; dalla lettura interpretata di Giulio Carlo Argan in Walter Gropius e la Bauhaus, al recente e monumentale “Bauhaus 1919-1933” di Magdalena Droste. Ma nel tempo diversi sono stati i libri che hanno indagato la relazione tra la scuola e la politica che, come abbiamo visto, è complessa quanto interessante – tra gli altri, The Bauhaus Idea and Bauhaus Politics di Éva Forgács o Architecture and Politics in Germany 1918-1945 di Barbara Miller Lane. Altri hanno indagato il ruolo, rilevante anche se meno di quanto si vorrebbe, delle donne nell’istituzione – ad esempio “Bauhaus Women: Art, Handicraft, Design”, di Ingrid Radewaldt e Ulrike Müller-Böker, “Bauhaus Mädels” di Patrick Rössler o la prossima pubblicazione di Tab Edizioni, “Women at the Bauhaus, the Bauhaus to the women” a cura di Olimpia Niglio e Paola Ardizzola. Senza poi citare le numerose pubblicazioni dedicate agli oggetti che il Bauhaus ci ha lasciato – ad esempio 50 Bauhaus Icons You Should Know di Josef Strassero o Das Bauhaus in 100 Objekten di Wilfried Lembert – e le pubblicazioni per il centenario – tra le quali cito solo “Bauhaus 100: imparare, fare, pensare”, curato da Aldo Colonetti per Electa, che esplora possibili eredi dell’approccio Bauhaus, più che celebrarne il ricordo.
Il numero monografico che inaugura i Quaderni di dianoia, La costruzione del futuro(citazione diretta del Manifesto del Bauhaus di Gropius), scandaglia diverse di queste tensioni, in una miscellanea curata da Marina Lalatta Costerbosa che firma una introduzione ficcante, appassionante e ricca di spunti bibliografici. Ci si muove tra due punti altissimi: lo scritto iniziale di Enzo Collotti e quello conclusivo di Franco Farinelli. Il primo è un prezioso reprint di un saggio comparso su Controspazio nel 1970, "Il Bauhaus nell’esperienza politico-sociale della repubblica di Weimar". Il testo del grande storico lega con la sua tipica lucidità fatti storici, politici, sociali, stilistici, economici, dando una comprensiva visione del Bauhaus nella repubblica weimariana che evidenzia tutta la complessità della relazione tra ideali e politica, descrivendola entro i confini istituzionali che ne hanno segnato l’evoluzione e respingendo con delicatezza le visioni celebrative della purezza della scuola per proporre una visione meno stereotipata e ben più fondata. Allo stesso modo, il breve contrappunto di Farinelli, “La coscienza del Bauhaus”, chiarisce un’archeologia del metodo moderno, tracciandone una corrispondenza con l’articolazione cognitiva proposta da Alexander von Humboldt all’inizio dell’Ottocento – una corrispondenza sorprendente – che permette sia di dare un senso più profondo alla relazione tra scuola, società e politica sia, soprattutto, di mettere in relazione in modo non meramente metaforico il pensiero Moderno ieri, oggi e, potenzialmente, domani. Di fronte a un simile incipit e un simile finale, gli altri testi faticano comprensibilmente a reggere il confronto. In parte perché, come nel caso di “Bauhaus 100. Forma funzione utopia” di Donna e Martini, si limitano a una rilettura scolastica del pensiero di Argan – che certo meriterebbe più un contraddittorio che non una fiducia incondizionata – che si sviluppa tra fatti noti e luoghi comuni senza approfondirli. In parte perché colgono l’occasione per trattare d’altro, come “Esperienza e figurazione” di Guidetti: certo un saggio pregevole sulle tesi di Ernst Mach che però poco ha a che fare con il Bauhaus, se non nel blando rimando al fatto che quella filosofia avrebbe influenzato Klee – prospettiva che sconta un errore di fondo, quello di interpretare filosoficamente l’interpretazione artistica di Klee della filosofia di Mach. Tanto più che il ruolo di Klee al Bauhaus era sì collaborativo, ma certo ancillare rispetto alle direzioni imposte dai direttori: in questo senso, è una boccata d’aria fresca la complessità anti-celebrativa di “Ambitions, Anxieties and Attainments” di Anja Baumhoff, che mette in luce il lato interessato, proprio in senso economico, di Klee, demitizzandone ruolo e personalità: troppo spesso infatti nomi altisonanti come quello di Klee vengono associati alla scuola senza approfondirne il ruolo, e lasciando in ombra personalità essenziali ma meno note al grande pubblico (Johannes Itten, tanto per dire, non riceve nemmeno una citazione in tutto il testo). Per contrasto, “Kandinsky negli anni del Bauhaus” di D’Anna non sembra cogliere davvero il ruolo del grande artista nella scuola, favorendo l’analisi della sua visione artistica rispetto al verificarne gli effetti nei corsi ch’egli teneva. Invece, dato che l’autoanalisi di un artista è spesso una pallida razionalizzazione dei suoi esiti pratici, guardare alla relazione maestro-allievo sarebbe stato in questo caso interessante rispetto al tema metodo-stile. Lascia perplessi “Il Bauhaus al tempo dell’ecologia e della fine del postmoderno” di Iofrida, che vorrebbe utilizzare le letture che Adorno e Merleau-Ponty fanno del Bauhaus per attualizzarne il pensiero: in parte perché Adorno chiaramente deforma a suo uso e consumo il Bauhaus, mischiandovi le tesi di Adolf Loos e sovrastampandovi una visione marxista quantomeno discutibile, e il saggio questa distorsione intenzionale sembra non coglierla; in parte perché Merleau-Ponty non ha mai parlato del Bauhaus, e derivarne un qualche pensiero dalla sua lettura dell’opera di Klee è quindi ardito pur se potenzialmente interessante; in parte perché di tutto il tema ecologico, al di là del titolo, rimane solo un’esortazione metaforica. Mentre il dolcissimo tributo a Marianne Brandt di Anne-Kathrin Weise, pur ottenendo l’effetto contrario a quanto forse sperato – emerge infatti che il Bauhaus non era affatto inclusivo verso le donne come ci piacerebbe credere – ha il grande pregio di ricordarci, attraverso le opere figurative da lei fatte negli ultimi, tragici momenti della sua vita, che il metodo del Moderno dovrebbe essere legato agli esiti, ma non al loro stile.
Una conclusione affatto scontata e della quale tendiamo a dimenticarci, perché ci obbliga ad attualizzare – operazione analogica, quindi sempre rischiosa – e perché, come abbiamo visto, sono gli esitistilistici del Bauhaus quelli che, nonostante tutta la buona volontà, più facilmente ricordiamo: e la copertina, con la culla di Peter Keler, rischia di confermarlo.
Se riconoscere il superamento del progetto artistico dall’alterità di cause determinanti benché inavvertite sembra ormai essere un luogo comune delle rappresentazioni del fare artistico (si pensi alle diverse teorie di ispirazione divina, a quelle di involontario condizionamento ideologico, alla postulazione dell'esistenza di una logica dell'inconscio), l'implicazione del caso quale causa della produzione artistica non consente di accedere a un'interpretazione dell'opera come manifestazione di determinazioni essenziali, sociali o psicoanalitiche. In altre parole, il riconoscimento di una parte di caso nel processo creativo implica modalità di significanza per le quali l'identificazione di un progetto diventa altamente problematica.
Although acknowledging that any artistic project is necessarily exceeded by the alterity of determining causes is quite a mundane way of representing the artistic fact (one thinks of the various theories of divine inspiration, of involuntary ideological conditioning, of the postulation of the existence of a logic of the unconscious, etc.), the implication of chance as the root cause of a work raises a critical issue since it rules out any interpretation of the work either as a manifestation of a truth that would have been pre-existing in god, or as a social or psychoanalytical determination of the forms produced and interpreted. In other words, the recognition or claiming of a measure of chance seems to imply modes of signifiance for which the identification of a project becomes problematic.
A cura di Benoît Monginot, Stefano Oliva e Sébastien Wit
Nell’estate del 1956, in quel di Hanover, in un workshop organizzato presso il Darmouth College, una gang di ricercatori, distaccandosi dalla koinè cibernetica da cui proveniva, diede vita a quel programma di ricerca ai più noto come “Intelligenza Artificiale”. Gli stessi padri fondatori non furono placidamente concordi nell’adottare la suddetta espressione. Ci furono delle resistenze e vennero avanzate delle proposte alternative (come quella di Herbert Simon: “Complex Information Processing”), ma la spuntò John McCarthy: la neonata impresa fu battezzata “Artificial Intelligence”. Visto il successo che il brand non smette di riscuotere, l’ostinazione di McCarthy ha ripagato. Se l’avesse avuta vinta Simon, probabilmente il nostro presente sarebbe un tantino diverso. Forse ci staremmo chiedendo per quale stramba ragione Spielberg ha intitolato un suo film, che vede come protagonista un bambino androide, Complex Information Processing.
Da un punto di vista di marketing, la scelta di McCarthy fu azzeccatissima. Purtroppo, a distanza di quasi settant’anni dalla nascita dell’espressione, “Intelligenza Artificiale” continua a sollevare giusto un paio di problemi, relativi (1) all’assenza di una definizione univoca e operativa di intelligenza e (2) all’assenza di una definizione univoca e operativa di artificiale. Gli ascoltatori di un podcast di successo come quello di Lex Fridman ne avranno fatto esperienza: quanti sono i ricercatori nell’ambito dell’AI, tante sembrano essere le definizioni e di intelligenza e di artificiale.
Questo lungo preambolo mi pare doveroso, dal momento che, se fossi un libraio avvezzo a catalogare la mia offerta per generi, il libro Menti Parallele. Scoprire l’intelligenza dei materiali di Laura Tripaldi, uscito sul finire del 2020 per effequ nella collana Saggi Pop, lo piazzerei, a mo’ di provocazione, nello scaffale “Intelligenza Artificiale”. La ragione è semplice: si tratta di un libro che, tra le altre cose, ci costringe a riflettere criticamente sul modo in cui comunemente vengono usati gli attributi “intelligente” e “artificiale”.
Nell’impossibilità di partire da definizioni univoche e dirimenti, Tripaldi ci invita ad andare alle cose stesse per interfacciarci con quei materiali che contribuiscono a costruire la nostra (ma è tanto nostra quanto loro) cultura materiale. Gli smart materials dicui Tripaldi parla sono tutti ascrivibili alla “galassia auto-”: auto-regolazione, auto-replicazione, auto-organizzazione, auto-assemblaggio, ecc., sono le loro principali caratteristiche. In quanto sistemi auto-, operano in maniera non eterodiretta, costituendosi tramite processi decentralizzati, diffusi, bottom-up, e dischiudendo, così facendo, particolari domini cognitivi, dunque generando le proprie forme di intelligenza. Questi materiali sono menti parallele, dove «la parola parallelo, in questo contesto, serve a sottolineare che, all’interno di queste strutture, non esiste un’organizzazione gerarchica precostituita: non c’è nessuna “cabina di comando” che dirige il comportamento delle parti e non esiste un manuale di istruzioni che indica alle singole parti componenti come organizzarsi le une rispetto alle altre» (p. 190).
Le menti parallele che abitano il libro di Tripaldi lo rendono un regno vasto, popoloso. A muoversi tra le sue pagine ci sono sete ampollose, muffe mucillaginose, e-skins, soft-robots, nanocompositi, leghe a memoria di forma, cellule artificiali, nanobots e molte altre “forme di vyta”. Tripaldi mobilita creature mitologiche e letterarie alla stregua di animali totemici per simbolizzare le proprietà delle tanti menti parallele: Aracne, Idra, Golem, Frankenstein. Sono questi gli anfitrioni che ci introducono, rispettivamente, ai primi quattro capitoli: il primo, La tela di Aracne, ha come protagoniste l’operazione di tessitura e le proprietà di rete; il secondo, Molte Teste, si concentra sui processi cognitivi in parallelo e acentrici; nel terzo, La struttura che connette, le scienze dei materiali sono inquadrate alla luce della teoria dei sistemi complessi; il quarto, Mostri viventi, tratta in maniera affatto originale diverse questioni legate all’artificial life. Il quinto e ultimo capitolo, La materia del futuro, sviluppa invece alcune conseguenze etiche, politiche ed ecologiche a partire dalla “nuova alleanza” che nei capitoli precedenti Tripaldi ci invita a stringere con il popolo dei materiali.
È giusto lasciare ai lettori il piacere di scoprire passo dopo passo le proprietà di queste menti singolari, che Tripaldi ci restituisce in maniera vivida e appassionata con una prosa cristallina, leggera, propria di chi ha affinato l’arte (difficilissima) della divulgazione. Mi preme invece porre l’attenzione su alcuni aspetti generali.
Tripaldi ha scritto un libro politico dalla prima all’ultima pagina. La posta in gioco è una ridefinizione dei collettivi i cui attori sono tanto gli umani quanto i non-umani. L’interfaccia di cui ci parla Tripaldi, il luogo materiale dell’incontro che connette (e nel farlo, trasforma) due strutture, è sempre uno spazio diplomatico. Lo stesso laboratorio assume i contorni dell’agorà, luogo di incontro e di negoziazione, zona di intra-azione (per usare il termine che Tripaldi riprende da Karen Barad) in cui le scienziate e gli scienziati operano e sono operati, stipulano contratti con attori non-umani e costruiscono mediazioni. Sebbene Tripaldi non si richiami apertamente al Bruno Latour di Non siamo mai stati moderni o all’Isabelle Stengers di Le politiche della ragione, la sua proposta mi sembra ascrivibile al solco tracciato da queste opere.
Nel suo libro Tripaldi schiera un temibilissimo tridente offensivo, che comprende la scienza dei materiali, la teoria della complessità e il post-umanesimo di matrice femminista: le scienze dei materiali ci introducono a tecnologie soft, flessibili e sensibili, reticolari e adattabili; la teoria della complessità è il vettore che ci instrada nella “galassia auto-”; il post-umanesimo femminista dischiude nuovi modi di relazione con la materialità e la tecnologia, ispirati alla sottile arte della tessitura, di contro all’immagine virile dei duri corpi che si scontrano e di una materia da piegare con la forza. L’arte della tessitura, d’altronde, potrebbe avere 90mila anni. Se questa ipotesi, che Tripaldi riprende dal lavoro dell’archeologa Elizabeth Wayland Barber, dovesse essere vera, allora l’età della pietra sarebbe già una age of network.
Il pericolo cui l’operazione di Tripaldi si espone è certamente quello di una feticizzazione della rete e della relazione. Rete diventerebbe un culto, relazione la parola magica con cui scardinare ogni “-centrismo”. La retiologia, per usare un’espressione di Pierre Musso, è in agguato dietro ogni pagina di Menti Parallele. Tripaldi disinnesca questo rischio proprio a partire dal corpo a corpo che intrattiene con i materiali, i quali presentano proprietà di cui, senza la mobilitazione del dispositivo rete, non si potrebbe rendere conto. L’insistenza sull’arte della tessitura, sull’importanza delle relazioni e del dialogo lungo le interfacce, scaturisce dalla ricerca di Tripaldi in quello spazio politico che è il laboratorio. Le filosofie cui ricorre (il summenzionato post-umanesimo di matrice femminista), i frames teorici cui si richiama (la teoria dei sistemi complessi) e le figure mitologiche e fantastiche che mobilita, diventano gli alleati con i quali l’autrice narrativizza la sua esperienza di chimica e scienziata dei materiali. La narrazione così dispiegata produce esiti interessanti: i riverberi animisti e panpsichisti sono i cascami di un neo-materialismo per il quale le differenze tra i materiali non dipendono dal carattere sostanziale dei componenti di cui sono fatti, ma dal loro tessuto relazionale. Sono i modi di relazione a generare differenti strutture e a determinare particolari funzioni. Il progettista di nuovi materiali o il novello chimico-alchimista che concretizza creature sintetiche non operano dando forma a una materia amorfa, non ricalcano uno schema ilemorfico, ma interpretano e dialogano con processi auto-organizzativi. I materiali prendono forma tramite processi bottom-up che implicano complesse reti di produzione dei componenti che li compongono. Il progettista, in questa rete, è un nodo tra i tanti e la sua azione consiste nel tradurre, mediare e dirigere (come un direttore d’orchestra) dinamiche auto-organizzative. Si dilegua l’immagine del progettista artefice che impone una forma a una materia amorfa, che dà voce a materiali muti. Che ne è dell’artificio nel dileguarsi dell’artefice? In altre parole, di cosa parliamo quando parliamo di artificiale? Ogni smart material è sicuramente il risultato di una poiesis, della quale però il principale artefice è il materiale stesso (un modo assai lasco di dire autopoiesi). Nulla si crea, tutto si trasforma: il progettista è tutt’al più l’hub di una rete che apre (o chiude) spazi di possibilità per nuove trasformazioni.
Inoltre, come abitanti della “galassia auto-”, ognuno dei materiali di cui Tripaldi ci parla produce, nella sua dinamicità, le proprie forme di intelligenza. Non si tratta di estendere la nozione comune di intelligenza (umana troppo umana, vaga troppo vaga) ai materiali, ma di trovare la radice comune di tutte le differenti menti materiali e i modi in cui questa radice si declina generando una pluralità di intelligenze (differenti modi di apprendere, adattarsi, interagire con l’ambiente, ecc.).
Quasi in conclusione al libro Tripaldi si rivolge alle tessitrici del futuro. Gli scenari propizi o nefasti dati dalla proliferazione di agenti nanotecnologici, il modo in cui verrà declinata la natura farmacologica delle nuove tecnologie (cure o veleni) dipenderanno dalle reti che saremo in grado di tessere, dai modi in cui verranno negoziati gli spazi di trasformazione e di intra-azione.
Non esistono soluzioni a buon mercato per scongiurare fin da subito i problemi che potrebbero sorgere con l’entrata in scena di nuove tecnologie. Nella penultima pagina di Menti Parallele si trova scritto: «l’unica via d’uscita dal problema della nostra relazione con la tecnologia è la via che ci passa attraverso» (p. 218). Là dove c’è il pericolo, cresce anche ciò che salva.
Se l’errore imperdonabile del dottor Frankenstein non è riconducibile alla hybris che lo porta a concretizzare una vita sintetica, ma al fatto di non averle dato l’amore di cui aveva bisogno, allora l’insegnamento principale che è possibile ricavare da Menti Parallele risiede nell’attenzione amorevole e appassionata che Tripaldi dedica ai suoi “mostri”. «L’intelligenza emerge dalle relazioni» (p. 190): tutto dipenderà dalla qualità dei fili con cui si imbastiranno i futuri orditi.
Originariamente pubblicato con il titolo Feminismo em comun. Para todas, todes e todos (2018), Il contrario della solitudine. Manifesto per un femminismo in comune(2020) scritto da Marcia Tiburi è ospitato da effequ nella collana Saggi Pop. La casa editrice ha il merito di introdurre Marcia Tiburi, filosofa e femminista brasiliana altrimenti inedita al panorama italiano, selezionando all’interno della sua vasta produzione (filosofica, letteraria, artistica) un testo esplicitamente posizionato nella lotta femminista. Nella traduzione italiana, a cura di Eloisa Del Giudice, la scelta del titolo abdica a un calco letterale dell’originale portoghese, tuttavia senza alterare la proposta di un femminismo radicalmente democratico, costruito attraverso la messa in comune del dissenso di tutte, tuttə e tutti (todas, todes e todos) all’indirizzo del dispositivo patriarcale.
Ispirandosi a Foucault, Tiburi definisce il patriarcato come una forma di potere e sapere che ordina i discorsi sul criterio predicativo della verità. In altre parole, le istituzioni patriarcali autorizzano come veri i discorsi dell’ʻuomo biancoʼ (p. 52, 92), mentre dispongono su una scala di gradi gerarchici discorsi altri, a ciascuno dei quali viene negato un contenuto veritativo e di conseguenza un’autonomia politica. In ultima istanza, l’ordine veritativo della politica e l’ordine politico della verità sono una e una medesima cosa nel regime di pensiero autoritario. A ben vedere, il tema dell’autoritarismo è il denominatore comune delle più recenti pubblicazioni di Tiburi: a partire da Como conversar com um fascista: reflexões sobre o cotidiano autoritário brasileiro (2015), dove l’autrice intraprende una decostruzione dei microfascismi quotidiani; venendo all’analisi portata avanti sul piano estetico in Ridículo político: uma investigação sobre o risível, a manipulação da imagem e o esteticamente correto (2017), testo nel quale il terrorismo istituzionale è osservato nel suo carattere farsesco entro la cornice storica del golpe di Michel Temer a seguito dell’impeachment ai danni di Dilma Rousseff; approdando infine a Il contrario della solitudine (2020), diciassette brevi capitoli in cui la lotta comune per una democrazia radicalmente femminista consiste nella critica dell’autoritarismo quale si declina nella struttura patriarcale e nella sua verità grottesca (talmente terrificante da risultare ridicola, talmente ridicola da suscitare terrore): l'ideologia di genere (p. 60). Quest’ultima viene criticamente discussa nel settimo e nel decimo capitolo dopo essere stata inquadrata nel quarto capitolo fra le verità assolute del patriarcato, così riassumibili: l’identità è naturale; la sessualità è binaria; la differenza di genere stabilisce i ruoli sociali; il polo maschile gode di superiorità; il polo femminile soffre di inferiorità (p. 38).
Finché l’ideologia patriarcale pretenderà di far corrispondere i ruoli sociali a una presupposta naturalità dei sessi, a loro volta bipartiti per via assiologica, il lavoro non smetterà di essere «un vero problema di genere» (p. 27). Se il sesso è alla base della divisione del lavoro, allora il genere è la versione compiutamente socializzata del lavoro sessuale e sessualizzato. Per tale ragione, sostiene Tiburi, «non possiamo pensare al femminismo senza pensare al lavoro» (ibidem). Il binomio donna e lavoro pone la riflessione non solo sul versante politico, ma anche su quello economico. Tuttavia, Tiburi prescinde da una contestualizzazione storica e da una ricostruzione genealogica di alcuni concetti chiave a partire dai quali svolge l'argomentazione. Concetti come ʻpatriarcatoʼ e ʻcapitalismoʼ, per esempio, rischiano di risultare frettolosamente sorvolati, impedendo una più profonda comprensione del posizionamento teorico dell’autrice. Il ritmo sincopato tipico del pamphlet certamente imprime al manifesto la forza dialettica del pensiero critico, giocando però a detrimento di una riflessione sulle condizioni di possibilità della presa di parola da parte di Tiburi. Solo raccogliendo le tracce disseminate nel testo possiamo tentare di risalire alle premesse storiche e filosofiche di ʻpatriarcatoʼ e ʻcapitalismoʼ dalle quali Tiburi muove. Vale la pena riportare estesamente un passaggio:
Se pensiamo in termini di segni usati per identificare i corpi, diremo che la donna è l’essere identificato per servire al mondo del privilegio patriarcale. Sotto il segno del capitalismo, il mondo è entrato in un divenire donna così com’è entrato in un divenire nero nel senso di identificazione con lo scopo dell’asservimento generale di tutti. Alcuni femminismi sono riusciti a trasformare il segno donna in qualcosa di positivo, ma sta di fatto che, nel patriarcato – che equivale al capitalismo –, le donne sono sempre state figure negative, un ʻaltroʼ creato per l'asservimento (pp. 77-78).
Da un punto di vista storico, l’equivalenza di patriarcato e capitalismo circoscrive il focus sul patriarcato in epoca moderna, sebbene la storia del patriarcato sia notoriamente più longeva. Da un punto di vista filosofico, notiamo come Tiburi ponga l’accento sulla trasformazione impressa nel patriarcato dall’emergere del capitalismo. Tiburi non sembra chiedersi, piuttosto, come il patriarcato si trasformi a partire da se stesso: né in senso diacronico rispetto a sistemi patriarcali che precedono la modernità né in senso sincronico rispetto a sistemi altri dal patriarcato. Il sistema capitalista è indubbiamente uno di quei sistemi altri che in epoca moderna entra in accoppiamento strutturale con il sistema patriarcale. Nonostante s’intersechino, i due sistemi sono comunque operativamente autonomi.
Non converrebbe risalire a quel contratto sociale grazie al quale gli uomini si sono associati, eguali detentori di diritti civili e politici? Seguendo la pista genealogica tracciata da Carole Pateman (2015; ed. or. 1998), filosofa e femminista critica nei confronti di una certa tradizione del pensiero liberale moderno, la negatività attribuita alle donne cui si riferisce Tiburi potrebbe riconfigurarsi come diritto originario degli uomini di negare la politicità degli spazi femminili – siano essi i corpi stessi delle donne o i territori assegnati alle loro cure. Il contratto lavorativo è solo un volto del contratto sociale, quel volto che è stato negato con maggiori difficoltà dal momento che ha chiamato in causa fin da subito una classe di uomini a servizio di un’altra classe di uomini. L’altro volto del contratto sociale è il contratto sessuale, il quale ha sancito l’eguaglianza degli uomini – ognuno essendo proprietario di se stesso – al costo dell’asservimento delle donne. Dunque, potrebbe essere ricondotta alle premesse storiche e filosofiche di cui sopra la dialettica serva-signore che Tiburi ravvisa nella condizione orizzontale occupata positivamente dagli uomini in relazione alla condizione verticale che vede le donne occupare il polo negativo (Tiburi 2020, p. 45). A questo proposito, Tiburi afferma:
Il patriarcato si costituisce attraverso un’equazione: da un lato stanno gli uomini e il potere, dall’altro le donne e la violenza. Il potere che ratifica la violenza contro l’altro sta al sadismo come la sottomissione sta al masochismo. Le donne non possono esercitare il potere politico, economico e di conoscenza, e sono vittime della violenza. Gli uomini esercitano il potere e la violenza contro le donne. Per questo il movimento femminista è anche una lotta contro la violenza esercitata nell’intento di distruggere le donne quando non servono sessualmente, maternamente o sensualmente, quando non producono, non consumano e anche quando criticano questo stato ingiusto. Questo stato di cose verrà trasformato solo dirigendoci verso la produzione di una coscienza femminista veramente radicale (pp. 104-105).
Una prima questione riguarda il valore d’uso per il quale «i corpi sono stati misurati» (p. 23). Il titolo del terzo capitolo, Siamo tutte lavoratrici, rimanda infatti a «la più ampia sfera del lavoro, nella quale è in gioco ciò che si fa per l’altro per necessità di sopravvivenza» (ibidem). Questi pochi indizi ci permettono quantomeno di leggere fra le righe una concezione estesa del lavoro che, se portata alle sue estreme conseguenze, agevolerebbe una teoria generale dello sfruttamento. Le implicazioni di uno sfruttamento generale non vengono approfondite da Tiburi, mentre sono state sviscerate da Christine Delphy, sociologa e femminista francese. Nonostante si riallacci a una scuola di pensiero e a un contesto storico differente, la riflessione di Tiburi potrebbe trovare un'alleata nella definizione primaria di sfruttamento offerta da Delphy: «appropriazione del lavoro altrui» (Delphy 2020, p. 89). Alla distinzione di due economie – il modo di produzione patriarcale (o domestico) e il modo di produzione capitalista – corrisponde il vantaggio di individuare altrettanti beneficiari del profitto: da una parte, nella casa, il capofamiglia che estorce gratuitamente lavoro domestico; dall’altra parte, nella fabbrica, il capitalista che estorce plusvalore a fronte della forza-lavoro salariata. Se, al contrario, si cede all’insidiosa equivalenza di capitalismo e patriarcato – sulla quale Tiburi non fa dovuta chiarezza – si rischia di sovrapporre l’economia capitalista all’economia patriarcale. In sintesi, se il mercato viene naturalizzato come il modello privilegiato delle relazioni domestiche, la donna diventa automaticamente riproduttrice di forza-lavoro, ossia di quella merce (il lavoratore) che produce plusvalore (profitto capitalista), perdendo così per strada la violenza dello sfruttamento specificamente domestico. Riconoscendo autonomia sistemica ai diversi modi di sfruttamento non s’incorre, a nostro avviso, nella depoliticizzazione della sfera domestica: semmai, si fa luce sulla gestione politica dello sfruttamento domestico. In base alle nostre ultime considerazioni, il seguente stralcio di Tiburi può essere letto dirimendo il più possibile gli equivoci, a condizione di dare rilievo alla similitudine introdotta dalla particella ʻcomeʼ – a condizione, cioè, di cogliere il peso metaforico implicito nell’equivalenza:
Ora, il lavoratore è il servo del capitalismo, il che equivale a dire che è come la donna del capitalismo. La donna del lavoratore, dal canto suo, è come la sua serva. Questo significa che, di fronte a una donna, sia essa nella condizione di sposa o puttana, il suo sfruttatore – sia esso a sua volta sfruttato, come nel caso del lavoratore – è in un modo o nell'altro un capitalista (Tiburi 2020, p. 78).
Una seconda questione, che torna a più riprese nel testo, riguarda i marcatori di oppressione (p. 33), ovvero tutti i segni identitari che vengono eterodiretti dal patriarcato. Nella misura in cui quest’ultimo è «caratterizzato dall'associazione intersezionale di genere-razza-classe-sessualità e – aggiungiamo – età e plasticità» (p. 54), il femminismo sarà chiamato a cambiare di segno la rete di intersezioni. Le insidie della investitura dialettica sono inevitabilmente tenute in conto, pertanto un’autocritica interna al femminismo sarà una condizione necessaria (sebbene, da sola, non sufficiente) affinché la lotta non si configuri né come un'ʻutopia matriarcaleʼ né come un “femminismo di moda” (ivi p. 40). In primo luogo, allora, il femminismo è una teoria e una pratica etico-politica della coscienza di sé: mettendo in discussione una possibile deriva autoritaria del femminismo stesso, la lotta potrà resistere non solo a un'inversione della marcatura per mera sostituzione di servi e padrone, vittime e carnefici (p. 103), ma anche a una femminilizzazione del patriarcato. Con l’ultima espressione alludiamo a un femminismo di Stato, ovvero a una cattura del femminismo da parte dello Stato patriarcale, tale da sancire il passaggio dal femminismo (bistrattato) al femminile (elogiato) (p. 62).
In secondo luogo, il femminismo è una teoria e una pratica poetico-politica indirizzata al «riscatto delle parole» (p. 96), vale a dire a una risignificazione della marchiatura. Come possono le donne riscattarsi dalla sottomissione masochistica nella quale sono state collocate (anche da alcune tendenze femministe)? Come reinventare, dunque, le parole? Attraverso il dialogo, suggerisce Tiburi. Tutto l’opposto di una via pacificata al consenso, «il dialogo è un movimento tra presenze che differiscono tra loro» (p. 55). Sgravato dal bagaglio rappresentazionale della svolta linguistica, il dialogo non è medium simbolico di resoconti più o meno fallaci, più o meno devianti di una realtà patriarcale presupposta come unica e vera. Al contrario, il dialogo è il processo con cui territori di senso prima sommersi emergono per collisione.
«In quanto riconoscimento del nostro spazio nella natura e motto della costruzione politica» (p. 135), l’ecofemminismo indicato da Tiburi come «il futuro che dobbiamo conquistare» (ibidem) è un esempio emblematico della molteplicità di voci interne al femminismo. Dal lato ecologico, l’ecofemminismo pone l’accento sulla natura che è stata resa invisibile dal contratto sociale (Serres 2019); dal lato femminista, l’ecofemminismo denuncia la mossa essenzialista con la quale il naturalismo ha assimilato il polo femminile al polo naturale, concepiti entrambi come risorse infinitamente sfruttabili. Il fatto che all’interno di numerosi collettivi indigeni dell’Amazzonia, brasiliana e non, decisamente non tutte siano disposte a dichiararsi ʽecofemministeʼ la dice lunga sulla pluralità di prospettive che difficilmente si lasciano riassumere in un’unica espressione. In breve, quante sono le voci a prendere parola altrettanti sono i femminismi, quanti sono i concetti di ʻnaturaʼ e ʻcorpoʼ espressi altrettante sono le lotte ecologiche e femministe mobilitate.
Affinché lo spazio di parola dell'altra (Tiburi 2020, p. 66) non sia trasformato dall’egemonia concettuale dell’occidente in uno spazio di morte filosofica, il dialogo non potrà che far emergere, anziché negare, le differenze con le quali, agendo di concerto, pensare concetti talmente singolari da avere in comune almeno la lotta: la convergente dissonanza di molteplici istanze anti-patriarcali.
di Giulia Gottardo
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Bibliografia
C. Delphy, Per una teoria generale dello sfruttamento. Forme contemporanee di estorsione del lavoro, trad. it. di D. Ardilli, ombre corte, Verona 2020.
C. Pateman, Il contratto sessuale. I fondamenti nascosti della società moderna, Moretti & Vitali, Bergamo, 2015.
M. Serres, Il contratto naturale, trad. it. di A. Serra, Feltrinelli, Milano 2019.
M. Tiburi, Como conversar com um fascista: reflexões sobre o cotidiano autoritário brasileiro, Record, Rio de Janeiro 2015.
M. Tiburi, Ridículo político: uma investigação sobre o risível, a manipulação da imagem e o esteticamente correto, Record, Rio de Janeiro 2017.
M. Tiburi, Il contrario della solitudine. Manifesto per un femminismo in comune, trad. it. di E. Del Giudice, effequ, Firenze 2020.
Che la teoria sia sede di conflitti, anche aspri, esiziali e ultimativi, tanto da trascinare con sé e pregiudicare in profondità l’obiettività (presunta) dei contendenti, è cosa nota da almeno duecento anni a questa parte (da Hegel in poi). Che il sapere, allo stesso modo, configuri un’occasione per la riproduzione di sistemi di dominio di varia natura, facendosi spesso occasione di esclusione, marginalizzazione e oppressione, anche questo è diventato ormai un truismo della teoria critica contemporanea, informata come è, persino quando non lo dichiara apertamente, da marxismo, freudismo e nietzschianesimo (i quali hanno fatto nello scorso secolo il loro lavoro di decisiva persuasione). Che questa consapevolezza diffusa e diversamente articolata vada poi trasformata in una pratica pedagogica alternativa, incentrata sulla funzione guaritrice della teoria, è invece cosa ben meno scontata e largamente disattesa, nei fatti, da coloro che coltivano e insegnano discipline teoriche in ambito umanistico. Ora, è di questa esigenza, elevata a principio euristico cardinale, che si fa portatore Insegnare a trasgredire. L’educazione come pratica della libertàdi bell hooks, recentemente pubblicato in italiano da Meltemi (2020, 18 euro). Il volume, tradotto da feminoska, nota attivista transfemminista nostrana, prefato da Rahel Sereke e Mackda Ghebremariam Tesfaù, anche loro attiviste della blackness italiana, e seguito da un breve intervento del Gruppo Ippolita, che dirige la collana di Culture radicali in cui è apparso, si segnala innanzitutto per il tono, caratteristico della scrittura saggistica dell’autrice, lontano anni luce dagli stilemi e dai tic della ricerca accademica standard. Al secolo Gloria Jean Watkins, l’autrice, femminista africano-americana, è infatti la rappresentante forse più esemplare di un orientamento della ricerca contemporanea che incentra la propria operatività sull’«enfasi sulla voce» (p. 183) personale e che concepisce, di conseguenza, la «teoria come pratica sociale dal valore libertario» (p. 99). Partendo dalla constatazione di una discrasia fondamentale tra pratica e teoria che affligge il pensiero occidentale, riflessa oggigiorno nell’introduzione nei programmi educativi di argomenti progressisti a cui non fa seguito tuttavia un adeguato mutamento del processo pedagogico, bell hooks discute infatti in maniera dettagliata il modo in cui ogni soggetto, e anzi, meglio: ogni corpo, è sempre implicato in un vissuto che lo colloca necessariamente da una certa parte della barricata, con buona pace di quell’universalità del sapere che è spesso null’altro che il nome attribuito al posizionamento dell’uomo bianco occidentale eterosessuale.
Il libro è articolato in saggi, i quali procedono in maniera concentrica intorno a uno stesso perno: dare spazio, letteralmente e metaforicamente, a coloro che un certo regime di verità – quello, appunto, dei saperi accademici – ha espulso con certosina meticolosità dal novero dei soggetti autorizzati a far risuonare la propria esperienza, i soggetti supposti non sapere. Il piano autobiografico diventa così terreno di verifica sperimentale della proposta di bell hooks, fondata come è sulla rivendicazione di un «accesso significativo alla verità» (p. 61) per tutti/e coloro ai quali e alle quali esso è stato in qualche modo negato. Il racconto della propria formazione prima nelle scuole nere degli anni Sessanta, dove «l’apprendimento e la vita della mente» erano «un atto contro-egemonico, un gesto fondamentale di resistenza alle strategie di colonizzazione razzista bianca» (p. 32), poi nelle scuole desegregate, dove al contrario «improvvisamente, la conoscenza riguardava solo l’informazione» (p. 33), così come la sua esperienza diretta di insegnante, dapprima nelle università private e poi in quelle statali, diventa perciò il filo conduttore di un’inchiesta sulla necessità di abbandonare la concezione «depositaria dell’educazione» in favore di una pratica dell’istruzionein cui «la volontà di sapere» va sempre a braccetto con «la volontà di diventare» (p. 51). Di diventare che cosa? La risposta è netta: capaci di vivere più intensamente la propria esistenza perché, infine, più liberi/e. Il nome di questa pratica, «pedagogia impegnata», va allora inteso nel suo duplice senso: impegnata nei temi e nelle forme, sul piano dell’enunciato ma anche, ancora più significativamente, sul piano dell’enunciazione, dell’insieme dei presupposti pragmatici grazie ai quali parlare non è mai un atto neutro, un semplice comunicare contenuti cognitivi resecati dal resto della vita delle persone, ma sempre anche un atteggiarsi concretamente rispetto alle costellazioni di poteri che informano ogni società. La «narrativa confessionale» e la «discussione digressiva» diventano allora, nel concreto della scrittura come dell’insegnamento, lo strumento principale di tematizzazione della propria condizione, ciò mediante cui «rivendicare una forma di conoscenza» (p. 183) di cui tutti e tutte, studenti e studentesse compresi, possono parlare, sentendosi autorizzati a farlo. D’altronde, ne va di una messa in mora della stessa logica dicotomica che organizza le nostre società, in cui sembra si debba sempre sacrificare qualcosa per accedere al potere che le diverse istituzioni (educative, economiche, politiche ecc.) consentono di beneficiare a chi ne fa parte: «questo processo [l’essere partecipanti attivi nel percorso pedagogico] non è semplice: ci vuole coraggio per abbracciare una visione di completezza dell’essere che non rafforza la narrazione capitalista che suggerisce, invece, che sia sempre necessario rinunciare a qualcosa per ottenerne un’altra» (p. 217).
bell hooks
Ecco allora che uno dei meriti di bell hooks consiste nella capacità di mettere sistematicamente in tensione due aspetti, la razza e il genere, i quali si intersecano spesso, anche all’interno degli ambienti femministi, secondo geometrie tutt’altro che invariabili. Come racconta ampiamente la studiosa, questa linea di frattura interna al campo femminista ha determinato in passato una esclusione programmatica dell’esperienza femminile nera, che, con le sue peculiarità, di razza e di classe, non risponde al tipo della femminista bianca, spesso proveniente da contesti economici e culturali privilegiati. «Eravamo prima donne o nere?» (p. 158), si chiede allora sintomaticamente bell hooks, dando un contributo imprescindibile anche alla «decostruzione della donna come categoria analitica», alla critica dell’«esperienza della donna universalizzata» (p. 124). Il suo invito è dunque a parlare di genere in modo più complesso, tenendo conto della doppia emarginazione, da parte delle femministe bianche e del patriarcato nero, di cui sono state vittime le donne nere (e di colore in generale) nel momento in cui hanno, anche a livello accademico, rivendicato il proprio punto di vista. Scritto in una forma quasi diaristica, Insegnare a trasgredire conduce perciò il lettore in una sorta di progressiva coscientizzazione – termine che la scrittrice riprende dalla pedagogia libertaria di Paulo Freire, vero e proprio punto di riferimento della sua riflessione – concernente il proprio posizionamento nei riguardi del sapere, costringendo chi scrive a chiedersi in che misura possa essere titolato a esprimersi su un libro simile, senza arrogarsi al contempo un diritto di parola che non muove, almeno di primo acchito, da un’esperienza in prima persona analoga a quella evocata dall’Autrice.
Il percorso, pacato e graduale, verso l’acquisizione di un’evidenza che, nel suo carattere meta-teorico, sembra sospendere la vigenza delle prerogative e dei privilegi del discorso universitario, richiede dunque di essere attentamente valutato e meditato, a scanso degli equivoci che potrebbe in prima istanza ingenerare. Nella misura in cui enuncia che ogni teoria risponde sempre anche a un’esigenza singolare, calata nel vivo di un’esistenza materiata, e che non c’è punto di vista universale che non sia comunque anche particolare – che il soggetto del sapere, in altre parole, è sempre un soggetto orientato, incapace di ergersi una volta per tutte al di là di se stesso, per valutare in modo neutrale il punto di vista dell’altro – sembrerebbe, banalmente, autorizzare una forma di relativismo generale sub specie subalternitatis. Al rischio di auto-confutazione che una simile enunciazione comporta, in quanto essa stessa teorica, l’Autrice oppone però un punto fermo invalicabile, che sembra riecheggiare, senza citarlo (almeno in queste pagine), il celebre motto foucaltiano sul sapere – il quale non sarebbe fatto per comprendere, ma per prendere posizione. Con un fondamentale distinguo, però, che anche il “comprendere” – pratica pedagogica se mai ce n’è stata una – è una delle forme del prendere posizione e, per certi versi, la forma per eccellenza con cui ci si atteggia praticamente nel reale, per modificarlo, modificando la propria stessa esistenza (aspetto sul quale, ipotizziamo, il Foucault più tardo, quello dell’estetica dell’esistenza, avrebbe convenuto). Contro quindi chi ritiene che l’alternativa tra pratica e teoria sia inaggirabile, come quella tra verità ed esperienza, e che si tratti, riprendendo la tesi marxiana, di interpretare o di trasformare il mondo, disgiuntivamente, la teoria è presentata da bell hooks come un «luogo di guarigione» (p. 95) a tutti gli effetti: come, in breve, «forma di azione» (p. 99), innanzitutto su se stessi e poi, inevitabilmente, anche sul circostante. Solo un teorico privilegiato, rappresentante del patriarcato capitalista e colonialista bianco, può credere infatti che la teoria sia senza effetti immediati e che vada dunque coltivata a riparo da perturbazioni pragmatiche ed esperienziali d’ogni sorta, con l’esclusione, naturalmente, di quelle che contribuiscono inavvertite alla riproduzione del sistema di dominio vigente. «Penso che uno dei disagi inespressi relativi al modo in cui il discorso su razza e genere, classe e pratica sessuale ha portato scompiglio nell’accademia è proprio la sfida a quella divisione tra mente e corpo. Chi è potente ha il privilegio di negare il proprio corpo» (p. 172). Senza nulla togliere, perciò, al valore più-che-personale del sapere (al suo portato, appunto, in senso proprio scientifico: vale a dire, intersoggettivo e transculturale), dato anzi esattamente dal suo sprofondare nelle proprie condizioni ‘carnali’ di possibilità, bell hooks ci invita a tenere sempre conto della situazionalità in cui ogni atto teorico è fattivamente inserito, senza far finta che se ne possa fare tranquillamente a meno, come si trattasse di scorie da eliminare il prima possibile, perché per il resto non fanno che inquinare (inquietare) la trasparenza cristallina della ragione. La ragione militante – e ogni ragione in un certo senso lo è, anche senza saperlo – è tanto più lucida quanto più si fonda consapevolmente sulle proprie radici auto-biografiche, quanto più espone, nel corpo della sua articolazione logico-concettuale, i segni dell’oppressione che tenta proprio per ciò di scardinare, facendoli diventare il punto di partenza di una vera e propria «comunità di apprendimento». È qui che, credo, anche l’esperienza di un o una non marginalizzato/a, almeno a prima vista, può trovare non solo di che imparare, il che è ovvio e auspicabile, ma anche di che entrare in risonanza, per reperirsi sul limite della propria esperienza di soggetto di sapere che è spesso, nondimeno, soggetto alsapere altrui. Se ci si incunea negli interstizi della propria esistenza in cui si è sperimentato (e chi, in qualche modo, non l’ha fatto?) una qualche forma di esclusione dettata dalla propria appartenenza, anche temporanea, a una categoria non egemonica, la necessità di partire dal sé, per raggiungere il prossimo, diventa inaggirabile. Come discenti, d’altro canto, abbiamo tutti attraversato quella situazione specifica in cui il sapere sembra provenire immancabilmente dall’Alt(r)o, da una fonte esterna sulla quale non si ha il minimo controllo e dalla quale, in ultima istanza, ci si sente sempre giudicati/e. È come operatori di conoscenza che, in primis, si è costretti a riconoscere che il sapere non è un’operazione priva di attriti concreti, a cui ciascuno/a accede sempre da una posizione di relativa marginalizzazione e la cui costruzione avviene però davvero soltanto nello spazio tra le persone, tra i corpi, tra le esperienze, anche le più negative.
Kara Walker
L’evidenza al cospetto della quale ci conduce hooks è dunque la seguente: non c’è teoria in ambito umanistico che non si radichi in un vissuto singolare, senza con ciò erodere tutta la sua eventuale portata veritativa; non c’è concetto che non abbia la sua scaturigine in un affetto situato, che non sia enunciato dalla bocca o esca dalla penna di una persona in carne e ossa, promanando così da un io concreto, incistandosi sempre in una materia viva, senziente, desiderante e, quando è il caso, persino dolente, senza per questo diventare l’incarnazione di una prospettiva solamente idiosincratica, privata, collettivamente inaccessibile. Anzi, è il dolore – quel dolore che un ‘malato’ come Ottiero Ottieri definiva «il problema filosofico più serio» – a essere l’elemento che articola il pensiero all’esistenza, che congiunge il logos al pathos e viceversa: che lega insomma la Ragione, con la maiuscola a capolettera, al corpo (alle ragioni, al plurale, dei corpi), rendendola appunto frequentabile anche dal prossimo e al suo bagaglio di esperienze singolarizzate. Rendendola vera, in un senso al contempo epistemico ed etico. Ecco la consapevolezza di cui una pratica del sapere informata a criteri di unilaterale ‘scientificità’ vorrebbe fare piazza pulita, in quanto ritenuta incompatibile con il ‘rigore’ altrimenti esigito dalla teoria, e della quale sono innanzitutto i cosiddetti “subalterni” a essere i depositari. È nei comportamenti degli ‘anormali’, per usare una categoria di vaga eco foucaultiana, che fa capolino, in modo senz’altro urticante ma indiscutibile, l’implicatura necessaria che ogni atteggiamento epistemico intrattiene con quanto, faute de mieux, si può chiamare la prospettiva in prima persona. Sono loro i tenutari del sapere di secondo livello, e invero di ultimo livello, concernente il radicamento storico e carnale del sapere, l’unico in grado di estrapolarsi dalle proprie condizioni di emersione e di additare se stesso, restando vero. Come scrive bell hooks: «Sono giunta alla teoria attraverso la sofferenza: il dolore dentro di me era così intenso che non potevo più sopportarlo. Sono arrivata alla teoria disperata, bisognosa di comprendere – comprendere cosa stesse accadendo intorno a me e nel mio intimo. Più di ogni altra cosa, desideravo che il dolore sparisse. La teoria ha rappresentato per me un luogo di guarigione» (p. 93). Esiste insomma un sapere, minoritario per definizione, che concerne la centralità inaggirabile del dolore, un sapere che riguarda la necessaria implicatura (uso un termine della pragmatica non a caso) soggettiva della conoscenza, quale che sia la sua forma, per quanto possa essa presentarsi in una veste intenzionalmente avalutativa, neutrale: in una parola, “scientifica”. E questo per un motivo molto semplice: donne, soggetti razzializzati, persone neuro-atipiche, trasgressori della norma eterosessuale, sfruttati d’ogni tipo, malati in generale, coloro che, in un modo o nell’altro, sono considerati innanzitutto come oggetti, prima ancora che come soggetti, e il cui corpo o comportamento non sono mai del tutto invisibili, non possono mai, in forza di quello che subiscono, prescindere dalla loro situazione concreta, segnata invariabilmente da un certo coefficiente di sofferenza. L’invisibilità – come il silenzio degli organi per la salute – è infatti un privilegio dei ‘normali’: l’incorporeo è il prodotto di un modo di esistenza che non conosce (troppi) limiti. «La cancellazione del corpo incoraggia a pensare che stiamo ascoltando fatti neutrali e oggettivi, fatti che non sono legati a chi condivide le informazioni. Siamo invitati a insegnare come se le nozioni non emergessero dai nostri corpi. È significativo che quelli di noi che cercano di criticare i pregiudizi in classe sono stati costretti a tornare al corpo per parlare di noi stessi come soggetti nella storia. Siamo tutti soggetti nella storia. Dobbiamo tornare allo stato di esseri incarnati per decostruire il modo in cui il potere viene tradizionalmente utilizzato in classe, negando la soggettività ad alcuni gruppi ed accordandola ad altri. Riconoscendo la soggettività e i limiti dell’identità, interrompiamo quell’oggettivazione che è così necessaria in una cultura del dominio» (p. 174).
All’alternativa secca di verità ed esperienza, e alla «svalutazione paternalistica» (p. 122) della seconda, bisogna opporre dunque, seguendo bell hooks, la consapevolezza che la verità ultima dell’esperienza (personale) consiste in un'esperienza (interminata e collettiva) di verità: in un apprendimento «senza limiti» (p. 235) in cui pratica e teoria convergono senza mai arrivare a suturarsi definitivamente l’una all’altra, restando aperte a nuovi contributi, sempre. In cui il limite – incontrato ed esperito proprio malgrado – gioca insomma la funzione di ostacolo e di rilancio, al contempo: «anche desiderare è un modo di conoscere» (p. 126). Non si tratta quindi di cedere a forme autoconsolatorie di whisful thinking, ma, si potrebbe dire, di rintracciare nel desiderio stesso una forma di sapere imperniata sulla sua capacità di eccedersi di continuo, nel confronto con la diversità e la difficoltà. Di superare insomma ogni status quo, anche epistemologico, in vista della sua riformulazione condivisa, grazie al pungolo del dolore, di cui una teoria estranea alla vita vorrebbe rimuovere toto cælo la presenza, rinchiudendo ciascuno e ciascuna in se stesso/a, e del quale invece una pratica libertaria dell’educazione non può non tenere conto, per farne il proprio atout fondamentale, risolvendolo nell’esperienza comune dell’imparare. Qui habet aures audiendi, audiat…
Recensione a V. Jullien, Ce que peuvent les sciences, Paris, Éditions matériologiques, 2020
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Questo libro di Vincent Jullien cerca di indagare, con un esercizio impressionante di sintesi, ciò che possono le scienze. Per farlo, l’autore si interroga innanzitutto su ciò che le costituisce e per ciò stesso cerca di giustificare il metodo dell’epistemologia storica. In seguito si occupa di mettere in discussione l’esistenza di una scienza fisico-matematica e nello stesso tempo l’idea di una rottura epistemologica fondamentale tra la fisica e le altre scienze. Infine, nella terza parte, Jullien affronta più direttamente ciò che possono le scienze, esponendo le conseguenze e i progressi che possiamo aspettarci dal loro sviluppo.
L’autore comincia la sua opera instaurando una rottura netta tra i fatti puri, come, ad esempio, «un sasso cade al suolo», e i fatti scientifici, come «un sasso cade al suolo perché l’attrazione gravitazionale lo costringe al suolo». Al pari di Bachelard, si oppone così fin dall’inizio ad alcuni filosofi delle scienze, Meyerson e Carnap, che difendevano l’idea di una continuità tra gli enunciati del senso comune e gli enunciati scientifici. È solo quando questi «stessi fatti materiali […] [sono] accompagnati da un’attività razionale [che] fanno parte delle scienze e della loro storia» (p. 26). La caduta di un sasso al suolo potrà entrare nella storia delle scienze solo dal momento in cui una teoria gli sarà associata. Dalla teoria aristotelica alla teoria della relatività generale, passando per le tesi galileiane e newtoniane, diverse teorie si sono succedute attraverso i secoli per tentare di capire perché e come un sasso cade al suolo. E se le tesi aristoteliche e poi newtoniane sono state confutate, comunque appartengono alla storia delle scienze. Allo stesso modo, le misure prese oppure i principi su cui ci si deve fondare potranno costantemente essere rimessi in discussione. Infatti, se le scienze sono costituite «da ciò che risulta dalla trasformazione razionale dei fatti elementari, di idee e di immaginazioni suggestive in enunciati o attività complessi, allora, le scienze e la loro storia […] non possono che essere in conflitto» (p. 34).
Jullien si interessa poi alla definizione stessa di una teoria scientifica e questo al fine di giustificare meglio la necessità di ricorrere a un’epistemologia storica. In effetti, secondo l’autore, non si può, come avevano preteso di fare in particolare i filosofi del Circolo di Vienna, descrivere la dinamica delle scienze «come un insieme astratto e formale da cui la struttura poteva essere descritta servendosi di considerazioni logiche e formali, insiemistiche, operatorie, algoritmiche» (pp. 46-47). È precisamente in questa stessa prospettiva logico-insiemistica che Carnap escludeva dall’analisi della scienza sia le prospettive storiche che quelle sociologiche. Secondo Jullien, se si può agevolmente prescindere dalle condizioni sociologiche all’interno delle quali una teoria scientifica è stata prodotta per comprenderla, questo non è valido per la sua storia: «la sociologia ci propone il contesto della teoria e la storia ci suggerisce il testo» (p. 48). Questa tesi concorda con quella difesa da Jullien, in appendice alla sua opera, sull’esternalismo. Le ragioni ideologiche, religiose, politiche o morali sono quindi considerate dal filosofo come esterne alle teorie scientifiche, poiché non giocano un ruolo probante nei confronti del contenuto delle teorie elaborate e neanche sui loro dispositivi sperimentali.
La storia costituisce dunque per Jullien la fonte principale di analisi della scienza e questo soprattutto per tre ragioni: innanzitutto perché dei concetti come principio, anomalia oppure refutazione trovano davvero un senso e un’efficacia solo all’interno della storia delle scienze; poi perché si capisce meglio lo stato presente di una scienza e dei suoi problemi alla luce della sua storia; infine perché alcune linee di argomentazione moderne sono la ripresa di argomentazioni apparse nelle controversie scientifiche passate, come per esempio la questione dell’unificazione concettuale dello spazio e della materia. Jullien precisa poi, basandosi in particolare su Bachelard, la specificità della storia delle scienze rispetto alla storia generale: la prima, al contrario della seconda, permette di giudicare le attività umane passate, in questo caso le attività scientifiche. Questo giudizio dello storico sarebbe possibile grazie all’idea di un palese progresso delle scienze attraverso la storia: «è solamente se si pensa che il progresso esiste nelle scienze che l’epistemologia può ”giudicare”» (p. 70). Non solo capiamo meglio lo stato attuale di una scienza alla luce delle sue problematiche passate, ma la conoscenza dello stato presente di essa sembra anche uno strumento indispensabile alla comprensione dei suoi stati anteriori. La teoria della relatività generale permette anche di capire meglio l’interesse della tesi cartesiana della materia estesa, che identificava già la materia e lo spazio. Jullien non difende peraltro una concezione whiggista della storia della scienza che consisterebbe soprattutto nel fare la storia dei vincitori. Questo però non deve neanche farci cadere nell’«illusione “storicista” che ci farebbe credere che possiamo pensare oggi le controversie nelle condizioni in cui si produssero» (p. 83).
La seconda parte dell’opera consiste nel dimostrare che, nonostante l’associazione molto stretta che unisce la matematica e la fisica, non si può realizzare la fusione di questi due domini in un’unica scienza, facendo sparire per ciò stesso la loro natura distinta. Proprio come ciò che chiamiamo tecnoscienza non può eliminare la distinzione essenziale tra tecnica e scienza, come spiega Jullien in appendice al suo libro. Questa seconda parte sembra costituire una parentesi, in quanto la terza parte pare rispondere e prolungare l’impresa iniziata nella prima. In realtà essa è imprescindibile, perché il mantenimento della distinzione essenziale tra gli oggetti e le procedure della fisica e della matematica permette di giustificare un approccio epistemologico comune per la totalità delle scienze della natura, senza negare l’intensità particolare del legame tra fisica e matematica.
Jullien comincia con l’esame dei rapporti che la fisica e la matematica hanno intrattenuto a partire dall’Antichità. Fino al XVII secolo, «lo studio del mondo sensibile, la filosofia naturale, è debolmente stimolata o animata dalla matematica» (p. 116). Dopo di che «con Galileo, ma anche con Keplero, Cartesio, […] la matematica occupa […] un posto chiaramente più grande nella costituzione delle teorie e delle attività fisiche.» (p. 123). Questa matematizzazione delle scienze dei corpi materiali inanimati è accompagnata da una duratura separazione dalle scienze biologiche. Tuttavia, benché questa associazione tra la fisica e la matematica sia maggiore, la distinzione tra loro non cessa di esistere. Infatti, secondo Jullien, non si deve confondere un’articolazione forte tra questi due domini – come nella legge della caduta dei gravi enunciata da Galileo – con una fusione di questi due domini che condurrebbe all’esistenza di oggetti e di procedure fisico-matematiche.
Se secondo Cartesio la matematica ha chiaramente solo un ruolo metodologico per la filosofia e la fisica, in quanto abitua lo spirito a riconoscere la verità così come a ragionare rigorosamente, la matematica occupa, nei Principia di Newton, un posto molto più centrale potendo lasciar supporre una fusione dei due domini. Tuttavia, ancora una volta, articolazione non è fusione e «la natura dei diversi piani della teoria fisica newtoniana è chiaramente distinta» (p. 136) poiché il livello superiore e inferiore della teoria sono fisici mentre i concatenamenti e gli sviluppi dipendono della matematica. Per Leibniz, la barriera che separa la matematica dalla fisica sembra molto più netta. La prima costituisce un vasto campo di possibilità da cui la fisica può attingere, al contrario di Newton che «costringe le forme matematiche utilizzate ad essere, fin da principio, delle espressioni delle cose fisiche» (p. 144). Dunque, una divisione del lavoro tra fisica e matematica è stata stabilita e la grande efficacia di questo nuovo metodo non deve farci credere in una dissoluzione di questa distinzione. Rispetto alla sua nascita nell’Antichità, è solo da tre o quattro secoli, in sostanza, che la fisica utilizza come strumento principale del suo sviluppo la matematica.
Quanto alla matematizzazione delle scienze biologiche, rifiutate da Buffon e Diderot, si dovrà aspettare la fine del XX secolo affinché si sviluppi davvero. Tuttavia, anche se «l’uso della matematica è diventata un’evidenza per la biologia nel corso del XX secolo», ciò non toglie che la matematica, come fa con la fisica, possa unicamente costituire un mezzo che permette un progresso più ampio delle scienze biologiche. Pertanto, «ciò che separa la fisica dalle altre scienze della natura è di minor rispetto a ciò per cui si assomigliano» (p. 190). Un grande numero di punti comuni permettono un avvicinamento tra l’epistemologia delle scienze biologiche e quella dei corpi inanimati: la costituzione dei fatti scientifici, il ruolo delle anomalie, l’elaborazione delle ipotesi e delle teorie, le attività di laboratorio, ecc.
La terza parte del libro ha come obiettivo principale quello di mostrare, questa volta direttamente, ciò che possono le scienze, sia biologiche sia fisiche. Le teorie scientifiche ci hanno permesso innanzitutto di ottenere una grande quantità di conoscenze, come per esempio l’età della Terra, il suo diametro o anche l’evoluzione delle specie. Tuttavia, dobbiamo notare che queste conoscenze sono valide indipendentemente dalle teorie che ci hanno permesso di scoprirle. È per questo che «se è pertinente convalidare il progresso delle conoscenze grazie alle scienze, lo stesso non può dirsi per le teorie scientifiche stesse. Il loro progresso è infinitamente più delicato da afferrare e soggetto a contestazione.» (p. 197). Diversi schemi esistono per descrivere il progresso delle teorie scientifiche: «il progresso per accumulazione, per inclusione o incastro, per perfezionamento o per sviluppo; può anche essere pensato come ciclico o asintotico» (p. 197). Lo schema dell’incastro, che è difeso dal positivismo logico, consiste nel fatto che teorie più potenti vengono a superare e includere le precedenti. Sia Kuhn che Popper o anche Bachelard si sono opposti, ognuno a suo modo, al modello dell’incastro. Se Jullien condivide, con questi tre autori, l’idea di un progresso delle teorie scientifiche attraverso le rivoluzioni, egli difende, allo scopo tuttavia di escludere il relativismo scientifico, l’idea che una nuova teoria può sostituirne un’altra solo se è più potente. Questo è il motivo per cui, e su questo punto Jullien diverge da Kuhn, si può instaurare una commensurabilità possibile tra le teorie.
Partendo da ciò, Jullien difende insieme il carattere provvisorio e confutabile delle teorie, che per ciò stesso non sono mai vere, e il progresso delle conoscenze e teorie scientifiche. Come però si possono sostenere insieme il progresso delle conoscenze e teorie scientifiche e nello stesso tempo il fatto che queste ultime non siano mai vere? La risoluzione di questo paradosso, centrale nell’opera, si basa sull’idea, difesa anche da Kuhn, che man mano che la scienza progredisce, lungi dal farci avvicinare a una verità della natura, accresce solo la nostra ignoranza di essa. Quando l’esistenza della volta celeste che comprende il mondo fu confutata, questo permise certo un incremento delle nostre conoscenze dell’Universo, ma ciò che c’era al di là delle stelle visibili diventò una fonte notevole di ignoranza. Le scienze non hanno quindi il potere di scoprire né di dirigersi verso la verità della natura, ma forse permettono di «migliorare senza fine la qualità del dialogo che la nostra ragione intrattiene con essa» (p. 17).
Jullien approfitta del capitolo seguente per affrontare il metodo induttivo. Per Darwin, le collezioni dei minerali come quelle dei fossili vegetali e animali accumulate dai naturalisti non costituiscono per niente una scienza geologica o degli esseri viventi: «i fatti puri, non importa quanti siano, rimangono in silenzio e non forniscono teorie, spiegazione, intelligibilità.» (p. 228). Anche la scoperta di Fleming della penicillina non costituisce un elemento probante a favore del metodo induttivo. Infatti, da decenni prima di questa scoperta, i batteriologi cercavano un anticorpo che impedisse la proliferazione dei batteri e «secondo Popper, non era la prima volta che si osservava l’impianto accidentale di una muffa battericida in una coltura microbica […]. Il lampo geniale di Fleming fu di congetturare che la penicillina aveva questo ruolo» (p. 241). È solo nella misura in cui sappiamo prima ciò che i fatti bruti possono insegnarci che essi possono acquisire un senso nello sviluppo delle scienze. Inoltre, la storia delle scienze ci mostra che «gli sviluppi scientifici non sono avvenuti sul modello dell’induzione» (p. 246).
Le scienze possono, infine, essere esplicative, cioè – nel senso di Cartesio – indicare le cause dei fenomeni. La storia delle scienze però mostra «delle belle e potenti teorie che rimangono debolmente o molto debolmente esplicative» (p. 257). Così, la debole capacità esplicativa della dottrina newtoniana non fu un ostacolo alla sua ricezione e al suo successo. Così come anche la funzione, per esempio il fatto di spiegare l’esistenza dell’occhio grazie alla necessità della vista, «non è in grado di proporci un orizzonte, un limite verso il quale tenderebbero le nostre conquiste scientifiche» (p. 267), non più del principio di economia.
Questo libro termina con alcune considerazioni sulla pandemia di Covid-19. Secondo l’autore, «lo schema di sviluppo […] di questo episodio scientifico ha alcune possibilità di rimanere valido e darci alcune idee di ciò che possono e di ciò che non possono le scienze» (p. 297). La matematizzazione delle scienze, attraverso in particolare l’epidemiologia, è qui notevolmente all’opera; un grande numero di piste di trattamenti o di vaccini ha potuto mostrare il ruolo centrale dell’immaginazione dei ricercatori. Inoltre, la velocità molto più grande con cui il virus ha potuto essere sequenziato attesta i progressi spettacolari delle conoscenze scientifiche. Progressi che, anche in questo caso, non si sono sviluppati senza un incremento dell’ignoranza.
Ciò che possono le scienze è un’opera che, grazie al suo sforzo di esaustività e alla sua ambizione, è decisamente stimolante. Jullien prova infatti ad interessarsi sia alla fisica sia alla chimica, alla geologia o alla biologia, ossia alla totalità delle scienze considerate come scienze della natura. Tuttavia questa esaustività non si spinge fino alla comprensione delle scienze umane e sociali – naturalmente c’è sempre una forma di ingiustizia nel rimproverare a un libro una mancanza di esaustività. Come afferma Jullien, «l’idea di scienza esige qualche informazione che risponde, seppure incompletamente, al perché o al come della cosa di cui si tratta» (p. 23). La storia, la sociologia ma anche l’economia non cercano anche loro di fornire delle informazioni che rispondono al perché o al come dell’oggetto in questione? Non cercano anche loro di spiegare i fenomeni quand’anche questi fossero i risultati delle azioni umane? Questa domanda ci sembra tanto più legittima considerato che una parte di queste scienze ricorre sempre di più allo strumento matematico. L’autore stesso si serve di un esempio proveniente dalle scienze economiche per mostrare i limiti dell’approccio induttivo nei Big Data: «così abbiamo visto le previsioni economiche di natura (IA, BD) incapaci di vedere arrivare le grandi crisi finanziarie degli anni 2008-2009, mentre i teorici le annunciavano» (p. 269). Ciononostante, sembra che sia possibile trovare un inizio di risposta alla fine del primo capitolo. In effetti, come ricorda Jullien, benché la storia delle scienze sia caratterizzata dalle sue controversie, dei vasti quadri teoretici finiscono sempre per essere accettati, anche provvisoriamente: «è anche, secondo me, una caratteristica di ciò che possiamo chiamare scienza, cioè questa facoltà che hanno le teorie scientifiche e le controversie all’interno delle quali si sviluppano, di offrire delle vaste sintesi (ciò che Kuhn chiama la scienza normale). A contrario, disponiamo probabilmente di un buon criterio per individuare le false scienze, questi domini dove non si impone mai un punto di vista consensuale e che non conoscono mai un ritmo “normale”» (p. 41). Questo significherebbe che le scienze umane e sociali sarebbero delle false scienze in cui non si impone mai un punto di vista consensuale? Bisognerebbe dedurre una differenza tra ciò che possono le scienze della natura e ciò che possono le scienze umane e sociali? Sfortunatamente, l’autore non risponde a queste domande.
Recensione a bell hooks, Elogio al margine. Scrivere al buio, a cura di Maria Nadotti, TAMU, Napoli 2020, pp. 258.
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Un corpo unico fatto di margine e centro
Per molto tempo, il pensieroè stato orfano di madri. In balia di padri autoritari, molte figlie hanno imparato a costruire concetti mettendo da parte il proprio particolare sentire. Nel far ciò hanno aspirato, più o meno consapevolmente, a una falsa uguaglianza, che altro non era che un’omologazione del femminile al maschile. È necessario, pertanto, «pensare attraverso le madri» (Woolf 2013, p. 67) oltre che attraverso i padri. Tale bisogno è stato intercettato ed espresso da Gloria Jean Watkins, che, giovanissima, ha scelto di lasciare impressa la firma di bell hooks sui propri scritti. Questo nome è infatti un richiamo alle due donne – la madre e la nonna – che più di ogni altro hanno saputo insegnarle il prezioso valore della resistenza, tema su cui si concentra il primo saggio di Elogio al margine. Scrivere al buio, a cura di Maria Nadotti, TAMU, Napoli 2020, pp. 258. In esso, la casa viene individuata come un sito di resistenza sorretto dalle donne, in cui imparare «a stare al mondo con dignità, con integrità» (p. 29) e, soprattutto, un luogo in cui imparare «ad avere fede» (ibidem). Pertanto, l’idea dell’interconnessione tra genere, classe e razza, che ha reso bell hooks un’«“intersezionalista” avant la lettre» (Bränström Öhman 2010, p. 285), emerge sin dalle prime pagine di questa raccolta di saggi, curata e tradotta da Maria Nadotti, pubblicata da Feltrinelli nel 1998 e riproposta ora – insieme a Scrivere al buio – da Tamu Edizioni. La scrittrice afroamericana sottolinea la rilevanza del ruolo delle donne nere, che si sono assunte il compito di «fare della casa una comunità di resistenza» (p. 31), necessaria per la formazione della solidarietà politica. Infatti, ultime tra gli ultimi, le donne nere hanno saputo trasmettere ai propri figli l’importanza di dare un valore alla propria vita, scegliendo quotidianamente di sacrificarsi per la famiglia. Pertanto, la graduale trasformazione del sovversivo focolare in un sito di dominio patriarcale, con la conseguente svalutazione dell’esperienza delle donne, avrebbe avuto, secondo hooks, un impatto negativo sulla lotta di liberazione dei neri.
Sesso e razza convergono in un punto: il corpo delle donne. Quest’ultimo è l’elemento che consente al dominatore di esercitare ed esibire il proprio potere: i «maschi dominati vengono deprivati del loro potere (vale a dire ridotti all’impotenza) ogni volta che le donne che essi avrebbero il diritto di possedere […] vengono fottute e sottomesse dal gruppo maschile dominante e vittorioso» (p. 43). Allo stesso tempo, il corpo delle bianche diviene l’oggetto del desiderio incontenibile e vendicativo del cosiddetto stupratore nero («una storia» che, oggi, viene spesso calcata da chi sostiene, più o meno esplicitamente, che certa gente è meglio non accoglierla).
bell hooks è stata una delle prime a cogliere che «razzismo e sessismo sono sistemi interconnessi che si rafforzano e si sostengono a vicenda» (p. 46). A ben vedere, infatti, maschi bianchi e neri, grazie al sessismo, identificano entrambi la libertà con la virilità. In una società sessista fondata sulla supremazia bianca, bisogna tuttavia riconoscere che il corpo delle donne bianche ha un valore superiore rispetto a quello delle donne di colore. Questi temi, ben sviscerati all’interno del secondo saggio, Riflessioni su razza e sesso, sono ripresi all’interno del quarto. Qui, vengono connessi alla questione dello sguardo oppositivo delle spettatrici nere, le invisibili, che sarebbero riuscite a «valutare criticamente il fatto che il cinema abbia costruito la femminilità bianca come oggetto dello sguardo fallocentrico e a scegliere di non identificarsi né con la vittima né con il persecutore» (p. 89). Il discorso sul cinema e sui limiti della critica cinematografica femminista, fondata su un’astorica struttura psicoanalitica, che privilegia la differenza sessuale senza considerare le politiche di razza e il razzismo (si veda Valdivia 2002, p. 439), rientra in un discorso più ampio sul valore dell’estetica. Tema questo che viene sviluppato nel terzo saggio, in cui l’estetica è innanzitutto inquadrata come «un modo di abitare lo spazio, una posizione particolare, un modo di guardare e trasformarsi» (pp. 58-59). Anche questa volta, hooks parte dalla propria esperienza, situando cioè il suo punto di vista e la sua pretesa di conoscenza. Con ciò conferma i propri scritti come «un corpo di lavoro», in cui «l’arazzo delle parole è davvero la vita in crescita e mutevole del testo» (Bränström Öhman 2010, p. 286).
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Foto di Giulia Castagliuolo
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L’ideologia suprematista bianca – ricorda bell hooks – non ammetteva che i neri avessero le capacità per misurarsi con l’arte. Per reazione, questi hanno enfatizzato l’importanza dell’arte e incentivato la produzione culturale, considerandole addirittura «il modo più efficace per opporsi» (p. 60). Tutto ciò ha condotto all’articolazione cosciente di un’estetica nera, messa a punto da critici e artisti afroamericani e rispondente all’esigenza di stabilire un nesso tra produzione artistica e politica rivoluzionaria. Tale tentativo è tuttavia sfociato in una sorta di “nazionalismo culturale”, che ha avuto l’effetto di ridurre «a zero quasi in tutti i campi, tranne che nella musica, la produzione artistica degli afroamericani» (p. 68). Il discorso sull’arte nera viene ulteriormente ampliato all’interno di Nerezza postmoderna, in cui è affrontata la questione del valore della critica all’essenzialismo per il riconoscimento delle molteplici esperienze da cui l’identità nera dipende. Inoltre, viene avanzata la proposta di concepire la cultura popolare come il vero luogo della lotta di resistenza per il futuro.
L’ultimo saggio, che dà il titolo all’intera raccolta, è il ponte attraverso cui siamo immessi nella seconda parte del volume, Scrivere al buio: l’intervista di Maria Nadotti a bell hooks. Il margine è il luogo da cui riflette la scrittrice afroamericana, uno «spazio di apertura radicale» dove «la profondità è assoluta», un luogo in cui si «è costantemente in pericolo» (pp. 126-127), perché favorisce prospettive diverse e in continuo cambiamento. Si tratta di uno spazio strategico «a cui restare attaccati e fedeli» (p. 128), che offre la possibilità di una prospettiva radicale e innovativa da cui guardare, creare e immaginare. È dal margine che bell hooks ci parla, e lo fa sempre in forma dialogica: l’indagine più strettamente teorica e la riflessione sull’esperienza personale sono tenute insieme, non aderendo perciò ai principi della cosiddetta prosa accademica convenzionale. Questo atteggiamento ha contribuito a farle assumere una posizione piuttosto ambivalente all’interno della teoria femminista contemporanea: malgrado il suo lavoro sia conosciuto e menzionato con rispetto a livello internazionale, è comunque considerato poco “teorico”, soprattutto se paragonato a quello di altre pensatrici femministe (Butler, Spivak, Haraway). Entriamo così in una questione che risulta ancora spinosa e che riguarda il femminismo, i suoi obiettivi e le sue articolazioni.
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Foto di Tamu Edizioni
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Fuori dal nostro studiolo comodo e confortante, attraversando le strade o sostando nelle piazze (virtuali e non), potremmo essere costretti a vivere le conseguenze pratiche delle opinioni di certe persone, che, alla parola femminismo, si raffigurano un fenomeno unitario, opposto al maschilismo. Esse immaginano le femministe come una cricca di fanatiche, le cui azioni esprimono la volontà di fare a meno degli uomini e di prendere il loro posto nel mondo. Eppure, il femminismo, con le sue “ondate” e le sue “correnti”, è tutt’altro che un fenomeno unitario (si veda Missana 2014 e Ghigi 2018). C’è però chi, come Julia Kristeva, sostiene che le varie correnti, ambendo a «realizzare su questa terra la teologia paradisiaca» (Kristeva 2018, p. 20), si sono irrigidite in un militantismo senza futuro, che ignora la singolarità dei soggetti e che avrebbe reso la lotta delle donne «più individuale e solitaria» (p. 176). Di conseguenza, spesso si crede di essere delle femministe per il semplice fatto che si lotti per la parità sul posto di lavoro, o in favore dell’aborto o contro le molestie sessuali. Ma basta davvero questo? Secondo hooks, il «vero femminismo» sta nella capacità di misurare noi stesse nel rapporto con gli altri; nella capacità di fare i conti con il sessismo che ci trasciniamo dentro, trasformando continuamente la nostra prospettiva sul mondo. Ponendo al centro l’interazione con gli altri, hooks promuove la validità dei gruppi di autocoscienza femminile, ed esprime la necessità di spazi – le cosiddette cliniche femministe – dove fare rete per individuare strategie concrete che, associate all’analisi della propria particolare situazione, portino a un cambiamento radicale.
Occorre contrastare il fatto che, oggi, con l’istituzionalizzazione del pensiero femminista nell’accademia, molte femministe abbiano «smesso di uscire di casa e di cercare altre donne che la pensino come loro, donne con cui parlare, con cui discutere per ore» (p. 184). Il conservatorismo a cui spinge l’accademia spegne – secondo hooks – la forza radicale e rivoluzionaria del pensiero femminista.
In un Paese come l’Italia, in cui il movimento politico delle donne sembra tanto debole quanto la voce degli women’s studies, potremmo fare davvero tesoro delle riflessioni di bell hooks per costruire nuove prospettive e nuovi errori.
di Giulia Castagliuolo
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Bibliografia
A. Bränström Öhman, bell hooks and the Sustainability of Style,“NORA – Nordic Journal of Feminist and Gender Research”,vol. 18, n. 4, 2010, pp. 284-289.
R. Ghigi, Ritorno al corpo: epistemologie femministe e realtà sociali, in S. Besoli e L. Caronia(a cura di), Il senso della realtà. L’orizzonte della fenomenologia nello studio del mondo sociale, Quodlibet, Macerata 2018.
E. Missana, Donne si diventa. Antologia del pensiero femminista, Feltrinelli, Milano 2014.
J. Kristeva, Simone de Beauvoir. La rivoluzione del femminile, Donzelli,Roma 2018.
V. Woolf, Una stanza tutta per sé, Newton Compton, Roma 2013.
A.N. Valdivia, bell hooks: Ethics From the Margins, “Qualitative Inquiry”, vol. 8, n. 4, 2002, pp. 429-447.
Rileggere un libro dopo vent’anni porta con sé molti significati: perché molte solo le cose cambiate da quando “I Nuovi Maestri” uscì nelle librerie, nel 2000. Gran parte dei protagonisti del libro sono scomparsi, e il mondo architettonico e non solo è profondamente cambiato: tanto più che questo libro guarda a un momento specifico, il secondo dopoguerra, che vede a uno sforzo impressionante per caratterizzare il fare architettura come atto culturale. Se già alla prima uscita del libro quel mondo di impegno idealista sembrava lontano, questa nuova edizione – arricchita di una nuova introduzione sempre di Giovanni Durbiano, una diversa copertina (più ironica ma bruttina), una nota bibliografica curata da Aurora Maria Riviezza e soprattutto svariate puntuali, significative correzioni al testo – torna in un mondo in cui quel passato appare addirittura mitico. La vicenda dei “Nuovi Maestri”, come Bruno Zevi definirà i giovani architetti che ne furono protagonisti, come Vittorio Gregotti, Aldo Rossi, Guido Canella, Carlo Aymonino, Luciano Semerani, Francesco Tentori, Roberto Gabetti e Aimaro Isola (l’unico ancora in vita), nasce in una cornice di incredibile attivismo studentesco, testimone di una maturità e di un impegno che appare oggi persino eroico. Un attivismo fecondo – al convegno "Architettura moderna e tradizioni nazionali", che l'Unione Internazionale Studenti organizza nel 1954, parteciparono ben 27 nazioni – e indomito. Il nemico designato sono le facoltà di architettura, accademie ormai avulse dalle forme e dai bisogni delle nuove forme sociali post-belliche: luoghi conservatori e sterilmente formalisti – lapidario in questo il giudizio di Gregotti (p. 30). Ma il giudizio degli studenti è impietoso anche nei confronti di un mondo professionale che, al contrario, di quella realtà post-bellica è fin troppo pronto ad approfittare, con un costruito diffuso che brutalizzerà il territorio italiano senza minimamente curarsi dell’attualizzata querelle des Anciens et des Modernes o di questioni di “significato”. Così, in modo tentativo e incoerente, i Nuovi Maestri legano da un lato ideologia politica e idee sulla società e, dall’altro, ragionamenti su forma e linguaggio architettonico.
A livello politico, com’è prevedibile dopo il conflitto, le posizioni degli architetti vanno in massa a sinistra, cercando una sponda nel PCI attraverso la scrittura su riviste promosse dal partito (Rinascita, Società, Il Contemporaneo). Già qui emerge una prima ambiguità. Se, come abbiamo visto guardando ai suoi modelli “radiosi”, il pensiero di Le Corbusier – uno dei padri del Moderno – non solo era coerente, ma richiedeva un pensiero totalitario (e di Philip Johnson è stato recentemente svelata la sua convinta adesione al nazismo), allora la rivolta avrebbe dovuto essere contro il Moderno tout court: contro le sue modalità ideologiche, non le sue derive stilistiche. Certo in Italia la relazione tra regime e architettura era ambigua (lo esemplifica l’opera di Marcello Piacentini), e così la matrice etica del modernismo – un’etica delle intenzioni portata alle sue estreme conseguenze – esce immacolata dallo spettro critico dei più: l’aver introdotto un metodo simil-scientifico pare anzi poter affrancare gli architetti da quella dimensione prettamente decorativista cui il nuovo mondo della progettazione (ove gli ingegneri si affacciano in modo sempre più deciso) sembra ridurli. Quindi, morto il Moderno, viva il Moderno: il problema diventa semmai capire come continuare a essere moderni senza usarne le forme, ormai ridotte a stilema dal cosiddetto International Style. Nasce così il cosiddetto “dibattito sulla tradizione”: perché nel passato e nelle continuità va ricercata lo spirito delle società. Ma quale passato? Per Aymonino e Tentori quello dei fatti e dei luoghi sociali (la strada, la piazza), per Rossi quella dei “motivi” (p. 124), che poi diverranno i tipi ne L’architettura della città – massimo tentativo di dare dignità scientifica a questo approccio. Si vieta il revival, ma si loda la ripresa di elementi. Si aborrisce l’eclettismo, ma si apprezza l’uso culturale di elementi significativi del passato – nasce infatti il movimento dei “giovani delle colonne”. Sembra un distinguo troppo dialettico per essere anche performativo? Lo è. Infatti, a distinguere neoclassicismo “razionale” (buono) e neoclassicismo “eclettico” (cattivo) Rossi evoca una fin troppo fumosa “coscienza storica” (p. 125). La potenza retorica tracima, trasfigurando ogni fatto architettonico secondo un simbolismo che attribuisce alle intenzioni una corrispondenza netta nelle forme: netta, ma non condivisa tra i vari autori. Ne risulta un “insieme disomogeneo e contraddittorio di elementi, in cui si mescolano l'avversione all'ideologia comunitaria e l'interesse per le forme della città storica, la svalutazione della figura dell'intellettuale cosmopolita e la sfiducia nella tecnica urbanistica come nel disegno industriale" (p. 81). Non sorprende perciò che, infine, il PCI non trovi il legarsi a simile retoriche particolarmente utile: così fallisce il tentativo di connotare politicamente il fare architettura.
Fuori dall’accademia, fuori dalle riviste politiche, diventa chiaro che il dibattito deve trovare un luogo diverso per potersi davvero sviluppare: quel luogo è la Casabella-Continuità diretta da Ernesto Nathan Rogers. Fine intellettuale, era un Rogers "modello di impegno civile e intellettuale" (p. 34), mai compromesso con il fascismo (era ebreo, e Gian Luigi Banfi, uno dei co-fondatori del suo studio – i BBPR – morì deportato a Gusen) o con le facoltà di architettura (vi entrerà da docente solo nel 1952). Al di là poi della statura morale, Rogers era un vero “maestro”: frequentava i CIAM, era conosciuto a livello internazionale, aveva opere già rilevanti alle spalle (dalla Casa per il Sabato degli Sposi al Piano Regolatore di Milano). Soprattutto, Rogers aveva un approccio autenticamente culturale – cioè, non solipsistico. Convinto dell’inscindibilità tra etica ed estetica ma insieme antidogmatico, quando nel 1954 assume la direzione di Casabella la trasforma in un luogo di discussione (p.47), curando un progetto editoriale che spazia dal cucchiaio alla città "con un ruolo paterno, svolto con autorevolezza e condiscendenza" (p. 60). Casabella-Continuità seleziona opere italiane, accetta proposte di pubblicazione, le inserisce in prospettive internazionali, ospita retrospettive, dà possibilità di risposta in un modo che oggi, purtroppo, nessuna rivista ha il coraggio di riproporre.
Tra i maestri, vecchi e nuovi, diventa quasi una gara a chi è più autentico, con rivendicazioni di purezza morale e accuse reciproche di eclettismo: certo ora possiamo guardare all’eclettismo (al di là della sua definizione stilistica) come una dimensione analogica forse persino inevitabile del fare architettura (lo capirà Rossi molto più tardi nella sua Autobiografia scientifica, libro non a caso inviso ai suoi seguaci), ma all’epoca era un’accusa infamante. Essere eclettici significava infatti essere carente del “carattere polemico che caratterizzava l'intransigenza di un mondo figurativo del razionalismo" (p. 134). Solo che nessuna architettura sembrava davvero incarnare i ragionamenti dei Nuovi Maestri, sintetizzandone gli afflati etico-estetici e insieme superando il modernismo. È molto importante evidenziare quanto ambiguo sia questo nodo: in un dibattito in cui si disquisiva di legittimazione del progetto, a fronte dei roboanti proclami sulla società e il significato degli edifici, mai questi venivano poi guardati in base al loro “successo”. Un edificio che avesse fatto la gioia di una comunità non sarebbe stato comunque buono senza un’adeguata veste simbolica, anche se, ed è questo il punto, nessuno sapeva quale questa veste dovesse essere! Il dibattito si risolveva sempre in un "continuo appello a principi poi non verificati sul piano dell'architettura" (p. 187).
Così è paradossale che sia l’opera di un giovane torinese, Giorgio Raineri, ad essere celebrata nel numero 212 come riferimento del nuovo linguaggio architettonico. Perché Raineri (così come Gino Valle, similmente incensato) era “solo” un bravissimo professionista. Il suo operato non derivava da profonde elucubrazioni sul significato che una colonna avrebbe avuto per la società o sul ruolo socio-politico dei suoi edifici: ma da una squisita padronanza dell’arte architettonica. La sua "indipendenza da sovrastrutture ideologiche" (p. 160) gli permette cioè di sopravanzare i vincoli di un dibattito tanto raffinato quanto sterile, che condurrà infatti alla diaspora dei Nuovi Maestri. L’opera di Raineri è il primo passo, insomma, verso il disincanto. Disincanto completato, nel 1957, da Gabetti e Isola, cui viene dedicato ampio spazio nel numero 215 (un numero incredibile per ricchezza e densità di contenuti). Rifiutando “l’astrattezza metodologica funzionalista [,] negando il rapporto necessario che dovrebbe legare linguaggio razionalista ed etica, spezzando il nesso ideologico che si voleva conducesse la ricerca architettonica su una strada di riscatto sociale"(p. 192), Gabetti e Isola invalidano la radice stessa della modernità, valorizzando non la rivoluzione sociale, ma la contingenza specifica. Non si rifiuta l’architettura razionalista, ma la sua fiduciosa certezza di offrire soluzioni: in una vena intimista e poetica decisamente influenzata dal pensiero di Luigi Pareyson, nessun linguaggio è precluso, in un eclettismo che opera caso per caso, ogni volta di nuovo. Tanto che lo stile di alcune loro realizzazioni – il neoliberty – diventa agli occhi della critica internazionale il simbolo della “ritirata italiana dall’architettura moderna” come scrisse Reyner Banham in occasione dell'Expo 1958 di Bruxelles. Naturalmente ai Nuovi (e Vecchi) Maestri questa ritirata è indigesta (p. 195), ma finalmente cade l’illusione che negli anni precedenti era stata tanto animatamente nutrita: che il metodo del Moderno, sintesi “dell'utile e della bellezza (eticamente indissolubili)" (p. 196), sia necessariamente giusto, e che sia stato il mondo architettonico a tradirlo, trasformando il nobile e necessario impegno nel cambiare la società in banali questioni di stile. Il disincanto di Gabetti e Isola verso la capacità performativa dell’ideologia permette loro di ritagliare per l’architetto un ruolo tecnico-scientifico che non scade nel formalismo, ma non si imprigiona nel proprio pensiero.
G. Raineri, Noviziato delle suore di Carità (Torino)
Ci sarebbe materia per un romanzo, un affresco narrativo appassionante e palpitante.
Ma non è questo il caso. “I Nuovi Maestri” è un testo prima di tutto storico, nato in un percorso di dottorato, attentamente e precisamente annotato. Il rigore metodologico delle tre sezioni (la prima dedicata al dibattito sulla tradizione, la seconda alle relazioni tra cultura comunista e architettura, la terza al dibattitto sulle opere costruite) traccia linee critiche temporalmente definite e riccamente documentate ma, inevitabilmente, poco godibili. E bisogna anche evidenziare che, nelle descrizioni delle opere, emerge un’aderenza alle retoriche architettoniche che conferma, invece di mettere in dubbio, le relazioni tra forma e significato date per scontate dai Nuovi Maestri. Ad esempio, commentando il Monumento ai Partigiani di Franco Buzzi, Durbiano scrive che il "rapporto diretto con le forme della storia sembra implicitamente rifiutare quella volontà di separazione tra 'antico' e 'nuovo' che era alla base della frattura tra Movimento moderno e architettura del passato" (p. 145): un gioco sottile in cui l’interpretazione rimane sospesa tra il commento di ciò che si suppone possa essere il significato implicitamente inscritto nelle forme, e una lettura quasi-fenomenologica limitata però all’ottica del dibattito. Così la morale che si può trarre dal libro – cioè che i nuovi maestri hanno prodotto pochi effetti e probabilmente negativi – è solo accennata, mai dichiarata. Si potrebbe dire che, essendo questo l’esito di un lavoro dottorale condotto sotto la guida di Gabetti stesso e di Carlo Olmo, le critiche dovessero ovviamente, necessariamente, essere in punta di fioretto. Ma io credo che sia la visione di Giovanni Durbiano ad essere, poco per volta, mutata in questi ultimi vent’anni: e lo evidenziano le piccole variazioni nel testo – ad esempio, nel finale, la “identità della cultura architettonica italiana” da “condivisa” diventa “fortunata, controversa e discussa” (p. 196). Questo testo, nella sua essenza storica, è stato cioè la base di un percorso teorico che altrove, e soprattutto in Teoria del progetto architettonico. Dai disegni agli effetti (scritto da insieme ad Alessandro Armando per Carocci, 2017), ha trovato i suoi sviluppi. E credo altresì che a questa prospettiva eminentemente storica, più che critica o narrativa, sia dovuta la “scarsa fortuna critica” dell’originale pubblicazione (p. 8). In fondo, chi dovrebbe leggere questo testo? Non gli studenti di architettura, perché non riuscirebbero presumibilmente a cogliere stile e sottigliezze del testo. Non i professionisti, mancandovere e proprie narrazioni dei progetti. Non gli accademici, a meno che non siano interessati a questo specifico periodo – peraltro sospetto che il libro sia già, intonso, in molte librerie. Non gli studiosi di storia, politica o filosofia, perché in effetti è pur sempre un libro di architettura, e molte parti non hanno senso a occhi non progettuali.
Eppure è qui, in questo fallito progetto culturale, che nasce la nostra contemporaneità. Da quella varietà inconciliabile di posizioni sorgeranno le scuole di pensiero che definiranno la geografia delle facoltà di architettura italiane – con allievi che, esattamente come i modernisti, trasformeranno in sterili stilemi i profondi pensieri dei maestri. Da quella convinzione nel ruolo culturale dell’architetto sorgerà la moda odierna di presentarsi al pubblico come guru, prima che come architetti. Dall’assunzione che nessuna forma è legittima se non corroborata (o corroborabile) da adeguate retoriche deriveranno le pratiche fintamente partecipative del design thinking in salsa italiana. Così, se i risultati di quel dibattito sono modesti rispetto alle mirabolanti intenzioni che l’avevano generato, al contrario gli effetti imprevisti e collaterali sono drammatici. Perché quella rivoluzione, troppo innamorata dei suoi obiettivi per vedere la debolezza delle sue basi, ha ingigantito la frattura tra accademia e mondo reale, invece di ricomporla: moltiplicando le wannabe archi-star e insieme trascurando una realtà sempre più dominata da geometri e ingegneri. Quindi forse dovrebbero leggerlo tutti, questo libro: studenti, professionisti, accademici e studiosi. Perché solo capendo questo snodo della storia ci si renderà conto di quanto perniciose siano state le onde lunghe di quelle retoriche: e si potrà, forse, liberarsene.
Un commento al seminario "La vita la morte" di Jacques Derrida
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“È importante, per me, nel filosofare, mutar sempre posizione, non stare troppo a lungo su una gamba sola, per non irrigidirmi.”
Wittgenstein (1980, p. 61)
Il titolo di questo seminario di Derrida (2019) del 1975-6 dice perspicuamente più che il suo oggetto, il nodo attorno a cui si avvolge (difficile dire se per scioglierlo o al contrario per annodarlo): la vita la morte.
Non “la vita, la morte” né “la vita e la morte” dunque, dove la virgola o l’et sancirebbero una separazione tra le due, premessa e promessa di una loro prevedibile opposizione. E nemmeno “la vita è la morte” né “la morte è la vita”, che avrebbe il valore di un’eguaglianza, come risultato della soluzione di un’equazione: questa identità tra la vita e la morte non è qualcosa che Derrida trova, come risultato di un processo argomentativo, ma qualcosa che pone sin dall’inizio, sfida e scommessa di tutto questo seminario.
Notiamo però che Derrida scrive sempre “la vita la morte” (o lavitalamorte) mettendo in precedenza la vita. Il precedere cronologico della vita sulla morte appare ovvio, ma per Derrida l’anteriorità empirica non implica assolutamente una precedenza logica. Perché allora questa antecedenza sintagmatica della vita sulla morte?
Per un filosofo tradizionale questa scelta grafica di Derrida non avrebbe alcuna importanza. Ma sappiamo che invece per Derrida le scelte di scrittura – anche mettere una parola prima di un’altra – sono importanti tracce filosofiche, hanno la densità di una concettualità inconscia. È proprio sulla traccia del pensiero di Derrida che quindi poniamo questa questione di traccia: ‘vita morte’ e ‘morte vita’ non sono equivalenti.
Ora, il perno attorno a cui sembra girare il seminario è una sentenza di Nietzsche:
“Evitiamo di dire che la morte sarebbe opposta alla vita. Il vivente è solo un genere di ciò che è morto, un genere molto raro[1].”
Cosa voleva dire Nietzsche?
Da un punto di vista razionale, si tratta di un assurdo. Perché diamo per scontata una gerarchia logica tra vita e morte: non ci sarebbe morte se non ci fosse vita. D’altro canto, sappiamo dalla biologia (anche se qui Derrida contesta questo sapere, come vedremo) che ci sono vite senza morte, quelle che si riproducono agameticamente. Insomma, la morte implica la vita, non viceversa. E invece Nietzsche rovescia la gerarchia, facendo della vita un sotto-genere della morte.
Chiama egli “morto” semplicemente ciò che non è vivente? Ma dare a morto il senso di non-vivente significa proprio far prevaricare la dimensione della vita sull’ente in generale. Nello stesso momento in cui Nietzsche dice che la vita è un sotto-insieme della morte, ipso facto mette la vita, il vitale di cui la morte è fattore, in una posizione direi egemonica: apparendo come morto, il non-vivente viene riportato così alla logica della vita, alle opposizioni vitali. Dire che ciò che non è mai vissuto è morto, è dare in realtà alla nozione di vita una portata che va ben al di là della vita biologica – insomma, Nietzsche enuncerebbe qui il suo vitalismo (quindi, lo sforzo di Derrida, nel corso di questo stesso seminario, di contestare l’etichetta di “vitalista” attribuita solitamente a Nietzsche non è del tutto convincente).
Abbiamo detto prevaricazione: è un punto essenziale su cui torneremo. In effetti, qui Nietzsche, proprio dicendo che la vita è un genere del morto, fa prevaricare la categoria della vita sull’ente in generale.
Eppure, malgrado il rovesciamento di Nietzsche, Derrida dà la precedenza grafica alla vita. Nell’identificazione vita-morte, resta la traccia di una non-identificazione, su cui – derridianamente – dovremmo interrogarci.
Potremmo dire che in questo seminario Derrida si interroga sul “biologico”, nella misura in cui questo è anche interrogarsi sul “tanatologico”.
Derrida slitta da una lettura all’altra. Grosso modo, in questo seminario abbiamo quattro “stasimi” del suo confronto con testi che tematizzano questo bio-tanatologico: un primo in cui si confronta con Ecce Homo di Nietzsche; un secondo in cui articola un confronto serrato con il libro di François Jacob (1970) La logica del vivente, pubblicato cinque anni prima; un terzo sulla lettura heideggeriana del cosiddetto “vitalismo” di Nietzsche; e un quarto in cui si confronta con Al di là del principio di piacere di Freud. Qui mi limiterò a commentare il commento di Derrida al libro di Jacob.
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1.
In questa parte del seminario Derrida si confronta con il testo, in senso lato divulgativo, di Jacob. Con un testo più storico, di storia della biologia, che biologico, come enuncia il suo sottotitolo: Storia dell’ereditarietà. Derrida lo prende però come fosse un testo filosofico, lo analizza come tale, e ovviamente da questa lettura emergono cedimenti metafisici nel testo del biologo o storico della biologia. Wittgenstein, che disprezzava la divulgazione scientifica, disse “Le opere di divulgazione scientifica non sono l’espressione del duro lavoro dei nostri uomini di scienza, bensì del loro riposarsi sugli allori” (Wittgenstein 1980, p. 86). Derrida in Jacob vede insomma gli allori, anche se, tengo a dirlo, il riposarsi di Jacob è a tutt’oggi esemplare.
In certi punti, Derrida sembra promuoversi miglior biologo di Jacob (il quale vinse il premio Nobel in medicina). Ad esempio, quando confuta l’idea (di Jacob? della biologia moderna? del modo che ha la biologia di raccontarsi?) secondo cui la riproduzione dei batteri è asessuata. Jacob fa notare che la sessualità e la morte sono un’”invenzione” (così scrive) che la vita fa a un certo punto della propria storia, sottolineando che la sessualità e la morte si implicano: è veramente mortale solo il vivente sessuato. (Evidentemente questo guasta de facto l’assunto di partenza di tutto il seminario derridiano: il sovrapporsi logico della vita e della morte.) Ora Derrida, rifacendosi ad altri biologi, cerca di mostrare che avvengono inserimenti di materiale genetico da un batterio all’altro, il che può considerarsi una forma di riproduzione sessuata. Inoltre, solleva un’obiezione di buon senso all’idea che un batterio non muoia, dato che alcuni batteri certamente si dissolvono. Se un batterio produce dieci copie di sé e poi ne restano solo sette, come possiamo non dire che quattro batteri sono morti?
La domanda da porsi è perché Derrida ci tenga tanto a contestare l’idea che la sessualità e la morte siano prodotti successivi della vita, fino al punto da usare argomenti biologici contro un biologo nobélier. Perché tiene tanto a fare della morte qualcosa di coestensivo alla vita, e non un’”invenzione” succedanea della vita stessa? Ma prima di rispondere a questa domanda, vorrei mostrare come l’obiezione di Derrida mostra che egli non abbia colto l’essenziale dell’argomento di Jacob.
Derrida non sembra cogliere il fatto che, per la biologia, solo con la sessualità e la morte diventa pertinente il concetto di individuo – di indivisibile, che è la traduzione del greco ατομος. L’individuo o atomo è tale perché il suo genoma è del tutto diverso da quello di ciascun genitore (sessuato), ed è completamente diverso da quello di ogni altro essere vivente della stessa specie (a parte il caso dei gemelli veri). La genetica insomma ha modificato il nostro concetto originario, comune, di individuo: che non è più, prima di tutto, l’indivisibile, ma è il portatore di un assetto genetico unico. La morte quindi equivale alla scomparsa di questo unicum. Mentre la riproduzione non sessuata è produzione di cloni – all’epoca il termine “clone” non era entrato nel linguaggio comune, e difatti Derrida non lo usa mai. I cloni sono individui diversi dal punto di vista del linguaggio comune, ma non dal punto di vista biologico, perché hanno identico genoma.
Questo taglia corto alle obiezioni che Derrida solleva all’idea che un batterio, ad esempio, non muoia. Se per individuo intendiamo chi porta genomi diversi, il batterio non muore nel senso che copie di sé comunque sopravvivono. Un libro non muore se restano alcune copie di esso, anche se il manoscritto originale fosse andato perduto.
(Si dirà che uno dei due gemelli omozigoti umani può morire, mentre l’altro può sopravvivere. Se fossero lo stesso individuo, dovrebbero morire assieme. Ma consideriamo due gemelli due individui distinti perché oltre al senso genetico di “individuo” abbiamo un altro senso che ci deriva dal linguaggio comune: l’avere due cervelli e quindi due coscienze diverse. Le due coscienze diverse individualizzano, per noi, ciascun gemello. Due sensi diversi di “individuo” si sovrappongono nel nostro linguaggio. Si dà però il caso che il batterio non abbia alcun cervello né alcuna coscienza, nel caso suo, quindi, il senso genetico di individuo può prevalere.)
Inoltre, le eccezioni alla riproduzione asessuata nei batteri che Derrida evoca non inficiano la distinzione categoriale di Jacob tra vita asessuata-immortale da una parte, e vita sessuata-mortale dall’altra. Il problema vero non è stabilire quali specie rientrino nella prima categoria e se non ci siano eccezioni, ma stabilire questa distinzione, che resta valida malgrado i distinguo di Derrida.
Derrida non apprezza insomma l’interesse del senso nuovo dato al termine “individuo” (ovvero, sessuato e mortale) come impossibilità di replicarsi integralmente. Eppure questo nuovo senso dato a individuo – e quindi anche alla sua morte – è filosoficamente importante perché rompe con l’idea che Homo sapiens, ad esempio, abbia un’”essenza”, che ci sia un’essenza della specie umana. Siccome non esistono due individui geneticamente eguali, ogni individuo è portatore di una variabilità che potrebbe avere successo storico, cioè riprodursi e quindi mutare, a poco a poco, certe caratteristiche che consideriamo umane. Per la genetica, ogni individuo è un mutante. Non c’è quindi veramente un tratto comune a tutti gli esseri umani, ogni umano è un potenziale punto di fuga da un’umanità “media”. Questo è il senso della rivoluzione darwiniana: il disgregarsi del concetto di specie. Species è versione latina diείδος, la forma essenziale (termine che tradurrei oggi con struttura). Non c’è unastruttura umana. Per la biologia pre-darwiniana le specie animali erano essenze, mentre con Darwin abbiamo solo esistenze animali. Strano quindi che la vocazione anti-metafisica di Derrida non lo porti a valorizzare questo anti-essenzialismo della moderna biologia.
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2.
Certamente Derrida ha spesso ragione nel mettere in rilievo certe ingenuità concettuali di Jacob. Per esempio, Jacob dice che la biologia non si interessa alla vita – non pone il problema dell’essenzadella vita – ma ai viventi. “Oggi nei laboratori non si interroga più la vita … Ci si sforza solo di analizzare i sistemi viventi, la loro struttura, la loro funzione, la loro storia” (p. 116[2]) Qui Derrida ha buon gioco nel dire che sostituire alla vita il vivente non dispensa dalla domanda non solo filosofica, direi, ma anche biologica: che cosa fa di un vivente un vivente?
E in effetti, Jacob si contraddice de facto perché dice spesso e forte l’essenza del vivente: è qualcosa che ha la capacità di riprodursi. La riproducibilità – l’avere eredi - è ciò che fa del vivente un vivente.
La riproducibilità evoca il concetto di disegno, di progetto. Concetti che Jacob non disdegna, ma avvertendo:
“L’essere vivente rappresenta certo l’esecuzione di un disegno, ma che nessuna intelligenza ha concepito.”
Dice Derrida: se c’è un’omogeneità tra le produzioni del vivente umano (testi, calcolatrici, programmatrici, ecc.) e il funzionamento della riproduzione genetica, l’opposizione tra scienze della natura e le altre scienze perde pertinenza e rigore. È quello che lui nel fondo desidera? Questo sarà il punto essenziale – ma non detto - del commento di Derrida.
Intanto però Derrida si dedica a criticare i filosofemi, direi, del biologo. Ad esempio, scova dell’hegelismo in Jacob, e per lui Hegel “è il più metafisico di tutti i metafisici”. Jacob, facendo del vivente un impulso a riprodursi, nella vita “ritrova l’essenzialità dell’essenza, l’origine e la fine dell’essenza come dinamica ed energia d’essere” (p. 121) “La vita è l’essenza… la vita è più essenziale del non-vivente che essa integra in sé”.
“Mi applico a render chiaro il rapporto che il discorso del genetista, dello scienziato biologo moderno mantiene con la tradizione filosofica: debito e dipendenza sconosciute, diniego, semplificazione, caricatura, sottomissione ai vincoli di un codice, di un programma, appunto, di macchine calcolatrici da cui egli si crede liberato mentre invece ne riproduce i funzionamenti, ecc.” (p. 123)
Insomma, per Derrida non c’è rottura (e non è chiaro se se ne rammarichi o se ne compiaccia) tra filosofia metafisica e scienza, il che è in continuità con un certo atteggiamento del filosofo detto “continentale”, quello di una sorta di rivalsa professionale contro l’egemonia politica della scienza: “credete di esservi liberati della filosofia, e invece fate voi stessi un sacco di filosofemi!”
È vero che Jacob talvolta arrischia enunciati che è facile qualificare di rodomontate, come: “La biologia non cerca la verità. Essa costruisce la propria”. Anche qui Derrida ha buon gioco nel mostrare come in realtà la biologia, proprio nella misura in cui cerca la propria verità, presuppone una nozione generale di verità, senza la quale non sarebbe nemmeno possibile dire che cerca una propria verità. Ma qui Derrida non usa il “principio di carità” che la filosofia stessa ha promosso[3]: che occorre sforzarsi di trovare una logica ad affermazioni che a prima vista appaiono illogiche o paradossali.
L’enunciato di Jacob che Derrida deride può essere interpretato caritatevolmente come un modo di dire: “il biologo non ha bisogno, come i filosofi, di interrogarsi prima su cosa significhi verità in biologia: ne ha una nozione intuitiva che gli basta per operare”. E questo è vero per ogni scienza. Non è il mestiere dello scienziato interrogarsi sul concetto di verità, il suo lavoro consiste nell’usare questo concetto per poter dire il vero sul vivente.
L’enunciato di Jacob può essere anche inteso in senso feyerabendiano[4]: la biologia, come ogni scienza, cambia il proprio metodo scientifico a seconda delle opportunità e dei problemi che le si pongono. La biologia è opportunista, come ogni scienza. Nella sua storia essa ha cambiato spesso metodo, dandosi cioè fini e funzioni diverse. Così con Linneo e Buffon la biologia si auto-interpretava come descrizione accurata delle diverse specie animali, sulla base di una teoria preformista. Con Lamarck e Darwin, invece, si è posta il problema dell’origine delle specie, ovvero sulle ragioni della storia del prodursi e del distruggersi delle forme animali. Cambiamento che si può ravvisare nella storia di ogni scienza. È il senso stesso di “fare biologia” che è cambiato. Ma talvolta nemmeno Derrida se ne rende conto.
Per esempio, Derrida critica il concetto di “riproduzione” in Jacob:
“Il discorso di Jacob – come quello di una certa modernità – maneggia il concetto di produzione o ri-produzione come se fosse trasparente, univoco, che vada da sé, come se ci fosse anche una distinzione o un’opposizione chiara tra produrre e riprodurre, riprodurre e riprodursi. In nessun momento Jacob si chiede quel che ciò vuol dire, mai sottopone questo concetto o parole di produzione/riproduzione (di sé) alla pur minima domanda critica” (p. 135).
Anche qui, la critica di Derrida ripercorre la critica che da molto tempo – da quando la filosofia speculativa ha divorziato dalla concettualizzazione scientifica, diciamo da Kant in poi – la filosofia rivolge alla scienza: che quest’ultima è incapace di pensare i concetti che essa usa, che non si interroga sull’’essenza’ dei propri concetti. (È il rimprovero che già Socrate rivolgeva sistematicamente a qualunque “esperto” ateniese che non si ponesse interrogativi filosofici sul proprio campo di sapere.) Si rimprovera insomma alla scienza di non essere filosofica, il che implica un assunto metafisico forte, nel senso che la riflessione filosofica in qualche modo fonderebbe il discorso della scienza e delle scienze particolari. (E questo a dispetto del fatto che Derrida si sia posto sempre come filosofo non-fondazionalista.) Se la filosofia è in grado di criticare la concettualizzazione scientifica, questo vuol dire in effetti che questa concettualizzazione manca di qualcosa per essere valida, per reggersi da sé, e che questo reggersi è fornito da un altrove dalla scienza, dalla riflessione filosofica appunto. E in effetti, per molti secoli si è pensato che per fare scienza si dovesse prima capire filosoficamente quale fosse il suo oggetto e il modo corretto di procedere per renderne conto. Così Descartes, per esempio, pensava che non potesse essere un buon fisico se prima non avesse stabilito un criterio di certezza. Ma da secoli sappiamo che questo non è vero: possiamo dire che anzi il filosofo di solito arriva dopo lo scienziato, dopo che questi ha scoperto qualcosa che tutti accettiamo. Il filosofo, si dice, giunge sempre al tramonto.
È un peccato che Derrida non tenga in alcun conto l’”altra filosofia”, che poi è anch’essa per lo più continentale, nel senso che è sorta in Austria e in Germania: la filosofia della scienza moderna, il filone cha va da Mach al Circolo di Vienna, a Popper, a Kuhn, a Lakatos, a Feyerabend… Il confronto con questo filone avrebbe aiutato certamente Derrida a distinguere più perspicuamente il discorso dello scienziato da ciò che la scienza di fatto fa. Una distinzione ripresa da Feyerabend, il quale diceva: “Spesso si crede che la scienza fatta da uno scienziato non sia quella pubblicata nelle riviste specialistiche, ma quello che lo scienziato dice quando pontifica”.
Ora, per limitarci al tanto bistrattato (dalla filosofia “continentale”) Popper, bisogna convenire che due o tre cose importanti sulla scienza le ha dette. Una è che la grande scienza – quella che fornisce le visioni del mondo che poi diventano le nostre, anche di Derrida – non nasce dall’osservazione dei fatti, ma da teorie. E che queste teorie sono all’inizio delle metafisiche o dei miti. La separazione netta tra fisica (scienza) e metafisica su cui si basa il positivismo logico è storicamente fallace: le teorie scientifiche sorgono sempre da qualche metafisica. Ciò che separa man mano – col tempo, in un processo mai del tutto concluso, secondo una separazione che chiamerei asintotica – la scienza dalla metafisica è il modo in cui la scienza seleziona via via i suoi asserti (secondo Popper, attraverso tentativi ripetuti di falsificazione, ma questa è un’idea sua, confutata dai post-popperiani). Ora, quando giustamente Derrida vede il discorso di Jacob – ma di qualsiasi biologo, in fondo – intriso di presupposti metafisici (fino a vedervi un hegelismo di fondo) non fa che ri-scoprire l’ombrello: che tutti i concetti della scienza hanno un’origine metafisica, e ne portano le tracce, anche se sono stati rimodellati dal procedere corroborativo (è questo il termine di Popper, che non significa verificativo) della scienza. E questo anche in fisica. Tanti concetti fondamentali della fisica tradiscono la loro origine filosofica o metafisica: per esempio energia, che viene dall’energheia aristotelica. O i concetti di materia, potenza, atomo, forza, vuoto, continuo e discontinuo…
La moderna filosofia della scienza ha detto un’altra cosa importante: che qualche secolo fa il pensiero scientifico si separa da quello filosofico quando cessa di pensare che esso debba partire da una definizione delle cose che esso studia. La scienza non è matematica, non nasce da definizioni precise e rigorose dei propri oggetti, insomma, la scienza non si interroga sulle essenze di ciò che vuole studiare. È in questo senso, credo, che Jacob può dire “la biologia costruisce la propria verità”. La scienza nasce sempre dal linguaggio comune, che essa non interroga come invece è opportuno che faccia la filosofia. La chimica non ha scoperto la composizione dell’acqua (cosa che qualcuno potrebbe chiamare l’“essenza dell’acqua”), l’essere una certa combinazione di idrogeno e ossigeno, partendo da una definizione esaustiva e non-ambigua di acqua. I chimici si sono occupati di quello che la gente comune chiamava acqua. Perciò tutti i fondamentali concetti scientifici fanno risuonare l’eco di concetti ed esperienze comuni: la gravitazione evoca subito la mela di Newton, la forza e l’energia evocano le attività umane, la causa efficiente il tirare e spingere, azione e reazione sono atti animali, gli astri sono quelli che gli umani hanno chiamato tali guardandoli a occhio nudo, ecc.
Questo confuta o limita ciò che avevamo prima detto, che le teorie nascono sempre da ipotesi metafisiche o mitiche? No, perché gli oggetti di cui la scienza si occupa all’inizio (poi essa scopre oggetti non comuni, nuovi, come i buchi neri o i quark) sono oggetti comuni, ma il modo di spiegarne il comportamento è preso da metafisiche. La scienza coniuga linguaggio comune e concetti metafisici, e quindi bypassa l’onere di riflettere filosoficamente sul senso dei concetti.
Certamente poi il sapere scientifico rimbalza sul linguaggio comune e lo modifica. La chimica ha studiato l’acqua senza definirla prima, ma quando ha scoperto la sua struttura chimica, allora essa ha avuto un effetto di rinculo sul linguaggio comune stesso: sappiamo che possiamo chiamare legittimamente acqua solo ciò che è H2O. L’astronomia ha descritto la luna come pianeta perché così la considerava il sapere comune, poi, con la rivoluzione copernicana, ci ha detto che la luna è invece un satellite, e come tale oggi il linguaggio comune la considera. Ciò che chiamiamo sapere della nostra epoca è effetto di una lunga storia di doppio scambio a zig zag tra linguaggio comune e linguaggio scientifico.
Quindi, non so se Derrida, quando critica Jacob perché – come ogni biologo – non si interroga sull’essenza del vivente (pur fornendo a sua volta una definizione dell’essenza del vivente come ereditarietà), si renda conto di criticare in generale la scienza in quanto scienza. Tutto il ragionare di Jacob sul vivente parte dal concetto comune di vivente. Ancor prima che la biologia si sviluppasse come scienza, i nostri antenati, i greci, i romani…, hanno sempre considerato un albero o una mosca come esseri viventi, pur senza disporre di una definizione precisa (filosofi a parte). Ne avevano una definizione implicita, e il compito dei filosofi è stato di esplicitarla. Il biologo non si interroga sull’essenza del vivente se non après coup, quando scopre certe caratteristiche non evidenti (che il linguaggio comune non riconosce) del vivente (ad esempio, il suo essere espressione di un genoma). La scienza fa bene insomma a non interrogarsi sul concetto di vivente, perché è il suo operare in un certo modo sul vivente che gli fornirà poi un concetto di vivente, che sarà comunque sempre provvisorio, rivedibile.
Scrive ancora Derrida:
“[Criticare] i discorsi degli scienziati – per esempio dei biologi – i quali, quando assumono una portata filosofica o epistemologica generale, non sono abbastanza vigilanti quanto alla filosofia o all’ideologia implicita in quel che dicono, non interrogano abbastanza il sistema e la storia dei concetti operativi di cui si servono…” (p. 139)
È una critica agli scienziati solo quando fanno discorsi con “una portata filosofica o epistemologica generale” (quando “pontificano”)? O una critica agli scienziati in generale, in quanto sono scienziati? In questo secondo caso, direi che è impossibile, per chiunque faccia scienza, non usare concetti filosofici, come abbiamo visto, dato che impregnano le loro teorie sin dall’inizio. Derrida vorrebbe allora che gli scienziati facessero solo il loro lavoro?… ma dove comincia e finisce questo loro lavoro? Consiste nel descrivere dei semplici meccanismi? Ma anche quando diciamo che lo scienziato di oggi ricostruisce i meccanismi che operano nella natura, già nel dire “meccanismo” implichiamo tutta una filosofia che è fusa nel concetto stesso. È la metafisica su cui si basa tutta la scienza moderna: che gli enti si relazionano gli uni con gli altri come gli ingranaggi in un meccanismo, in una macchina. Di questa metafisica non possiamo dire che sia vera o falsa, possiamo dire solo che finora ha funzionato, perché la scienza in questi secoli ha avuto un grande sviluppo. Una macchina non funziona perché è vera, funziona perché funziona.
In effetti, la mechané di cui parlavano i greci erano solo le macchine costruite dagli umani per svolgere una certa funzione. Ai greci non sarebbe mai passato per la mente di pensare che la physis – la natura – fosse mechané! Solo in seguito, con la rivoluzione galileiana, si è sviluppata una “meccanica”, la natura viene studiata come se fosse una macchina. Ma una macchina che non serve a nulla, e che nessuno ha creato (l’ipotesi creazionista non è mai scientifica perché segna lo scacco della spiegazione scientifica). È l’atto istitutivo della scienza moderna: la natura è una immensa macchina, ma che non serve a nulla. La biologia moderna è meccanicista – su questo ha ragione il tanto spregiato (dai filosofi) Jacques Monod (1970). Ma già quando il biologo afferma di essere meccanicista emana del filosofico, perché gli si può ricordare che il modello della macchina per pensare la natura è di per sé una scelta metafisica. O meglio, una scommessa: la scienza moderna si impegna a spiegare tutto (non il Tutto) come meccanismo. Abbiamo anche qui una prevaricazione che in sostanza caratterizza ogni metafisica: la macchina, inizialmente solo una parte dell’ente, diventa l’essenziale di tutti gli enti.
Tutta la scienza moderna si basa anche su un altro assioma: la conservazione dell’energia. Non si tratta di una scoperta empirica, ma di una scommessa che identifica la ricerca in quanto scientifica. La scienza esclude a priori che ci possa essere creazione o annullamento di energia, perché sarebbero “miracoli”. Conservazione di energia perché, dopo Einstein, l’energia è equivalente della materia. La forma tradizionale di questo assioma è: “nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma”. Questo all’interno di un tutto (universo) che viene ipso facto concepito come chiuso. Fin quando un tutto è aperto, non è mai “tutto”. Può darsi che il nostro universo sia uno di altri innumerevoli universi di cui nulla sappiamo, ma anche senza saperne nulla la scienza già sa che questo tutti-gli-universi non diminuisce né si accresce. Potremmo anche dire che la materia-energia non muore mai. Si tratta evidentemente di una visione metafisica, ma sarebbe assurdo criticare le moderne teorie scientifiche – che tutte tengono conto di questo assioma – perché esse si basano su una metafisica sbagliata! Che sia sbagliata o meno nessuna filosofia ce lo può dire, ce lo potrebbe dire solo il fallimento della scienza. Se la moderna scienza fallisse, se dovesse ammettere che certe cose emergono dal nulla, allora dovremmo considerare fallace anche la metafisica su cui si regge.
Proprio perché la scienza riusa il linguaggio filosofico, può dispensarsi dal pensarlo filosoficamente.
Qualcuno potrà dire che qui Derrida non critica i filosofemi di Jacob in quanto disapprova la contaminazione di filosofia e scienza, ma li critica perché ritiene che Jacob non si renda conto di essere anche filosofo. Ma, come abbiamo visto, è inevitabile che lo scienziato debba essere anche “filosofo”, perché ogni scienza ha basi metafisiche. È essenziale allora che lo scienziato se ne renda conto, che ammetta di essere filosofo senza saperlo? Non credo che questo sia il punto.
Il filosofo ha un compito che allo scienziato viene risparmiato: quello di mettere filosoficamente in discussione i filosofemi che sono alla base di ogni paradigma scientifico, ma direi anche della maggior parte delle nostre credenze, politiche religiose artistiche, ecc. Quella che chiamiamo filosofia è la riflessione, non sempre critica, su ciò che chiamerei filosofie popolari, le visioni del mondo che ispirano le nostre vite e le nostre credenze. E la scienza ha alla base una sua “filosofia popolare”. Ma mettere in discussione questi filosofemi popolari – qui è il punto – non deve portarci (è questa la tentazione a cui molti filosofi cedono) a criticare la concettualizzazione scientifica in quanto tale! Non si critica una teoria scientifica criticandone i presupposti filosofici. Sarebbe come voler criticare un ottimo cuoco cinese perché ispira la sua arte all’opposizione taoista tra yin e yang…
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3.
Derrida critica insomma i “filosofemi” di Jacob perché non si rende conto che quel che il secondo dice ha una semplice funzione euristica (termine che Derrida usa due volte in questo seminario). Ovvero, la scienza non si fa solo con delle equazioni, o con delle previsioni calcolabili, ma elaborando anche modelli che chiamerei immaginari, una certa immagine di che cosa accada in un oggetto che serve a guidare l’immaginazione scientifica. Per esempio, il darwinismo non è in grado di prevedere assolutamente nulla sul futuro della vita (che sempre più dipende da decisioni politiche umane, ormai), ma ci offre un modello preciso grazie a cui pensare la storia della vita. È falso credere che le scienze siano sempre predittive: spesso prevedono poco o nulla, ma ci offrono una descrizione virtuale della macchina supposta.
Così, per esempio, la fisica parla di informazione. In cosmologia si dice comunemente che la luce delle stelle che giunge fino a noi “ci informa” del loro esserci. Ovviamente qui informazione ha un valore metaforico, se consideriamo essenziale in ogni informazione la volontà consapevole, animale o umana, di informare un altro animale o essere umano. Eppure usare la metafora informativa può essere euristicamente utile nella misura in cui essa piega la ricerca scientifica in un senso piuttosto che in un altro. Comunque, l’uso di figure antropomorfiche – come segnale, informazione, messaggio, codice, programma, ecc. – è la spia di qualcosa di più profondo nella scienza. Ovvero, l’uso di queste metafore è una traccia della scienza come elaborazione soggettiva. La scienza non è lo specchio della natura: è prodotto di un dialogo continuo con la natura. Una teoria scientifica è regolare un certo giococon la natura (la natura può essere considerata il partner dello scienziato nel gioco della scienza; un partner coatto, ma un partner[5]).
Si pensi ad esempio a concetti come ordine e disordine, fondamentali nella termodinamica. È evidente che ordine e disordine sono valutazioni soggettive, non oggettive. Se guardiamo una stanza, possiamo percepirla come ordinata o disordinata, ma che c’è di “oggettivo” in questo? Chiamiamo un sistema di cose più disordinato di un altro quando il primo esige una descrizione più complessa (e più lunga) del secondo. Una stanza molto disordinata ha un suo ordine, anche se molto complesso. Ma la complessità è pur sempre una valutazione soggettiva: è una reazione umana a qualcosa che deve essere capito. “Disordine” dice semplicemente il supplemento di sforzo che dobbiamo impiegare per trovarvi un suo ordine, che comunque esiste (a qualsiasi cosa possiamo trovare un ordine, una “legge” che la regoli[6]). L’entropia è la tendenza del mondo ad assumere degli ordini sempre più complessi, fino al punto che qualunque essere umano rinuncerà a trovarne uno. Quando la termodinamica dice che in un sistema chiuso ogni energia tende irreversibilmente al calore, ovvero all’energia più disordinata (ovvero più porobabile), dice che il calore è un’energia la cui descrizione è troppo complicata. Il mondo è una corsa verso la complessità, verso il caos – il quale non sarebbe all’origine del mondo, ma punto di arrivo del mondo. Come si vede, una valutazione soggettiva è incastrata nei concetti stessi, oggettivi, di “calore” e di “energia” in generale. Anche la scienza più sofisticata tradisce le proprie umili origini, il suo derivare da valutazioni umane, molto terra terra: se qualcosa è disordinata o meno, se è complicato capirla o meno, quanto tempo e quanta energia dobbiamo impiegare per descriverla, ecc.
François Jacob nel 1965
Si prenda il concetto, tuttora controverso, di probabilità. A lungo si è discusso che cosa essa sia, se abbia una base oggettiva (è più probabile ciò che è più frequente) o sia squisitamente soggettiva (ovvero, si basa sulle nostre attese). Oggi, dopo Ramsey e de Finetti, è la teoria soggettivista della probabilità a prevalere in matematica e in logica. Eppure la probabilità è nel cuore delle cose stesse, dato che per la fisica quantistica fenomeni che consideriamo oggettivi sono di fatto uno spettro di probabilità[7]. Sono quei punti critici della scienza in cui oggettivo e soggettivo si intersecano, dove la scienza deve convenire che certi fenomeni oggettivi possono essere descritti solo in relazione al nostro sapere e alle nostre attese. Da qui i paradossi ben noti, come l’indeterminazione di Heisenberg o il gatto di Schrödinger. Probabilmente questi paradossi sono una nemesi, il venir fuori di qualcosa di rimosso, il fatto cioè che la scienza inizia come un modo di valutare soggettivamente il mondo, e che tale, anche al culmine della maturità, essa resta. Che le cose sono, fondamentalmente, indistricabili dalle nostre reazioni soggettive a esse. È come se la scienza, divenuta principessa del reame del sapere, dovesse sempre re-incontrare la Cenerentola che essa era.
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4.
Ora, l’importante è che la critica, anche dura, al testo di Jacob da parte di Derrida si rovesci poi in un’accoglienza piena del modello proposto da Jacob – la riproduzione biologica come un processo testuale. Lungi dal vedere i riferimenti linguistici e testuali di Jacob come metafore pedagogiche, Derrida li prende alla lettera e conclude che il vivente ci dà l’esempio di una testualità senza messaggio e senza comprensione.
Jacob si pone il problema di fino a che punto la moderna scienza del vivente possa fare a meno di concetti “teleologici”, ovvero di concetti appartenenti all’ordine del linguaggio e della scrittura, e quindi all’ordine dei fini, dei programmi… Abbiamo detto dell’ampio uso che le scienze di oggi fanno di concetti come “informazione”, “messaggio”, “codice (genetico)”, “istruzioni”, che sembrano tutti implicare una soggettività, un Io, uno “spirito”… Jacob afferma che la descrizione dell’eredità come un programma cifrato in una sequenza di radicali chimici fa scomparire la contraddizione tra teleologia e meccanismo (diremmo: tra soggettività e oggettività). La riproduzione – per Jacob, la struttura essenziale del vivente – funziona come un testo. Come scrive in modo pungente:
“A lungo il biologo si è ritrovato davanti alla teleologia come essere accanto a una donna di cui non può fare a meno, ma con cui non vuole farsi vedere in compagnia in pubblico. Il concetto di programma dà ora uno statuto legale a questa relazione segreta.” (p. 17)
Ora, mi pare che Derrida accolga completamente questa “legalizzazione”. Assistiamo a una doppia strategia di Derrida nel suo confronto col pensiero biologico via Jacob: da una parte, abbiamo visto, critica le concettualizzazioni di Jacob, dall’altra invece ne fa uso per insinuare ciò che la sua filosofia insinua (direi anzi che la filosofia di Derrida è tutta un’insinuazione), come se cercasse nel modo in cui il biologo dice il proprio sapere dei supporti al proprio discorso. Da una parte certi concetti sono criticati, come abbiamo visto, dall’altra però essi sono utilizzati per giustificare il suo ”la vita la morte”. Può fare questo però solo forzando il senso di certi concetti biologici, piegandoli al proprio uso per così dire.
Per esempio, Derrida pensa di leggere in Jacob l’idea che la sessualità e la morte, queste “invenzioni”, siano supplementi. Che si tratti di qualcosa che si aggiunge alla vita, che la supplisce. Ma si ha allora il sospetto che Derrida non abbia capito quello che Jacob e la biologia dicono della sessualità e della morte. La sessualità non è qualcosa che supplisce o si aggiunge alla vita, non più di quanto l’”invenzione” dei mammiferi sia un supplemento dei vertebrati… La sessualità è semplicemente un modo di replicazione (modo nuovo in una certa fase di evoluzione della vita), di cui la morte dell’individuo è una conseguenza intrinseca. È un’innovazione nel modo di riproduzione, non un supplemento. Ma l’idea che la sessualità e la morte siano supplementi faceva gioco a Derrida, che ha sempre insistito sulla posizione del supplemento nei vari campi. Direi che si tratta qui di un’appropriazione indebita.
Derrida insiste d’altro canto sull’ambiguità del concetto di produzione e ri-produzione in biologia perché quel che gli interessa nel fondo è mostrare come ogni riproduzione di sé sia riproduzione di una riproduzione. Che non c’è un prodotto primo che dia inizio a un processo di riproduzione. Ogni prodotto è riprodotto. Questo è uno dei temi fondamentali del pensiero derridiano: le copie, le tracce, le rappresentazioni, non hanno un originale, un’origine da cui derivano. Derrida si gioca tutto nel rinvio all’infinito, come nella mise en abyme.
È difficile capire non il pensiero così enunciato di Derrida – lo si può leggere nei manuali di filosofia, ormai – ma la sua enunciazione, cioè, che cosa Derrida voglia in fondo dire (o meglio, cosa voglia mostrarci) con questa insistenza. Dato che non si tratta nemmeno di una teoria, quanto di una critica di ogni teoria che voglia dire l’origine di qualcosa. Dopo tutto, non ci è ancora possibile capire Derrida, perché non siamo ancora riusciti a decostruirlo. (Questo per dire che, malgrado le mie critiche qui a Derrida, in fondo sono derridiano).
Derrida riprende il paradosso ben noto “è nato prima l’uovo o la gallina?” (a cui fa riferimento anche Jacob). Questa domanda è già derridiana, in quanto si dà per scontato che a questa domanda non ci sia risposta, che gireremo in tondo sempre tra un’origine e l’altra… Ora, si dà il caso che la teoria genetica moderna ci dia invece la risposta: all’origine c’è l’uovo. L’uovo in effetti è il contenitore del genoma del pollo, e il pollo ne è il fenotipo. Il pollo di oggi esiste perché l’uovo del pre-pollo o proto-pollo ha subito una mutazione, che ha dato nascita al pollo; l’origine del mutamento può essere solo nel genoma, cioè nell’uovo, non nel fenotipo del pre-pollo o proto-pollo. Da qui il noto apoftegma: “la gallina è un taxi usato da un uovo per produrre un altro uovo”. Certo si potrebbe sempre dire: ma ci voleva comunque un proto-pollo con un proprio uovo, l’uovo del pollo non nasce spontaneamente. Certo, e così si potrebbe retrocedere, man mano, fino all’origine del vivente sulla terra. Ammesso che ogni forma vivente venga da un unico ceppo. Allora, c’è un’origine della vita, anche se non c’è un’origine delle specie, come ci ha detto Darwin?[8]
Per le scienze dell’evoluzione la vita certamente è un evento, appare a un certo punto della storia del pianeta. La geologia ci dice che la vita lascia tracce solo a partire da un certo momento della storia della terra. Ma la biologia non è in grado di dire cosa abbia prodotto questo evento, e come si è prodotto. La biologia esclude che ci sia stata creazione ex nihilo, perché questo è escluso dal gioco stesso della scienza. Perciò per la biologia ci deve essere un’origine, dobbiamo supporre un primo prodotto che non fu a sua volta un ri-prodotto. L’assunto filosofico di Derrida non può quindi essere accettato dal biologo. Per cui ci si chiede: perché comunque per Derrida è così importante affermare che comunque, della produzione e riproduzione, non c’è origine?
La verità, secondo me, è che nel fondo Derrida diffida delle scienze perché queste sono sempre ricerca di un’origine, insomma di una causa prima in senso aristotelico. Certamente la scienza rimanda sempre più all’indietro la causa prima, sia nel più antico, sia nel più elementare. Sia verso un evento da cui verrebbe fuori anche il tempo (oggi, teoria del Big Bang), sia verso qualcosa di irriducibile, di non riducibile ad altro, verso un semplice che non sia a sua volta composto (le particelle non a caso dette elementari, i quark, ecc.). Ma il filosofo sa che questo rinvio – al più arcaico e al più elementare – è un processo infinito, ovvero, sa che ogni spiegazione scientifica, ogni Erklärung, sarà sempre provvisoria e regionale. Mentre la filosofia tende (anche quando non lo sa) all’assoluto, ovvero al non-regionale, alla totalità dell’ente, a un tutto non relativo, ovvero non in relazione con altre parti… Ma dell’assoluto non si può dire nulla, perché ogni predicazione lo relativizza, ne differisce, per così dire, l’assolutezza.
Allora, la manovra di Derrida per salvare “l’assoluto” è consistita nel fare di questo differimento, di questa différance, dell’assoluto… l’assoluto stesso. Nella figura della “traccia” si inscrive, si incide, questo scacco della filosofia nel dire l’assoluto, ma facendo di questo scacco l’assoluto stesso, facendo prevaricare lo scacco dell’assoluto sull’assoluto. Altrimenti il filosofo – teme Derrida – dovrebbe rassegnarsi a dipendere dalle spiegazioni (sempre regionali e provvisorie, sempre storiche) delle scienze, insomma a costruire una metafisica realista che faccia da sgabello al confort filosofico degli scienziati (questa è la funzione di molto epistemologi oggi, e del “nuovo realismo”). La filosofia come ancilla scientiarum. Che non sia mai! Da qui la sfida “barocca” di Derrida (che citava appunto i quadri barocchi, di differimento, di David Teniers il Giovane): tutto è ri-produzione, non c’è produzione originaria.
E perché non può (o non deve?) esserci produzione originaria? Perché la produzione originaria – del cosmo ad esempio, o della vita su questo pianeta – stabilisce un inizio del gioco, ma Derrida vuole che il gioco non abbia mai inizio. In ogni caso, ci sarà sempre e comunque già gioco. La catena degli effetti lascerà béant l’ultimo o il primo degli effetti, insomma, la causa prima è sempre differita. Ma allora questo differimento della causa prima verrà eletto a “causa prima”, ad archi-traccia, a traccia che viene prima di ogni traccia e che comanda la produzione di tutte le tracce. In questo modo Derrida pensa di salvare la capra e il cavolo: salvare la sempre recidiva vocazione della filosofia all’assoluto, e allo stesso tempo denunciare l’eterna relatività di questo assoluto, rinunciare all’assoluto come a qualcosa di sempre effimero, dato che rimanda sempre… a qualche altro assoluto.
David Teniers il Giovane, “L’arciduca Leopold Wilhelm nella sua galleria a Bruxelles”[9]
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5.
Quindi, Derrida mette tanto impegno nel criticare la filosofia implicita, “ingenua”, di Jacob, perché ci tiene a impossessarsi del concetto essenziale che, secondo lui, Jacob avanza: che la vita è una forma di scrittura. In effetti nozioni come codice, produzione e riproduzione, trascrizione, programma, ecc., sono tutte nozioni legate al concetto di scrittura. Ma, come è noto, Derrida non pensa alla scrittura come a un succedaneo della parola orale, ma come a qualcosa che precede (filosoficamente, non cronologicamente) il linguaggio orale propriamente detto. Egli vuole proporre una nozione di scrittura che non la riduca a trascrizione successiva di un pensiero, che non la faccia provenire da un’intenzione soggettiva cosciente. In questo senso, gli sembra che la genetica moderna conforti, avalli direi, la sua proposta filosofica.
Derrida vorrebbe insomma estendere il concetto di testualità fino a renderlo co-estensivo al vivente.
“Questa situazione – un testo senza riferimento esterno, tutto al di fuori perché senz’altro riferimento che un testo rimarcante [remarquant[10]] un testo -, questa situazione non è in fondo quella del testo della biogenetica che si scrive su un testo di cui essa fa parte o di cui essa è il prodotto, che si scrive su un oggetto o un referente che non solo è a sua volta già un testo, ma un testo senza il quale il testo scientifico – esso stesso prodotto del vivente – non potrebbe scriversi?” (p. 159)
Ciò gli permette di avanzare una metafisica che escluda ogni forma di realismo: non solo la vita è testualità, ma possiamo rigettare ogni riferimento all’autorità, direi, di un reale, di cui la scrittura sarebbe semplice riproduzione o rappresentazione.
“Riferendo il vivente alla struttura di un testo, si compie visibilmente un progresso concettuale nella bio-genetica, un progresso nella conoscenza, se volete, del vivente, se intendiamo questo progresso della conoscenza come allo stesso tempo una trasformazione dello statuto della conoscenza che non ha più nulla a che fare […] con un reale meta-testuale, ma con del testo, e che consiste quindi a scrivere testo su testo.” (p. 160)
Non siamo in pieno idealismo, ma in qualcosa che gli rassomiglia: in pieno testualismo. Le sue obiezioni a una visione realista possono essere nel fondo alquanto simili a quelle che già a suo tempo furono articolate dall’idealismo tedesco a partire da Fichte – ovvero, che anche quando diciamo che c’è una realtà fuori del testo, possiamo dire questa realtà solo grazie a un testo, per cui “la realtà” è pur sempre un testo a cui rimanda un altro testo. Così, il suo rigetto di un originario, di un evento che sia origine di tutti gli altri, è il corollario filosofico dell’idea che non c’è un reale all’origine dei testi, che non c’è un reale prima del testo che questo testo inizialmente rappresenterebbe. Il mondo diventa una fenomenologia della testualità così come per l’idealismo il mondo era fenomenologia dello Spirito.
Hegel (“il più metafisico dei metafisici”, come dice Derrida) disse che ogni vera filosofia è idealista anche se non lo sa o lo nega. “Accusare” anche Derrida di idealismo, quindi, potrebbe essere un modo di confermare l’enunciato di Hegel. E in effetti possiamo dire che Hegel ha ragione, a suo modo. Il punto – ed è qui la divaricazione – è se il filosofo di questo proprio idealismo se ne rammarichi o meno. In questo senso ogni vera filosofia (con buona pace di Badiou) è anti-filosofica: denunciando il proprio incorreggibile idealismo, cerca di andare oltre… la filosofia.
Ma anche qui, dietro l’enunciato testualista di Derrida, quale enunciazione dobbiamo leggervi? Ovvero, in quale contesto, in quale con-testo – in che cosa intorno al testo – dobbiamo leggere il testo di Derrida? Certamente il suo testualismo, preso alla lettera, è un avatar dell’idealismo, e quindi un approccio metafisico a dispetto del fatto che Derrida voglia chiudere con la metafisica. Ma è questo ciò che egli ci mostra? L’enunciato è ciò che si dice, l’enunciazione è ciò che si mostra.
La differenza tra enunciato ed enunciazione è colta da una famosa barzelletta ebraica. Due ebrei si incontrano in treno e uno chiede all’altro dove vada, e l’altro risponde “vado a Cracovia”. Risposta che irrita il primo, il quale protesta: “Ma perché dici di andare a Cracovia per farmi credere che vai a Varsavia, mentre in realtà vai proprio a Cracovia?”
Possiamo dire che Derrida dice di andare filosoficamente a Cracovia – andare contro la metafisica della tradizione filosofica - per farci credere che vada a Varsavia, ovvero verso una metafisica testualista. Questo ci fa pensare, come pensa l’ebreo della barzelletta, che lui vada davveroa Cracovia, cioè che intenda veramente disfarsi della metafisica, compresa della propria, quella testualista. Mi pare che questa sia la lettura che fanno di lui molti derridiani. Ma se prendere Derrida au pied de la lettre fosse a sua volta un malinteso, un modo di cadere nel suo tranello? Se invece Derrida andasse davvero dove non dice di andare, ovvero verso una nuova metafisica? Perché il secondo ebreo pensa di essere ancor più acuto e scafato del primo nella misura in cui prende il primo alla lettera – e se invece questo suo essere non-dupe, il suo non lasciarsi ingannare, come dice Lacan, fosse il suo errore? Les non-dupes errent. Perché in effetti la barzelletta dei due ebrei resta aperta, non conosciamo la verità, per cui possiamo rovesciare l’enunciazione potenzialmente all’infinito. Più si cerca di essere non-dupe, più si rischia di errare.
Questa nuova (non detta) metafisica verso cui di fatto Derrida va è certamente legata a qualcosa di personale, di idiosincratico. E mi chiedo se in ogni filosofia, anche in quelle che si vogliono le più razionali, le più puramente argomentative, le più anonime, non si esprima questa opacità soggettiva del filosofo. È il tema che Derrida stesso affronterà in questo seminario parlando della biografia del filosofo, a proposito dell’uomo Nietzsche. Ovvero, al centro di ogni filosofia, per quanto rigorosamente impersonale, si annida un ombelico biografico, direi un’ossessione privata, qualcosa che gli altri non condividono originariamente, ma che finiscono con l’assumere quando entrano nel gioco di quella filosofia. Non ereditiamo solo le argomentazioni dei grandi filosofi, anche le loro ossessioni. Ora, sappiamo che Derrida era ossessionato dalla scrittura, varie testimonianze ce ne parlano. Scrivere per lui era molto più che esprimersi, era, direi, un tracciare delle forme indelebili nel marmo, o forse nella carne.
Ma questa sua ossessione personale ha avuto molto successo, soprattutto nel campo della critica e della storia letterarie, ovvero in professioni di scrittura. Un po’ come i massoni –masons, muratori – hanno creato una visione metafisica e cosmologica fondata sulla costruzione architettonica, analogamente la metafisica derridiana della traccia e della scrittura fornisce una sorta di esaltazione filosofica di quegli artigiani della scrittura che sono gli accademici nelle Humanities. Derrida è diventato l’interprete più prestigioso della confraternita di coloro che scrivono. Come nella massoneria, gli strumenti del lavoro diventano l’essenza del lavoro stesso.
Ma, al di là di questa confraternita mondiale, gran parte del pensiero moderno ha pensato di trovare nel concetto derridiano di testo la soluzione che questo pensiero da tempo cerca: qualcosa che metta finalmente fine alla divisione di vecchia data tra mondo dei segni e mondo delle cose. È la stessa ragione per cui a un certo punto, nella seconda metà del XX° secolo, il pensiero è sembrato coagularsi attorno al significante linguaggio: il linguaggio andava a pennello nel superare la divisione che da secoli tormenta il pensiero occidentale, quello appunto tra segni e cose, o tra res cogitans e res extensa, quindi tra spirito e materia, mente e mondo, ecc. Perché il linguaggio sembra una moneta che ha una faccia materiale, sensibile (i suoni, le lettere, la struttura fonologica) e una faccia mentale, intelligibile (il versante semantico, l’espressione di idee). Ma il linguaggio, il logos, dirà Derrida, è ancora troppo poco materiale, troppo poco ‘cosa’, dato che solo gli esseri umani posseggono un linguaggio. Derrida vuole andare oltre, e pensa di trovare nella nozione di traccia – in qualcosa di non sempre intenzionale, in una semplice differenza inferta a qualcosa di omogeneo – il significante giusto per dire questo superamento. Il superamento della micidiale divisione all’origine delle metafisiche, che originariamente era tra un intellegibile e un sensibile, tra είδος ed ειδωλων, di cui sarà sempre problematico l’intreccio e la reciproca congruenza.
In sostanza, Derrida partecipa a un grande sogno della cultura, non solo parigina, dell’epoca: superare la divisione tra cultura umanistica e cultura scientifica, non accettare più la barriera diltheyana tra scienze dello spirito e scienze della natura. Abbiamo visto che la nozione di testo secondo Derrida poteva permettere questa congiunzione.
Poco dopo il seminario di Derrida, Ilya Prigogine e Isabelle Stengers pubblicheranno La nuova alleanza[11], che proseguirà lo stesso progetto, lo stesso sogno: la nuova auspicata alleanza sarà esplicitamente quella tra scienze umane e scienze della natura (solo che qui il riferimento filosofico sarà Bergson).
Molta acqua da allora è passata sotto i ponti, e possiamo dire oggi che questo sogno non è mai divenuto realtà. In seguito, le Humanities e le Natural sciences si sono sempre più separate, e da entrambi i lati. La cultura filosofica continentale è slittata da allora sempre più verso forme di spiritualismo, verso l’ermeneutica, verso una ripresa del bergsonismo o della fenomenologia; mentre le scienze hanno riaffermato spavaldamente il loro riduzionismo e hanno investito lo stesso “spirituale” attraverso le neuroscienze, di cui all’epoca del seminario di Derrida non si parlava. Le neuroscienze tematizzeranno la vita mentale degli esseri umani a partire dalla struttura del cervello, a partire da un organo materiale.
Tengo a dire che anche io lavoro da tempo a un superamento delle metafisiche che oppongono spirito e mondo, scienza dello spirito e scienze della natura, nature e nurture, ecc.[12] In questo senso lo sforzo di Derrida è anche il mio. Il punto, secondo me, è il modo in cui Derrida rigetta questa opposizione. Egli fa prevalere - direi prevaricare - un concetto profondamente antropologico come quello di scrittura facendone il modello di processi naturali. Anche il concetto di traccia, se non antropocentrico, è zoocentrico: una traccia è tale solo per qualcuno che la consideri tale. La forma di un piede sulla sabbia è traccia solo per qualcuno che cerchi chi vi è passato.
Come per Nietzsche, abbiamo visto, la nozione di vita prevarica su quella di ente in generale – anche se nella forma negativa della morte - analogamente in Derrida la nozione di scrittura o di traccia prevarica sull’ente in generale.
È come se Derrida dicesse: "Non c'è divisione tra pensieri e cose, perché tutte le cose sono forme di pensieri..." Non si supera veramente un'opposizione facendo prevaricare uno dei termini di un'opposizione sull'altro. È un superamento illusorio.
La testualità è una prevaricazione metafisica nel senso che tutte le metafisiche sono sempre l’atto di una prevaricazione categoriale: una parte dell’ente prevarica la totalità dell’ente, ponendosi come essenza dell’ente in generale. E così la scrittura – o meglio la traccia – questo ente in particolare, differenziale e in differita, diventa qualcosa di essenziale della totalità dell’ente.
Malgrado tutte le sue critiche a Jacob, qui Derrida esprime la speranza che la biologia moderna possa abbandonare i presupposti meccanicisti da cui essa è partita, e da cui è partita ogni scienza moderna. Ma così non si rende conto che tutte le nozioni illustrate da Jacob, e che richiamano l’ordine dei segni e della scrittura, sono concetti, appunto, euristici - la biologia era allora, e lo sarà sempre più, meccanicista. Quando il biologo dice “codice genetico” sta usando una metafora: sa che si tratta in fin dei conti solo di processi chimici. Derrida prende metafore didattiche per la struttura stessa della cosa biologica.
Questo non significa che il mondo dello spirito e quello delle cose naturali siano necessariamente separati. Ma un punto di vista che vada oltre questa divaricazione non può essere quello della prevaricazione dei concetti di un mondo su quelli dell’altro.
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6.
Storicamente, direi che la concettualizzazione della filosofia della scienza è andata in una direzione per certi versi opposta alla proposta di Derrida, di prendere la scrittura (quindi anche la scrittura dei biologi, i testi che essi scrivono) come modello per rappresentare il vivente. Si è affermata invece sempre più – e non dico che me ne rallegri, ma è un fatto - una visione delle teorie scientifiche, dei modelli scientifici – inclusa quindi la teoria biologica – come essi stessi organismi il cui modello è l’organismo biologico secondo il darwinismo. Ovvero, una teoria non è solo né essenzialmente un’immagine del mondo, dell’oggetto che essa vuole descrivere e spiegare, è essa stessa una sorta di organismo simil-vivente, soggetta a processi fondamentali molto simili a quelli della vita biologica.
Il darwinismo afferma che la vita ha una storia per mutazione e selezione: la mutazione è casuale, stocastica, e poi ogni mutazione è messa al vaglio dell’ambiente dell’organismo, che la premia o la elimina. Ogni organismo ha un doppio ambiente: da una parte i congeneri (per esempio, vincere contro altri maschi la competizione per accaparrarmi le femmine, ecc.), dall’altra l’ambiente extra-specifico (assicurarmi le prede, sfuggire ai predatori, far fronte a cambiamenti climatici, ecc.). L’equivalente della selezione delle teorie è anch’essa duplice: una teoria deve competere con le altre teorie rivali, e allo stesso tempo fornire spiegazioni migliori del proprio oggetto di ricerca. Conta la capacità che ha una teoria di prevedere certe cose del mondo, e anche di offrire un modello migliore, che appaia verosimile, di ciò che accade nel mondo che descrive, rispetto ad altri modelli. Ma le teorie scientifiche sono a loro volta frutto del caso, del fatto cioè che a un certo punto compaiono degli esseri umani – Galileo, Newton, Darwin, Mendel, Einstein, ecc. – che concepiscono, non importa come e non importa perché, delle idee nuove. Dawkins (1976) chiama queste idee memi, da mimesis, e i memi sono il corrispettivo culturale dei geni. Questi memi nuovi sono mutanti intellettuali – i quali vengono poi sottoposti all’esame dei fatti, ovvero della porzione di realtà che intendono descrivere, e alle critiche dei memi (teorie) rivali. Nessuna teoria spiega tutto, ma può spiegare più di un’altra, per cui finisce col prevalere nella lotta per l’esistenza memetica. Una teoria scientifica è vista sempre meno come una riproduzione fotografica del mondo, sempre più come un organismo composito che sopravvive nel mare del reale. Una teoria ci appare più vera di un’altra perché sopravvive meglio dell’altra.
Una critica puramente filosofica delle teorie nuove lascia quindi il tempo che trova: quel che conta è la capacità di ogni teoria di sopravvivere e trasmettersi (riprodursi) nelle comunità scientifiche. Per una teoria scientifica accettata le critiche filosofiche sono per lo più come le punture di zanzare per un elefante. Una teoria biologica, quindi, prodotto del vivente, tende spontaneamente a comportarsi essa stessa come una sorta di organismo vivente in relazione a quel mondo vivente che vuole descrivere.
Possiamo dire quindi che l’idea peregrina di Charles Darwin – che le specie mutano non perché trasmettono caratteri acquisiti dal fenotipo, ma per una mutazione puramente casuale del genotipo – fu essa stessa una mutazione memetica che è stata positivamente selezionata dalla ricerca successiva, nel senso che essa si è dimostrata adatta a sopravvivere nella massa di dati che le scienze dell’evoluzione hanno prodotto da allora in poi. Certo anche il darwinismo ha i suoi contro-fatti, molti tratti della vita non possono essere spiegati darwinianamente[13], eppure il darwinismo sopravvive come idea dominante perché si adatta abbastanza bene (non perfettamente) ai fatti biologici.
In questa ottica, non è più la testualità il modello della biologia moderna, ma i testi che gli umani producono trovano il loro modello nel vivente stesso.
[5] Riprendo qui la brillante descrizione di Hintikka della scienza come un gioco, assimilabile quindi a una teoria generale dei giochi. Hintikka, 1975, capp. II-III-V.
[6] È questo un presupposto fondamentale della matematica moderna: a qualsiasi insieme, per quanto in apparenza caotico, possiamo trovare un ordine, una “legge” che ne descriva la composizione.
[7] La meccanica quantistica considera il flusso o corrente di probabilità come un fluido eterogeneo (la corrente di probabilità è il tasso di flusso di questo fluido). È un vettore reale, come in una corrente elettrica. Un fluido (ente oggettivo) può essere descritto in termini probabilistici (di attese soggettive), e un calcolo probabilistico può essere descritto come un ente oggettivo.
[8] Più volte è stato notato che il titolo di “L’origine delle specie” è fuorviante, perché di fatto non dice nulla delle origini delle specie, e di fatto dissolve anche il concetto di specie.
[9] Se fosse per Derrida, fra i quadri dell’arciduca ci dovrebbe essere anche il quadro di Teniers “L’arciduca Leopold Wilhelm nella sua galleria a Bruxelles”… Avremmo quella che i francesi chiamano myse an abyme.
[10]Remarquer quindi nel doppio senso: come un testo che marca un altro testo una seconda volta, che lo ri-marca, ma anche che lo nota, lo rende rimarchevole, lo fa essere testo mentre prima, non notato, non lo era.
[12] Rimando qui a: S. Benvenuto, "Natura/ Cultura. Critica ad un paradigma culturale" in Giorgio de Finis & Riccardo Scartezzini, a cura di, Universalità & Differenza. Cosmopolitismo e relativismo nelle relazioni tra identità sociali e culture, FrancoAngeli, Milano 1996, pp. 116-142.
[13] Del resto, nemmeno Darwin era “darwiniano” fino in fondo, per fortuna. Cfr. Pievani (2013, 2015).
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Bibliografia
R. Dawkins (1976) The Selfish Gene, Oxford Univ. Press, Oxford. Tr.it. Il gene egoista. La parte immortale di ogni essere vivente, Mondadori, Milano 1992.
J. Derrida (2019) La vie la mort, Seuil, Paris.
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J. Monod (1970) Le hasard et la nécessité. Tr.it. Il caso e la necessità, Mondadori, Milano 2001.
F. Nietzsche, La gaia scienza (1882)
T. Pievani (2013) Anatomia di una rivoluzione. La logica della scoperta scientifica di Darwin, Mimesis, Milano.
T. Pievani (2015) Leggere l’Origine delle specie di Darwin, IBIS Edizioni, Como-Pavia.
I. Prigogine & I. Stengers (1979) La nouvelle alliance, Gallimard, Paris.
Quine, WVO (1975) ‘On Empirically Equivalent Systems of the World’, Erkenntnis, vol. 9, no. 3, pp. 313–328.
L. Wittgenstein (1980) Pensieri diversi, Adelphi, Milano.
N. L. Wilson (June 1959). "Substances without Substrata", The Review of Metaphysics, 12 (4): 521–539.
L’interesse di Dark Deleuze (Mimesis 2020) risiede forse nell’interrogare se la filosofia deleuzeana, o la filosofia tout court, sia un gioco linguistico in sé concluso e confinato nell’autoreferenza accademica o possa e debba essere abbastanza radicale da incidere nella prassi individuale e collettiva, cioè etica e politica. Ciò nonostante è discutibile che Dark Deleuze sia un libro filosofico o, almeno, un esperimento filosofico ben riuscito.
Il testo di Andrew Culp, autore di cui «non si sa molto», come precisa da subito il curatore e traduttore dell’edizione italiana Francesco Di Maio, esce per Mimesis, preceduto da una (Non)prefazione di Paolo Vignola e da una breve ma densa postfazione di Rocco Ronchi. Dark Deleuze si apre con una annotazione metodica: riprendendo una boutade deleuzeana della Lettera a un critico severo (Deleuze 2000, pp. 14-15), Culp afferma che «scrivere di altri autori è “una specie di […] immacolata concezione”» (p. 33), in cui l’interprete, a partire dalle aporie, dagli slittamenti, dalle ambiguità o dai punti di rottura del testo interpretato, ne rimonta, per dir così, la struttura, dando corpo a una costellazione concettuale nuova e autonoma, e teoreticamente più coerente e radicale. Aggiungo che siffatta indicazione metodica corrisponde in effetti alla nozione deleuzeana di problema[1] e può rivelarsi feconda nella misura in cui mette in guardia da due rischi ricorrenti del lavoro filosofico: ridurre l’analisi del testo interpretato a un’acribia filologica fine a se stessa e da ultimo sterile; pervertire l’aderenza a un autore in scimmiottamento o in codificazione di un gergo settario. In questo, Culp ha buon gioco contro l’«abbondante prole di mostriciattoli» (p. 33) che ricalcano in modo acritico stilemi o formule deleuzeane, facendo dell’autore di Differenza e ripetizione un pensatore à la page e, per ciò stesso, una sorta di ideologo del mondo contemporaneo.
Su questo sfondo metodico, Culp dà volto a tali mostriciattoli ed espone la tesi di fondo del proprio pamphlet: si tratta di liberare l’opera di Deleuze dal «canone della gioia» e dai suoi maliziosi vessilliferi, per lasciare emergere, senza possibili mediazioni, un Deleuze oscuro, riabilitandone la «forza distruttiva della negatività» e l’«odio per questo mondo» (p. 33). In altri termini, un’eccessiva accentuazione degli aspetti affermativi e appunto “gioiosi” della filosofia deleuzeana si sarebbe trasformata in una sorta di apologetica dell’esistente, in un rinnovato giustificazionismo che finisce per assolvere il mondo dalle sue derive capitalistiche e anzi per giustificare i cliché del connettivismo e del produttivismo: il primo «guida la strategia geopolitica di influenza globale di Google», il secondo onora «la creazione e la novità fini a se stesse», considerando la possibilità di un nuovo mondo come una semplice riarticolazione e, in fin dei conti, come una ripetizione del vecchio (pp. 88-89). Contro l’esaltazione del mondo e «correggendo» l’«errore di Deleuze» (p. 42), l’intento di Culp è quello di «trovare un modo per dire “no” a coloro che ci dicono di prendere il mondo così come è»; occorre allora far risaltare gli elementi negativi e critici che in Deleuze convivono aporeticamente, secondo Culp, con l’affermazione gioiosa dell’esistenza, e prolungare la Morte di Dio e dell’Uomo nella Morte del Mondo (pp. 87-88). Il fine di questa rinnovata forza negativa sarebbe «la sconfitta finale dello Stato e il comunismo pieno» (p. 48): «tenere vivo il sogno della rivoluzione in tempi controrivoluzionari» (p. 46).
Ora, già a proposito dell’istanza metodica che orienterebbe il progetto di un Deleuze oscuro o di un «figlio» ribelle di Deleuze, ci si potrebbe interrogare sull’effettiva riuscita dell’opera di rinvenimento dei punti problematici deleuzeani e del lavoro di riconfigurazione dei concetti del filosofo francese in una più coerente e radicale struttura. Il libro di Culp mi pare affastellare citazioni e “filosofemi” deleuzeani, quasi senza contestualizzazione, e con tracce assai esili – a esser generosi – di rigore argomentativo e di chiarimento o determinazione semantica dell’armamentario lessicale utilizzato. Sicché il testo non supera il rischio di parlare in gergo e pare voler preparare il comunismo a venire rivolgendosi ai soli accoliti di Deleuze. Senza la fatica del concetto, l’«immacolata concezione» di cui si diceva può assomigliare troppo facilmente a un mistero irrazionale i cui fumi coprono le idiosincrasie e gli arbitrî della soggettività.
Entrando poi nel merito del confronto di Dark Deleuze con l’opera deleuzeana, è singolare che Culp non si avveda di quanto la filosofia affermativa e spinozista di Deleuze sia costruita interamente su una critica del senso comune e del buon senso, una critica cioè del conservatorismo, anche politico, implicato dalla doxa in quanto doxa: il buon senso – come scrive Deleuze – è «l’ideologia delle classi medie che si riconoscono nell’uguaglianza come prodotto astratto» (Deleuze 1997: 291). Stupisce, per esempio, che manchi in Dark Deleuze un confronto puntuale con la critica dell’Immagine del pensiero operata nelle pagine centrali di Differenza e ripetizione, testo che pure lo stesso Culp considera «l’opus magnum di Deleuze» (p. 47). Quella critica mi pare, semplificando, la premessa “epistemica” e dialettica all’ontologia deleuzeana dell’affermazione e della gioia, così come quella ontologia è il fondamento senza il quale la critica resterebbe velleitaria e doxastica. L’affermazione della vita, che in Deleuze è tanto innocente quanto crudele, è giustificata da un’ontologia dell’immanenza che Culp mi sembra interamente sorvolare. In altri termini, affermazione ontologica della gioia e critica dell’esistente sono in Deleuze due istanze complementari e per nulla contrapposte.
Se riguardata sul fondamento di quella ontologia, l’affermazione della vita non consiste in una indiscriminata esaltazione di una vuota creatività o delle differenze in quanto meramente equivalenti: «la filosofia della differenza – scrive Deleuze – deve stare attenta a non diventare il discorso dell’anima bella: discorso di differenze e soltanto di differenze, in una coesistenza pacifica […] tra posti e funzioni sociali. Ma il nome di Marx basta a tutelarla da tale pericolo» (Deleuze 1997: 268). L’affermazione della vita è anche, e sotto il medesimo rispetto, un rivolgimento del già dato, nella consapevolezza che la forma-mondo (ossia la relazione di un soggetto dotato di identità a un insieme di oggetti distinti dal soggetto e tra loro) va destituita di ogni primato. Questa destituzione, però, non è una pura distruzione, ovvero una precipitazione della forma nel caos o nell’indifferenziato, ma un pensiero e un’esperienza del limite e dell’autentico senso della differenza: come a dire che la pretesa di una pura distruzione, l’ambizione di saltar fuori dalla forma-mondo e anche dalla sua configurazione storica come mondo capitalista, rischia di mutare semplicemente di segno il conservatorismo, lasciandone intatta la struttura. Detto semplificando al massimo: sostituire alla norma e all’imposizione del “lavora e produci” la norma del “ribellati e distruggi” lascia inalterata la norma nella sua forma, cioè nella sua tirannide. Il rischio del ribellismo, come rileva Ronchi, è quello di restare un modo, in fondo innocuo, del risentimento (p. 99).
D’altronde, anche lasciando sullo sfondo Deleuze e concedendo che Dark Deleuze sia soltanto Culp sub excusatione Deleuzi, mal si comprende in cosa consista il comunismo preconizzato dall’autore, quali siano i mezzi e i presupposti materiali della sua realizzazione: l’esortazione all’odio e alla distruzione sembra solo un appello alle coscienze, senza alcuna indicazione storico-effettuale o di struttura sulle condizioni concrete della sua attuazione. In merito sarebbe forse utile, se non si vuole abdicare del tutto al comunismo, rileggere le critiche di Marx alla Sinistra hegeliana.
Nonostante quanto detto, Dark Deleuze mantiene un certo interesse, su un duplice versante: quello di esortare a una lettura non disimpegnata della filosofia di Deleuze e quello, più generale, di porre in questione se e come la filosofia, e in particolare una filosofia dell’immanenza, possa e debba mantenere una valenza di critica dell’esistente. Sarebbe utile dibattere se l’alternativa al ribellismo sia il conservatorismo o il riformismo, ovvero una custodia o un rimaneggiamento del già dato.
Qui, lasciando Culp sullo sfondo, mi limito a un semplice spunto per una possibile discussione. In Differenza e ripetizione, Deleuze scrive che «l’oggetto trascendente della socialità» «non può essere vissuto nelle società attuali in cui s’incarna la molteplicità, ma deve esserlo e può esserlo soltanto nell’elemento del rivolgimento delle società (e cioè semplicemente nella libertà che si manifesta tra i resti di un antico ordine e i primi segni di uno nuovo)» (Deleuze 1997: 250). E poco più avanti aggiunge: «Il problema [di una società] si riflette sempre in falsi problemi nel momento stesso in cui si risolve, cosicché la soluzione viene generalmente a trovarsi rovesciata da un’inscindibile falsità […]. I problemi sfuggono per natura alla coscienza, ed è proprio di una coscienza essere una falsa coscienza. […] L’oggetto trascendente della facoltà di socialità è la rivoluzione. In questo senso la rivoluzione è la potenza sociale della differenza, il paradosso di una società, la collera propria dell’Idea sociale. […] La lotta pratica non passa per il negativo, ma per la differenza e la sua potenza di affermare» (Deleuze 1997: 268-269). Credo si possa dire, a una prima approssimazione, che ogni ordine sociale in quanto ordine è l’attuazione e insieme l’irrigidimento di una libertà intesa come la stessa potenza di trasgredire l’ordine e di preparare un ordine a venire. Questa libertà o potenza trasgressiva è differente da ogni ordine e, d’altra parte, non esiste se non nel corpo di un ordine sociale e nella transizione da un ordine all’altro. Se l’ordine è una ripartizione dell’ente (e del corpo sociale) secondo una norma, la libertà è la trasgressione della norma come norma, o del sistema del giudizio: l’innocenza ovvero l’anteriorità alla linea di demarcazione tra bene e male. In quanto trascendimento di ogni possibile ordine dato o presente, la libertà o innocenza è ideale, nel senso di non presentificabile. L’idealità è condizione dell’istituzione di ogni ordine presente ma per ciò stesso non può essere adeguata, normata, resa presente; l’idealità è presente soltanto, ma come “falsata”, negli ordini sociali in cui di volta in volta, incarnandosi, si sottrae. Detto altrimenti: la libertà o la rivoluzione non può porsi come norma di un qualsivoglia ordine da instaurare, quindi neanche come norma di semplice negazione dell’ordine esistente. Limite della norma e dell’ordine, la libertà non è un ordine altro o una norma posta altrove e non è in ogni caso negazione del limite o arbitrio.
La libertà resta nondimeno problematica: la sua potenza di affermare sembra porsi come fondamento di ogni ordine dato e insieme come possibilità ideale, di diritto perennemente a venire; come condizione trascendentale dell’istituzione dell’ordine e insieme come telos sempre e solo possibile, cioè non pienamente essente: in altri termini come figura della cattiva infinità e come contraddizione. Pensare la libertà come incontraddittoria, per contro, significa accertare l’impossibilità di un telos sempre differito, di un’infinità meramente potenziale. Nel toglimento originario della contraddizione del possibile, la libertà è la pura positività di un infinito attuale e l’eccedenza di un atto infinito rispetto alle proprie determinazioni finite che pure gli sono coessenziali. È questo il tentativo filosofico di un immanentismo che si voglia rigoroso, ed è questo il rigoroso fatalismo di cui parla Ronchi nella sua postfazione (p. 97). Ma se la libertà è un atto infinitamente compiuto, che si esprime e non può non esprimersi, in ogni dato e in ogni ordine, e anche nel più “falsato” degli ordini, l’esito forse più coerente, sul piano del concetto, del problema posto da Deleuze è, eticamente, non il ribelle, ma l’esausto; e, politicamente, non la rivoluzione né il riformismo ma l’indifferenza. A questo livello il Deleuze critico e gioioso pone in scacco la relazione tra il concetto e la vita o la prassi. Scacco, rispetto alle miserie e alle fatuità del mondo attuale, che l’ottimismo da anima bella di Dark Deleuze mi pare eludere con troppa facilità e da cui chi scrive, semplicemente, non sa come uscire.
di Sandro Palazzo
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[1] Sulla nozione di problema cfr. almeno G. Deleuze, Différence et répétition, PUF, Paris 1968; tr. it. di G. Guglielmi, Differenza e ripetizione, Cortina, Milano 1997, pp. 204-213, 252-259. Id., Spinoza et la méthode générale de M. Gueroult; tr. it. Spinoza e il metodo generale di Martial Gueroult, in Id., L’isola deserta e altri scritti, Einaudi, Torino 2007.
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Bibliografia
G. Deleuze, Pourparler, Quodlibet, Macerata 2000.
Id., Différence et répétition, PUF, Paris 1968; tr. it. di G. Guglielmi, Differenza e ripetizione, Cortina, Milano 1997.
Id., Spinoza et la méthode générale de M. Gueroult; tr. it. Spinoza e il metodo generale di Martial Gueroult, in Id., L’isola deserta e altri scritti, Einaudi, Torino 2007.
È ormai diventata constatazione banale che l’epoca moderna e contemporanea palesa un rinnovato interesse per le apocalissi culturali, anche se spesso è ravvisabile molta incertezza nel circoscrivere l'argomento in modo non arbitrario e nel precisare la qualità dell'interesse che vi si porta. Tale rinnovato interesse non è un fenomeno casuale, ma trae alimento in modo decisivo dal fatto che almeno una parte della cultura della società borghese si trova oggi variamente impegnata in una particolare modalità storica di apocalittica, cioè di perdita e di distruzione del mondo: una apocalittica che, come si è già accennato, si riflette nella vita culturale e nella disposizione degli animi e delle menti.
E. De Martino, Apocalissi culturali e psicopatologiche, in Nuovi Argomenti, 69-71 (1964), pp. 105-141
Nel corso di un convegno Antonino Ferro, allora presidente della Società Psicoanalitica Italiana, ironizzava sulla difficoltà della ricerca psicoanalitica italiana nel rendersi attuale. Nel novero dei riferimenti bibliografici della maggior parte degli articoli pubblicati nelle riviste nazionali, si contavano infatti per lo più riferimenti databili alla prima metà del Novecento. I testi freudiani, bioniani, kleiniani, winnicottiani riproposti in una borgesiana combinatoria infinita di ricorsività teorico-concettuali. Vizio di forma italiano o del settore?
Se ci spostiamo dalla penisola italiana alla regione francofona, è attorno a questo tema che comincia l’ultimo lavoro di Jean-Paul Matot dal titolo Le Soi Disséminé. Une perspective écosystemique et métapsychologique (L'harmattan, 2020) Il testo, denso e a tratti involuto, rappresenta un interessante inizio di confronto nel campo psicoanalitico rispetto all’attualità della psicoanalisi e del suo laboratorio concettuale. Che cos’è infatti la psicoanalisi nell’era dell’Antropocene? La dottrina dell’inconscio, che per anni ha arricchito il pensiero occidentale di nuove comprensioni sui modi di agire, pensare ed essere dell’uomo, è divenuta semplicemente anacronistica o è in grado di rinnovarsi all’altezza storica presente?
Scriveva De Martino che le apocalissi culturali sono “manifestazioni di vita culturale che coinvolgono, nell’ambito di una determinata cultura e di un particolare condizionamento storico, il tema della fine del mondo attuale” (De Martino 1964: 105-151). Di pari passo con l’acuirsi e il popolarizzarsi della crisi ecologica in corso, la maggior parte delle discipline “umanistiche” ha cominciato a rinnovare una certa sensibilità attorno al problema dell’“Antropocene”.
In psicoanalisi, differenti autori riflettono da qualche anno attorno al problema della crisi ecologica e ai suoi correlati sociali e clinici (L. Magnenat, A. Lombardozzi C. Schinaia, etc.). Questi lavori rappresentano il punto di avvio del libro di Matot, che, pur ponendosi in continuità con gli autori citati, si pone in discontinuità metodologica nell’organizzazione della sua ricerca. Secondo lo psicoanalista belga infatti, la maggior parte delle opere che si sono candidate fino ad ora a questo intervento, ha ragionato sulla crisi in corso con un classico modello oggettivante. Ovvero, ha fatto ricorso alla classica cassetta degli attrezzi psicoanalitica e ha stabilito, con la giusta flessibilità teorica, un riadattamento concettuale per la realtà presente. A tal proposito, questi psicoanalisti hanno proposto alcune categorie di lettura, come le melanconie ambientali in relazione all’iperoggetto ecosistemico o la nozione di proiezione di zone di disastro nella costruzione di sé rispetto ad un mondo in rovina, etc.. Tuttavia, obietta Matot, questi concetti, sebbene pertinenti, metterebbero poco in discussione i limiti stessi delle teorie psicoanalitiche. E qui il testo comincia ad entrare nel vivo.
Matot evita di entrare in polemica coi suoi colleghi e con agilità teorica porta l’attenzione a monte del problema. Lo sforzo collettivo della comunità psicoanalitica non dovrebbe consistere in un riadattamento posticcio dei propri capisaldi, ma dovrebbe tendere a ripensare i limiti che la disciplina mostra nella lettura del presente. Per addentrarsi in questa impresa teorica, lo psicoanalista belga raccoglie suggestioni teoriche di alcuni suoi contemporanei, primo fra tutti l’antropologo Philippe Descola. In risonanza con Par-delà nature et culture (2005) Matot prova a convincere il lettore che gran parte del fallimento psicoanalitico oggigiorno risiede nel lasciare impensata l’ontologia naturalista entro cui la disciplina è stata fondata. Detto altrimenti, anche la psicoanalisi, come qualsiasi disciplina sviluppatasi come eredità delle filosofie illuministiche, si fonderebbe sulla separazione soggetto/oggetto, producendo come unica autorappresentazione degli individui delle monadi autosufficienti e autoregolanti. Recuperando la lezione di Maturana, Varela, Bateson e dei pensatori della cibernetica, nonché proponendo alcune suggestive esemplificazioni tratte dalla medicina contemporanea [Ameisen, 1999], Matot insiste sulla necessità di ricalibrare la storica nozione psicoanalitica dell’Io secondo un modello di funzione in rapporto di co-dipendenza e co-evoluzione con il sistema-ambiente: di qui l’idea di un “Sé disseminato”. La proposta è quella di congedare il concetto di Io in favore di funzioni plurime di involucri psichici, in continuità teorica con psicoanalisti come Houzel e Berger. L’attenzione ai legami e alla co-dipendenza dei sistemi porta in luce l’importanza di uno psicoanalista francese come Kaës, il quale ha dedicato la maggior parte della sua produzione teorica allo sviluppo della cosiddetta “topica dell’intersoggettività” e della fondazione dello psichismo in una rete complessa di rapporti.
A. Giacometti, Cane
Il testo incede ritmicamente organizzando un’ampia mole di riferimenti filosofici (Simondon, Stiegler), antropologici (Bateson, Leroi-Gurhan) e psicoanalitici (Winnicott, Bion, Anzieu, Bick, Kaës, Bleger), proseguendo la riflessione a cavallo tra ecosistemi e psicoanalisi propria delle due opere precedenti dell’autore: L’enjeu adolescent (2012) e L’Homme décontenancé (2019).
La sostanziale revisione metapsicologica proposta, che consiste nel passaggio da una topica dell’Io intesa in una diade interno/esterno a un Sé Disseminato di involucri psichici, è una proposta di sintesi dei lavori dei grandi psicanalisti del Novecento in tema di topologia, come Winnicott e i suoi lavori sull’informe e la transizionalità, Bleger con i concetti di ambiguità e involucri, le topiche lacaniane dei nodi borromei e il concetto di Reale, nonché la nozione bioniana di O. Secondo Matot questa operazione risponderebbe addirittura maggiormente alle rappresentazioni che neuroscienze e biologia elaborano del rapporto tra coscienza e cervello in legame con gli altri organi corporei.
Il testo rappresenta senza dubbio una sfida provocatoria e affascinante, ossia un tentativo di portare il pensiero psicoanalitico all’altezza storica presente. Tuttavia chiudendo l’ultima pagina, pare legittimo chiedersi se ciò che si è letto rappresenti un grande esercizio di erudizione o indichi veramente delle piste di ricerca per l’episteme psicoanalitica.
Uno stimolo senza dubbio suggestivo offerto dalla topica del Sé disseminato e plurimo viene dall’invito a pensare lo psichismo non tanto come qualcosa che c’è, ma qualcosa che va prodotto e appropriato. In questo senso dice Matot, potremo guardare il rapido sviluppo della genomica, dell’intelligenza artificiale, lo sviluppo del digitale e le crisi ambientali come qualcosa che influenza e perturba il nostro psichismo e nei cui confronti dovremo costruire informazione, e legame. Muovendo così, dal disorientamento di “una certa sensibilità per la fine” verso la fine di una certa sensibilità.
Utilizzando come attivatore di ogni capitolo una “specie harawaiana”, Federica Timeto nel suo Bestiario Haraway (Mimesis 2020) analizza e mette a sistema il pensiero di Donna Haraway a partire da una serie di figure zoo-tecnomorfe che hanno accompagnato e inquadrato il lavoro dell’autrice americana in maniera organica nella sua costante mutazione.
Il volume offre una prima sezione introduttiva in cui si presentano le illustrazioni a ogni capitolo di Silvia Giambrone (p. 17); il capitolo 1, “Animali che significano: Note introduttive a un bestiario naturalculturale” (p. 21), è una introduzione generale all’approccio teorico di Haraway, alla sua concezione “dell’animale”. Il libro prosegue poi con “Nella danza del pensare-sentire. Una conversazione con Donna Haraway” (p. 29), una intervista inedita alla teorica americana. Di seguito, ogni capitolo è dedicato a una delle specie significative nella teoria di Haraway, ivi compresi il cyborg (p. 105) e i microorganismi (p.189). Questi capitoli del Bestiario sono strutturati in una breve prima parte in cui Timeto ricostruisce da un punto di vista storico, simbolico, culturale, e della storia della scienza come ognuno di questi animali è stato percepito, classificato, concettualizzato storicamente e filosoficamente per poi entrare in maniera più dettagliata nelle idee ed elaborazioni al riguardo della stessa Haraway.
Nel primo capitolo, Timeto parte dal pensiero “per ecologie” tripartite: tra viventi umani, non umani e tecnologie. È da qui che scaturisce il pensiero antispecista (e non tanto “animalista”) di Haraway che implica un vivere-con l’alterità. Questo pensiero si appoggia su una profonda critica al rappresentazionalismo per quanto questo implica una scissione in soggetto-oggetto che oscura qualsiasi possibilità di ibridazione trans-specie (p. 22). In questo contesto, l’animale diventa sempre «una macchina speculare dell’umano» (p. 22) che lo “riflette” come uno specchio. Ma poiché, come indica Derrida, “l’Animale in generale” non esiste, in realtà il vivente non umano finisce per funzionare come un ventriloquo attraverso il quale «a parlare resta sempre l’umano» (p. 22).
Per contro, nell’approccio harawaiano, gli animali non funzionano come specchi dell’umano, questo sì capace di rappresentazione, ma sono opachi, e bisogna «lasciar rispondere gli animali, dunque, piuttosto che dar loro (la nostra) voce» (p. 24).
Timeto fa poi un percorso “archeologico” in senso foucaultiano e analizza le diverse accezioni del termine bestiario lungo la storia, in rapporto alle quali emerge il concetto di specie compagne definite da Haraway come «un bestiario di agentività, modalità di relazione» (p. 27).
Successivamente, nel secondo capitolo, l’intervista funziona non solo come un mezzo per chiarire i concetti principali delle teorie dell’autrice come introdotti nei suoi libri, ma anche come un aggiornamento di questi agli eventi attuali. Timeto e Haraway discutono quindi della categoria di specie, di estinzione e della difesa dei diritti degli animali (p. 31), un punto questo ultimo abbastanza problematico della visione di Haraway per la maggior parte degli animalisti. Haraway afferma: «Non sono pro-life, non condivido la feticizzazione della nozione di vita proprio perché credo che escluda la considerazione delle specifiche relazioni. Ho un profondo rispetto per gli attivisti animalisti radicali che dicono “Stop, basta uccidere vite animali”. Li rispetto perché sono assolutamente convinta che viviamo in un regime in cui si abusa delle uccisioni di animali non umani per scopi (umani) ingiustificati. […] Viviamo in circostanze complesse, posso uccidere o supportare l’uccisione di un embrione umano, uccidere o supportare l’uccisione degli animali da laboratorio in situazioni che, non definirei inevitabili, ma...il punto è che non possiamo agire innocentemente» (p.35).
E ancora «Non esiste decisione che non implichi una qualche forma di violenza. Ed è una violenza di cui siamo responsabili: potremmo sempre esserci sbagliati, dunque dobbiamo essere pronti a riconsiderare ogni volta le nostre azioni. Comprendere che non era la cosa giusta da fare» (p.35). Questo passaggio permette di identificare una posizione molto simile a quelle di Jacques Derrida: non ci si deve mai adagiare “dalla parte della verità”, ma ci si deve interrogare ogni volta su ogni decisione, su ogni posizione presa (Derrida 2006, p. 182). Questo approccio, che potrebbe essere chiamato un “metodo”, serve a impedire di cadere in un dogmatismo irriflessivo, e assicura, per così dire, una posizione critica; tuttavia occlude, come indica Cary Wolfe (2020) nella sua analisi del pensiero di Derrida, la possibilità di una etica, più o meno universale. Ed è quindi difficile non assecondare Haraway nella sua concezione di adottare posizioni “non innocenti”: perché nessuno è mai innocente, ogni decisione presa implicherà un danno per qualcuno, e come indica ancora Derrida, non c’è bisogno di mangiare la carne per essere carnefici.
Haraway di conseguenza è dichiaratamente contraria agli allevamenti intesivi a prescindere, ma non è contraria alle pratiche, per esempio, dei popoli indigeni di cacciare e mangiare la carne, e delle cerimonie di alimentazione dei nativi che le accompagnano (p. 36).
Timeto sceglie di presentare questa posizione come problematica, così come quella di Derrida citata sopra, in rapporto all’oncotopo e le sperimentazioni e modificazioni genetiche di animali: «Appare certamente problematico confrontare la logica, pur conseguenziale, di questo ragionamento con le odierne pratiche in cui la vita animale è annientata prima ancora di poter essere considerata o lasciata libera di diventare significativa e significante, ovvero di godere delle condizioni per entrare in relazioni effettivamente simmetriche con gli altri umani» (p. 102).
Così come è anche fondamentale, sia per capire il pensiero di Haraway, sia come contributo alle discussioni in corso negli animal studies, la domanda di Timeto riguardo alla concezione di ecologia tripartita menzionata sopra (umani, non umani, macchine) sul fatto che di solito l’accento viene messo sul rapporto umani-macchine o umani-non umani e quasi mai sulle possibilità di ibridazione dei non umani con le macchine in modi che non implichino un abuso o sfruttamento, bensì una qualche possibilità di collaborazione, o in termini harawaiani un divenire-con (p. 37). Questo tema viene ulteriormente approfondito nel capitolo sul cyborg. Segnalando che quando si parla di cyborg si pensa sempre all’intreccio tra umano in macchinino, in una dettagliata analisi Timeto traccia la l’asimmetria nei rapporti tra animali non umani e macchine, e sottolinea come «L’accento posto da Haraway sull’artefattualismo dei collettivi sociali e sulla loro composizione cyborg ha certamente lo scopo di liberare gli animali dallo status di oggetti (materiale passivo, strumenti, origine) cui sono stati relegati dal pensiero e dalle pratiche della tradizione occidentale, mostrando come essi non abitino ‘né la natura (come oggetto) né la cultura (come surrogato umano) ma “un posto chiamato altrove’» (p. 107).
Nel capitolo VI, intitolato “CANE”, Timeto analizza il concetto di specie compagne che Haraway avanza nel suo The Companion Species Manifesto (2003), un concetto che più che segnalare la svolta animalista nel pensiero dell’autrice americana contiene la sua critica della categoria stessa di “specie”. Questa critica si concentra sul fatto che la idea stessa di “specie” tende a semplificare a una unicità la complessità della molteplicità che essa stessa dovrebbe implicare (p. 132). Sia le specie compagne sia il cyborg mettono in evidenza, e si potrebbe dire persino celebrano, le contaminazioni e ibridazioni tra le specie. Il making kin - tradotto con “creare rapporti di parentela” - implica un divenire-con, una respons-abilità condivisa che evita qualsiasi pretesa di innocenza, «nella quale i legami di parentela non dipendono da una medesima genealogia, genetica o ematica, ma emergono piuttosto da storie condivise e dai nodi che si concretizzano nel vissuto in comune» (p. 132).
Sono anche degni di nota nel libro le scelte di traduzione più precise da parte dell’autrice, come per esempio la scelta di tradurre companion species come “specie compagne”, e non seguendo la traduzione originale del 2003 di Roberto Marchesini “compagni di specie”, come anche le precise note a piè di pagina che arricchiscono sia il Bestiario sia la comprensione del pensiero di Haraway, non sempre lineare.
In sintesi, Timeto fa emergere in maniera sottile e quasi impercettibile non solo la sua lettura dei principali concetti dell’opera di Donna Haraway, ma anche la propria posizione rispetto a essi. In effetti, forse uno dei concetti più interessanti tra quelli spiegati nel Bestiario, è la simpoiesi - concetto mutuato dalla Haraway a partire dal lavoro di una sua studentessa, Beth Dempster, che lo ha coniato negli anni 90: la concezione che i sistemi viventi non siano autosufficienti, o autopoietici, ma che il vivente, l’inorganico, la natura e la cultura coevolvano in constante intra-azione (p. 189-90). Come indica Timeto, la simpoiesi implica una respons-abilità condivisa, un divenire-con, ed è quello che in questo caso sembra emergere nel dialogo tra due pensieri.
Qual è la realtà dei colori? I colori esistono? Sono percezioni? Come è possibile affermare, come il pittore Velasco Vitali, in riferimento al colore giallo: «è il mio autoritratto»? L’indagine sui colori in ambito filosofico è un campo di studi che sta tornado ad essere di grande attualità; le trattazioni a riguardo sono numerose, ricche di spunti e toccano diversi ambiti. Il giallo del colore. Un’indagine filosofica (Jaca Book 2020) si propone di ripercorrere la storia del dibattito, in particolare nella filosofia angloamericana nell’ultimo secolo e non solo, tagliando trasversalmente l’argomento con temi che passano dall’ontologia in senso stretto a questioni epistemologiche e linguistiche, allacciandosi tanto alle moderne e attuali teorie neuroscientifiche, come alla filosofia del linguaggio e alla critica dell’arte.
Nonostante l’argomento di ricerca possa sembrare oltremodo specialistico, l’indagine sul problema del colore si colloca nel contesto più ampio che comprende il mind-body problem, la questione linguistica e più in generale l’infinita battaglia tra idealismo e realismo che la filosofia occidentale, con poche eccezioni, si trascina dall’illuminismo. Così il tema del colore, come caso particolare, in realtà fa eco a quelli che probabilmente sono i più grandi problemi che la filosofia si sia trovata ad affrontare.
Questo saggio è il primo lavoro di Alice barale che abbraccia a così ampio raggio la questione del colore e che si discosta dai suoi riferimenti abituali, comprendendo anche tematiche della filosofia analitica. Alice Barale studiosa di Estetica presso l’università di Milano Statale, è redattrice della rivista «Itinera» e corrispondente di «Aisthesis». Barale si è occupata a lungo di Aby Warburg e di Walter Benjamin. Di quest’ultimo ha curato una nuova edizione e traduzione italiana de L’Origine del dramma barocco tedesco (Carocci, 2018).
Il Giallo del colore può essere diviso in due segmenti: il primo, comprendente i primi due capitoli, ha la funzione di introdurre il lettore alle principali soluzioni che le varie discipline teoriche hanno dato al problema dei colori, individuando, tra le altre cose, la figura di Goethe, sia questa esplicita o meno essa funziona come perno intorno al quale ruotano le teorie presentate. Invece il secondo segmento, che racchiude gli ultimi capitoli, si focalizza da una parte sul colore e il suo legame con l’arte e dall’altra il colore in relazione al linguaggio.
Le prime due sezioni funzionano quindi, nell'organicità del libro, come fondamento delle trattazioni successive e come una vera e propria cartina, utile per muoversi all’interno del dibattito sul colore in ambito analitico. Le principali teorie presentate sono: l’eliminativismo, il relazionismo e il fisicalismo; in queste pagine l’autrice riporta studi e teorie relative al carattere epistemico del colore, avanzando tesi sui due ampi fronti del realismo e dell’idealismo, spaziando da fisiologi tedeschi, come Helmholtz, fino a teorie fisiche, Maxwell, e neuroscientifiche, mettendo in comunicazione teorie scientifiche e filosofiche. Vengono così messe in evidenza le criticità della nozione di colore per il filosofo, che in questo senso si trova separato dalla massa, in quanto la sua idea sui colori deve passare per un’inevitabile problematizzazione dell’esperienza che ne facciamo. Questa scissione tra l’esperienza e l’ontologia verrà messa in discussione dalle tesi presenti nel secondo capitolo che, pur confermando il carattere non semplice del colore in opposizione alla concezione classica delle qualità secondarie, mostrano le concezioni più ingenue, in cui il colore viene riportato su di un piano più vicino a quello dell’esperienza di un soggetto non avvezzo alle circonvoluzioni della filosofia. In questo modo si apre la strada a un campo che fino ad ora è stato escluso dalla ricerca sui colori e che verrà invece inserito nel terzo capitolo, quello della loro componente simbolica.
Inizia così a delinearsi la sagoma di una seconda figura quella di Wittgenstein, forse ancora più esclusa rispetto a quella di Goethe dalla narrazione costruita intorno al dibattito filosofico; questo autore irromperà nell’ultimo capitolo per scardinare le concezioni classiche sul colore. In particolare, il carattere inafferrabile di quest’ultimo appare sempre più evidente man mano che si passano in rassegna le varie soluzioni proposte e questo suo carattere perturbante sarà ciò che più animerà lo spirito del filosofo austriaco.
Osservando le tesi proposte dalla filosofia angloamericana, esposte nei primi capitoli, ci si rende conto che ad essere escluso dal discorso è proprio ciò che verrebbe più semplicemente in mente a chiunque non fosse avvezzo al discorso filosofico, cioè il rapporto che intercorre tra i colori e il loro valore simbolico e artistico. Questa componente mancante viene reintrodotta nel terzo capitolo tramite le trattazioni sull’araldica di Pastoureau e quelle successive su Gage. Questa sezione è ricca di riferimenti artistici contemporanei e non, da William Turner a John Piper, per avvalorare la tesi per cui i colori non solo si esperiscono a livello sensoriale, ma si vivono in un senso più intimo e significativo. Essi non sono semplici astrazioni, stimoli fisici o mentali, ma hanno una componente centrale nella nostra cultura e interpretazione del mondo. Questo tema viene approfondito con la trattazione della teoria di John Gage, il quale non sosteneva l'universalità dei colori, criticando le ricerche di stampo evoluzionistiche dell’epoca, ma optando più semplicemente per delle somiglianze che sussistono tra di essi, che via via si vanno ad assottigliare. I colori vengono così fatti diventare un linguaggio particolare capace di descrivere la realtà, «John Gage contesta alla filosofia la capacità di cogliere questa densità. proprio perché il colore non è traducibile in parole[...]» (p.90). Probabilmente è proprio il carattere non alfabetico di questo linguaggio dei colori, che l’artista conosce bene, ad aver portato all’esclusione della sua non-voce dalla narrazione filosofica sul tema, poiché l’artista non spiega nulla, mostra e gioca col colore. Queste due nozioni: quella di gioco e quella di mostrare non possono che farci venire in mente uno dei più grandi critici del linguaggio del ‘900, la cui presenza si preannuncia numerose volte all’interno dei primi capitoli, ma che, come si è detto, si afferma nell’ultima parte del testo, cioè quella di Wittgenstein. L’indagine sul colore così trattata dischiude la possibilità di un’altra dicotomia fondamentale della storia del pensiero filosofico e psicologico, quella per cui il linguaggio determina o meno la nostra esperienza, dicotomia che nel corso della trattazione del filosofo viennese verrà sempre meno a presentarsi come tale; questo perché si va ad affermare sempre più l’idea che il colore scaturisca dalla sovrapposizione di vari piani della comprensione umana, o come direbbe l’autrice «Il colore appare, ancora una volta, come qualcosa soltanto apparentemente semplice, che si costituisce nell’incontro tra dimensioni diverse» (p.133).
In un primo momento la tematica sui colori non sembra toccare particolarmente il filosofo austriaco (siamo nel periodo del Tractatus), una svista questa che però metterà più avanti in crisi il suo sistema filosofico. Da questa crisi si ha il punto di svolta il secondo Wittgenstein, in cui la questione del colore è centrale. Le considerazioni sul colore lo portano in un primo momento a rivedere le sue tesi sulle proposizioni semplici e le loro relazioni, completamente escluse nel Tractatus in virtù della loro indipendenza. Il tema delle foglie d’autunno, col loro verde che vira sul rosso, scuote profondamente l’animo del filosofo, poiché per esse non sembrano valere i principi logici fondamentali, come quello di non contraddizione, essendo le foglie autunnale sia verdi che rosse contemporaneamente. Successivamente, con la svolta teoretica dei giochi linguistici, già preannunciata nel periodo intermedio, e con la nozione di grammatica, il cui compito è quello di definire l’uso possibile o non possibile di certe proposizioni, il problema viene spostato dal piano logico a quello pratico. Forse l’unica vera pecca di Wittgenstein è, secondo il nostro parare, proprio da rintracciare in questa sua incapacità di emanciparsi dalla questione pratica dell’uso dei concetti, ovvero in quel piano intermedio tra empiria e logica che ora appare come posizione dei colori. Così scardinato il falso dualismo, che voleva il colore come derivato esclusivamente dell’esperienza comune come presente nelle concezioni linguistiche più relativistiche, si apre dunque la possibilità di una trattazione veramente filosofica sul colore. Poiché dove c’è dualismo possono nascere solo scienze particolari e non Filosofia.
Avviandosi verso la fine del libro, vengono poste le somiglianze tra colori come possibile risposta al quesito fino ad ora trattato. Sempre sul solco di Wittgenstein, il colore viene così inserito in questa concezione per cui noi possiamo dire che un colore è tale perché appartiene a un sistema di differenze e «non si può chiamare il rosso un colore, se esso non è inserito all’interno di un sistema di colori diversi» (p.141). Ma è soprattutto con le ricerche successive di Wittgenstein, dove il colore viene ricondotto nella categoria più ampia di gioco linguistico, che appare evidente il legame tra colore e vita, la parola gioco linguistico infatti è destinata a mettere in evidenza il fatto che il parlare sia una forma di attività, o una forma di vita. Il legame indissolubile tra i colori e la vita è evidente nel ruolo che gioca la memoria nella trattazione di Wittgenstein. Al filosofo di Vienna è chiaro che nella memoria di un colore non vi è solo un archivio di colori vissuti, con cui confrontare il colore presente qui ed ora nell’esperienza, ma «qualcosa che suona e che scatta quando vedo il colore giusto» (p.146) una vera e propria via per la ricerca di esso; così colore e memoria entrano a far parte di quella sfera pratica che è la vita. Anche se come giustamente notato dall’autrice, che conosce bene gli scritti di Benjamin su Baudelaire, Bergson e Proust, c’è effettivamente qualcosa che suona, un carattere temporale, lo stesso Wittgenstein sembra rendersi conto di questa peculiarità man mano che le strutture logiche dei primi scritti fanno spazio a un farsi dinamico di un insieme di nessi e di regole. In un certo senso le relazioni tra i colori, che nel Tractatus appaiono come relazioni logiche, vengono ricondotte all’interno di quella sfera temporale da cui erano state escluse. Così attraverso Wittgenstein, si raggiunge il cuore del problema e una sua possibile soluzione, ovvero non ha senso parlare di «un colore reale e un colore apparente, ma esiste soltanto un unico colore, che è il risultato dell’interazione tra i nostri concetti e le situazioni concrete in cui essi si trovano immersi» (p.153). Da questo discorso, quello che più emerge è il carattere perturbante del colore, la sua inafferrabilità, che scuote le elaborazioni classiche della filosofia, costringendoci a ripensare come problematiche le esperienze della vita quotidiana. Così la trattazione del colore fa vibrare le strutture concettuali filosofiche, diventando in questo modo un orizzonte di possibilità per la soluzione dei problemi più fondativi della filosofia.