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Con Pensiero istituente. Tre paradigmi di ontologia politica (2020) Roberto Esposito porta avanti la riflessione per una filosofia politica affermativa che da tempo muove le sue pubblicazioni. La presa di distanza dalle filosofie che pensano le proprie categorie a partire dal loro rovescio negativo (l’amico a partire dal nemico, la vita a partire dalla morte) è esplicito in Politica e negazione (2018) ma rintracciabile fin da Communitas (1998). D’altra parte in Pensiero istituente si chiarisce anche il distacco dell’autore dalla parte della biopolitica e da quella filosofia affermativa che dimentichi di articolare in maniera produttiva la negatività e il conflitto come caratteristiche imprescindibili del politico. La novità del saggio è proprio la definizione di una terza posizione all’interno della quale Esposito stesso si colloca: egli la delinea tornando a Machiavelli ma soprattutto attraverso l’opera di un autore di cui fin qui poco si era occupato e che, almeno per quel che riguarda la recezione italiana, rientra ancora tra i minori, Claude Lefort. È alla sua posizione, definita appunto istituente, che si riferisce il titolo del nostro testo e che costituisce la proposta positiva di Esposito.
L’articolazione del libro in tre capitoli restituisce la partizione proposta dall’autore tra un paradigma destituente che fa capo alla tradizione heideggeriana, un paradigma costituente fatto risalire all’opera di Deleuze, e infine un pensiero istituente, neo-machiavelliano o conflittualista, lefortiano. Se l’ultimo paradigma è la pars costruens del discorso di Esposito, Heidegger e Deleuze rappresentano invece due tendenze, tra loro opposte ma ugualmente degenerative, che caratterizzano la crisi del pensiero politico contemporaneo. Ripercorrerne le elaborazioni è così un modo per prendere posizione rispetto al dibattito, italiano e non, che ad essi è debitore, si pensi per esempio ad Agamben o a Nancy per il primo ed a Negri e Hardt per il secondo.
Le tre posizioni si collocano all’interno di un orizzonte che Esposito definisce «ontologico politico post-fondazionale» e corrispondono ad altrettante declinazioni possibili del rapporto tra essere, politica e differenza. A caratterizzare questa impostazione sarebbe secondo l’autore la particolare consapevolezza della dipendenza reciproca di ontologia e politica: da una parte la presupposizione di concezioni sull’essere (sullo spazio, sul tempo, sull’uomo) implicita in ogni azione politica, dall’altra il fatto che l’elaborazione di posizioni ontologiche, a partire dalla decisione su ciò che deve o meno essere considerato politico, dipende a sua volta da opzioni politiche. È su questo piano comune che riposa la possibilità di un confronto tra autori che si sono occupati in maniera quanto mai difforme di politica, sia per quel che riguarda la teorizzazione che la sua pratica concreta. L’impressione però è che ad emergere in Pensiero istituente, anche rispetto ad altri interventi dello stesso Esposito più situati rispetto a questioni di politica contemporanea, sia piuttosto l’ontologia della politica che non la concreta esigenza politica di un’ontologia.
Il primo capitolo del saggio è dedicato al paradigma destituente cui fanno capo le filosofie che, pensando la politica a partire dal suo fondamento negativo, hanno come esito una delegittimazione dell’azione politica. In questa prospettiva che vede la politica rinchiusa all’interno dei propri confini mondani, e compromessa con la violenza e il potere che ne fanno parte, ogni tentativo di realizzazione storica di qualsivoglia idea di bene o di giustizia è destinato a fallire. La critica di Esposito al pensiero heideggeriano ed al paradigma che rappresenta è che, a fronte di affermazioni teoricamente rivoluzionarie, essi finiscano per essere praticamente inerti e spoliticizzanti (p. XIII).
Benché Esposito ne ripercorra quasi interamente l’opera, non è tanto l’Heidegger degli anni Trenta a rappresentare nella maniera più chiara questo paradigma. Qui, ancora, l’adesione al regime nazista si accompagna a un discorso positivo sulla messa in opera e quindi a una possibilità positiva di politica, benché Heidegger la immagini guidata dalla filosofia in un primo tempo (cfr. il Discorso del rettorato, 1933), e in seguito la concepisca in analogia alla creazione dell’opera d’arte, condotta da parte degli individui “più unici” in grado di dare unità simbolica e politica a un popolo (cfr. i corsi del 1934-35 su Hölderlin e L’origine dell’opera d’arte, 1935). È piuttosto dagli anni Quaranta che Heidegger comincia a maturare la sfiducia nei confronti dell’azione che andrà consolidando negli scritti del secondo dopoguerra. Già nel corso del ’42 su l’Ister di Hölderlin, Heidegger non pensa più la politica come un’opera da realizzare ma come un evento che emerge dalla polis (p. 46). Se però ancora nella polis una politica sembra possibile, in un mondo sempre più dominato dalla tecnica l’azione politica non è in grado di sottrarsi alla sua razionalità: il passaggio dall’idea greca di una realtà operante alla concezione romana del reale come creato e dell’agire come causa efficiente fa sì che l’azione politica venga a far parte della stessa logica della tecnica e della macchinazione che vorrebbe contrastare (cfr. Scienza e meditazione, 1953). In questo contesto l’unica azione possibile è un lasciar essere, una revoca dell’azione e della volontà che in Heidegger si tinge di tinte poetico meditative (cfr. Gelassenheit, 1983).
Come già accennato, Heidegger non è l’unico autore ascritto al paradigma destituente. In Categorie dell’impolitico (1988), che si può dire si muova all’interno di questa prospettiva, Esposito si era rivolto tra gli altri a Weil, Broch, Bataille che anche in Pensiero istituente non manca di citare. Se la lezione di altri autori «destituenti» non porta a esiti così smaccatamente spoliticizzanti come quelli di Heidegger egli è però portatore dell’opinione condivisa sulla limitatezza, sulla non fondatezza dell’agire umano e sulla sua implicazione nella necessità del mondo. Come commenta Esposito seguendo Schürmann: «A venir meno, con la distruzione metafisica praticata da Heidegger, non è l’agire, ma la possibilità che questo continui a essere legittimato da un principio esterno. Ormai la praxis non è più fondabile da parte della theoria» (p. 65).
Un discorso specularmente inverso vale per il paradigma costituente rappresentato da Deleuze. La filosofia di Deleuze è definita costituente nel senso che essa pensa l’essere come una realtà creativa e produttiva di molteplicità. La critica di Esposito a questa posizione è che, per quanto non pacifica nel percorso di Deleuze, la coincidenza sempre più stretta di essere e differenza tenda a obliterarne la dimensione conflittuale, e il politico, che in questa dimensione si colloca, finisce per confondersi con il flusso del divenire perdendo rilievo specifico e forza critica. «Ciò che manca, in un’ontologia dell’immanenza assoluta, non è la trascendenza del potere, ma una teoria del conflitto politicamente articolata» (p. 115).
Anche in questo secondo capitolo Esposito ripercorre puntualmente l’evoluzione del pensiero di Deleuze. Secondo l’autore, in buona parte in consonanza con Žižek, il pensiero di Deleuze oscilla tra due ontologie divise dalla posizione di fronte al negativo. Ancora in Nietzsche e la filosofia il negativo viene inteso come il risultato dell’aggressività dell’affermarsi della differenza, dotato di una forza propria, e in Marcel Proust e i segni emerge come il segno di ciò che non è più, di ciò che è passato. A partire dagli anni ’60, con l’avvicinamento alle posizioni di Bergson, Deleuze tende invece a mettere da parte il negativo come falso problema. Nonostante qualche eccezione (cfr. per esempio Logica del senso, 1969), la sua ontologia si sposta interamente sul piano di immanenza cosicché l’essere stesso viene a coincidere con la differenza, ovvero con una realtà plurale e articolata in una molteplicità di organizzazioni (p. 107). Proprio quando, nella collaborazione con Guattari, l’interesse e il linguaggio di Deleuze si fa espressamente politico, la politica stessa finisce per perdere i confini del proprio ambito e viene a coincidere con il dispiegarsi del desiderio inteso come azione rivoluzionaria produttiva di realtà (p. 120). In questo contesto la critica al capitalismo che innerva i due volumi di Capitalismo e schizofrenia vede come unica azione politica possibile l’accelerazione degli stessi flussi di desiderio di cui il capitalismo è composto. La schizofrenia, la decodificazione di tali flussi e la dissoluzione degli ultimi vincoli che ancora li trattengono costituiscono l’unica strada per immaginare il superamento del capitale.
Nello stesso ordine di riflessioni si inseriscono, come già notato da Benjamin Noys (cfr. The Persistence of the Negative, 2010), autori come Lyotard e Baudrillard, ma Esposito vi fa convergere anche Negri e Hardt e per altro verso Vattimo. Il tratto che, pur nelle differenze specifiche, li accomuna è il tentativo di contrapporsi al capitale dall’interno, assecondandone la razionalità invece di contrastarla (p. 79). L’esito del paradigma costituente risulta simmetricamente opposto a quello heideggeriano, ovvero un pensiero dalla veste al contempo iperpolitica e spoliticizzante. Una nota a parte meritano invece due testi, Istinti e istituzioni (1955) e Empirismo e soggettività (1973), perché ci portano nella direzione che sarà propria del paradigma istituente. In questi testi, a partire dalla lettura di Hume, Deleuze interpreta l’istituzione come la zona d’incontro tra natura e cultura, ovvero tra il desiderio e la necessità di darvi una forma. Diversamente dalla lettura che ne è stata data dai francofortesi fino a Foucault, in questa prospettiva l’istituzione è l’affermazione di un modello possibile di soddisfazione degli istinti piuttosto che un dispositivo volto a frenarli, com’è invece la legge. Vedremo come ciò sia consonante con alcune posizioni lefortiane.
A queste ultime si rivolge il terzo e ultimo capitolo di Pensiero istituente. Lefort (1924-2010) è noto per essere stato fondatore insieme a Cornelius Castoriadis di Socialismo o Barbarie. Allievo di Merleua-Ponty, ne è stato anche esecutore testamentario curando e introducendo le edizioni di molti dei suoi testi, come Il visibile e l’invisibile (1964); L’institution. La passivité (2003); e Œuvres (2010). Questa matrice fenomenologica caratterizza fortemente il terzo paradigma delineato da Esposito. Qui l’istituire viene inteso come un processo di stabilizzazione dell’esperienza che si compie su un piano intersoggettivo: se da una parte l’istituzione consiste nelle azioni dei soggetti istituenti, essa ha allo stesso tempo una validità indipendente da ognuno di essi. In questo modo i singoli la tengono in vita modificandola, ma senza per questo crearla ex nihilo né tantomeno trovandola prederminata, ricevendola da altri e restituendola ad altri.
Ad istituire per Lefort è in primo luogo la politica, dove essa consiste nella messa in forma simbolica dei conflitti che dividono il sociale. Questa prospettiva, che segna anche il distacco da Marx, deve molto all’incontro con la letteratura etnografica e con Machiavelli (cfr. Le Travail de l'œuvre Machiavel, 1972). In particolare dal confronto con quest’ultimo, in parte anticipato nel Merleau-Ponty delle Note su Machiavelli (1949) e de Le avventure della dialettica (1955), si delineano due punti centrali dell’ontologia politica di Lefort: il simbolico come luogo del politico e l’ineluttabilità del conflitto. Come ribadisce Esposito «il potere ha a che fare più col discorso – cioè con la sua costruzione rappresentativa – che con i rapporti economici all’interno dei quali s’istituisce» (p. 178), in quanto sua immagine simbolica il politico eccede dal sociale e retroagisce su di esso. Se da una parte non si dà politica al di fuori della società su cui si esercita, infatti, d’altro canto anche la società non esiste propriamente come insieme riconoscibile prima di essere resa visibile tramite la sua rappresentazione politica (p. 169). D’altra parte, la comprensione del conflitto come dato ineluttabile delle società intende affermare che l’ordine politico è sì possibile ma sempre provvisorio, ovverosia che l’operazione di simbolizzazione e di messa in forma della società non è garantita dal suo fallimento proprio perché, se il politico non coincide col sociale, neppure il sociale coincide con se stesso. Ciò che distingue le diverse società è il modo in cui in esse il potere politico rappresenta il conflitto (p. 191). Da una parte, nelle cosiddette “società senza storia” o “stagnanti” la tendenza è quella a escludere e neutralizzare per quanto possibile il conflitto, con lo scopo di mantenere intatto un certo ordine. Diversamente, secondo Lefort, la democrazia moderna è l’unico sistema politico in grado di riconoscere e rappresentare l’essenza conflittuale della società (cfr. Sur la démocratie: le politique et l’institution du social, 1971). Attraverso le sue istituzioni volte non tanto a mantenere un certo potere quanto a salvaguardare la possibilità del suo passaggio di mano tra le parti in gioco, la democrazia dà forma a un potere vuoto, cioè infinitamente contendibile. Contraddicendo una valutazione comune ai più grandi pensatori politici novecenteschi, che intendono la modernità come un’epoca di spoliticizzazione, per Lefort la democrazia moderna è al contrario politica per eccellenza. Nell’istituzione democratica, infine, viene riconosciuto il risultato del ribaltamento dell’articolazione di diritto e potere messa in atto dalle rivoluzioni moderne, dove adesso è il diritto a fondare e a limitare il potere.
Anche in questo caso Lefort non è né il primo né l’unico ad aver tematizzato l’istituzione, egli ne condivide anzi il discorso con autori come Castoriadis, Ricoeur, ma anche Hariou e Santi Romano. In particolare attraverso quest’ultimo, cui Esposito dedica l’ultimo paragrafo del saggio, il discorso istituente viene aperto a una prospettiva che superi la dimensione statale. Romano riconosce l’istituzione anche nelle collettività organizzate alternative o addirittura competitive nei confronti dello Stato, facendo dell’istituire un processo in grado di accogliere le istanze mutevoli della società. Così anche per Esposito «tutt’altro che a un ordine consolidato di regole e leggi, l’istituire rimanda piuttosto a un compito – coincidente con quello della politica – destinato a mutare continuamente il quadro normativo entro cui agisce» (p. XIX).
di Anna Draghi
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Com’è noto, il volume XI della Husserliana 1 (1966) raccoglie i manoscritti che Husserl dedica al problema delle sintesi passive tra il 1918 e il 1926. In realtà, la più recente pubblicazione dei Bernauer Manuskripte nel volume XXXIII (2001), a cui Husserl lavorò con Edith Stein nelle estati 1917 e ’18, mostra come la tematica della passività fosse latentemente presente già da molto tempo, in quanto strettamente connessa con il problema – «il più complesso di tutti i problemi fenomenologici» (Husserl 1966a, 276) – della coscienza interna del tempo. E se si considera che quest’ultimo tema occupa Husserl almeno fin dai corsi sulla percezione del 1905-’08 (raccolti in Hua X e XVI), è lecito almeno supporre che la fenomenologia genetica “covasse” nel laboratorio fenomenologico husserliano molto prima degli anni Venti.
Anno più anno meno, un secolo fa. Un secolo in cui si è tentato dapprima di archiviare la fenomenologia husserliana, per fare spazio alle grandi ondate culturali esistenzialiste, strutturaliste e post-strutturaliste, per poi ridarle nuova linfa innestandola su tradizioni di pensiero anche molto lontane dalle sue origini. La storia della fenomenologia nell’ultimo secolo è dunque caratterizzata dalla sua continua ibridazione con altri modelli filosofici – iniziata ben prima della morte di Husserl: si pensi al § 7 di Sein und Zeit, dove troviamo in nuce il concetto di “fenomenologia dell’inapparente” (Heidegger 1976, 59) – e, soprattutto, con intenti teorici molto frequentemente in aperto contrasto con lo spirito fenomenologico che ha da sempre animato le ricerche husserliane.
A cura di Claudio Tarditi e Alberto Giustiniano
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DOI: https://doi.org/10.13135/2385-1945/12.2020
Pubblicato: marzo 2020
Indice
EDITORIALE
Claudio Tarditi - Le sintesi passive, un secolo dopo [PDF It]
Filippo Nobili - Oltre la stratificazione costitutiva:
per una lettura dialettico-ricorsiva del rapporto tra passività e attività in Husserl [PDF It]Eugenio Buriano - L’arca dell’origine. Follia tolemaica e deponenza del trascendentale nell’ultimo Husserl [PDF It]
Alessandra Campo - Presenza impossibile, assenza necessaria: aporia, diaporia ed euporia delle analisi husserliane sulla passività [PDF It]
Steven DeLay - Being Oneself Self-Consciousness in Husserl and Henry [PDF En]
Giovanni Jan Giubilato - A First Glimpse into the Ultimate Absolute. The Emergence of Genetic Analyses in Husserl’s Beranuer Manuscripts on Time-Consciousness and the Exploration of the Realm of Passivity [PDF En]
Stefano Gonnella - La sintesi passiva e le radici iletiche della sensibilità [PDF It]
Lavinia Martelli - Genesi passiva e hyle: la fondazione della coscienza trascendentale [PDF It]
OFF TOPIC
Raimondo Cubeddu - L'epicureismo nell'opera di Leo Strauss [PDF It]
Sergio Benvenuto - Freud oggi: che cosa mi pare essenziale conservarne [PDF It]
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PK#9 \ Soggettivazioni. Segni, scarti, sintomi
Rivista / Settembre 2018L’intento di questa raccolta, che prende il titolo di “Soggettivazioni”, è stato quello di aprire una riflessione attorno alla teoria della soggettivazione lacaniana, così per come ce l’ha lasciata in eredità Lacan, a singhiozzi, nei testi stabiliti a partire dai suoi trent’anni di insegnamento orale. Cosa può dirci una psicoanalisi asistematica, distante dalle istituzioni universitarie rispetto a problemi di una concretezza innervata di realtà? Chi frequenta i dipartimenti di Psicologia e assieme l’insegnamento lacaniano sa che è incommensurabile la distanza che intercorre tra la specificità e la settorializzazione degli strumenti istituzionali a confronto con l’universalità dei concetti larghi e volontariamente mai definiti dello psicoanalista parigino. Tra l’estremamente particolare (l’ad hoc della psicologia contemporanea) e l’estremamente universale (il concetto, unità sintetica della filosofia) si rischia di incorrere in un deragliamento del punto focale, causato da uno scontro di metodi epistemologici che si sono stabilizzati ai bordi opposti l’uno rispetto all’altro. Nella scelta di prendere in considerazione un tema vasto e generale come la teoria della soggettivazione c’era l’interesse, da parte nostra, di porlo in dialogo con il campo altrettanto vasto e generale del presente. Speriamo che questa prima ricerca possa costituirsi come un’indagine (sebbene parziale) sullo statuto del soggetto in quanto campo epistemologico aperto: attingendo dalla teoria psicoanalitica e dal dibattito che ne è scaturito, il presente volume segue molteplici sentieri analitici e sottolinea di contributo in contributo la difficoltà di giungere a un’idea organica di soggetto, per la varietà di ipotesi spesso contrastanti in merito alla sua rappresentazione, formalizzazione e interpretazione. In questa raccolta crediamo che i punti maggiormente messi in rilievo da chi ha collaborato riguardino il problema della genesi, lo statuto della trasformazione, e infine un’attenzione specifica è stata rivolta al registro del Reale e ai suoi effetti.
A cura di Lorenzo Curti e Irene Ferialdi
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DOI: https://doi.org/10.13135/2385-1945/9.2018
Pubblicato: settembre 2018
Indice
Editoriale
L. Curti, I. Ferialdi, Soggettivazioni: tra vuoti e contiguità [PDF It]
I. Genesi
P. G. Curti, Estrarre il soggetto [PDF It]
C. Mola, Intrecci concettuali. Il soggetto tra Hegel, Kojève e Lacan [PDF It]
A. Lattuada, L’atto reale e la genesi del soggetto nella psicoanalisi di Jacques Lacan [PDF It]
D. Tolfo, Per un'analisi non significante della soggettività: la funzione del punto-segno ne l'Anti-Edipo [PDF It]
II. Trasformazioni
L. Melandri, La parola contaminata dei movimenti non autoritari degli anni Settanta [PDF It]
R. Chiafari, Drammaturgia e metamorfosi del genio maligno: soggetti e spettri tra follie e ragione [PDF It]
M. Di Bartolo, La psicoanalisi come estetica dell'esistenza [PDF It]
A. Soares De Moura Costa Matos, Streaming Subjectivation: Two Questions and One Thesis about Netflix [PDF En]
III. Reale
F. Cimatti, La lingua c'è. Saussure, Chomsky e Lacan [PDF It]
A. Pagliardini, Verso il reale: schizofrenia/psicoanalisi [PDF It]
F. Vergine, Le origini trascendentali del mondo. Per un'ontologia topologica del reale [PDF It]
Traduzioni
A. Zupančič, Differenza sessuale e ontologia [PDF It]
F. Rambeau, La fosforescenza delle cose [PDF It]
Interviste e recensioni
Intervista a Franco Lolli [PDF It]
F. Zambonini, Una quasi-recensione a "Lacan, oggi. Sette conversazioni per capire Lacan" di Sergio Benvenuto e Antonio Lucci. Considerazioni marginali sul rapporto filosofia-psicanalisi [PDF It]
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Incontro con Salvatore Veca (Torino, 5-10-2016) – VIDEO
Media / Novembre 2016S. Veca, "Idee per un'interpretazione filosofica delle modalità"
Incontro coordinato da Alberto Giustiniano
Per approfondire i temi dell'incontro
Postmodernità e nuovi realismi. Salvatore Veca e il senso della possibilità
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Alain Badiou – Alla ricerca del reale perduto
Recensioni / Giugno 2016Alla ricerca del reale perduto (Mimesis, 2016) è l’ultimo libro di Alain Badiou; titolo ostentatamente evocativo, e chiaro proprio in forza del riferimento all’evocazione. Se non fosse che, anche solo per un vago e sterile (o probabilmente no) principio d’associazione, ancor prima di addentrarsi nella lettura del testo, si è come costretti a pensare contemporaneamente a ciò che di altro l’evocazione porta con sé, alla sua necessaria e conseguente implicazione, e così il pensiero scorrendo tra i ricordi sostituisce quel perduto in un forse più appropriato ritrovato. Semplici associazioni mentali, s’è detto, sino a quando, a fine lettura, si scopre in effetti una certa corrispondenza tra queste e il contenuto effettivo del testo. L’eterno equivoco che un simile titolo corre il rischio di perpetuare è quello di confondere il risultato della ricerca con la ricerca stessa, ovvero di produrre un discorso su ciò che si è perso quando in realtà lo si è già trovato, elidendo in tal modo i confini della classica distinzione agostiniana tra quo eundum est e qua eundum est.
Ma in cosa consiste questo sempre sottratto, che sembrerebbe tuttavia un già da sempre ritrovato, di cui parla Badiou? Il filosofo lo spiega nell’introduzione con una lapidaria constatazione: «Dobbiamo preoccuparci costantemente del reale, obbedirgli, dobbiamo comprendere che non si può fare nulla contro il reale» (p. 7). Il reale dunque, principio d’inemendabilità che per Badiou si presenta subito come «fonte di imposizione, figura di una legge ferrea» (p. 7) da cui non si può prescindere, presieduta dalle regole auree dell’economia, che del reale stesso si fa garante. Questa la base dalla quale può scaturire la domanda filosofica sul reale, che si presenta però sotto una forma particolare, tale da contenere già in sé la propria risposta; il gioco delle circolarità inaugurato dal titolo prosegue qui a livello teoretico nel momento in cui non ci si interroga preliminarmente sulla esistenza o su una possibile definizione fondativa di ciò che chiamiamo reale, ma ci si chiede solo se esso, assunto implicitamente come condizione preliminare necessaria, possa darsi «se non in quanto base di un’imposizione» che esiga solo in ogni circostanza una «sottomissione piuttosto che un’invenzione» (p. 7). Si può comprendere già da qui perché in fondo questo reale di cui si invoca la scomparsa non è mai stato veramente perso: fare della questione del reale non un problema che investe la sua legittimità o la sua possibilità, ma solo la sua origine. Il nostro avere a che fare con una realtà, del mondo e delle cose, non è messo in discussione nella prospettiva dell’autore; il nodo teorico risiede invece nella possibilità di pensare, platonicamente, un vero reale, al di là del volto mistificatore e fallace rappresentato dalla presunta realtà del contesto economico-politico attuale. Si tratta, prosegue Badiou, di «sapere se, dato un discorso secondo il quale il reale genera una costrizione, si possa, o non si possa, modificare il mondo in maniera tale che si presenti un’apertura, prima invisibile, attraverso la quale si possa sfuggire a questa costrizione pur senza negare che esistano sia il reale sia la costrizione» (p. 10). L’affermazione mette ora in mostra, nel punto più denso della teorizzazione, l’artificio concettuale che prima appariva solo dal meccanismo a effetto messo in moto dal titolo; in queste parole, in effetti, si può rintracciare quel fondamento necessario di cui si promuove la ricerca, che, se posto attraverso l’impossibilità di negarne la realtà e la costrittività, si presenta già da sempre come un originariamente già dato, una base per un reale già da sempre a disposizione, che occupa una posizione per cui si può già da sempre trovarlo: un reale che probabilmente non può dunque dirsi realmente perduto. La questione si risolverebbe, in un certo modo, solo in un problema di posizionamento: dopo aver detto che il punto non sta nell’interrogarsi sulle condizioni di possibilità della realtà, ma solo sulla necessità di trovare quella vera rispetto a quella apparente nella quale ci troveremmo, la mossa successiva è quella di rintracciare dove e come questo nuovo, autentico accesso al reale può darsi. Qui Badiou ripropone la sua prospettiva filosofica di fondo, caratterizzata dalla centralità data al concetto di evento, quella modalità inedita «che ci costringe a decidere una nuova maniera d’essere» (1994, p. 40) che assume la forma particolare di un incontro. Come già riguardo alla formulazione di una nuova base di legittimità per un pensiero etico e per una ridefinizione del fenomeno amoroso, anche l’incontro con la realtà si instaura essenzialmente grazie a un processo di ricollocazione, di un radicamento al livello della situazione, dove si può «approcciare il reale in un processo ogni volta singolare» (p. 15).
Prende così l’avvio, con questo percorso diagonale, un viaggio sul sentiero, presuntivamente interrotto, che conduce a quella sorta di disvelamento ultimo, a quell’incontro in cui il reale si mostrerebbe per ciò che è, rivelandosi attraverso tre momenti costitutivi che dell’incontro ne definiscono la natura. Il primo, rifacendosi all’episodio della morte in scena di Molière, delinea la forma preliminare dell’incontro come processo di smascheramento e divisione. La morte, reale, di Molière mentre recita il Malato immaginario crea «una sorta di attrito del tutto particolare tra il reale e la finzione» (p. 19) capace di ristabilire, dialetticamente, il primato del primo nei confronti del secondo; l’effetto di finzione della recitazione viene squarciato per mezzo della violenza del reale, che fa, paradossalmente, di un malato immaginario un morto reale. Il reale, ancora molto platonicamente, è pensato come «crollo di una finzione» (p. 20), come disinfestante per l’apparenza, che fornisce la maschera al reale e lo divide, creandone il suo sembiante polimorfo e illusorio.
Il secondo momento permette un avvicinamento al reale per mezzo di un incontro teoretico. Utilizzando la definizione, in verità solo una delle varie possibili, che Lacan fornisce del concetto di reale come impasse della formalizzazione, Badiou spiega che l’accesso a esso avviene nel momento in cui si pone la sua condizione di possibilità proprio dove questa andrebbe a costituire la sua negazione, vale a dire nell’impossibilità: «il numero infinito come impossibile è il reale dell’aritmetica» (p. 28), afferma con un esempio matematico. La formalizzazione della realtà, la sua condizione di realizzabilità, è sempre frutto di un suo punto di informalizzabilità; ecco perché se l’affermazione del reale come formalizzazione risiede nel momento dell’impasse questa sarà sempre anche in parte la distruzione di questa formalizzazione. In termini lacaniani l’idea potrebbe tradursi così: eliminare quel tanto di immaginario e di simbolico ‒ la «formalizzazione sostanziale della nostra esistenza» (p. 31) ‒ che impedisce di conquistare quel punto di impossibile che è il reale; gesto teorico interessante, ma che alleggerisce non di poco l’essenziale distinzione, prevista dallo stesso Lacan, tra reale e realtà, distinzione che in certo modo ripropone un altro celebre parallelismo, quello tra significante e significato; ma come il significante ‒ il senso ‒ non si risolve integralmente nel significato, anzi lo eccede, in quanto non solo sua semplice manifestazione ma anche sua fonte di produzione, così il reale, trovandosi allo stesso tempo dentro e fuori la simbolizzazione, dentro ma costitutivamente fuori dalla parola e dal soggetto, non pone le basi per la costruzione della realtà di quest’ultimo, «giacché il reale non attende, e non attende il soggetto, […] Ma è lì, identico alla sua esistenza, rumore in cui si può tutto intendere, e pronto a sommergere dei suoi bagliori quel che “il principio di realtà” vi costruisce sotto il nome di mondo esterno» (2002, p. 380).
Il terzo e ultimo momento dà accesso al reale attraverso la poesia, quel luogo linguistico che «estorce alla lingua un punto reale impossibile da dire» (p. 37). Le ceneri di Gramsci di Pasolini fornirebbe l’esempio artistico per eccellenza sull’interrogarsi del reale della storia. Inevitabilmente, trattandosi di Gramsci, il reale è quello del comunismo come possibilità irrealizzata, divenuta cenere appunto, le cui forme, storico-politiche e sociali, assumono la maschera grottesca del divertissement. Essa rappresenterebbe quella disperata passione d’essere nel mondo, senza realizzarlo, senza comprenderlo come prodotto d’una Storia che, nonostante se stessa, può lavorare ancora per noi, nella prospettiva di una nuova «dialettica affermativa» (p. 50), per cui la rinuncia «alla fede in un lavoro della storia che sarebbe di per sé stesso strutturalmente orientato verso l’emancipazione» consente anche di «continuare ad affermare che è certamente nel punto di impossibile di tutto ciò che si situa la possibilità dell’emancipazione» (p. 48)
La chiusura di questa tripartizione porta Badiou a concludere, dialetticamente, che il viaggio non è però concluso. Si tratta di puntare più in alto, iperuranicamente alla «ricerca di ciò che di reale vi è nel reale» (p. 52).
di Enrico Zimara
Bibliografia
Badiou, A. (1994). L’etica. Saggio sulla coscienza del male (1993). Parma: Nuova Pratiche Editrice.
Lacan J. (2002) Risposta al commento di Jean Hyppolite sulla «Verneinung» di Freud, in Scritti, vol. I (1966). Torino: Giulio Einaudi editore.
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La realtà è dura, si dice. Non è una questione di “visione pessimistica del mondo”, come si potrebbe pensare di primo acchito. Piuttosto, è la semplice ‒ quasi ovvia ‒ constatazione che il nostro incontro con la realtà è sempre anche uno “scontro”, un impatto con qualcosa che ci precede e ci resiste. Metaforicamente, uno scontro con qualcosa a cui non importa nulla della nostra esistenza. Può essere un impatto traumatico o gioioso, ma si tratta pur sempre di un impatto. Ora, l'ontologia ha precisamente il compito di descrivere il reale, ciò che c'è, senza ri(con)durre la durezza del reale a elementi a esso estranei.
Bisogna ammetterlo: purtroppo non abbiamo alcuna priorità ontologica sugli altri enti che popolano il mondo. Il fatto che possiamo parlarne ‒ cosa che non può fare, per esempio, una sedia ‒ non significa che l'esistenza degli oggetti dipenda dal nostro pensiero. Tuttavia, il pensiero occidentale nel corso della propria storia ha messo a punto una grande varietà di strategie per attenuare, se non addirittura negare, tale impatto con la durezza del reale, con risultati non sempre felici. Tant'è che, come quasi universalmente riconosciuto, il Novecento ‒ anche sotto la spinta delle immani tragedie di cui è stato al tempo stesso protagonista e spettatore ‒ si è trovato come costretto a rimettere in questione i pilastri dell'ontologia classica e moderna. Ciononostante, tale crisi ha dato avvio, per così dire, a una grande “rinascita” dell'ontologia, tanto in ambito continentale quanto analitico. In altri termini, il dibattito contemporaneo ha visto, e vede tuttora, fiorire una pluralità di prospettive incentrate sull'ontologia e sulla sua rilevanza essenziale per una descrizione della realtà che non persegua più l'obiettivo di ridurne la durezza. Così, alle ben note critiche dell'ontologia proposte ‒ solo per citare alcuni tra gli autori più noti in Europa e oltreoceano ‒ da Nietzsche, Husserl, Heidegger, Derrida, Whitehead, Russell, Carnap e Wittgenstein, è seguito un profondo ripensamento dello statuto dell'ontologia e della sua funzione all'interno del discorso filosofico contemporaneo e ‒ si spera ‒ futuro. È dunque un fatto storico che i vari approcci critici contemporanei all'ontologia abbiano, per così dire, liberato nuovi modelli teorici in grado di fornire una molteplicità di risposte alla questione fondamentale cos'è la realtà? O, più precisamente, cosa significa affermare che qualcosa esiste o può essere detto reale?
Questo numero di Philosophy Kitchen si propone di attraversare alcuni dei maggiori indirizzi del pensiero contemporaneo ‒ tanto di ispirazione analitica quanto continentale ‒ che hanno segnato in modo indelebile la riflessione occidentale attorno alla questione dello statuto dell'ontologia. Non è un caso che il numero si apra con un incisivo contributo di Maurizio Ferraris, che sintetizza qui le ragioni essenziali del Nuovo Realismo, ormai oggetto di dibattito a livello internazionale, e della propria concezione della verità come «emergenza». Pur nella molteplicità degli approcci qui presentati, il motivo conduttore che s'impone chiaramente può essere individuato nella necessità per la filosofia ‒ di oggi ma soprattutto di domani ‒ di farsi carico seriamente della realtà e della sua infinita capacità di modellare la soggettività umana attraverso la storia. Definitivamente tramontato il mito moderno del soggetto copula mundi, si apre così lo spazio per una riconsiderazione più disincantata, ma non per questo meno impegnata, del reale in tutte le sue molteplici sfaccettature.
A cura di Claudio Tarditi
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DOI: https://doi.org/10.13135/2385-1945/4.2016
Pubblicato: marzo 2016
Indice
Editoriale
Claudio Tarditi - Durezza della realtà, durata dell'ontologia [PDF It]
Maurizio Ferraris - Realtà come emergenza [PDF It]
Francesca Dell'Orto - Fenomenologia trascendentale e ontologia universale [PDF It]
Mario Autieri - Husserl: per una definizione del trascendentale e delle sue implicazioni ontologiche [PDF It]
Luca Vanzago - La negatività naturale. Riflessioni sull'ontologia della carne nella filosofia di Merleau-Ponty [PDF It]
Diego D'Angelo - La carne e il tatto nel De Anima di Aristotele.Un'interpretazione fenomenologica [PDF It]
Filippo Domenicali - Il pluralismo esistenziale di Étienne Souriau. Breve introduzione alla filosofia dei modi di esistenza [PDF It]
Giacomo Foglietta - Un mondo di esperienza neutra [PDF It]
Gert-Jan van der Heiden - Hermeneutics or Mathematics. Two ways of Thinking Plurality Today [PDF En]
Michele Lubrano - Ontologie neofreghiane: le origini e gli sviluppi più recenti [PDF It]
Lorenzo Paudice - Pseudo-designazioni ed entità immaginarie in G. Ryle [PDF It]
Alfonso Di Prospero - Idealismo e realismo secondo l'ontologia del Tractatus logico-philosophicus [PDF It]
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Take away #7 – Enhancement
Serial / Giugno 2015“Vedo il riflesso di qualcosa negli occhiali da sole di quel passante. Puoi ingrandire?”
In questa istanza di Take Away, vorremmo attirare la vostra attenzione su un minuscolo quanto eloquente meccanismo narrativo, impiegato generosamente e in modo trasversale dal popolo degli autori televisivi americani. Si tratta di quel momento, che sicuramente avete presente, in cui i protagonisti del telefilm si trovano alle prese con una traccia fondamentale: una fotografia, un filmato o documento apparentemente inutile, fino a che...
Secondo una interpretazione deflativa, si tratta semplicemente di un trucco, un modo per far procedere la trama. Una sorta di Deus ex Machina, al massimo da additare come soluzione non particolarmente elegante, anzi piuttosto banale, che tuttavia tutti finiscono per usare quando un periodo di scarsa creatività interferisce con termini di consegna settimanali per nuovi episodi di questo o quel telefilm.
A nostro parere, tuttavia, proprio come nel caso del Deus ex Machina del teatro greco, il ruolo di questo topos narrativo nella coscienza contemporanea riflette alcune convinzioni profonde, tanto da essere tematizzate solo raramente. In questo caso, quello che chiameremo “il topos dell'enhancement” serve da segnale di qualcosa di importante.
Innanzitutto, per i meno esperti di cose tecnologiche, bisogna ricordare un dato fondamentale: il “miglioramento dell'immagine” è, per come viene usato in gran parte dei frammenti del video, impossibile. Un'immagine, infatti, per quanto suscettibile di ogni genere di manipolazione informatica, ha sempre una definizione, vale a dire contiene una certa quantità di pixel – o di informazione. Tale limitatezza, si può dire, è la caratteristica che più radicalmente distingue la realtà dai modelli che possiamo costruire di essa, come ad esempio la mappa dal territorio. In termini operativi, la differenza è ancor più evidente: indagando più da vicino un fenomeno reale siamo in grado di distinguere sempre più dettagli, mentre indagando più da vicino una rappresentazione di quel fenomeno - un disegno o una mappa o un grafico - potremo scoprire solo dettagli relativi al modo e ai materiali della rappresentazione (come il numero di pixel o la grana della carta), non della realtà descritta.
I personaggi dei nostri telefilm trascurano questa distinzione. Li autorizza a farlo una qualche formuletta: un fantomatico “programma di miglioramento”, oppure l'osservazione che “si può fare, con la giusta apparecchiatura”, o il nome di qualche scienziato il cui “lavoro sulla rifrazione” ha avuto straordinarie conseguenze sui software di manipolazione di immagini. Per spiegare questo fraintendimento fondamentale della natura dei dati forniti dalla tecnologia, dobbiamo ricordarci che in fondo ciò che si interpreta in questi film e telefilm non è tanto lo stato delle cose, della tecnologia, della società, della cultura, quanto le tensioni e soprattutto le esigenze ideologiche che coinvolgono tali spazi.
Nei film e telefilm – soprattutto quelli legati ai corpi di polizia – il topos dell'enhancement sottolinea la necessaria congiunzione di due aspetti della realtà: la crescente esigenza di sicurezza e controllo, all'interno di spazi metropolitani percepiti come porosi, caotici e criminogeni, e il raggiungimento di una onnipotenza tecnologica nel campo dell'informazione. Per far fronte all'insorgere sempre più imprevedibile e capillare della violenza – si pensi all'inesauribile creatività degli autori televisivi nel trovare sempre nuovi ambiti nei quali ambientare il misfatto che muove la trama, alla cura manierista che il colpevole sia sempre in qualche modo l'insospettabile – è necessario che le risorse tecnologiche di registrazione e analisi dei dati siano sviluppate fino a fornire non solo una rappresentazione, ma una replica esatta della realtà.
Il fatto che ad usare tali strumenti orwelliani siano solo e sempre eroi volitivi e morali, mossi da buoni sentimenti ed umanizzati da sottotrame sdolcinate, incornicia la nostra percezione del processo di crescente informatizzazione del controllo e incremento dei dispositivi biopolitici nel frame di una lotta fra l'ordine e la disciplina da un lato, e la devianza imprevedibile e mostruosa dall'altro.
Si occulta così una caratteristica fondamentale del funzionamento dei dispositivi contemporanei di controllo biopolitico: la loro applicazione capillare e generalizzata. Là dove il processo dell'enhancement si riassume nella formula di un magico zoom in che aumenta la definizione, le trasformazioni reali dell'apparato di controllo si muovono nella direzione opposta: accumulando dati dalle più svariate banche dati e incrociandole per costruire un profilo preventivo – e un gradiente di pericolosità sociale – per ciascun individuo. La divisione fra criminale e non-criminale è sfumata – l'esatto opposto di quanto suggerisce la narrativa poliziesca di prodotti come Criminal minds – e soprattutto è un prodotto, non un presupposto della applicazione di strumenti di controllo. Come si afferma in un recente e fondamentale saggio sulla militarizzazione dello spazio urbano: sta ormai al cittadino dimostrare a ogni checkpoint di non essere un criminale, secondo un modello di sicurezza urbana apertamente ispirato all'apartheid.[1]
Forse, si dirà, abbiamo voluto leggere troppo in un semplice tic narrativo: eppure siamo convinti che, a un livello di consapevolezza più o meno alto, il racconto rassicurante della tecnologia e l'esorcismo delle sue potenzialità distruttive e totalitarie sia una funzione fondamentale della corrente cultura pop.
P.S. Per chi è familiare col già citato Criminal Minds, l'esercizio per casa è riflettere su questo personaggio:
Un hacker che ha accesso a una serie infinita di banche dati, e mettendole a confronto compie sistematiche violazioni della privacy di ognuno, per conto di un'unità esclusiva di profiler dell'FBI. Si trova in una posizione di potere tale – non solo nei confronti dei criminali che indaga, ma potenzialmente di chiunque – che la sua stessa esistenza rappresenta una minaccia alla privacy e alla sicurezza di un qualunque cittadino, americano e non: è praticamente l'incarnazione del Grande Fratello.
Risulta comunque un personaggio positivo. Come? È buona fino allo sdolcinato, leggermente sovrappeso, autoironicamente vanitosa e un po' buffa. Si chiama Penelope Garcia – un cognome latino che la colloca all'intersezione di due minorities – e è praticamente l'unico modo di far sembrare inoffensivo l'individuo al comando del più sofisticato apparato di controllo e repressione della storia.
[1]Stephen Graham, Cities under Siege: The new military urbanism, Verso, New York 2011, p. 47
di Lorenzo Palombini
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Aut Aut vol. 361 – La condizione postumana
Recensioni / Luglio 2014L’intento del numero 361 di “aut aut”, intitolato La condizione postumana, come si legge nella Premessa del curatore Giovanni Leghissa, è quello di esplorare con prudenza le potenzialità filosofiche della prospettiva postumanista. In tal senso, gli articoli presenti nel fascicolo hanno l’obiettivo di cartografare una «specifica costellazione teorica» (p. 5) in grado di licenziare l’uomo dal mestiere di «unico custode della casa dell’essere» (p.5), ponendolo invece sullo stesso piano degli altri viventi e degli oggetti inanimati. Per comprendere appieno le implicazioni di tale prospettiva, Leghissa indica tre passi in avanti che risultano necessari: 1) un posizionamento letteralmente radicale dell’umano entro la dimensione dell’animalità, in modo tale che l’uomo possa «cominciare a leggere la propria storia nell’ottica di un darwinismo dotato di valenze quasi-trascendentali» (p. 6); 2) correlatamente al primo, la declinazione del postumano in una cornice etica che giustifichi un rapporto paritetico con le altre specie animali; 3) la messa in questione dell’autonoma produttività dell’umano, specchio dell’infinita produttività della Natura, al fine di «ripensare il sociale come ambiente in cui umani e artefatti (e, ovviamente, animali) interagiscono formando vari livelli di realtà» (pp. 6-7). Gli articoli presentati dal curatore, come ricorda egli stesso, non hanno l’ambizione di coprire integralmente la portata di questi tre passi, ma rappresentano, ciascuno a suo modo, dei validi strumenti per una ricognizione assolutamente non superficiale della questione postumana.
Invece di descrivere sinteticamente tutti i saggi del numero, si preferisce in questa sede lasciar parlare gli autori i cui saggi sono sembrati, agli occhi del lettore che scrive, più intimamente intrecciati tra loro. Prima però di cominciare una sorta di trailer cinematografico, pare comunque necessario segnalare le linee di fuga dal discorso maggiore che gli altri studiosi, singolarmente, hanno intrapreso – anche perché i temi, le prospettive e gli autori coinvolti risultano euristicamente importanti al fine di un arricchimento di quella costellazione teorica segnalata dal curatore.
Innanzitutto, proprio per evitare frettolose ingenuità rispetto al significato della prospettiva postumanista, risulta importante il saggio di Marina Maestrutti, Potenziati ma inadatti al futuro. Dal cyborg felice al cyborg virtuoso, per la sua disamina critica del rapporto tra postumano e potenziamento somato-cognitivo che – essendo spesso declinato nei termini del superamento dei limiti umani – ha finito per produrre visioni al confine con l’escatologico. Discorso, quello dei limiti, che in un’ottica postumanistica pare più proficuo emendare nella prospettiva ibridativa delle soglie, perfino tra vivente e non vivente, sia essa impersonata dal cyborg o, come nel caso del suggestivo saggio di Rocco Ronchi, Figure del postumano. Gli zombi, l’onkos e il rovescio del Dasein, dallo zombi, che viene condotto fino al varco della casa heideggeriana per bussare alla porta del Dasein.
Due autori sicuramente importanti, per comprendere la natura ibridativa e letteralmente tecno-logica dell’uomo, sono poi Hans Blumenberg e il suo dialogo differenziale – in quanto sempre al tempo stesso critico, seguace e prosecutore – con l’antropologia filosofica tedesca, e Gilbert Simondon, il quale, forse più acutamente di chiunque altro, ha sviluppato un’autentica filosofia della tecnica volta a indicare un nuovo rapporto ontologico tra psiche, società e oggetti tecnici. I saggi a loro dedicati, entrambi puntuali, lucidi e ben argomentati, sono di Francesca Gruppi (Animal symbolicum e uomo toolmade. Hans Blumenberg tra umanesimo e post-umanesimo) e di Fabio Minazzi (“Salire sulle proprie spalle”? Simondon e la trasduttività dell’ordine del reale). Francesco Monico, in Premesse per una costituzione ibrida: la macchina, la bambina automatica e il bosco, sulla scorta di Latour – ma anche di Deleuze e Guattari, che a ben vedere risultano tra i più interessanti in-formatori della prospettiva postumanistica – prova in modo anche originale a tracciare una riformulazione delle categorie dell’agentività in favore di una coabitazione politica dei collettivi formati da umani e non-umani e, perciò, in vista di un’ecologia tecno-sociale tanto necessaria quanto ancora distante dall’essere esaurientemente formulata.
A chiudere il volume, un interessante dibattito guidato da Marco Bacini e intitolato Il sapere nella rete, che vede protagonisti Stefano Moriggi e Raffaele Simone; la discussione, arricchita dalle esperienze didattiche personali, cerca di superare la contrapposizione tra tecno-entusiasti e apocalittici del XXI secolo – un approccio farmacologico direbbe Bernard Stiegler – e, pur nelle differenze non occultabili tra gli interlocutori, il tentativo sembra riuscito.
Veniamo ora al trailer del discorso cosiddetto maggiore, anche se, come vedremo, è fruttuosamente lungi dal risultare unitario. Il composito e articolato saggio di Leghissa, Ospiti di un mondo di cose. Per un rapporto postumano con la materialità, ha la seria intenzione di rileggere il rapporto tra l’uomo e gli oggetti di cui il suo mondo è costellato. Il punto teorico generale da cui parte l’argomentazione di Leghissa è che, se la riflessione filosofica ha articolato la questione della posizione dell’uomo nel cosmo nei termini di un privilegio nei confronti tanto dell’animale non umano quanto della sfera degli oggetti materiali, la componente essenziale, di una prospettiva postumanistica va ricercata nella costruzione di alternative a questa tesi. In particolare, se l’umanismo ha fatto suo il motto protagoreo che vuole l’uomo a misura di tutte le cose, Leghissa suggerisce di rileggere tale prospettiva «nel quadro di un “darwinismo trascendentale”» (p. 11) che scalzerebbe l’animale umano dalla posizione di osservatore esterno, distaccato e, perciò, privilegiato: «L’uomo, in virtù delle strutture cognitive di cui si è dotato nel corso della propria evoluzione biologica, si pone come il solo osservatore in grado di conferire senso a quell’insieme di fenomeni che le suddette strutture cognitive rendono visibili. […] Si tratta, più profondamente, di prendere sul serio il fatto che il mondo che appare a un rettile (tanto per nominare un vertebrato a noi filogeneticamente prossimo) non ha le stesse caratteristiche del mondo che appare a homo sapiens – pur restando, ontologicamente, lo stesso mondo» (pp. 11-2). Intrecciando con sicurezza la riflessione heideggeriana sulla cosalità con la teoria dell’attore-rete di Latour, e distillando una folta schiera di riferimenti antropologici, psicologici, biologici, neurologici e archeologici, Leghissa prova a far emergere una prospettiva ecologica filosoficamente forte che sia in grado di legare umani, animali non umani, oggetti tecnici e istituzioni per fornire una strada politica, dunque sempre da rimettere in discussione, alternativa a qualsiasi teleologia della modernità e rivolta invece alla sperimentazione di nuovi rapporti tra gli attori umani e non, in vista di «scenari istituzionali inediti» (p. 33).
Roberto Marchesini, da anni e con straordinari risultati teorici, porta avanti la prospettiva postumanista in chiave filosofica, ragion per cui le poche citazioni qui riportate non possono in alcun modo restituire la genuinità dei suoi lavori. Punto di partenza di Alla fonte di Epimeteo è che la questione postumana, piuttosto che indicare l’uscita dalla dimensione umana da parte dell’uomo, segnala la necessità di «una riflessione sull’evoluzione della condizione umana» (p. 35). In modo brillante l’autore si impegna altresì a chiarire e a distinguere il termine postumanistico rispetto ai programmi o ai progetti di transumanazione o di iper-umanesimo, «attribuibili più alla fantascienza che all’analisi filosofica» (p. 36) e fondati su di una concezione amniotica e depurativa della tecnologia. In tal senso, la prospettiva filosofica che Marchesini definisce postumanista «si propone una nuova lettura dell’umano che va oltre il qui e ora dell’emergenza informatica e biotecnologica, […] per offrire una versione differente di una storia, quella umana, ormai non più credibile nei canoni mitopoietici della frontiera» (p. 38); una storia, dunque, che mette al centro le alleanze interspecifiche e le soglie di mutazione.
Il postumanismo, lungi dall’essere un processo di epurazione, è infatti per Marchesini una prospettiva ibridativa e coniugativa, fondata sulla contaminazione con le alterità, tanto a livello biologico ed ecologico, quanto epistemico e, appunto, filosofico. Il ruolo della tecnica e della tecnologia è allora emancipativo, non nei confronti della Natura e delle alterità animali, bensì rispetto all’uomo stesso – sul piano epistemologico – nella stretta misura in cui «l’ibridazione con uno strumento tecnologico è già una messa in mora della prospettiva antropocentrata perché consente all’essere umano di andare oltre il modello interpretativo filogenetico» (p. 47), il quale non è assolutamente oggettivo né tanto meno universale, bensì parziale e specializzato, in quanto espressione di «un particolare posizionamento sul mondo» (p. 47). La parola d’ordine della prospettiva postumanista è allora antropodecentrarsi, ossia «riconoscere tanto nell’antropopoiesi quanto nella propria identità individuale il concorso contaminativo delle alterità» (p. 51).
In Al di là del principio di realtà: sulla Vita Artificiale, Davide Tarizzo mette al centro del suo intervento la nozione di Vita astratta e lo fa partendo dalla considerazione di Ivan Illich, secondo cui saremmo «di fronte all’apparizione di una sorta di giustificazione ultima che serve a farci amministrare da un nuovo clero, un clero manageriale, pianificatore, dittatoriale, peggiore di tutto ciò che finora eravamo riusciti a immaginare» (p. 72). La giustificazione a cui Illich fa riferimento è la Vita, proprio quella con la V maiuscola, e che Tarizzo personifica nella Vita Artificiale. Invece di scovare il segreto della Vita Artificiale nell’informatica, Tarizzo propone di leggere tale fenomeno con le lenti della biologia e dell’economia. Del resto, «la Vita è quel costrutto scientifico, o quella moderna astrazione scientifica, sullo sfondo della quale l’idea stessa di vita artificiale diventa concepibile per gente come noi» (p. 73). Partendo allora da una prospettiva neodarwiniana, che tiene comunque come punto saldo lo studio delle popolazioni a scapito dei singoli, Tarizzo afferma in primis che «qualcosa di vivo è qualcosa che può comportarsi male e può correggere il suo comportamento. In un certo senso, qualcosa di vivo è qualcosa che già sempre si sta comportando male e già sempre sta lottando per comportarsi meglio, per migliorare le sue performance comportamentali» (p. 74), a partire dai propri errori, come ha saputo mostrare magistralmente Canguilhem. Prendendo atto che il comportamento risulta essere la categoria imprescindibile e fondamentale per comprendere la vita in termini di evoluzione, e che dunque la scienza della vita è essenzialmente una scienza del comportamento, Tarizzo mette in atto una strategia comparativa, per cui, sulla scia di Christopher Langton, descrive la Vita artificiale come lo studio dei sistemi costruiti dall’uomo i cui comportamenti risultano analoghi a quelli dei sistemi viventi naturali; come per la biologia evolutiva, tali comportamenti sono frutto di processi di potenziamento del comportamento popolazionale, ossia dell’azione della Vita astratta che, seguendo in questo caso von Neumann, risulta perciò «la condizione – o la categoria a priori – necessaria per poter concepire, o immaginare, una Vita artificiale» (p. 77).
Correggere gli errori o i difetti è dunque espressione della forza autotelica della vita, e Tarizzo sottolinea come la parola più adatta a descrivere questo processo sia «ottimizzazione comportamentale» (p. 77); e ottimizzazione è la parola chiave, del resto, in biologia, nel campo della Vita artificiale e, a maggior ragione, in economia. Ecco allora sopraggiungere il dato problematico di fronte al quale si muove l’intelligente analisi di Tarizzo che, questa volta, segue le analisi dell’economista Gary Becker: «Se la vita in quanto tale si può decifrare in termini di ottimizzazione, e se l’ottimizzazione stessa è la legge generale dell’economia, allora ogni espressione della vita umana, vale a dire ogni comportamento umano, può essere letto e interpretato attraverso la lente dell’approccio economico» (p. 78) e, in tal senso, oggi può sostituire tutto ciò che, della vita naturale, non corrisponda ad adeguati criteri di ottimizzazione rispetto all’ambiente tecnologico in cui viviamo. Questo processo apre allora a considerazioni inquietanti circa «la fine della vita umana, da sacrificare sull’altare della Vita Artificiale» (p. 80). Tarizzo infine si domanda se davvero l’economia come ottimizzazione comportamentale possa descrivere la Vita; l’inizio di risposta viene dalla concezione autolesiva e sintomatologica della Vita sviluppata da Freud, il quale sembra offrire l’anticorpo adeguato al sogno/incubo della Vita artificiale. In tal senso, Tarizzo può affermare che «il sogno, o l’incubo, della Vita Artificiale sembra allora ridursi a un sintomo collettivo, sociale, storico di un malessere collettivo, sociale, storico che esprime un segreto squilibrio – il disagio e l’angoscia di una intera civiltà, la nostra, invisibile a se stessa e in lotta con se stessa, prostrata davanti a un nuovo dio oscuro, il Dio Astratto della Vita Artificiale» (p. 81).
Il saggio di Antonio Lucci, Primi passi nel Postum(i)ano, ha come punto di partenza la prospettiva della storicità degli a priori, che viene ricostruita utilizzando autori anche molto eterogenei come Konrad Lorenz, Arnold Gehlen, Bernard Stiegler e il neuroscienziato Julian Jaynes. Dalle lenti colorate, frutto di processi biologico-adattativi attraverso cui, per Lorenz, guardiamo il mondo, agli a priori acquisiti di Gehlen, dall’epifilogenesi di Stiegler, basata sull’esteriorizzazione materiale della memoria come volano antropopoietico, all’origine storico-sociale della coscienza teorizzata da Jaynes, tutto sembra convergere verso una radicale messa in questione della soggettività trascendentale o di una signoria conoscitiva del soggetto umano fondata su di una sua immutabilità, l’occhio fisso sul mondo: «Tutte le speculazioni sul “soggetto” tanto tornate in auge con la diffusione delle scienze cognitive perdono di consistenza di fronte a un impianto apriorico fluido, storico e mobile, che non solo struttura in maniera fondante le coscienze e gli apparati percettivi degli uomini (cosa scontata parlando di apriori), ma che è esso stesso in costante mutamento insieme all’orizzonte storico degli eventi» (p. 135). Lucci affronta poi un secondo elemento di analisi, quello più specificamente relativo al senso del post in postumano; non solo come prefisso problematico in sé, ma come condizione del suo stesso discorso: «come parlare da dopo l’umano, permanendo umani?» (p. 138). Passando per una breve ma efficace digressione sul (non)rapporto della lingua tedesca con il prefisso post, Lucci giunge a proporre l’espressione coniata da Sloterdijk, che dà il titolo al saggio: postumiano. Seguendo Sloterdijk, e provando anche a proseguirne lo sguardo, l’autore afferma che «il termine “postumiano” invita a riflettere su che cosa possa significare porsi in un’epoca dell’umano diversa dalla nostra, in cui persino il concetto di umanità venga “infettato” dall’aggiunta supplettiva di una protesi, di un elemento dissonante (quella “i” così inopportuna) che ci proietta automaticamente in una dimensione altra rispetto a quella che abbiamo finora vissuto» (p. 139).
Nel caricare di senso questo neologismo, l’argomentazione di Lucci è senz’altro suggestiva. Se con umano si è soliti definire quello specifico animale «che ancora vive e subisce l’influsso categoriale e percettivo delle macrorivoluzioni nel comportamento e nell’organizzazione dei gruppi avute con la rivoluzione neolitica», che ha condotto l’umanità alla stanzializzazione, all’allevamento e all’agricoltura, con tutto il corredo di condizioni di esperienza e di forme di vita che hanno caratterizzato le società, tutto questo sembra dissolversi definitivamente: «Negli ultimi trent’anni l’uscita dal Neolitico si è fatta sempre più palese, incarnandosi nella quotidianità degli individui, trasformandone le abitudini e le forme di vita» (pp. 139-40). Se fino a poco fa il singolo tendenzialmente parlava una sola lingua, viveva tutta la vita in un solo luogo, utilizzava gli stessi media da secoli o da millenni, aveva le stesse credenze e convinzioni dei propri avi, oggi è normale parlare più lingue quotidianamente, viaggiare in continuazione e coprire distanze un tempo inimmaginabili, potendo portare con sé tutta la sfera egopersonale di dati e documenti con il minimo dispendio di spazio ed energia (penne usb, smartphone, ecc.) e rimanendo connesso con una rete di contatti potenzialmente sterminata: «Tutte queste modalità di rapporto […] rappresentano una rottura con il mondo neolitico dei nostri progenitori, che permane nelle sue strutture e Weltanschauungen e che influenza anche gli abitatori del Postumiano» (p. 142), i quali soffrono e subiscono i disagi di tale transizione, che, per quanto già in atto, non ci è dato sapere se e quando sarà definitivamente compiuta.
Nel saggio Di un sintomo e alcune appartenenze, Fabio Polidori rileva una certa fretta teorica e metodologica nell’area/aria intellettuale che, seppur nella sua eterogeneità anche irrisolvibile, sembra esprimere una comune ansia di collocare l’umano nel suo futuro, nel suo post. Tale fretta, che si esprime proprio in questo prefisso, è letta da Polidori come il sintomo di «una insofferenza, addirittura di un’ansia nei confronti di ciò che avvertiamo, magari inconsapevolmente, come un assillo anche per il futuro. Come se, in altri termini, la posizione di una nuova linea di demarcazione, di un’inedita soglia oltre la quale staremmo per saltare, riuscisse immediatamente a liberarci dai vincoli di tutte quelle altre soglie e differenze a partire dalle quali si è articolata la riflessione sull’“identità” dell’umano e dell’uomo, quanto meno a partire dal momento a vario titolo inaugurale della modernità» (p. 165-6). Ecco allora che l’autore moltiplica le precauzioni per non cadere nella trappola della fretta; precauzioni, del resto, assolutamente necessarie all’inquadratura della condizione postumana, tra cui chiaramente quelle relative ai due termini che compongono tale significante. In particolare, Polidori sostiene che «dietro a parecchio di ciò che si racchiude nel “postumano” e lo alimenta, continui a lavorare in maniera ancora più massiccia […] l’istanza dell’“umano” per eccellenza, l’istanza dell’identità con se stesso, della propria immagine, della propria riconoscibilità» (p. 168).
Al tempo stesso, però, Polidori riconosce che negli ultimi decenni si è verificata la necessità teorica di un «progressivo avvicinamento» tra uomo e animale, così come tra uomo e tecnologia, che deve essere inteso come il segnale di una coappartenenza letteralmente essenziale, e non accessoria. In tal senso, inoltre, l’autore sottolinea che «la diversa modalità di coappartenenza alla tecnica è difficilmente pensabile come del tutto avulsa da una diversa modalità di coappartenenza alla dimensione animale» (p. 177). Nietzsche aveva già in qualche modo prefigurato questa trasformazione, sebbene senza poterne trarre le dovute conseguenze, in particolare per ciò che concerne la natura biologicamente condizionata del logos, dunque evolutiva ed essenzialmente instabile. Con Nietzsche, ma anche oltre Nietzsche, ci sarebbe allora data l’opportunità di «pensare l’uomo (e l’umano) come ciò la cui stabilità è data dal suo essere instabile, dal suo appartenere a un costante e progressivo prendere le distanze da sé» (p. 178). Se tali considerazioni autorizzano con molta probabilità a parlare dell’uomo, sulla scia di Sloterdijk, come di un acrobata, Polidori mette in luce il rischio che si corre a far saltare troppo in alto l’umano, ossia slegarlo una volta di più dalla sfera animale. Tale rischio si corre se consideriamo l’acrobatico una dimensione esclusiva dell’uomo, mentre la prospettiva postumana, come i vari autori hanno cercato di mettere in evidenza in questo numero di “aut aut”, dovrebbe considerare «l’uomo come ciò che appartiene all’acrobatico: ossia al corpo, al vivente, al potenziamento di sé, insomma all’animale e al vitale» (p. 179). Quest’ultimo suggerimento, sottile e ben calibrato, sembra convergere con la critica mossa nel contributo di Marchesini all’antropotecnica di Sloterdijk, che risulta un’auto-proiezione elevativa dei destini umani, dal momento che «ci mostra un uomo artista, acrobata lungo un filo che lo innalza e lo allontana, lui da solo perché lui solo capace di ergersi, sorretto dalla sua arte e non dalla sua corda» (p. 41).
di Paolo Vignola