Intervento alle giornate di studio “Che diavolo è un fantasma?”, a cura della Fondazione Baruchello e Psicoanalisi al presente, Roma, 21-22 marzo 2025.
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Comincio con una confidenza: non amo i francesismi. Per cui non mi piace che tra analisti si usi il termine “fantasma” nel senso del phantasme francese, del fantasy inglese e del phantasieren tedesco. Perché fantasma ovviamente è schiacciato dall’omonimia del nostro fantasma che in francese è phantôme. Eppure qui sfrutterò la recente omonimia proprio per mettere in relazione il fantasma come imago psichica con i fantasmi della tradizione popolare e letteraria.
Marion Herzog-Hoinkis (Hrsg.): "John Elsas. Meine Bilder werden immer wilder". Insel-Bücherei Nr. 1228, 2002.
Sul fantasme – userò qui il termine francese per parlare di imago fantasiosa – la teoria analitica non ha molti dubbi: esprime e adempie il desiderio, die Lust. Come i sogni notturni. Ma come la mettiamo con i fantasmi, quelli veri, cioè che non esistono? A lungo ho studiato le voci popolari, le fake news e miti d’oggi: anch’esse adempiono desideri?
I fantasmi esprimono un nocciolo del fantasme nella misura in cui un fantasme ha un rapporto sempre dubbio, discutibile, con la realtà.
In effetti noi oggi, da positivisti disincantati, consideriamo i fantasmi dei miti, insomma fantasie collettive. Eppure, a lungo i fantasmi non sono stati affatto immaginari. Ho passato l’infanzia a Napoli, città dove anche professori di filosofia credono fermamente ai fantasmi, che là si chiamano munacielle, cioè monacelli. Più a Sud, in particolare in Basilicata e in Calabria, prosperano piuttosto i monachicchi: sono bambini morti prematuramente intenti a fare birichinate agli adulti vivi. In tedesco il monachicchio si direbbe Poltergeist, spettro chiassoso.
Nella tradizione occidentale i fantasmi sono domestici, abitano una vecchia casa – gli inquilini passano, i fantasmi restano. Si parla di haunted house, di una casa infestata da fantasmi. Nel fantasma infesta-casa ciò che c’è di più domestico e intimo coincide con ciò che più estraneo non si può, la morte. C’è qui conflagrazione tra due poli semantici. I fantasmi sono morti che si ostinano ad abitare in un luogo, la casa, che per noi è una calotta che avvolge il nostro corpo in una seconda pelle. Il fantasma è unheimlich nel senso datogli da Freud: l’estraneità estrema nel cuore della domesticità.
Il fantasma incide, anche se saltuariamente, sulla realtà: è uno spirito performativo, diremmo oggi. A Napoli per esempio, se in pubblico negavi l’esistenza del munacielle, ti arrivava un bel calcio nel sedere da parte sua.
Il fantasma è il vero proprietario di una casa, e l’incontro con esso è l’incontro con ciò che resta di questo proprietario. Potremmo dire, lacanizzando, che il fantasma è il riverbero immaginario di una proprietà simbolica sulla casa reale dell’oggi.
I fantasmi ci interrogano quindi sul loro essere. E sul loro modo d’esistenza. Anche le idee, i sogni, i numeri, le classi e le classi di classi…, esistono a loro modo, e da secoli si discute quale sia appunto il loro modo di esistere. Ricordate la disputa sugli universalia nel Medio Evo, tra realisti, concettualisti e nominalisti? Gli enti immaginari e simbolici hanno un’esistenza discutibile, sfuggente, problematica.
Questa interrogazione sul modo d’esistenza slitta nel problema dell’origine, del da dove vengano fantasmi fantasie e miti. L’origine dei fantasmi è chiara: erano vivi, e ora sono perturbanze. Erano i padroni di una casa di cui ora sono solo la fantasia. Possiamo dire che i fantasmi sono quel che resta dell’Altro quando gli si è tolta l’esistenza, di cui resta solo il diritto e la potenza.
E l’origine dei miti? Il bello è che molto spesso i miti sono miti di origine, per cui la domanda diventa: che origine hanno i miti d’origine? E nel caso che ci interessa qui, quello dei fantasmes: che origine hanno? In particolare: c’è alla loro base qualcosa di reale? È il fantasme traccia di un’esperienza concreta, o un fantasme si origina da un altro fantasme, e così via… all’infinito? La ricerca delle origini dei fantasmes diventa presto una fantasmagoria.
Un saggio fortunato fu quello di Laplanche e Pontalis del 1965, Fantasme originario, fantasme delle origini, origini del fantasme. La loro tesi è che i cosiddetti fantasmes originari, prima di tutto l’Urszene, la scena primaria, il coito visto da un bambino, sono anche fantasmes dell’origine del soggetto stesso. Oggi direi che ogni descrizione delle origini del fantasme attraverso un fantasme originario è un fantasme delle origini: ovvero, il vero fantasme è quello di chi ne descrive le origini, Laplanche e Pontalis inclusi. Il fantasme è per lo più un fantasme o mito delle origini, ma le origini sono sempre fantasmatiche. In altre parole, non c’è alcun ente originario. Non c’è origine. Anche se la scienza moderna ha elaborato alcuni racconti dell’origine dell’universo, ad esempio il Big Bang. Freud non è sfuggito a questa tentazione, anche lui voleva descrivere l’origine del fantasme, pensando che essa dovesse essere un evento nella realtà.
Sketch of Jacques Lacan - Edward Drantler
Credo che il vero problema oggi non sia tanto ricostruire la teoria psicoanalitica del fantasme, quanto il chiedersi fino a che punto questa teoria non sia un fantasme. E so che così rischio l’incriminazione di lesa maestà. Siccome ogni teoria è un modello quindi un fantasme, mi chiedo se e in che modo questa teoria fantasmatica morda sul reale. Per dirla fuori dai denti: per me quasi tutte le teorie di Freud sono miti, il punto è vedere se questi miti non siano mistificanti ma perspicui.
Come è noto, non si è mai smorzata la polemica sulla teoria dell’isteria come frutto di una seduzione reale. Jeffrey Masson, vi dice qualcosa? Insomma, il fantasme che abita l’isterica – l’esser stata molestata o abusata da un adulto, preferibilmente dal padre – è la deriva di una scena reale? O deriva dal desiderio isterico? Come sappiamo, Freud non ha mai rinunciato alla tesi – che secondo lui doveva confutare Jung – secondo cui alla base delle concatenazioni fantastiche ci sarebbe una scena reale vissuta. Da qui l’importanza da lui data al fatto che l’Uomo dei Lupi abbia assistito a un coito dei genitori a tergo alle 5 della sera in un giorno d’estate, coito interrotto da una diarrea del bambino. C’è da stupirsi allora se molti considerano Freud solo un geniale cialtrone?
Oggi molti pensano che la scena primaria sia un fantasme di Freud, il quale ne fa un fantasme originario. Perché in fin dei conti per Freud ogni fantasme è un tentativo di interpretare qualcosa, un evento essenziale, qualcosa come il coito degli adulti. L’ossessione di Lacan sul “non c’è rapporto sessuale” deriva da questo: si può vedere un rapporto sessuale? Evidentemente non bastano i video porno, anch’essi alla fine non riescono a mostrare qualcosa di… impossibile da mostrare! Si è sempre delusi nel vedere un coito formato porno: è solo questo?
All’origine c’è un trauma, ma anche i fantasmi ci traumatizzano. I bambini sono traumatizzati soprattutto da cose che non esistono. Dal buio, dal lupo. Oggi i lupi non si vedono nemmeno allo zoo.
Non possiamo dire che la necessità di trovare un primum movens, una realtà da cui il mondo fantastico derivi, sia un’ossessione personale di Freud. In modi diversi ossessiona tutta la psicoanalisi. Molti analisti oggi vedono la causa prima delle fantasie nel rapporto madre-bambino. La diade madre allattante/bambino allattato ha preso il posto della scena primaria come fonte di tutto il mondo psichico. Ma forse anche questo Big Bang madre/bambino è un fantasme.
Un dato antropologico inoppugnabile è che per quanto una società possa essere primitiva, essa elabora sempre dei miti d’origine. La classica domanda dei bambini “da dove vengono i bambini?” è un avatar della domanda umana, così originaria, sulle proprie origini. Del resto, anche i fantasmi come spettri sono gli abitatori originari di quella casa, rispetto a cui i viventi attuali sono tutti usurpatori. Ogni generazione usurpa quelle precedenti.
Molte filosofie designano delle origini, a partire dalle quali descrivere una genealogia. Per Platone l’originario erano le ideai, ovvero le apparizioni intelligibili. Per gli atomisti antichi originari erano gli atomi e la loro caduta. Per i moderni l’origine è la soggettività stessa, lo spirito, per Marx il lavoro umano, per Nietzsche la volontà di potenza, per la fenomenologia l’intenzionalità della coscienza verso le cose stesse, per Freud la pulsione come desiderio… Heidegger poi taglierà la testa al toro dicendo che alla fonte degli enti c’è… solo l’essere.
Anche la scienza cerca l’originario. Darwin scrisse L’origine delle specie ma, come si è fatto notare, nega sia le specie che la loro origine. Per Darwin la vita è un processo continuo senza veri salti, la vera origine è il formarsi stesso della vita, l’evento misterioso e improbabile di un ente che si riproduce. Sempre più i moderni disperano di trovare l’origine di qualsiasi cosa. Devono riconoscere che le origini sono un fantasme, e che un fantasme è sempre in fondo una fantasia sulle origini della propria casa. Insomma, è vero che ogni fantasme è anche un fantasma nel senso di spettro: il fantasma dell’origine infesta la nostra vita originaria.
Gli spettri sono ciò che resta di viventi ridotti a sola abitazione di una casa-corpo. Molto spesso, quasi sempre, gli umani pensano che tutto il nostro sistema fantastico, individuale o collettivo, è ciò che resta di un reale. Ma se descrivessimo questo reale, scadrebbe già a fantasme, a immaginazione. Il reale è qualcosa che non si può descrivere, altrimenti diventerebbe semplice rappresentazione. Eppure l’essere umano è stato sempre assillato da questo: come rappresentare il non-rappresentabile? Da qui, forse, la quasi-universalità del senso del sacro.
Eppure vorrei provare a dire, provocatoriamente, come situare questo reale di cui tutto il nostro linguaggio è la maschera. Qual è insomma la vera maschera di ciò che non è maschera? Qual è la maschera originaria? Il titolo di questo convegno mi offre la risposta su un piatto d’argento. Ciò a cui rimanda ogni fantasme è il diavolo.
“Che diavolo è questo?...” è una forma attenuata di un’espressione più carnosa e volgare, “ma che c… è questo?” Il diavolo è a sua volta una maschera del genitale maschile, ma questo genitale – o il fallo, secondo Lacan – è a sua volta maschera di che? Forse maschera del contrario del diavolo, ovvero della divinità. E difatti il nostro “diamine” viene da una fusione di diabolus e domine, del diavolo e del signor Iddio. Il diavolo è il contrario speculare del dio, quindi ne è la rappresentazione. O il diavolo è il volto segreto di dio?
Rimando qui alle pagine fondamentali di Claude Lévi-Strauss su nozioni tipo mana o manitù. Le rendiamo col nostro concetto cristiano di divinità ma, come mostra Lévi-Strauss, si tratta di ciò che non ha nome. Mana è analogo ai nostri “coso”, “aggeggio”, “arnese”, “diamine” o simili. Ma anche “c…” o “diavolo”, perché si vede che il genitale e il diabolico sono concetti vicini ai non-concetti di “coso” o “aggeggio”. Ciò che non ha nome è potente e affascinante. Appunto, “fascinazione” viene da fascinum, che in latino era il fallo. Che cosa fa sì che il fascinum eretto ci affascini? Coso, diavolo, diamine, pene… tutte forme esclamative di qualcosa di enigmatico, di indicibile. Significanti di grado zero, li chiamava Lévi-Strauss.
Possiamo dire insomma che tutto il nostro mondo fantastico, secondo la psicoanalisi, mira a quello… un quello che non si può descrivere. L’origine del fantasme è ciò che si guarda ma non si vede.
Si pensi al sogno così perturbante dell’Uomo dei Lupi, con i cinque o più lupi appollaiati sui rami che guardano immoti il soggetto. Questo soggetto si chiamava peraltro come me, Sergej. Freud pretende di dirci quel che guardavano fissi quei lupi russi, anzi ucraini: un coito. Ma perché non anche un c…, ovvero, in fin dei conti, il diavolo? E perché non dio? I lupi di Sergej guardavano proprio lui, Sergej, vale a dire dio.
I lupi guardano Sergej che a sua volta guarda. Ma guarda che cosa? Può darsi che sia un coito, ma se lo guardasse non saprebbe interpretarlo. Cosa stanno facendo mamma e papà? Perché si lamentano, affannano, come se fossero torturati? Che diavolo è questo coso che guardo ma non vedo? Lacan direbbe che vedo qualcosa che per il nostro inconscio è impossibile, il rapporto sessuale. Ma un impossibile che accade. Siamo persi nell’oceano del paradosso.
La formula lacaniana del fantasme:
Potrebbe essere interpretata in questo modo: è il soggetto che guarda la scena e che è cancellato – pietrificato, come la vittima della Medusa – da quella scena. E sul lato opposto del soggetto, nelle quinte della scena, l’oggetto a, di cui anche il coito è una maschera. Sembrerebbe che il fantasme si origini dal reale, ma da un reale che proprio per questo viene celato per sempre. Il puro evento irrelato e assoluto, l’origine impensabile di ciò che io sono, di ciò che il mondo è, e di cui mi resta solo la fantasia, la forma spettrale di ciò che non c’è più.
Quale desiderio insomma il fantasme esprime? Il desiderio per qualcosa di reale che appunto, in quanto reale, è perduto.
Un bellissimo film uscito ormai più di vent’anni fa e diretto da Alejandro Aménabar racconta la storia di una famiglia composta da una madre, Grace (interpretata magistralmente da un’incantevole Nicole Kidman), e dai suoi due bambini alle prese con delle strane presenze, degli spiriti che infestano la loro casa di campagna. Dai disegni inquietanti della figlia più piccola, Anna, la madre capisce che la loro dimora è abitata da quella che sembra a tutti gli effetti essere un’altra famiglia: un padre, un’altra madre, un bambino e una quarta figura che Anna dice essere una strega. L’arrivo di due misteriosi anziani signori che si propongono come domestici, il ritrovamento di un album fotografico del diciannovesimo secolo in cui, secondo un’antica usanza, persone decedute vengono ritratte in posa come se fossero vive e l’insistenza ossessiva, da parte di Grace, di non far mai entrare neanche uno spiraglio di luce nelle stanze della casa, poi, sono solo alcuni degli elementi che scandiscono l’incedere di un thriller psicologico tra i più avvincenti e originali, e contribuiscono a rendere The Others (2001) un horror che non si limita a riproporre il classico topos della casa stregata ma, anzi, arriva a sovvertirlo.
In un raccapricciante susseguirsi di scene al cardiopalma, infatti, lo spettatore è accompagnato verso l’agghiacciante realizzazione, da parte di Grace, che in realtà la vera famiglia di spettri che infesta la sua residenza è proprio la sua. Lei e i suoi figli – colpo di scena – sono i veri fantasmi, e la strega che terrorizza la sua bambina è in verità una medium al soldo dell’altra famiglia, quella che si rivela essere nel sorprendente finale una famiglia di persone vive e vegete, benché spaventate a morte. Se si trovano lì, infatti, è solo perché hanno comprato una casa di campagna nella quale era stato compiuto un crimine ignominioso: un doppio infanticidio del quale la responsabile è Grace stessa, che dopo aver soffocato i figli aveva deciso, in preda alla disperazione, di suicidarsi…
Ma lo stesso espediente narrativo per cui il protagonista di una storia di fantasmi si scopre essere, alla fine, un fantasma esso stesso lo incontriamo anche in un altro film, ben più celebre e uscito solo due anni prima: Il sesto senso (1999). Qui Bruce Willis veste i panni di uno psicologo, Malcolm, che aiuta il piccolo Cole a superare l’orrore che gli impedisce di vivere: il bambino è infatti dotato del potere soprannaturale di entrare in contatto con i morti, e la cosa (giustamente) lo terrorizza. Dopo avergli spiegato che i fantasmi lo contattano perché lui, Cole, ha il potere di ascoltarli e quindi di regolare i conti in sospeso che questi hanno lasciato nella loro vita terrena, giunge anch’egli alla fine a realizzare di essere un fantasma. E così, nella celeberrima scena finale, Malcolm si accorge di essere lo spirito disincarnato di sé stesso quando scopre che la moglie, che durante tutto il film sembrava semplicemente ignorarlo e fare finta che egli non esistesse come a seguito di una lite, è in realtà letteralmente incapace di percepirne la presenza in quanto lui, ormai da molto tempo, ha smesso di vivere. Solo Cole, dotato del potere di comunicare con i deceduti, ha davvero interagito con lui durante tutto il film.
Ora: c’è una logica ben precisa che fa funzionare le sceneggiature di questi due film così bene, un criterio che impedisce di far si che i protagonisti realizzino anzitempo, ovvero prima del colpo di scena finale, che tutte le loro azioni sono mosse, in ultima analisi, dal fatale misconoscimento della loro natura di spettri. Ne Il sesto senso è lo stesso Cole a riferire a Malcolm, nell’iconica scena in cui pronuncia la celebre frase “vedo la gente morta…”, la formula di questa logica. I fantasmi dei morti, sussurra il bambino, “vedono solo quello che vogliono vedere”.
Non c’è forse formula migliore di questa per richiamare il tema centrale del quattordicesimo seminario di Lacan, “La logica del fantasma”[1], recentemente – e finalmente… – pubblicato anche in italiano da Einaudi. E quella di Cole è a tutti gli effetti una massima che potrebbe ben figurare accanto ad altri mantra nel formulario psicanalitico lacaniano, come quella che recita “l’inconscio è strutturato come un linguaggio”, o ancora “non esiste rapporto sessuale”. Dire che “i fantasmi vedono solo quello che vogliono vedere” può ben fungere infatti, come queste altre espressioni ormai divenute idiomatiche, da bussola per orientarsi nel fitto labirinto di riflessioni filosofiche e di acrobatiche cogitazioni psicanalitiche che infarciscono i testi di Lacan, e al netto dell’assonanza tra il fantasma che compare nel titolo di questo quattordicesimo seminario ed i fantasmi protagonisti dei due film che abbiamo richiamato. Questo perché il termine francese “fantasme”, che in italiano viene tradotto con “fantasma”, non ha (quasi) nulla a che fare con gli spettri, con i poltergeist in quanto tali – soprattutto da un punto di vista linguistico, in quanto gli spiriti dei morti che appaiono a mezzanotte nei castelli disabitati, sotto forma di lenzuoli volanti o di sagome traslucide, in francese si chiamano fantômes. “Fantasme”,al contrario, è un termine tecnico che nel linguaggio lacaniano indica la dimensione fantasmatica del soggetto, la coappartenenza o la coincidenza strutturali di questo alle sue facoltà immaginarie e simboliche ovvero la sua reale (per quanto spettrale) consistenza ontologica. La stoffa metafisica della soggettività così come questa è intesa dalla psicoanalisi, infatti, è irriducibile a qualsivoglia riduzione deterministica e ben si presta ad essere còlta nei termini del fantasticare, della fantasia e del fantastico. Di qui, insomma, la scelta strategica del temine-chiave francese “fantasme” che, se da una parte segna tutta la distanza possibile tra la disciplina freudiana e le neuroscienze (impegnate nella localizzazione cerebrale, e quindi nella riduzione fisica, delle facoltà psicologiche), dall’altra costringe ognuno di noi a misurarci con la stessa sconcertante verità che coglie Grace e Malcolm alla fine di The Others e Il sesto senso. Anche noi, come loro, conduciamo esistenze fondamentalmente illusorie, annaspiamo nell’inconsapevolezza di noi stessi e anche noi, in fondo, siamo fantasmi che vedono solo quello che vogliono vedere.
Il fulcro della questione, va da sé, come si tratterà di scoprire nel corso del seminario su La logica del fantasma (come nel corso di una psicoanalisi, ma questo è un altro discorso…), sta in quel “vogliono”, in ciò che anche noi vogliamo, e nel grado di consapevolezza riguardo a quei moti più reconditi del nostro stesso spirito che noi, come loro, siamo disposti a tollerare. Grace e Malcolm infatti sono fantasmi, ma in quanto fantasmi inconsapevoli (leggasi: inconsci) il loro stesso essere è confuso durante tutta la durata del film con i pensieri che questi possono e non possono fare. Il loro essere (termine-chiave per la filosofia del novecento, e riferimento imprescindibile per Lacan che non ha mai smesso di guardare ad Heidegger – il filosofo dell’Essere – come ad un maestro) si sostiene quindi su di un regime, su di una logica per l’appunto, che impone un rigido ordine di pensabilità (e quindi di speculare non pensabilità) da cui dipende niente di meno che la tenuta stessa della loro esistenza. E il centro, il nucleo della profonda meditazione condotta nel seminario La logica del fantasma è proprio questo rapporto, oscuro e vertiginoso, che sussiste tra il pensiero, l’inconscio e l’essere dell’ontologia – rapporto dal quale dipende la struttura logica del nostro volere, delle cose che vogliamo vedere e quindi, in senso lato, il nostro stesso essere.
Sarebbe davvero impossibile provare a riassumere il contenuto o anche solo proporre una breve rassegna ragionata dei temi trattati ne La logica del fantasma, seminario tra i più ricchi dell’intera avventura didattica aperta al pubblico presieduta da Lacan, a Parigi, ogni mercoledì dal 1953 al 1980. Basti dire a tal riguardo che questo corso, che si tiene a cavallo degli anni 1966 e 1967 e che costituisce un unicum con quello dell’anno successivo dedicato all’atto analitico (la cui pubblicazione in italiano è attesa per l’anno prossimo), è quello in cui la questione della formalizzazione logica dell’inconscio entra nella sua fase più viva. Certo, quest’operazione ha da sempre costituito l’obiettivo ultimo dell’approccio di Lacan alla psicoanalisi ed era stata da lungo approntata dal lavoro compiuto nel corso degli anni precedenti. Ma se nel seminario su Ildesiderio e la sua interpretazione[2] quest’impresa sembrava essere giunta ad un risultato soddisfacente, con l’elaborazione del grafo del desiderio, nell’anno successivo aveva subito una forte battuta d’arresto ed era entrata in una fase di stallo nella misura in cui l’accento, li, veniva spostato sul godimento. Al corpo intessuto di quella che in lacanese si chiama jouissancee alle sue zone erogene, ovvero al versante pulsionale, ingovernabile ed incandescente della psiche umana, Lacan aveva infatti associato, nel seminario sull’Etica della psicanalisi[3] in cui si consuma questa svolta epocale nel suo insegnamento, il concetto più problematico dell’ontologia heideggeriana: Das Ding. Lo psichiatra francese innestava in questo modo la vexata quaestio del trascendentalismo kantiano (benché mediata dalla lettura esistenzialista di Heidegger) sul corpus freudiano, e rivoluzionava così la psicanalisi in modo talmente radicale ed originale da condannare intere generazioni di psicoanalisti e di filosofi a seguirlo, come uno sherpa metafisico, nelle sue impervie escursioni nel campo di un inconscio, secondo la fortunata formula di Colette Soler, completamente reinventato. Di lì in poi infatti tutti i tentativi di tradurre logicamente i processi psichici e di fondare, in ottemperanza al mandato strutturalista, una scienza il più esatta possibile della psiche umana saranno drammaticamente destinati ad un fallimento speculativo a dir poco delizioso, e ad una disfatta (filosofica in senso lato) tanto inesorabile quanto sublime. Inesorabile, in quanto si rivelerà inattuabile rendere conto di quegli eventi imperscrutabili che sono i desideri ed i godimenti umani in assenza di un saldo fondamento ontologico (e Heidegger, com’è noto, di fondamenti ontologici non ne offre…), e sublime in quanto proprio il tracciato, la mappa di queste stesse sconfitte della ragione andranno a delineare il profilo, la sagoma del sapere psicanalitico – un sapere per definizione zoppicante, incompleto ed imperniato sull’impossibile…Ma di lì in poi, allo stesso tempo, tra desiderio e godimento andrà a scavarsi una voragine che porrà questi due poli della soggettività in un’opposizione sempre più radicale tra di loro.
Sono queste, anche se davvero in breve, le ragioni che decretano la necessità di elaborare il concetto di fantasma ovvero di ciò che funziona come uno schermo che si frappone tra il soggetto e la realtà che questi vive.E Lacan, in questo seminario, tratta di questo fantasma e della logica che lo governa alla stregua di una matrice algoritmica (di cui la sezione aurea, alla quale vengono dedicate pagine e pagine tra le più confusive, non è che una metafora dal forte valore evocativo) che organizza, scandendolo in partizioni ben definite e non ulteriormente scomponibili, il rapporto del soggetto con i suoi oggetti secondo modalità che sono indipendenti, e in un certo senso anteriori, sia al desiderio che al godimento. Per questo Il mathema del fantasma è formulato così: $◊a, e rappresenta graficamente il rapporto (simbolizzato dalla losanga: ◊) del soggetto ($) con la panoplia di oggetti piccoli a dai quali trae come per luce riflessa quel che si potrebbe intendere, anche se non senza qualche riserva, come la sua vera e propria sostanza. Ma se gli oggetti piccoli a sono oggetti di cui il soggetto può godere, o che il soggetto può desiderare, quel che è più importante è che il soggetto non abbia la benché minima idea – come i protagonisti di The Others e Il sesto senso – dei meccanismi che presiedono al rapporto che questi intrattiene con loro. D’altronde i fantasmi, come dice Cole a Malcolm, “vedono solo quello che vogliono vedere”, ma non sanno davvero cosa vogliono, altrimenti non esisterebbe l’analisi…
Sullo sfondo di tutto ciò, e per meglio capire quel che c’è in ballo in questo seminario, vale la pena ricordare quello che è il grande tema che accompagna ogni dibattito filosofico di quegli anni, il problema attorno al quale si avvolgono come in una matassa tutti i fili che intessono la trama della temperie culturale parigina degli anni sessanta e settanta: la destituzione del cogito cartesiano. Lacan ritrova infatti proprio nella psicanalisi, e in quegli stessi anni, un punto di vista elettivo per operare lo smantellamento del cogito ovvero del soggetto moderno, il soggetto della scienza al quale siamo tutti innegabilmente debitori ma che troppo presto, e incautamente, trae la sua folle conclusione: ergo sum. Certo, questo è il soggetto al quale si deve tanto lo sviluppo del sapere scientifico quanto l’avanzamento tecnologico che hanno innalzato l’uomo da uno stato di quasi totale servaggio nei confronti della natura, e di insicura e frugale sussistenza, ad una condizione di dominio della stessa che non trova pari nel mondo animale. Ma la storia del novecento, con le sue trincee e le sue fabbriche di morte, aveva reso ormai palpabile già nel secondo dopoguerra come questo dominio, ed il mito del progresso che alimenta, non fossero altro che il volto imbellettato della più turpe violenza dell’uomo cogitante contro la natura e contro sé stesso. All’impostura del cogito, negli anni in cui Lacan tiene il suo seminario, è imputata allora l’accusa di essere il dispositivo mitopoietico che nel promettere all’uomo il suo essere più autentico non gli riconsegna altro, oltre che al suo ben-essere materiale, se non la smorfia feroce della sua bestialità. Non a caso si profila proprio in quegli anni (siamo in piena Nietzsche reinassance, tant’è che a Nietzsche, in Francia, ogni filosofo che voglia dirsi tale dedica almeno un libro: Foucault, Deleuze, Klossowski, Bataille, per citarne solo alcuni…) l’idea che la storia dell’umanità, la genealogia delle sue morali ed il cammino verso le progressive e magnifiche sorti della stessa sia una storia raccontata solo a metà, una narrazione filtrata dagli interessi di chi, ancora, “vede solo quello che vuole vedere”, ovvero di chi nel celebrare la ragione e nell’esercitare la disciplina si dimentica della follia e trae un piacere perverso dall’infliggere macabre punizioni (si pensi, ovviamente, ancora a Michel Foucault). Una storia, quella del destino di un continente intero e delle sue propaggini che vanno ben al di là dei suoi confini geografici, che è una storia di progresso materiale e civile vero, innegabile, ma sulla quale grava da sempre una fatale e silenziosa rimozione che ha, in gergo psicanalitico, il sapore di un rifiuto (ververfung) senza tempo. Il disagio della civiltà, il nichilismo quale approdo ultimo della cultura europea e la ridda di nevrosi che recinge la vita civile si rivelano essere allora le spie, le timide avvisaglie di una più grande rivelazione ontologica che la finzione del cogito cartesiano aveva impedito di giungere alla luce, e che in quegli stessi anni assurge a tema portante l’intera riflessione filosofica in Europa. Anche Lacan, dal canto suo, partecipa a quest’avventura intellettuale che mira a dissodare il fondo inumano ed impersonale[4] della soggettività e lo fa, da psicoanalista, percorrendo la via dell’inconscio. Restando in ascolto dell’inconscio dei suoi analizzanti sdraiati sul lettino in 5, Rue de Lille, Lacan riesuma così a suo modo, dal suo millenario oblio, la questione che si pone al di là del cogito e che ci ingiunge di ripensare l’uomo, la sua surreale sostanza, la sua posizione nel mondo, il suo rapporto con la storia (sia collettiva che singolare) e la sua pensabilità, la questione – per essere più precisi – dell’Essere.
“L’essere dell’uomo”, dice Lacan in una lezione di questo quattordicesimo seminario – del quale si rischia di non capire nulla se prima non si è inquadrata, da un’angolazione grandangolare, l’altissima posta in gioco filosofica – “ha un nome” e “per scoprire questo nome, e quello che designa, basta uscire di casa un giorno, in campagna, per fare una passeggiata. Attraversando la strada si incontra un camping, e tutt’attorno al camping, a demarcarlo con un cerchio di scorie incontrerete quell’essere verworfen (rigettato, ndr) dell’uomo che riappare nel reale. Si chiama detrito”[5].
Ora: se la funzione del fantasma consiste precisamente, come abbiamo già detto, nell’ottundere il rapporto percettivo e fenomenologico del soggetto con il mondo affinché esso giunga all’essere dimidiato (scisso tra un versante conscio ed uno inconscio, come ben raffigurato dal suo mathema: $), ovvero al prezzo di vedere solo quello che vuole vedere, va da sé che l’essere dell’uomo in quanto detrito è ciò cheviene rigettato nell’inconscio perchéè esattamente quello che il soggetto non vuole vedere. Ed è proprio qui che risiede il nucleo, il cuore pulsante di tutta la disamina del fantasma e della sua logica condotta da Lacan nel seminario in questione.
Certo, non si faticherà a riconoscere come tutto questo ci riporti per l’ennesima volta a Freud, come tutto questo non consista in altro se non nel ritornareda una parte alla negazione freudiana[6] (vero e proprio punto archimedeo dello psichismo) e, dall’altra, a quel celebre breve articolo apparso nel 1917 in Imago[7], in cui il padre della psicanalisi sostiene che il progressivo sviluppo della conoscenza, in occidente, abbia avuto come sua diretta conseguenza l’umiliazione narcisistica dell’uomo (in quanto le tre ferite narcisistiche infertegli prima da Copernico, poi da Darwin e infine da Freud stesso lo hanno costretto a ridimensionare la sua supposta centralità nel cosmo, costringendolo a vedere proprio quello che non voleva vedere)…Ma che cos’è, in fondo, tutta l’opera di Lacan se non un perpetuo ritorno a Freud?
Lungi dal profilarsi come una mera riproposizione o rimasticatura dei temi freudiani, quel che compie Lacan nel suo percorso intellettuale, ed in modo eminente ne La logica del fanatasma, è una sorta di traduzione, di aggiornamento o di rivitalizzazione del testo originario. In questo seminario si rileva infatti, e con grande brio intellettuale, la mutua embricazione di psicanalisi e filosofia, si pongono l’ontologia e la questione dell’Essere al cuore della psiche umana e si cala il dibattito sulla soggettività, della sua emergenza e del suo sviluppo, entro precise coordinate storiche. Ne emerge così l’idea assolutamente originale (e destinata a sedurre generazioni di studiosi) per cui l’intreccio tra il pensiero, l’essere e l’inconscio sia governato da una ferrea logica, da una specifica ontologia che si sostiene sull’esclusione, sul rigetto della componente più scabrosa e ripugnante del soggetto stesso. E che questi, rampollo dell’epoca moderna ed imbevuto di umanesimo e civiltà, si rifiuti di accogliere proprio la verità metafisica che gli si impone, che gli si rivela in quanto egli vive in un’epoca segnata dalla predominanza di quello che Lacan chiama il discorso della scienza. Un discorso, quello del materialismo e del riduzionismo assurti a uniche fonti di verità, che ordina a chiunque giovi degli innegabili frutti prodotti dal progresso tecnico-scientifico di accettare, a mo’ di scotto, il proprio essere essenzialmente e senza riserve lo scarto, l’inutile avanzo di processi impersonali ed anonimi che, a guardarli bene, fanno convergere su di un orizzonte assolutamente insignificante tanto il destino del soggetto quanto quello del mondo intero. “L’orrore della relazione con la dimensione dell’inconscio”, dice Lacan a tal proposito, “è tale che […] tutto è permesso all’inconscio…tranne articolare dunque io sono”[8].
E così, forte della lezione heideggeriana sull’esito nichilistico della storia occidentale ed in aperta polemica con il concetto marxista di alienazione (“È chiaro che l’alienazione nel senso marxista non ha nulla a nulla in comune con ciò che, per essere precisi, non è altro che confusione”)[9], con la fenomenologia (abbagliata dal miraggio della Selbstbewusstein, l’autocoscienza) e con la filosofia esistenzialista di Sartre (al quale, avendo affermato in una celebre pièce teatrale che “l’inferno sono gli altri”, risponde con un sonoro: “Se l’inferno è da qualche parte, si trova in Io”[10]) Lacan si impegna a fornire qui gli strumenti concettuali utili a mostrare le dinamiche sottese alla quotidiana impostura che chiamiamo la nostra identità, ai raggiri che architettiamo per assicurarci le nostre (in)soddisfazioni e, in breve, ai fantasmi che ci burattinano. Gli stessi fantasmi, cioè, che occultano il segreto più inaccettabile, più osceno e scabroso della psicanalisi: la struttura sadica e masochistica che giace al fondo dell’animo umano[11] e che condanna ognuno di noi alla ricerca, spasmodica e vana, di soddisfazioni artificiali e sintetiche. Ed è proprio in questo corso, infatti, che Lacan porrà le fondamenta concettuali per la sua originalissima e pirotecnica critica alla società dei consumi, quell’assemblaggio frankensteiniano di Hegel, Freud e Marx che giunge a maturazione nei seminari degli anni successivi, in concomitanza con l’esplosione a Parigi della grande contestazione e quasi come in risposta agli attacchi mossi al suo indirizzo da Deleuze e Guattari nell’Antiedipo.
Per concludere queste brevi riflessioni che, lungi dal voler sintetizzare il contenuto de La logica del fantasma, si limitano a richiamarne alcuni snodi concettuali decisivi, vale la pena menzionare un paio di ragioni per cui crediamo che questo seminario, cronologicamente a dir poco datato, abbia ancora molto da dire e offra più di uno spunto utile per comprendere il presente in cui viviamo. Al lettore attento, infatti, non sfuggirà come due temi di stringente attualità, due veri e propri fantasmi del mondo contemporaneo, compaiano fugacemente, come lampi, in queste lezioni tenute nell’anno accademico 1966 – 1967 e ripubblicate oggi, a distanza di più di cinquant’anni. L’impressione a dir poco perturbante che accompagna la lettura di questi passi è quella di un Lacan redivivo che torna, come uno spettro, dal regno dei morti per indicarci l'assurdità e l’apparente infondatezza di due delle illusioni che infestano il mondo contemporaneo. Ci riferiamo alla negazione del dimorfismo sessuale, così come questa viene propugnata in alcuni circoli (sedicenti) intellettuali, e all’illusione che soggiace al culto tecnopagano dell’Intelligenza Artificiale.
Se nel primo caso è vero che il tema dell’orientamento sessuale e dell’identificazione con uno dei due sessi (“gender”, in quegli anni, non era una parola in uso) verrà sviluppato più a fondo nei seminari degli anni seguenti e che manchi, ne La logica del fantasma, un vero approfondimento in merito, è comunque interessante notare come Lacan si riferisca in una lezione di questo quattordicesimo seminario al dimorfismo sessuale come all’“idea infernale di Dio”[12]. E se è interessante notarlo è proprio perché oggi, a mezzo secolo di distanza, la negazione del dimorfismo sessuale avallata dai gender studies tradisce un evidente orrore, per riprendere le stesse parole di Lacan citate più sopra, della relazione con la dimensione dell’inconscio. Disconoscere la realtà della differenza sessuale in tutta la sua inemendabile ed inaggirabile evidenza, infatti, non può essere che una questione relativa alle fantasie, alle fantasticherie e ai fantasmi che circolano in certi ambenti accademici. Ambienti in cui la mera constatazione di un fatto elementare come la differenza biologica tra maschi e femmine viene sovrainvestita di significati politici ed è intesa, in sé, come qualcosa di inammissibile – di infernale, per l’appunto. Sarebbe interessante indagare il perché di questo rigetto, di questo palese ed irrazionale rifiuto (ververfung) del corpo, inteso nella sua più viva carnalità, come oggetto piccolo (a). Qui però ci limitiamo a sottolineare l'allarmante similitudine tra i personaggi interpretati da Nicole Kidman e Bruce Willis nei due film che abbiamo citato, i quali si rifiutano di accettare l’idea di essere morti, e chi nel nome di un’identità di genere (per altro in alcun modo oggettivabile…) si rifiuta di essere sessuato. Non c’è forse parallelismo più calzante che possa esemplificare, e nel modo più paradigmatico, quel che in psicanalisi si intende per fantasma.
Per quanto riguarda l’Intelligenza Artificiale, invece, in una delle prime lezioni Lacan riporta al suo uditorio le impressioni suscitategli dalla lettura di un articolo in cui veniva descritto uno dei primi, rudimentali chatbot. Il programma, prodotto dall’IBM, si chiamava Eliza ed è curioso notare come Lacan si riferisca, più che al meccanismo di questo dispositivo che ricombina dei significanti in un modo che ricorda vagamente il funzionamento dell’apparato psichico, all’effetto suggestionante prodotto dall’interazione con questa applicazione come ad una sorta di transfert. “Il punto”, dice Lacan, “non è che una macchina sia capace di dare risposte articolate semplicemente quando le si parla” perché quel che c’è di davvero interessante, nell’uso di questi marchingegni, è “che si rivela essere un gioco […] che mette in questione ciò che, per il fatto di ottenere tali risposte, può prodursi in chi parla alla macchina”[13]. In poche battute il lungimirante psichiatra parigino presagiva così quella che sarebbe stata, e solo in anni recenti, una vera e propria sbornia collettiva davvero poco giustificata sul piano razionale ma molto comprensibile se teniamo conto del fatto che i fantasmi, ancora, “vedono solo quello che vogliono vedere”. Per quanto sia dilettevole (e possa risultare in qualche occasione anche utile, è innegabile) interagire con dei motori di ricerca molto più avanzati di Google e dotati della capacità di rispondere in prima persona all’interlocutore, infatti, è necessario ammettere senza riserve che le aspettative affidate allo sviluppo dell’Intelligenza Artificiale sono quantomeno malriposte. Il disorientamento che coglie chi crede davvero di avere a che fare con forme di coscienza artificiali, ad esempio, e che ha ingenerato ingiustificati timori dal retrogusto distopico-fantascientifico[14], non tiene conto del fatto che queste tecnologie che simulano la condotta di entità coscienti non sono in verità altro che simulacri, fantocci. Nessun rischio e nessuna reale minaccia esistenziale proviene davvero da questi programmi – i quali, per parte loro, non sono dotati di nessun tipo di intenzionalità e si limitano a riprodurre associazioni tra simboli che, se risultano funzionali, è solo perché sono state decretate statisticamente rilevanti dai loro programmatori…Se esiste un vero pericolo, insomma, e se c’è qualcosa che merita non senza ragione le nostre preoccupazioni apocalittiche, questo non è di certo l'immaginaria vendetta delle macchine divenute come per magia senzienti, ma è proprio la struttura primitiva e fondamentalmente superstiziosa della soggettività umana. A costituire oggi una reale minaccia esistenziale per la nostra specie, infatti, è soprattutto la nostra naturale proclività a credere nelle illusioni, alle chimere, e a proiettare sugli oggetti il contenuto rimosso della nostra volontà per celare la reale indifferenza del mondo nei nostri confronti…in altre parole: l’architetturafantasmatica dell’animo umano. La stessa che Lacan coglie sapientemente, in questo seminario, nei termini di un groviglio inestricabile tra pensiero, essere e inconscio.
Questo intreccio, questo imbroglio che avviluppa da una parte la storia della cultura umana e dall’altra l’evoluzione biologica (benché quest’ultima resti confinata al di fuori del discorso lacaniano, in quanto di psicologia evolutiva si comincerà a parlare solo negli anni settanta) alligna nelle profondità oscure del processo adattativo che ha condotto all’emergenza della psiche così come noi oggi la conosciamo. Gettare lo sguardo in questo abisso senza fondo di processi adattativi randomici, di gelidi meccanismi impersonali che hanno plasmato tanto il corpo quanto la mente dell’uomo nell’indifferenza più totale della natura e nel silenzio più agghiacciante dell’universo, infatti, è qualcosa che val bene un rigetto (ververfung) in quanto lì lumeggia un orrore dal quale siamo portati comprensibilmente, come i protagonisti di The others e Il sesto senso, a volgerci altrove. Ma di fronte a questo spettacolo raccapricciante ed insopportabile, letteralmente insimbolizzabile – ovvero l’orrore del Reale, a paragone del quale anche il film horror più spaventoso rischia di sembrare una barzelletta… – le scelte, sembra dirci Lacan, sono solo due: guardare dall’altra parte, e scegliere di continuare a vedere solo quello che vogliamo vedere, o fissare lo sguardo proprio su ciò che non vogliamo vedere. Il rapporto del soggetto con l’inconscio, ed il nostro destino di soggetti, dipende da questa decisione tra l’illusione e l’orrore. “L'inconscio” infatti, come ebbe a dire Lacan, “così fragile sul piano ontico, è etico...e comunque sia bisogna andarci dentro”[15].
Filippo Zambonini
Bibliografia:
Benvenuto S., La psicanalisi e il reale.“La negazione” di Freud, Orthotes, Napoli, 2015
Lacan J., Il seminario VII. L'etica della psicanalisi (1959 – 1960), Einaudi, Torino 2008
Lacan J., Il seminario VI. Il desiderio e la sua interpretazione (1958 – 1950), Einaudi, Torino 2015
Lacan, J. (2003). Seminario XI: I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi. Einaudi, Torino
[5] J.Lacan, Il seminario XIV. La logica del fantasma (1966 – 1967), op. cit., p. 103
[6] Ci permettiamo a tal proposito di segnalare l’imprescindibile S. Benvenuto, La psicanalisi e il reale.“La negazione” di Freud, Orthotes, Napoli, 2015
[7] S. Freud, Una difficoltà della psicoanalisi, in “Opere”, Bollati Boringhieri, Torino, 1976, vol. 8, pp. 657-644.
[8] J. Lacan, Il Seminario XIV. La logica del fantasma. 1966 – 1967 , Einaudi, Torino 2024, p. 88
[11] La struttura sadica e masochistica del soggetto lacaniano, sia detto per inciso e con una punta di ironia, è forse da leggersi come un pleonasmo e non risparmia in fondo davvero nessuno (anche se, ironia a parte, la vera lezione della psicanalisi consiste proprio nel porre in altissima considerazione il conflitto del soggetto contro sé stesso, colto in tutta la sua brutale gratuità, ed è precisamente in questo punto che converge tutta l’analisi dell’alienazione condotta ne La logica del fantasma). Basti pensare, a tal riguardo, che lo stesso redattore dei seminari di Lacan, il genero e testamentario Jacques Alain Miller, sta centellinando da anni e a dir poco sadicamente la pubblicazione di un’opera che a detta sua è già stata completamente stilata (tant’è che, com’è noto, se ne può trovare anche una versione completa in francese, benché a cura di un altro allievo di Lacan, su questo sito: http://staferla.free.fr), e mai come in questo seminario si rivela avaro di riferimenti e di dettagli la cui assenza rende ancor più ostica, se possibile, la lettura del testo. Nella prima parte, ad esempio, mancano due indicazioni bibliografiche che sono imprescindibili per capire quel che si intende in questo seminario per logica. A pagina 44 dell’edizione Einaudi la relazione di Miller di cui si parla è "La Sutura" (pubblicata in italiano in Cahiers pour l'analyse. Scritti scelti di analisi e teoria della scienza. Bollati Boringhieri, 1977), mentre a pagina 67 l'articolo che cita Lacan è "Le sens du mot « structure » en mathématiques", di Marc Barbut (reperibile solo in francese in Les temps modernes, n°246, nov. 1966). L’intervento di Roman Jakobson del primo febbraio 1967, invece, non è stato proprio trascritto, né vi sono riferimenti che permettano di rintracciarlo.
“L’uno non è nato ieri, ma è nato a proposito di due cose completamente differenti, a proposito di un certo uso degli strumenti di misura e, contemporaneamente, a proposito di qualcosa che non c’entrava niente, ossia la funzione dell’individuo.” J. Lacan,“Leggere… o peggio." Il Seminario XIX, 1971 – 1972”, Einaudi, Torino, 2020, p. 154 "Leggere… o peggio."
Con la pubblicazione di Leggere…o peggio. Il Seminario XIX di Jacques Lacan, volume collettaneo curato magistralmente dal giovane filosofo Marco Ferrari, la casa editrice Galaad prosegue nell'impresa di scolastica e certosina delucidazione dei seminari tenuti dal poliedrico psicanalista francese per più di vent’anni a Parigi, dal 1953 fino a poco prima della sua morte. In questi seminari, trascritti dall’allievo-testamentario-genero Jacques Alain Miller, sono infatti condensati ancor meglio che negli Scritti [1] tanto il sapere quanto il metodo che definiscono la pratica psicoanalitica ad orientamento lacaniano e la loro frequentazione permette di osservarne direttamente, come in un cantiere, il work in progress teoretico. Ma, com’è noto, leggere Lacan e accompagnare in itinere lo sviluppo delle sue folgoranti intuizioni, il suo perdersi nei vicoli ciechi della ragione ed il suo riemergere infine vittorioso dai flutti di quel fiume acheronte che già per Freud era da considerarsi metafora eminente dell’inconscio non è cosa facile, anzi. E così, assieme al precedente volume curato da Chiara Massari e dedicato al seminario XVI [2], questo pregiato testo della collana chiamata per l’appunto “Leggere Lacan” può ben fungere da bussola, o da mappa, per chi voglia provare ad orientarsi nella fase più complessa ed oscura, la più tarda dal punto di visto cronologico, del suo insegnamento.
L’enigmatico titolo del seminario XIX, “…o peggio”(in francese: …ou pire), con quei tre puntini di sospensione seguiti da un’apparentemente ingiustificata formula peggiorativa, lascia infatti già presagire quelle che saranno le continue allusioni, le ambiguità e le aporie che accompagnano, sincopandone il passo, gli inciampi dialettici, le contorsioni logiche e le funamboliche misture di biologia, linguistica e filosofia di cui questo seminario, tra i più difficili, è letteralmente infarcito. E così, per consentire un accesso facilitato ai molteplici temi lì trattati (il rapporto della psicanalisi con la sessualità, della sessualità con la metafisica, l’inesistenza del rapporto sessuale e la logica dei processi inconsci…per citarne solo alcuni), il curatore Marco Ferrari ha deciso di chiamare a raccolta uno stuolo di filosofi e psicanalisti che si sono occupati, ognuno singolarmente o in coppia, di una o al massimo due lezioni del seminario in questione. Il risultato è un concerto ermeneutico polifonico che non esaurisce, non congela il testo di Lacan in una serie di interpretazioni definitive e statiche, ma anzi amplifica il contenuto già di per sé ricchissimo di “…o peggio” nella misura in cui, per l’appunto, ne offre diversi scorci, diversi punti di vista anche tra loro contradditori.
Il primo intervento è firmato da Silvia Lippi, psicanalista bolognese che esercita a Parigi, e offre una rilettura queer della psicanalisi freudiana e lacaniana che pone un particolare accento sulle identità trans. L’autrice muove dall’assunto per cui “secondo Lacan ci sono e ci saranno sempre due sessi” [3], ma visto che “come sostiene giustamente Judith Butler, è il discorso che determina la differenza sessuale” [4] allora si deve ammettere, anzitutto, che “pensare che un uomo debba avere il pene e la donna una vagina è una convenzione sociale e come tutte le norme non ha valore universale” [5] e, in secondo luogo, che la psicanalisi debba essere mondata dalle sue tare fallogocentriche. Il testo, che si propone di interpretare le prime due lezioni di “…o peggio” in cui viene sviscerato il tema del fallo (simbolizzato da Lacan con il simbolo phi: Φ) e degli effetti che questi ha sulla logica soggettiva (un tema a dir poco centrale per la disciplina psicanalitica) potrebbe fungere benissimo da manifesto per una psicanalisi queer all’italiana [6] e non mancherà certamente di entusiasmare chi è impegnato nella battaglia per la liberazione del desiderio – sia anche nelle già liberalissime, lussuriose e ultrapermissive società occidentali. Certo, il rischio di queste letture inclusive e queer che sembrano riscuotere oggi molto successorisiede paradossalmente nel fatto che sottoscrivere le posizioni di Butler, e confondere il sesso con il genere, può portare ad abbandonare una forma di (supposto) riduzionismo biologista in favore di un’altra (questa volta senz'altro riduzionista…): quella del costruttivismo sociale radicale. Sacrificare una visione in cui biologia e cultura concorrono, anche se in modo giocoforza asimmetrico, a definire l’identità di soggetti liberi di autodeterminarsi entro i confini dettati, oltre che dalla cultura, anche dalla fisicità e dalla materialità del corpo in favore di una concezione marcatamente costruttivista (secondo cui il sesso altro non è che un indice, un’etichetta assegnata dal biopotere medicale da intendersi sempre, comunque ed inesorabilmente in termini oppressivi) come quella promossa da Judith Butler potrebbe, infatti, rivelarsi un operazione che non solo non aiuta nessuna minoranza ad emanciparsi ma, anzi, corre il rischio di minare la credibilità di queste stesse battaglie…come si suol dire: dalla padella alla brace. Senza contare, poi, che non è Lacan a credere che i sessi siano due: quanti e quali sarebbero precisamente gli altri sessi e quale branca della scienza dovrebbe supportare quest’idea? [7] Leggere… o peggio.
Nel secondo capitolo il filosofo Felice Cimatti azzarda un felice parallelismo tra godimento femminile e postumano. Seguendo il solco tracciato da Lacan e senza cercare di forzarne o di travisarne il testo, l’autore cerca di sbrogliare il nodo che lega come in un unico groviglio il godimento di La Donna, la castrazione ed il celebre tema metafisico dell’Uno, che Lacan riprende storpiandolo nella formula Yadl’un (C’è dell’uno):
“Quindi il Yadl’un è la condizione, affatto singolare, in cui si viene a trovare un essere umano che sia passato attraverso l’universalità della castrazione senza esserne completamente schiacciato. Ma siccome per Lacan è umano solo chi è individuato da Φx, allora il “c’è dell’uno” si colloca in qualche modo al di là dell’umano”
Cimatti mostra chiaramente come per Lacan sia La Donna la figura che incarna al meglio lo statuto singolare ed irriducibile che contraddistingue quegli individui che hanno assunto una postura esistenziale tale da permettere un superamento della castrazione (anch’essa simbolizzata nell’algebra lacaniana dal simbolo Φ), ovvero gli individui che nelle intenzioni degli psicanalisti hanno conquistato questa posizione perché hanno portato a termine un’analisi. Ciò a cui agogna l’analizzante, infatti, per gli psicanalisti lacaniani non è tanto il raggiungimento di una non meglio specificata sanità mentale o, peggio ancora, il ritorno ad una mitologica e stereotipica “normalita” ma, all’opposto, la possibilità di “superare il linguaggio […] rimanendo però nel linguaggio” [8], ovvero la chance di bypassare “la logica della definizione e quindi dell’imposizione” [9] che costituisce, fuori di metafora, il vero senso della castrazione. Se “la posizione femminile sfugge alla condanna di tutti i viventi che si trovano invece intrappolati nel desiderio dell’Altro” [10], allora, è proprio perché lungi dal profilarsi come un riduzionista fallogocentrico, Lacan concepisce la femminilità come ciò che incarna uno stile (che nel seminario dedicato al godimento femminile, Ancora [11], troverà il suo riferimento illustre nell’esperienza mistica di Santa Teresa, di Ildegarda di Bingen o di San Tommaso, che donna di certo non era…) tipico di chi riesce ad assumere su di sé la strutturale incompletezza ontologica della realtà senza per questo farsi annichilire da essa [12]. Che le donne si trovino facilitate, rispetto agli uomini, in questo gioco in cui in ballo vi è niente poco di meno che la soggettivazione è un fatto che Lacan da per scontato al punto da orientare tutta la sua tecnica analitica nel verso di uno spossessamento, di un abbandono che ricordano dappresso una sorta di femminilizzazione del soggetto. Tant’è che come osserva puntualmente Cimatti da quella tecnica postumana che è l’analisi ci si aspettano risultati postumani nella misura in cui ciò che si paventa è una trasformazione corporea che però, quasi magicamente, non ricorre a nessun tipo di intervento chirurgico:
“Il corpo che esce dall’analisi è allora un corpo che ha assunto la posizione femminile (questo vuol dire che può assumere questa posizione anche un uomo e che non è affatto detto che tutte le donne siano capaci di assumerla). La posizione femminile è quella di un corpo capace di un godimento non fallico, ossia fuori castrazione, e quindi anche fuori dal controllo dell’Io” [13]
In ballo, in un’analisi, c’è infatti proprio la possibilità di andare a maneggiare l’articolazione logica della soggettività dell’analizzante ovvero la struttura psichica che altro non è se non quel che per millenni è stato chiamato “l’anima” – ed il cui sapore metafisico è ripreso da Lacan proprio mediante la formula “C’è dell’uno” che ritorna, lungo tutto l’arco del seminario “…o peggio”, con l’insistenza di una goccia cinese. Ma l’inesausta ripetizione di questo adagio, come a voler motteggiare la millenaria riflessione filosofica sull’Uno (quell’ἕν – hen – che da Parmenide a Schelling, passando per Plotino e Spinoza, allude alla possibilità di conchiudere la totalità dei fenomeni in un’unità concettuale che sintetizza l’infinito ed il finito nell’apprensione metafisica dell’Assoluto), fa da contrappunto ad un altro mantra del lacanismo ortodosso, il ben più celebre “non esiste rapporto sessuale” (il n’y a pas de rapport sexuel) e si pone rispetto a questo come una sorta di integrazione o, meglio, di polo dialettico capace di generare una tensione concettuale decisamente prolifica. Come mostrano bene l’intervento in tandem di Pierpaolo Cesaroni e Mavie Loda ed il seguente, quello della psicanalista Stefania Napolitano, infatti, il fatto che Lacan tra gli anni sessanta e settanta si sia dedicato ad una rilettura della tradizione logica e metafisica occidentale è da intendersi come il mastodontico tentativo di rifondare le premesse teoriche della psicanalisi sulle impasse, sulle aporie e sui fallimenti che hanno punteggiato la storia della filosofia e che sembrano riproporsi, come in controluce, nel vissuto degli analizzanti. L’interesse per i quantificatori aristotelici, per la logica formale e per la riflessione metafisica sull’essenza che negli anni di “… o peggio” acquistano via via sempre più centralità, e che soggiace alle formalizzazioni matematiche della vita psichica come i quattro discorsi o la tavola della sessuazione, indica per l’appunto un luogo di pulsazione centrale nell’economia dell’insegnamento lacaniano, il luogo dell’intersezione, dell’incrocio tra la filosofia e la psicanalisi. E “C’è dell’uno”, la formula ottenuta dalla copula del verbo essere con il sostantivo che allude ad una mitica unità tra l’uomo e il mondo, di questa intersezione è un po' il condensato, il significante che indicherebbe – come già ricordato nell’esergo di questa recensione – il rapporto tra “un certo uso degli strumenti di misura” così come questi vengono codificati nella storia della cultura occidentale “e […] qualcosa che non c’entrava niente, ossia la funzione dell’individuo”. E così dalle parole proferite dai pazienti sul lettino degli psicanalisti, in breve, trasparirebbero come su scala ridotta, sul piano soggettivo e singolare, le stesse aporie e lo stesso smarrimento che per millenni hanno animato quell’avventura del pensiero che passa sotto il nome di filosofia, gli stessi crucci metafisici, le stesse tensioni verso un Assoluto tanto irraggiungibile (con il quale non esiste il rapporto) quanto allettante e che la psicanalisi ha interpretato come il fantasma, la copertura immaginaria e simbolica della piena soddisfazione libidica. Quando Cesaroni e Loda scrivono, ad esempio, che:
“…fin dall’inizio del suo insegnamento, Lacan insiste sull’errore di considerare la comunicazione come un passaggio lineare di messaggi. “Non è questo” non si trova tra domanda e offerta, consiste nella loro distanza, non loro non essere uguali né corrispondenti” [14]
quello a cui i riferiscono è allora l’interdipendenza, la reciprocità intrinseca tanto del fatto che “non c’è rapporto sessuale” quanto del fatto che “c’è dell’uno”: l’assenza dell’uno implica la presenza dell’altro ed il continuo fallire la ricerca di una risposta definitiva sul piano filosofico e di una soddisfazione completa su quello psicologico è proprio ciò che anima, sia dal punto di vista della storia collettiva (o storia della filosofia) che di quella soggettiva, l’infinito articolarsi della catena significante, lo scorrimento metonimico del desiderio e quindi il ritorno inevitabile, benchè parziale, della jouissance...Come a dire che il fallimento connaturato ad ogni forma di comunicazione (quel che potremmo intendere come il pane della psicanalisi, ma anche come il presupposto ultimo della millenaria ruminazione che passa sotto il nome di filosofia) reca con sé le tracce, le impronte e gli indizi che permettono agli analisti di raccapezzarsi nella loro pratica: orientarsi attorno ad un punto di impossibilità (“Non c’è rapporto sessuale”) ed interpretare le modalità attraverso cui la soddisfazione così inizialmente impedita ritorna in modalità surrogate e parziali (“C’è dell’uno”) sarebbero così gli estremi, i veri e propri Scilla e Cariddi per la direzione della cura nella clinica psicanalitica.
Certo, una volta appurato tutto questo rimane inevasa la questione del perché alla donna, o al femminile piuttosto che al maschile, sia riservato un accesso privilegiato a quel che Lacan definisce godimento mistico, così affine e simile al godimento dell’Uno che c’è, e che è l’unica alternativa all’inesistenza del rapporto sessuale. Ad occuparsi di questo annoso problema è Federico Leoni in un testo molto ispirato in cui dimostra, attraverso un sapiente uso della metafora, come la postura del femminile per Lacan si ponga al di là della logica fallica ossia al di là delle contrapposizioni dialettiche che istituiscono ogni tipo di macchinazione e di manipolazione razionali del mondo, essendo queste pratiche invischiate nell’oscillazione dialettica del significato, dei suoi limiti e della sua assenza (ragion per cui sia il fallo che la castrazione sono simbolizzati, come abbiamo già ricordato, dal significante Φ). La Donna starebbe allora nell’economia generale della psicanalisi lacaniana come il supporto stesso, la condizione di possibilità stessa della ragione che svanisce e diviene inaccessibile ogni qual volta la ragione stessa viene applicata:
“..la questione del femminile è appunto la questione del supporto, o se preferiamo, la questione del supporto è la questione del femminile. In questo caso, il non-rapporto non si impone come un abisso che separa il maschile dal femminile intesi come una mela e una pesca, si impone semmai come un abisso che separa la mela e la pesca dal cesto in cui stanno, o dallo scaffale su cui sono appoggiate”
Com’è noto, infatti, sin dall’articolo “La significanza del fallo” [15] per Lacan il Φ è il significante che conferisce significato ad ogni altro significante, e porsi al di là della castrazione (che del significato ne indica per l’appunto il limite) non significa necessariamente ricadere in un mondo privo di senso ma, piuttosto, raggiungere una postura soggettiva collocata al di là della sua sfibrante ricerca, dell’inseguimento del significato come problema maniacale e assillante – un al di là che ne costituisce paradossalmente la premessa, la condizione di possibilità. Quando Lacan parla di La Donna parla infatti proprio di questo: di un’attitudine soggettiva che sappia sottrarsi alla caccia ossessiva e maniacale dell’Assoluto, di un’inclinazione teorica e metafisica priva della smania di quell’Uno che ha tenuto occupati per millenni i filosofi e in nome del quale sono state riempite (da uomini, non a caso…) intere biblioteche di trattati e manuali: come se si trattasse di un esercizio o di uno stile, per l’appunto, teso a sovvertire e a mettere a soqquadro il mondo così come questo è stato pensato per millenni nei termini squisitamente utilitaristici e strumentali dagli uomini. Quale colpo di scena, allora, e soprattutto per chi taccia Lacan di fallogocentrismo, ritrovare nel femminile (e segnatamente nelle figure che meglio ne esemplificano l’orientamento mistico come le già citate Ildegarda di Bingen o Santa Teresa, figure da sempre marginalizzate quando non addirittura escluse nella storia della filosofia…) un modello o un paradigma innovativo per intendere la filosofia stessa?
In continuità con questi temi e sempre a proposito dell’annosa questione del rapporto tra psicanalisi, mistica e filosofia ritorna anche lo psicanalista Ettore Perrella nel suo intervento che mette a fuoco l’interesse nutrito da Lacan per la dimensione sapienziale tipica delle forme più antiche di conoscenza:
“Lacan aveva fatto di tutto per aprire l’esoterismo della saggezza a un insegnamento che, pur non volendosi universitario, aveva finito per rivolgersi a centinaia di persone. […] E il più grande tentativo di Lacan di aprire alla scienza l’esoterismo delle scuole di saggezza fu, proprio negli anni in cui teneva il seminario …o peggio, la proposta della passe” [16]
La femminilizzazione come esito di una psicanalisi, la mistica e lo stile esistenziale de La Donna allora non sono che esempi paradigmatici che illustrano, ognuno a modo loro e ognuno con sfumature diverse, quel che Lacan intendeva come obiettivo o fine della pratica analitica: sono figure o concetti che recano con sé una forma di incompletezza ontologica radicale rispetto alla quale si rende necessario quel che la passe dovrebbe riuscire a ratificare, ovvero l’avvento di una “posizione etica individuale coerente con le esigenze pratiche della formazione” [17]. Detto altrimenti: per evitare la riduzione accademica e burocratica della psicanalisi e per scongiurare quel che sarebbe poi avvenuto comunque, nonostante tutto (ovvero la rimasticatura libresca e nozionistica della sua opera) Lacan avrebbe tratto dalle antiche scuole sapienziali oltre che l’afflato metafisico che traspira dalla sua originale reinterpretazione dell’Uno anche la passione – assolutamente incompatibile con qualsiasi etica utilitaristica disponibile nelle società capitaliste – per l’ingaggio morale, per la scelta individuale e per la centralità dell’esperienza etica. Ed è qui che, finalmente, le opache e cerebrali elucubrazioni di Lacan sull’Uno condotte nel seminario “…o peggio” acquistano il loro proprio vigore e si rivelano in tutta la loro ammaliante, stringente attualità.
Il godimento che vi è in ballo quando si evoca il “C’è dell’uno” lacaniano, infatti, è quel tipo di godimento incontrollato e coatto che si qualifica come ripetizione involontaria e che, nella reiterazione dello stesso, esibisce come in controluce la struttura del soggetto che vi si trova implicato e che così vi si scopre, per l’appunto, fatalmente assoggettato. Miller ne sottolinea esemplarmente il carattere coercitivo quando ricorda che, nell’ultima fase del suo insegnamento, Lacan passa da una concezione di ciò che anima gli individui che all’inizio è intesa alla stregua di “un’insondabile decisione dell’essere” ma poi, dopo la svolta di cui “…o peggio” testimonia gli avanzamenti critici, è descritta come un “insondabile decisione dell’Altro” [18], ovvero come effetto forzoso e incontrollato dell’ordine simbolico, come una successione di significanti che si ripetono automaticamente e che quasi meccanicamente fanno godere il corpo. È quel “godimento assoluto, quello prodotto dall’incidenza del significante sul corpo, che fa del corpo un corpo (di) godimento, cioè un corpo fissato in un’alterazione di sé, in uno sfasamento di sé” [19] di cui parlano il curatore del volume, Marco Ferrari, e l’analista Alex Pagliardini nel loro intervento in coppia che chiude il volume – e che in un certo senso condensa i risultati dei loro due ricchissimi interventi individuali tesi ad offrire una lettura davvero rischiaratrice dell’algebra lacaniana.
Come porci, quindi, di fronte a questo strapotere dell’automatismo simbolico e come reagire d’innanzi a questa tanto scabrosa quanto fondamentale caratteristica della psiche umana scrutata da Lacan negli anni settanta, quasi a preconizzare l’avvento della nostra odierna società turboconsumista? Come opporsi a questo godimento uniano, a questo godimento autistico che, anche grazie alla diffusione di dispositivi che letteralmente incollano lo sguardo di ogni-uno alla parata infinta del significante, ha assunto oggi una portata tale da risultare difficilmente circoscrivibile in quanto interessa fenomeni tutt’affatto eterogenei (dal doom scrolling alle più gregarie manifestazioni di piazza condotte nel nome di ideali posticci, passando per gli hikikomori e per la riduzione del discorso politico a mera passerella identitaria), come a voler sancire la diffusione ormai capillare di soggettività richiuse su sé stesse, che hanno come loro unico orizzonte l’Altro della ripetizione significante? Posto che non esistono, al di là dei richiami populisti che provengono sia da destra che da sinistra, risposte univoche a queste domande e una volta appurato con sconforto lo stato in cui riversa la realtà sociale, può essere utile anche solo – ma forse è già molto… – ritornare umilmente a frequentare i classici, a Freud, ritornare a Lacan. E ritornare a leggere Lacan non tanto con l’intento di elaborare nuove teorie o di rinnovare nominalmente, formalmente, la psicanalisi o la filosofia ma per assumere su di sé, singolarmente ed in modo giocoforza unico, quello stesso godimento dell’Uno per rivoltarlo contro sé stesso attraverso “un’operazione che riporta l’insopportabile al suo posto” [20]. Solo così è possibile rendere urgente, inaggirabile e inderogabile l’azione, la decisione insondabile che arricchisce il reale scabro e desertico con qualcosa di inedito, di singolare. È questo infatti il limite critico della scienza, incapace com’è di valicare i suoi scopi descrittivi, che la mistica ed il femminile secondo Lacan dovrebbero riuscire a scardinare ed è questa, in breve, la grande lezione etica della psicanalisi:
“Forse solo una considerazione epistemologica della scienza, se riuscisse ad allargarne il concetto fino ad includervi anche la psicanalisi, e quindi l’etica, potrebbe rendere il contributo di Freud e di Lacan centrale non solo nella storia della psicanalisi, ma in una teoria della formazione” [21]. "Leggere… o peggio."
Filippo Zambonini
Note:
[1] Lacan, Scritti, 2 Voll, Einaudi, Torino, 1974
[2] Chiara Massari, “Leggere…Da un Altro all’altro. Il Seminario XVI di Jacques Lacan”, Galaad Edizioni, 2021
[3] Marco Ferrari, “Leggere…o peggio. Il Seminario XIX di Jacques Lacan”, Galaad Edizioni, 2023, p. 55
[4] Ivi., p. 53
[5] Ivi., p. 54
[6] Il riferimento qui è a Fabrice Bourlez, Queer Psicanalisi. Clinica minore e decostruzione del genere, Mimesis, Milano – Udine, 2022
[8] Marco Ferrari, “Leggere…o peggio. Il Seminario XIX di Jacques Lacan”, op.cit., p. 74
[9] Ibidem.
[10] Ivi, 75
[11] Jacques Lacan, Il Seminario XX. Ancora, Einaudi, Torino, 2011
[12] Lacan scrive La Donna barrandone l’articolo proprio in modo da ricordare lo statuto di negatività radicale che Heidegger attribuisce all’Esserci (Dasein) alla fine di “Essere e Tempo”, dove per indicare che “l’Essere” (Sein) dell’Esserci non è esso stesso un Essere – e quindi irriducibile a qualsivoglia ontologia – si ricorre all’espediente tipografico “Essere” (Sein).
[13] Ivi, 76
[14] P. 97
[15] Lacan, J, La significazione del fallo: Die Bedeutung des Phallus, in Scritti, op. cit.
[16] Pp. 194 - 195
[17] P. 200
[18] Jacques Alain Miller, Cause et consentement, corso inedito del 1997 – 1998, lezione del 2 Dicembre 1987
[19] P. 211
[20] P. 244
[21] P. 204
Bibliografia:
Fabrice Bourlez, Queer Psicanalisi. Clinica minore e decostruzione del genere, Mimesis, Milano – Udine, 2022
“E’ una bella buffoneria, il parlare: con esso l’uomo danza su tutte le cose.
Come è gradevole ogni discorso e ogni bugia di suoni!
Con i suoni il nostro amore danza su arcobaleni multicolori”
F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra
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Nel 1973 un giovane psicologo allora poco più che ventenne convinse altre sette persone mentalmente sane a farsi internare assieme a lui in dodici ospedali psichiatrici americani, omogeneamente distribuiti tra la East e la West Coast, per condurre un esperimento scientifico.
Gli pseudomalati si presentarono presso questi centri specialistici esponendo una problematica specifica: sentivano delle voci proferire affermazioni confuse, oscure e dalle quali era possibile distinguere solo parole come “Empty” (Vuoto), “Thud” (rumore sordo) e “Hollow” (cavo), lamentando inoltre un senso di insoddisfazione generalizzato: come l’impressione di vivere per l’appunto una vita “vuota e priva di significato”.
Sette su otto pazienti vennero internati con una diagnosi di schizofrenia e furono poi dimessi, da una settimana fino a due mesi dopo, una volta accertata la “remissione” della loro fantomatica crisi psicotica.
Ironia della sorte, solo alcuni tra i pazienti psichiatrici ricoverati in questi ospedali si accorsero che in effetti c’era qualcosa che non quadrava, ovvero che questi sedicenti malati mentali non avevano nulla a che spartire con gli altri (quelli veri…), mentre i dottori si limitarono a giustificare i tempi record in cui erano state guarite queste psicosi immaginarie evocando il potere taumaturgico degli psicofarmaci somministrati.
Come se già questi risultati sperimentali, letteralmente raccolti sul campo, non bastassero da soli a insinuare qualche dubbio relativamente all’affidabilità dell’impianto nosografico e dottrinario di quella branca della medicina che passa sotto il nome di “psichiatria”, il noto esperimento – il Rosenham experiment, che prende il nome dallo psicologo David Rosenham, l’ideatore ed il primo sperimentatore di questa entusiasmante beffa epistemologica… – continuò anche dopo che tutti i sedicenti malati mentali furono dimessi dai reparti in cui erano stati maldestramente ricoverati. Lo staff di questi sanatori, infatti, venne informato che nei tre mesi successivi alla dimissione degli pseudomalati (i quali, per parte loro, avevano già palesato la loro identità ed i loro intenti al personale sanitario) negli stessi ospedali sarebbero stati inviati altri individui mentalmente sani per continuare a mettere alla prova la plausibilità e la veridicità delle categorie diagnostiche allora in uso. In un ospedale lo staff tacciò addirittura quarantuno pazienti su centonovantratrè nuovi ricoverati di essere dei finti malati, dei simulatori sperimentali di psicosi, ma nessun individuo era stato in realtà inviato da Rosenham in quell’istituto – come d’altronde negli altri, che caddero però tutti nello stesso tranello…
Ora: se l’esperimento in questione da una parte prova a rispondere alla domanda “Se la sanità e la malattia mentale esistono, come facciamo a conoscerle?” (Rosenham 1973, 250), dall’altra – e forse proprio perché offre una risposta a dir poco perturbante a questo quesito… – fa piombare gli studiosi di psicologia, scienze sociali, medicina e filosofia in un vero e proprio paradosso istituzional-epistemologico.
La psichiatria infatti esiste, esiste il TSO (Trattamento Sanitario Obbligatorio) quale sua extrema ratio ed esistono le pratiche di contenzione farmacologica che in alcuni casi compromettono irreversibilmente il funzionamento psichico e sociale dei pazienti che le ricevono, ma non esiste nulla che assomigli, anche solo lontanamente, ad una definizione scientifica, irrefutabile e chiara, di cosa sia la malattia mentale, di quali siano i parametri oggettivi che la definiscono e le cause che la innescano. Mancano, in breve (oggi come all’epoca del Rosenheim experiment), i criteri tali per cui la malattia psichica possa essere istituita come categoria scientifica ontologicamente opposta, in modo definitivo e non ambiguo, a quella altrettanto problematica di “sanità mentale”.
Ebbene: lo strumento atto a risolvere (anche se solo a livello legale, istituzionale e squisitamente formale, come vedremo) questo paradosso ontologico - politico di per sé insolubile è il DSM (Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders 2014) ovvero il testo sacro della psichiatria occidentale, in costante aggiornamento ed ormai giunto alla sua quinta edizione, sul quale Sergio Benvenuto getta uno sguardo spietato ed ironico in una delle sue più recenti pubblicazioni: Lo psichiatra e il sesso. Una critica radicale del DSM – 5 (Mimesis, 2020).
L'indagine di Benvenuto (rinomato psicanalista e filosofo napoletano, allievo di Laplanche ed interprete sui generisdell’opera di Freud e Lacan) si distingue per originalità e audacia dalle innumerevoli, viete e monotone critiche al DSM di matrice antipsichiatrica. Il testo si propone per l’appunto di rilevare le criticità, le aporie e le contraddizioni che emergono da una lettura, certosina e attenta come solo l’ascolto psicoanalitico può permettere, della sezione dedicata ai disturbi sessuali. Certo, non manca un intero capitolo dedicato all’indagine della filosofia e dello spirito intellettuale che animano il monumentale progetto enciclopedico-nosografico del tanto celebre quanto bistrattato manuale diagnostico e ciò che lì traspare, in controluce, oltre all’assoluta infondatezza scientifica di quello che nel DSM-5 è affermato con inflessibile rigore, è anzitutto la torbida collusione ed il fatale intreccio tra le funzioni normative e descrittive, disciplinari ed analitiche che animano tale opera. L’autore sostiene infatti che «il DSM non è creatura della sperimentazione scientifica; è una costruzione essenzialmente etico-politica, addirittura un artefatto filosofico. Un costrutto “ideologico” direi, se io fossi marxista» (p. 53).
D’altronde anche solo per quanto riguarda la sfera dei disturbi sessuali – quella su cui si concentra la maggior parte del libro – l’autore evidenzia come lungi dal porre dei problemi relativi all’eziopatogenesi o al decorso clinico dei disturbi esaminati, e piuttosto di porsi questioni relative all’elaborazione teorica dei concetti che definiscono le patologie in questione, il DSM-5 aspiri anzitutto a perpetrare in ambito medico ed istituzionale una vera e propria finzione epistemico-ontologica. Il DSM-5, “l’artefatto filosofico” che Benvenuto nel suo libro smonta e demolisce pagina dopo pagina, non sarebbe nient’altro allora che lo strumento atto a sostenere e a diffondere il miraggio, l’illusione o la conciliante utopia secondo cui la sessualità potrebbe essere intesa come qualcosa di governabile, amministrabile e rendicontabile. E nel fare questo il manuale più utilizzato dagli psichiatri di tutto il mondo per produrre delle diagnosi psichiatriche sembrerebbe rispondere più a necessità di ordine igienico-sociale (come d’altronde già rilevato dallo stesso Foucault, e proprio a proposito della storia della psichiatria…) che ad esigenze di tipo scientifico o meramente medico-sanitario.
Il DSM viene infatti presentato dall’autore come un testo che, non misurandosi con i criteri di veridizione e validazione scientifici canonicamente intesi, si profila come il risultato di una calibrazione di varie correnti ideologiche e culturali presenti anzitutto nella psichiatria americana ed in secondo luogo nel cosiddetto “senso comune”. Basti pensare al caso esemplare dell’omosessualità: questa è stata depennata dalla ridda dei disturbi mentali elencati nel DSM solo nel 1974, durante la stesura della terza edizione e non a seguito di uno studio scientifico, statistico o quantitativo che ne stemperasse la supposta nocività ma letteralmente per alzata di mano…
In fondo è come se la metodologia che presiede alla definizione della malattia mentale e segnatamente dei disturbi sessuali, nel DSM, si limitasse a replicare passivamente l’andamento delle morali secolari, delle ideologie dominanti e del senso comune che si susseguono, di volta in volta e di epoca in epoca, come vere e proprie mode – così da offrirne una sorta di sanzione pseudoscientifica, una convalida istituzionale che ha lo scopo precipuo di assicurare stabilità (per quanto debole e basculante, in quanto teoricamente infondata…) all’assetto istituzionale e politico della psichiatria.
Quello che rimarca Benvenuto, allora, è che grazie ad una strategia che si basa su una sorta di formalizzazione grossolana ed approssimativa del senso comune dominante e collocandosi negli anfratti di quell’interdipendenza esiziale e per certi versi ineluttabile tra l’istituzione medica e quella giuridica, «la diagnostica psichiatrica – DSM-5 incluso – non è affatto oggettiva” ma “assorbe invece come una spugna visioni diffuse, mentalità, tropismi politico-filosofici alla moda, pregiudizi correnti, insomma, quelle che chiamerò Filosofie Popolari Dominanti, e dà a questo assorbimento una sorta di avvallo scientifico» (p. 31).
Esemplare, a tal proposito, è il caso del diverso trattamento riservato dai redattori del DSM-5 a quei due atteggiamenti che potremmo localizzare agli estremi della sessualità umana ovvero la castità e la promiscuità: quali sono i criteri che definiscono patologica l’assenza di eros e interessi sessuali (detta “anerosia”) tra i sedici ed i quarantaquattro anni (e perché non quattordici, quarantacinque o cinquanta?) e che permettono d’altra parte di soprassedere silenziosamente su di un’eventuale patologizzazione dell’ipersessualità, ovvero della dipendenza morbosa da rapporti sessuali con molti partner? La risposta dell’autore è netta ed ha un valore paradigmatico per quanto riguarda l’impianto pseudo-teorico e pseudo-scientifico del DSM:
«La ragione […] è etico-filosofica, non certo scientifica. Il punto è che oggi una certa promiscuità sessuale non solo è pienamente accettata, anche nelle donne, ma in molti casi è persino esaltata. Ammettere una categoria di sessuo-dipendenza potrebbe diventare una mina per un manuale diagnostico, in quanto potrebbe patologizzare chiunque sia un po' promiscuo. […] È la prevalenza di una filosofia popolare favorevole ad un’intensa attività sessuale, sia negli uomini che nelle donne, ad aver fatto scartare questo comportamento come disordinato» (p. 86).
Qualcuno volò sul nido del cuculo, 1975, diretto da Miloš Forman
Ora: è proprio nella misura in cui risulta logicamente e materialmente impossibile offrire un rendiconto sistematico, scientifico ed obiettivo di quei fenomeni cangianti e plastici che sono i costumi e le morali sessuali che i redattori dei vari DSM sono stati costretti ad adottare una metodologia non solo antiscientifica, ma anche assolutamente priva di qualsiasi riferimento critico all’epistemologia o alla filosofia della scienza. D’altronde ad essere recepita dagli autori del manuale diagnostico, secondo Benvenuto, non sarebbe nient’altro che la richiesta di senso avanzata dai più reconditi ed inconfessati anfratti della realtà sociale, e relativamente a questioni che potremmo benissimo derubricare – in un’ottica non ossessionata dalla medicalizzazione o dalla politicizzazione di ogni intimo recesso dell’esperienza umana… – come “esistenziali”, “ontologiche” o più semplicemente “metafisiche”. Tanto il concetto di sanità mentale quanto quello di una sessualità articolabile nei termini sanzionati e previsti dai linguaggi medico e giuridico solleverebbero per l’appunto interrogativi difficilmente liquidabili ricorrendo ad una terminologia e ad un metodo scientifici, con studi statistici o con generalizzazioni “da manuale” ad usum consumi di medici e giuristi. Là dove il DSM-5 e le edizioni che lo hanno preceduto falliscono, o quantomeno mostrano la corda, insomma, non è allora tanto nell’uso improprio di un impianto assolutamente privo di solide basi scientifiche ma è, al contrario, proprio nella pretesa (…delirante?) e nella perversa velleità di rendicontare e misurare, a fini tutto sommato disciplinari ed organizzativi, un fenomeno così proteiforme e variegato com’è quello della sessualità umana. Ma mai come in questo caso è proprio l’oggetto in sé (l’oggetto che in un linguaggio lacaniano ed heideggerianeggiante potremmo chiamare Das Ding…) che non si presta ad essere regolato, ordinato ed addomesticato da nessun discorso oggettivante e scientifico.
Come giustamente saprà Benvenuto, infatti, non v’è altra lezione che la psicoanalisi possa offrire per quanto concerne il rapporto del soggetto con il sesso e con il godimento ivi implicato se non questa: che “il sesso fa buco nel sapere” (per dirla con una celebre espressione di Lacan) e che il vuoto scavato da questa assenza deve essere assunto soggettivamente, secondo modalità sempre individuali e non generalizzabili. La sessualità umana costituisce infatti l’ostacolo, l’incaglio inaggirabile di ogni ontologia proprio perché quel che vi è in ballo, in questioni del genere, è davvero impermeabile ad ogni riduzionismo (manualistico, ideologico, politico) e refrattario ad ogni tipo di generalizzazione (enciclopedica, giuridica, ma anche identitaria…) in quanto radicalmente e fondamentalmente privo di senso[1]. Ed è qui che il libro di Benvenuto si presta ad una lettura inaspettatamente attuale e decisamente controcorrente.
Quando l’autore afferma che «i DSM non sono affatto liquidabili come aggeggi conservatori; al contrario, sono molto porosi a tutte le lobbies “identitarie” che oggi dilaniano l’America» (p. 86) sembra proprio che suggerisca un insolito parallelismo tra il programma diagnostico/disciplinare propalato dai redattori del DSM ed il programma emancipazionista che anima i vari movimenti identitari, come il movimento LGBTQIA+, che oggi imperversano ovunque nel mondo (o almeno in quello occidentale, democratico e liberale).
Per cogliere appieno il senso di questa sublime coincidentia oppositorum indicata quasi subliminalmente dall’autore basti pensare, ad esempio, che l’espansione costante a cui è sottoposta la sigla acrostica “LGBTQIA+” (e che varia a seconda di quanti genders o quante espressioni della sessualità umana vengano…come dire…scoperte? Ma poi: da chi?) sembra essere direttamente proporzionale all'aumento cui è sottoposto il tanto vituperato manuale psichiatrico (le pagine del DSM passano in sessant’anni, dalla prima alla quinta edizione, da 130 a 886 mentre le diagnosi psichiatriche quasi triplicano, aumentando da 106 a 297). In fondo è come se sia la sigla “LGBTQIA+” che il DSM fossero spronati da una sorta di forza motrice, invisibile e costante, che se da una parte concede a quelle minoranze che di volta in volta si scoprono tali il lusso di farsi rappresentare da una letterina maiuscola all’interno della sigla ufficiale della loro community dall’altra, al rovescio, produce una differenziazione ed una moltiplicazione incessante delle voci indicanti le patologie psichiatriche. Ad un prima occhiata è proprio come se vi fosse una sorta di paradossale comunione d’intenti (e che concerne la classificazione, la numerazione e la schedatura…) tra un programma politico liberatorio e la redazione di un manuale diagnostico…ma il punto, ovviamente, non è questo. Il punto è che entrambi i discorsi che stanno dietro a quegli “artefatti filosofici” che sono il movimento LGBTQIA+ da una parte e il DSM dall’altra (ovvero il discorso emancipatorio e quello disciplinare), proprio perché sono lungi dal porsi i problemi relativi all’elaborazione ontologica ed epistemologica delle loro premesse possono benissimo essere ascritti alla risma di quelle Filosofie Popolari Dominanti che per Benvenuto non fanno altro, come abbiamo già detto, che condensare il turbinio di “visioni diffuse, mentalità, tropismi politico-filosofici alla moda e pregiudizi correnti”. Ma non è tutto.
Il parallelismo tra DSM e movimento LGBTQIA+ può essere spinto ancora più in la, sino al cuore della questione che interessa le premesse ideologiche del DSM. Infatti è proprio il concetto che funge da pietra angolare ai gender studies, il concetto di “disforia di genere”, ad essere chiamato in causa da Benvenuto quale vera e propria “chiave di volta” dell’intera architettura pseudo-teorica del manuale diagnostico nella misura in cui, secondo l’autore, «per il DSM tutti i Disordini, tutto lo psicopatologico, sono disforie. Avrebbe potuto chiamarsi Diagnostic and Statistical Manual of Disphorias» (p. 98). Il termine in questione difatti non ha un preciso significato medico e non si riferisce a nulla che possa essere in un qualsiasi modo rilevato, verificato o testato ma, anzi, «connota qualcosa di squisitamente affettivo. Il termine greco δυσϕορία deriva da δυσ- (“cattivo”) e φέρω- (“porto”); letteralmente: “portare del cattivo”. Quindi, il termine ha una marcata connotazione emotiva, patetica. Si oppone a “euforia” e potremmo tradurlo con malessere» (p. 97).
È evidente, allora, come in un contesto in cui risulta impossibile separare e distinguere il normale dal patologico o il sano dal malato in modo netto, oggettivo e con l’obiettivo di produrre generalizzazioni profittevoli tanto sul piano nosografico quanto su quello politico-rappresentativo, il concetto di disforia possa funzionare come vero e proprio asso piglia tutto, come un jolly retorico. Tagliando corto su questioni di non poco conto come l’elaborazione di parametri atti ad individuarne la cogenza, o l’istituzione di soglie di tolleranza tali da rendere i disturbi psichici in questione più o meno gravi, il concetto di disforia funziona come passepartout retorico sia sul piano politico-identitario che su quello psichiatrico. D’altronde qual è il miglior discrimine per creare consenso attorno a ciò che non va, nella realtà sociale così come nella psiche individuale, che l’accorato appello ad una forma di inesprimibile, privato ed insondabile malessere?
Come abbiamo visto la critica radicale al DSM che Benvenuto propone nel suo acuto ed originalissimo libro è tesa a vagliare, ad indagare e a contestare la credibilità e la plausibilità della nosografia psichiatrica con gli strumenti offerti dalla psicanalisi e dalla filosofia. Per concludere si potrebbe però affermare, ed al netto di ogni ironia, che tanto i risultati del Rosenheim experiment condotto negli anni settanta quanto le riflessioni proposte più recentemente da Benvenuto confermano indirettamente quanto ebbe a dire Giacomo Contri, in una delle sue ultime interviste, a proposito della figura di Jacques Lacan: "Il manicomio di Lacan era il mondo!". Per quanto perturbante e scomodo possa sembrare, infatti, è necessario ammettere che il ricorso a quelle finzioni epistemico-ontologiche che sostengono l’infrastruttura istituzionale della psichiatria è reso necessario da un’urgenza antropologica specifica – magari inconscia, certo, ma comune ad ogni cultura... – che è quanto di più simile vi sia all’evitamento di un’incipiente psicosi. In ballo non c’è niente di meno che l’ineludibile esigenza di istituire un ordine simbolico, l’inaggirabile bisogno di demarcare dei significati, di perimetrare la comunicazione e di istituire quei confini soggettivi ed intersoggettivi senza i quali l’esperienza (ogni tipo di esperienza) è destinata ad inabissarsi nel fondo indistinto e magmatico del non-differenziato. In un simile contesto, quello che connota la condizione umana come sulla soglia del costante crollo psicotico, è chiaro come le categorie di sanità e di malattia mentale (così come quelle di uomo e di donna, verrebbe da dire…) rivestano un ruolo cruciale, fondamentale e cardinale nell’economia della verità, ovvero all’interno di quella pratica specificamente umana che consiste nel riempire di senso quelle pure entità differenziali che sono i significanti. Ma è altrettanto chiaro, soprattutto dal punto di vista psicanalitico, come sia impossibile produrre generalizzazioni, definizioni e categorizzazioni definitive, immutabili e dalla valenza universale – e questo è tanto più vero quanto più la discussione verte su tematiche quali la salute mentale, l’erotismo e la liceità dei costumi sessuali…
Il bisogno di quelle finzioni epistemico-ontologiche di cui parla Benvenuto, insomma, è un bisogno inaggirabile e propriamente umano al quale il Manuale Diagnostico e Statistico delle malattie mentali cerca di rispondere con tutti i limiti del caso ed in modo parziale, certo, ma obbedendo a criteri minimali di efficacia non solo burocratico-istituzionale. Il DSM assolve ad una funzione stabilizzante sul piano simbolico anche a livello, giocoforza, comunicativo ed esistenziale. Per quanto possa risultare difficile o quasi impossibile da riconoscere per gli studiosi di scienze sociali, per gli attivisti e per i filosofi – soprattutto per quelli che non riescono a muoversi al di fuori del recinto della critica, forse un po' dogmatica, al potere costituito… –, in fondo, forse è opportuno ammetterlo e accettarlo senza riserve: l’uomo si nutre di finzioni funzionali, di compromessi simbolici e di definizioni approssimative per evitare di rimettere costantemente in discussione le basi della comunicazione, le premesse del proprio agire e, in ultimo, per non impazzire…
Per tutto il resto ci sono la filosofia e la psicanalisi (e una menzione speciale, qui, spetta ai preziosi libri di Benvenuto). D’altro canto è stato proprio Freud – reclutato suo malgrado tra le file dei filosofi, o quantomeno assurto a punto di riferimento cardine per un certo modo di intendere la filosofia… – a tributare accanto all’ineluttabilità della finzione che ci tiene in ostaggio la necessità di rielaborare, di ripensare e di re-inventare nuovi confini, nuove regole del gioco simbolico individuale e collettivo – egli per primo, infatti, «ha considerato che non c’è nulla se non il sogno, e che tutto il mondo (se ci è concesso usare quest’espressione), tutto il mondo è folle, cioè delirante» (Lacan 1979, 278).
di Filippo Zambonini
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Bibliografia
Benvenuto S. (2021). Il teatro di Oklahoma. Miti e illusioni della filosofia politica contemporanea, Castelvecchi, Roma 2021.
Benvenuto S. (2021). Lo psichiatra e il sesso. Una critica radicale del DSM – 5, Mimesis , Milano – Udine.
Clemente L. F. (2018). Jacques Lacan e il buco del sapere. Psicoanalisi, scienza, ermeneutica, Orthotes, Nepoli – Salerno.
_ (2014). Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali, Quinta edizione, DSM-5. Raffaello Cortina Editore, Milano.
Recensione a bell hooks, Elogio al margine. Scrivere al buio, a cura di Maria Nadotti, TAMU, Napoli 2020, pp. 258.
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Un corpo unico fatto di margine e centro
Per molto tempo, il pensieroè stato orfano di madri. In balia di padri autoritari, molte figlie hanno imparato a costruire concetti mettendo da parte il proprio particolare sentire. Nel far ciò hanno aspirato, più o meno consapevolmente, a una falsa uguaglianza, che altro non era che un’omologazione del femminile al maschile. È necessario, pertanto, «pensare attraverso le madri» (Woolf 2013, p. 67) oltre che attraverso i padri. Tale bisogno è stato intercettato ed espresso da Gloria Jean Watkins, che, giovanissima, ha scelto di lasciare impressa la firma di bell hooks sui propri scritti. Questo nome è infatti un richiamo alle due donne – la madre e la nonna – che più di ogni altro hanno saputo insegnarle il prezioso valore della resistenza, tema su cui si concentra il primo saggio di Elogio al margine. Scrivere al buio, a cura di Maria Nadotti, TAMU, Napoli 2020, pp. 258. In esso, la casa viene individuata come un sito di resistenza sorretto dalle donne, in cui imparare «a stare al mondo con dignità, con integrità» (p. 29) e, soprattutto, un luogo in cui imparare «ad avere fede» (ibidem). Pertanto, l’idea dell’interconnessione tra genere, classe e razza, che ha reso bell hooks un’«“intersezionalista” avant la lettre» (Bränström Öhman 2010, p. 285), emerge sin dalle prime pagine di questa raccolta di saggi, curata e tradotta da Maria Nadotti, pubblicata da Feltrinelli nel 1998 e riproposta ora – insieme a Scrivere al buio – da Tamu Edizioni. La scrittrice afroamericana sottolinea la rilevanza del ruolo delle donne nere, che si sono assunte il compito di «fare della casa una comunità di resistenza» (p. 31), necessaria per la formazione della solidarietà politica. Infatti, ultime tra gli ultimi, le donne nere hanno saputo trasmettere ai propri figli l’importanza di dare un valore alla propria vita, scegliendo quotidianamente di sacrificarsi per la famiglia. Pertanto, la graduale trasformazione del sovversivo focolare in un sito di dominio patriarcale, con la conseguente svalutazione dell’esperienza delle donne, avrebbe avuto, secondo hooks, un impatto negativo sulla lotta di liberazione dei neri.
Sesso e razza convergono in un punto: il corpo delle donne. Quest’ultimo è l’elemento che consente al dominatore di esercitare ed esibire il proprio potere: i «maschi dominati vengono deprivati del loro potere (vale a dire ridotti all’impotenza) ogni volta che le donne che essi avrebbero il diritto di possedere […] vengono fottute e sottomesse dal gruppo maschile dominante e vittorioso» (p. 43). Allo stesso tempo, il corpo delle bianche diviene l’oggetto del desiderio incontenibile e vendicativo del cosiddetto stupratore nero («una storia» che, oggi, viene spesso calcata da chi sostiene, più o meno esplicitamente, che certa gente è meglio non accoglierla).
bell hooks è stata una delle prime a cogliere che «razzismo e sessismo sono sistemi interconnessi che si rafforzano e si sostengono a vicenda» (p. 46). A ben vedere, infatti, maschi bianchi e neri, grazie al sessismo, identificano entrambi la libertà con la virilità. In una società sessista fondata sulla supremazia bianca, bisogna tuttavia riconoscere che il corpo delle donne bianche ha un valore superiore rispetto a quello delle donne di colore. Questi temi, ben sviscerati all’interno del secondo saggio, Riflessioni su razza e sesso, sono ripresi all’interno del quarto. Qui, vengono connessi alla questione dello sguardo oppositivo delle spettatrici nere, le invisibili, che sarebbero riuscite a «valutare criticamente il fatto che il cinema abbia costruito la femminilità bianca come oggetto dello sguardo fallocentrico e a scegliere di non identificarsi né con la vittima né con il persecutore» (p. 89). Il discorso sul cinema e sui limiti della critica cinematografica femminista, fondata su un’astorica struttura psicoanalitica, che privilegia la differenza sessuale senza considerare le politiche di razza e il razzismo (si veda Valdivia 2002, p. 439), rientra in un discorso più ampio sul valore dell’estetica. Tema questo che viene sviluppato nel terzo saggio, in cui l’estetica è innanzitutto inquadrata come «un modo di abitare lo spazio, una posizione particolare, un modo di guardare e trasformarsi» (pp. 58-59). Anche questa volta, hooks parte dalla propria esperienza, situando cioè il suo punto di vista e la sua pretesa di conoscenza. Con ciò conferma i propri scritti come «un corpo di lavoro», in cui «l’arazzo delle parole è davvero la vita in crescita e mutevole del testo» (Bränström Öhman 2010, p. 286).
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Foto di Giulia Castagliuolo
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L’ideologia suprematista bianca – ricorda bell hooks – non ammetteva che i neri avessero le capacità per misurarsi con l’arte. Per reazione, questi hanno enfatizzato l’importanza dell’arte e incentivato la produzione culturale, considerandole addirittura «il modo più efficace per opporsi» (p. 60). Tutto ciò ha condotto all’articolazione cosciente di un’estetica nera, messa a punto da critici e artisti afroamericani e rispondente all’esigenza di stabilire un nesso tra produzione artistica e politica rivoluzionaria. Tale tentativo è tuttavia sfociato in una sorta di “nazionalismo culturale”, che ha avuto l’effetto di ridurre «a zero quasi in tutti i campi, tranne che nella musica, la produzione artistica degli afroamericani» (p. 68). Il discorso sull’arte nera viene ulteriormente ampliato all’interno di Nerezza postmoderna, in cui è affrontata la questione del valore della critica all’essenzialismo per il riconoscimento delle molteplici esperienze da cui l’identità nera dipende. Inoltre, viene avanzata la proposta di concepire la cultura popolare come il vero luogo della lotta di resistenza per il futuro.
L’ultimo saggio, che dà il titolo all’intera raccolta, è il ponte attraverso cui siamo immessi nella seconda parte del volume, Scrivere al buio: l’intervista di Maria Nadotti a bell hooks. Il margine è il luogo da cui riflette la scrittrice afroamericana, uno «spazio di apertura radicale» dove «la profondità è assoluta», un luogo in cui si «è costantemente in pericolo» (pp. 126-127), perché favorisce prospettive diverse e in continuo cambiamento. Si tratta di uno spazio strategico «a cui restare attaccati e fedeli» (p. 128), che offre la possibilità di una prospettiva radicale e innovativa da cui guardare, creare e immaginare. È dal margine che bell hooks ci parla, e lo fa sempre in forma dialogica: l’indagine più strettamente teorica e la riflessione sull’esperienza personale sono tenute insieme, non aderendo perciò ai principi della cosiddetta prosa accademica convenzionale. Questo atteggiamento ha contribuito a farle assumere una posizione piuttosto ambivalente all’interno della teoria femminista contemporanea: malgrado il suo lavoro sia conosciuto e menzionato con rispetto a livello internazionale, è comunque considerato poco “teorico”, soprattutto se paragonato a quello di altre pensatrici femministe (Butler, Spivak, Haraway). Entriamo così in una questione che risulta ancora spinosa e che riguarda il femminismo, i suoi obiettivi e le sue articolazioni.
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Foto di Tamu Edizioni
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Fuori dal nostro studiolo comodo e confortante, attraversando le strade o sostando nelle piazze (virtuali e non), potremmo essere costretti a vivere le conseguenze pratiche delle opinioni di certe persone, che, alla parola femminismo, si raffigurano un fenomeno unitario, opposto al maschilismo. Esse immaginano le femministe come una cricca di fanatiche, le cui azioni esprimono la volontà di fare a meno degli uomini e di prendere il loro posto nel mondo. Eppure, il femminismo, con le sue “ondate” e le sue “correnti”, è tutt’altro che un fenomeno unitario (si veda Missana 2014 e Ghigi 2018). C’è però chi, come Julia Kristeva, sostiene che le varie correnti, ambendo a «realizzare su questa terra la teologia paradisiaca» (Kristeva 2018, p. 20), si sono irrigidite in un militantismo senza futuro, che ignora la singolarità dei soggetti e che avrebbe reso la lotta delle donne «più individuale e solitaria» (p. 176). Di conseguenza, spesso si crede di essere delle femministe per il semplice fatto che si lotti per la parità sul posto di lavoro, o in favore dell’aborto o contro le molestie sessuali. Ma basta davvero questo? Secondo hooks, il «vero femminismo» sta nella capacità di misurare noi stesse nel rapporto con gli altri; nella capacità di fare i conti con il sessismo che ci trasciniamo dentro, trasformando continuamente la nostra prospettiva sul mondo. Ponendo al centro l’interazione con gli altri, hooks promuove la validità dei gruppi di autocoscienza femminile, ed esprime la necessità di spazi – le cosiddette cliniche femministe – dove fare rete per individuare strategie concrete che, associate all’analisi della propria particolare situazione, portino a un cambiamento radicale.
Occorre contrastare il fatto che, oggi, con l’istituzionalizzazione del pensiero femminista nell’accademia, molte femministe abbiano «smesso di uscire di casa e di cercare altre donne che la pensino come loro, donne con cui parlare, con cui discutere per ore» (p. 184). Il conservatorismo a cui spinge l’accademia spegne – secondo hooks – la forza radicale e rivoluzionaria del pensiero femminista.
In un Paese come l’Italia, in cui il movimento politico delle donne sembra tanto debole quanto la voce degli women’s studies, potremmo fare davvero tesoro delle riflessioni di bell hooks per costruire nuove prospettive e nuovi errori.
di Giulia Castagliuolo
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Bibliografia
A. Bränström Öhman, bell hooks and the Sustainability of Style,“NORA – Nordic Journal of Feminist and Gender Research”,vol. 18, n. 4, 2010, pp. 284-289.
R. Ghigi, Ritorno al corpo: epistemologie femministe e realtà sociali, in S. Besoli e L. Caronia(a cura di), Il senso della realtà. L’orizzonte della fenomenologia nello studio del mondo sociale, Quodlibet, Macerata 2018.
E. Missana, Donne si diventa. Antologia del pensiero femminista, Feltrinelli, Milano 2014.
J. Kristeva, Simone de Beauvoir. La rivoluzione del femminile, Donzelli,Roma 2018.
V. Woolf, Una stanza tutta per sé, Newton Compton, Roma 2013.
A.N. Valdivia, bell hooks: Ethics From the Margins, “Qualitative Inquiry”, vol. 8, n. 4, 2002, pp. 429-447.
È ormai diventata constatazione banale che l’epoca moderna e contemporanea palesa un rinnovato interesse per le apocalissi culturali, anche se spesso è ravvisabile molta incertezza nel circoscrivere l'argomento in modo non arbitrario e nel precisare la qualità dell'interesse che vi si porta. Tale rinnovato interesse non è un fenomeno casuale, ma trae alimento in modo decisivo dal fatto che almeno una parte della cultura della società borghese si trova oggi variamente impegnata in una particolare modalità storica di apocalittica, cioè di perdita e di distruzione del mondo: una apocalittica che, come si è già accennato, si riflette nella vita culturale e nella disposizione degli animi e delle menti.
E. De Martino, Apocalissi culturali e psicopatologiche, in Nuovi Argomenti, 69-71 (1964), pp. 105-141
Nel corso di un convegno Antonino Ferro, allora presidente della Società Psicoanalitica Italiana, ironizzava sulla difficoltà della ricerca psicoanalitica italiana nel rendersi attuale. Nel novero dei riferimenti bibliografici della maggior parte degli articoli pubblicati nelle riviste nazionali, si contavano infatti per lo più riferimenti databili alla prima metà del Novecento. I testi freudiani, bioniani, kleiniani, winnicottiani riproposti in una borgesiana combinatoria infinita di ricorsività teorico-concettuali. Vizio di forma italiano o del settore?
Se ci spostiamo dalla penisola italiana alla regione francofona, è attorno a questo tema che comincia l’ultimo lavoro di Jean-Paul Matot dal titolo Le Soi Disséminé. Une perspective écosystemique et métapsychologique (L'harmattan, 2020) Il testo, denso e a tratti involuto, rappresenta un interessante inizio di confronto nel campo psicoanalitico rispetto all’attualità della psicoanalisi e del suo laboratorio concettuale. Che cos’è infatti la psicoanalisi nell’era dell’Antropocene? La dottrina dell’inconscio, che per anni ha arricchito il pensiero occidentale di nuove comprensioni sui modi di agire, pensare ed essere dell’uomo, è divenuta semplicemente anacronistica o è in grado di rinnovarsi all’altezza storica presente?
Scriveva De Martino che le apocalissi culturali sono “manifestazioni di vita culturale che coinvolgono, nell’ambito di una determinata cultura e di un particolare condizionamento storico, il tema della fine del mondo attuale” (De Martino 1964: 105-151). Di pari passo con l’acuirsi e il popolarizzarsi della crisi ecologica in corso, la maggior parte delle discipline “umanistiche” ha cominciato a rinnovare una certa sensibilità attorno al problema dell’“Antropocene”.
In psicoanalisi, differenti autori riflettono da qualche anno attorno al problema della crisi ecologica e ai suoi correlati sociali e clinici (L. Magnenat, A. Lombardozzi C. Schinaia, etc.). Questi lavori rappresentano il punto di avvio del libro di Matot, che, pur ponendosi in continuità con gli autori citati, si pone in discontinuità metodologica nell’organizzazione della sua ricerca. Secondo lo psicoanalista belga infatti, la maggior parte delle opere che si sono candidate fino ad ora a questo intervento, ha ragionato sulla crisi in corso con un classico modello oggettivante. Ovvero, ha fatto ricorso alla classica cassetta degli attrezzi psicoanalitica e ha stabilito, con la giusta flessibilità teorica, un riadattamento concettuale per la realtà presente. A tal proposito, questi psicoanalisti hanno proposto alcune categorie di lettura, come le melanconie ambientali in relazione all’iperoggetto ecosistemico o la nozione di proiezione di zone di disastro nella costruzione di sé rispetto ad un mondo in rovina, etc.. Tuttavia, obietta Matot, questi concetti, sebbene pertinenti, metterebbero poco in discussione i limiti stessi delle teorie psicoanalitiche. E qui il testo comincia ad entrare nel vivo.
Matot evita di entrare in polemica coi suoi colleghi e con agilità teorica porta l’attenzione a monte del problema. Lo sforzo collettivo della comunità psicoanalitica non dovrebbe consistere in un riadattamento posticcio dei propri capisaldi, ma dovrebbe tendere a ripensare i limiti che la disciplina mostra nella lettura del presente. Per addentrarsi in questa impresa teorica, lo psicoanalista belga raccoglie suggestioni teoriche di alcuni suoi contemporanei, primo fra tutti l’antropologo Philippe Descola. In risonanza con Par-delà nature et culture (2005) Matot prova a convincere il lettore che gran parte del fallimento psicoanalitico oggigiorno risiede nel lasciare impensata l’ontologia naturalista entro cui la disciplina è stata fondata. Detto altrimenti, anche la psicoanalisi, come qualsiasi disciplina sviluppatasi come eredità delle filosofie illuministiche, si fonderebbe sulla separazione soggetto/oggetto, producendo come unica autorappresentazione degli individui delle monadi autosufficienti e autoregolanti. Recuperando la lezione di Maturana, Varela, Bateson e dei pensatori della cibernetica, nonché proponendo alcune suggestive esemplificazioni tratte dalla medicina contemporanea [Ameisen, 1999], Matot insiste sulla necessità di ricalibrare la storica nozione psicoanalitica dell’Io secondo un modello di funzione in rapporto di co-dipendenza e co-evoluzione con il sistema-ambiente: di qui l’idea di un “Sé disseminato”. La proposta è quella di congedare il concetto di Io in favore di funzioni plurime di involucri psichici, in continuità teorica con psicoanalisti come Houzel e Berger. L’attenzione ai legami e alla co-dipendenza dei sistemi porta in luce l’importanza di uno psicoanalista francese come Kaës, il quale ha dedicato la maggior parte della sua produzione teorica allo sviluppo della cosiddetta “topica dell’intersoggettività” e della fondazione dello psichismo in una rete complessa di rapporti.
A. Giacometti, Cane
Il testo incede ritmicamente organizzando un’ampia mole di riferimenti filosofici (Simondon, Stiegler), antropologici (Bateson, Leroi-Gurhan) e psicoanalitici (Winnicott, Bion, Anzieu, Bick, Kaës, Bleger), proseguendo la riflessione a cavallo tra ecosistemi e psicoanalisi propria delle due opere precedenti dell’autore: L’enjeu adolescent (2012) e L’Homme décontenancé (2019).
La sostanziale revisione metapsicologica proposta, che consiste nel passaggio da una topica dell’Io intesa in una diade interno/esterno a un Sé Disseminato di involucri psichici, è una proposta di sintesi dei lavori dei grandi psicanalisti del Novecento in tema di topologia, come Winnicott e i suoi lavori sull’informe e la transizionalità, Bleger con i concetti di ambiguità e involucri, le topiche lacaniane dei nodi borromei e il concetto di Reale, nonché la nozione bioniana di O. Secondo Matot questa operazione risponderebbe addirittura maggiormente alle rappresentazioni che neuroscienze e biologia elaborano del rapporto tra coscienza e cervello in legame con gli altri organi corporei.
Il testo rappresenta senza dubbio una sfida provocatoria e affascinante, ossia un tentativo di portare il pensiero psicoanalitico all’altezza storica presente. Tuttavia chiudendo l’ultima pagina, pare legittimo chiedersi se ciò che si è letto rappresenti un grande esercizio di erudizione o indichi veramente delle piste di ricerca per l’episteme psicoanalitica.
Uno stimolo senza dubbio suggestivo offerto dalla topica del Sé disseminato e plurimo viene dall’invito a pensare lo psichismo non tanto come qualcosa che c’è, ma qualcosa che va prodotto e appropriato. In questo senso dice Matot, potremo guardare il rapido sviluppo della genomica, dell’intelligenza artificiale, lo sviluppo del digitale e le crisi ambientali come qualcosa che influenza e perturba il nostro psichismo e nei cui confronti dovremo costruire informazione, e legame. Muovendo così, dal disorientamento di “una certa sensibilità per la fine” verso la fine di una certa sensibilità.
Recensione a F. Lolli, Inattualità della psicoanalisi. L'analista e i nuovi domandanti (Poiesis Editrice, Bari 2019)
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Correva l’anno duemilatredici e la politica italiana attraversava una delicata fase di translatio imperii. Da una parte si assisteva al lento ma inesorabile sfacelo di quel mostro tentacolare, di quel partito-piovra-azienda che fu il Popolo della Libertà e, dall’altra, alla marea montante di nuovi (ancorché vecchi e pur sempre ideologicamente ritriti…) partiti populisti che sia da destra che da sinistra, sbracciando e sbraitando, miravano a conquistarsi frange sempre più consistenti di un elettorato quanto mai fiacco, stordito e disilluso. In un tale contesto - segnato tanto dal disorientamento ideologico quanto dall’altissimo tasso di dissonanza cognitiva che cominciava a serpeggiare nelle quotidianità anche più caserecce delle nuove società iperconnesse, smart e quasi completamente digitalizzate… - Massimo Recalcati, gettando uno sguardo retrospettivo sulla figura già in pieno declino di Silvio Berlusconi si esprimeva così:
«È questo eccesso pulsionale ciò che ha affascinato materialisticamente i suoi elettori. È il cardine di una nuova psicologia delle masse. Significa – e questo è ciò che ha dato al berlusconismo la sua forza specifica – affermare un desiderio privo di legge, dunque un desiderio che sconfina in un godimento illimitato che per la psicanalisi è il godimento incestuoso. Per questo l’appellativo ‘papi’ è rivelatore di una tendenza perversa intrinseca al berlusconismo come fenomeno culturale. Il padre non è più simbolo della Legge ma della sua continua trasgressione interna» (2013, p. 57).
L’agile libretto da cui è tratto questo passo, un’intervista in cui al più celebre tra gli psicanalisti lacaniani d’Italia l’editore-giornalista-scrittore Raimo chiedeva - non senza una certa qual dose di sacrale soggezione… - illuminanti e innovative analisi psicopolitiche del contemporaneo, si prospettava già dal titolo come un’operazione editoriale ben pesata, una vera e propria pubblicazione strategica: Patria senza Padri. Psicopatologia della politica italiana.
L’equazione Evaporazione del nome del padre = disagio della civiltà postmoderna alla quale il titolo alludeva, e alla quale ci siamo ormai abituati, ha funzionato infatti per anni come un mantra ed è stata riproposta dal suo gonfaloniere a più riprese e, senza grandi variazioni, nei contesti più disparati. Come i concetti di liquidità o di Nuovo Realismo proposti da Baumann e Ferraris, anche quello di Evaporazione-del-nome-del-Padre è stato al centro di un intenso dibattito (benché meno filosofico che giornalistico, più popolare che intellettualmente raffinato) che ha animato fiere del libro, salotti televisivi, festival della filosofia ed eventi culturali di ogni sorta. Al prezzo di ridurre la complessità intrinseca a materie quali la sociologia, la filosofia e la psicanalisi e correndo il rischio di lasciar scomparire l’identità stessa di queste discipline, il loro vero valore, dietro la bidimensionalità e la superficialità imposte dal “discorso pubblico” e dal senso comune, questi tre esempi ci illustrano chiaramente quali sono le difficoltà che incontrano la divulgazione e l’esportazione di modelli cognitivi “alti”, sofisticati o più semplicemente “tecnici”, in contesti in cui occorre (oltre che vendere più libri possibile…) accattivarsi l’interesse di un pubblico alla ricerca di facili e accomodanti risposte che sollevino da quell’oneroso e sfibrante compito che è il pensare, magari in modo critico, magari in modo autonomo.
Nell’equivalenza concettuale Evaporazione del nome del padre = disagio della civiltà postmoderna proposta da Recalcati, infatti, ciò che più colpisce è l’innegabile semplificazione alla quale è sottoposta la realtà (sia questa sociale, psichica, politica o storica), nonché la paradossale e quasi contradditoria via d’uscita politica che lo stesso Recalcati ha suggerito, per anni, quale soluzione allo stallo ingenerato dalla scomparsa della funzione simbolica incarnata dai padri, ovvero… il recupero della funzione simbolica incarnata dai padri. Come si legge nello stesso testo, infatti:
«Nell’epoca in cui il nome del padre evapora, affinché resti qualcosa del padre, affinché qualcosa del padre sopravviva, è necessario che ci sia una sua reincarnazione singolare. È solo questa incarnazione che può far esistere di nuovo il valore del nome. Questo per me è il passaggio centrale. E ha una forte risonanza politica. Per riabilitare la dimensione simbolica della politica, oggi completamente screditata, c’è bisogno di testimonianza. Il valore della politica non è più garantito ideologicamente dalla forza delle tradizioni, dalla autorevolezza simbolica dei partiti. Per riabilitare la politica non serve il nome ma l’atto. Come accade per il padre della Strada. Testimonianza di come un padre sperduto in un mondo senza Dio sia riuscito a sopravvivere e a non impazzire o suicidarsi. Questa testimonianza può essere la condizione attraverso cui rendere possibile l’evocazione del Nome del Padre. Non dall’alto, ma dal basso» (p. 113).
I brani sopracitati, lungi dal costituire un’estemporanea presa di posizione del loro autore, hanno assunto nel tempo un valore esemplare e a dir poco paradigmatico nella misura in cui riassumono, stilizzandola, quella che è stata la tendenza più in voga adottata, almeno in Italia, dalla letteratura critica di stampo psicanalitico nell’ultimo decennio.
Ora: è anche e soprattutto alla luce di ciò che è incorso all’interno di questo contesto, quello della letteratura psicoanalitica e filosofica mainstream, che una pubblicazione come Inattualità della psicanalisi. L’analista e i nuovi domandanti (Poiesis, Bari 2019, pp. 2014), l’ultima fatica editoriale di Franco Lolli, assume la sua peculiare pertinenza e acquista la sua giusta rilevanza. Ma dall’opera, che almeno nella sua prima sezione si prospetta come un vero e proprio tentativo di sottrarre al parallelismo Evaporazione del nome del padre = disagio della civiltà postmoderna il primato eziologico che vi attribuiscono molti psicanalisti contemporanei, traspaiono anche tanto l’esigenza quanto un intenso sforzo di revisione, di aggiornamento della pratica psicanalitica e di alcuni suoi presupposti dottrinali. Il libro consiste infatti nell’elaborazione di una questione assai complessa, che l’autore, forse, ricapitolerebbe così: «l’estensione dell’applicazione della psicanalisi e le mutazioni socioculturali intervenute negli ultimi decenni impongono una riconsiderazione profonda della tecnica che sia in grado di trattare domande diverse da quelle in risposta alle quali la psicoanalisi è nata» (p. 58). Seguendo la scansione tripartita del testo cecheremo di evidenziare sinteticamente sia le critiche al paradigma recalcatiano sia le istanze di stringente attualità (anche se paradossalmente inattuali…) sollevate da Lolli nel suo accattivante e assolutamente necessario nuovo libro.
Nella prima sezione l’autore, seguendo la ricerca di Zafiropoulos (2019), rileva l’influenza esercitata dalle letture di Bachofen, Durkheim e Horkheimer sul giovane Lacan. Questi, poco più che trentenne, azzardava con la formula “declino sociale dell’imago paterna” un’interessante diagnosi psicopolitica o psicosociale riguardante una mutazione antropologica che all’epoca, agli inizi del Novecento, giungeva a compimento ma che storicamente si innerva nei meandri della modernità. Con “declino sociale dell’imago paterna” Lacan indicava infatti quel precipitato di eventi di lunga durata come la rivoluzione industriale, la rivoluzione scientifica e il conseguente discredito subito dai monoteismi. La formula, quanto mai icastica, individuava una mutazione di non poco conto, quella tra famiglia patriarcale famiglia coniugale:
«Ad entrare in crisi è stata la declinazione storico-immaginaria della funzione paterna (l’organizzazione che le religioni monoteistiche hanno consolidato), non la funzione cosiddetta paterna in quanto tale, da considerarsi, al contrario, la condizione indispensabile al processo costitutivo del soggetto» (Lolli 2019, p. 16).
La presunta eclissi, il tramonto della funzione paterna (che produrrebbe da una parte un’ipertrofia di godimento, una circolazione incontrollata e diffusa di frivoli piaceri a buon mercato e, dall’altra, la scomparsa del desiderio e della progettualità quali possibilità di dare senso a un’esistenza altrimenti impantanata nelle paludi dell’edonismo) non è quindi una diagnosi completamente fuorviante. Vi è del vero, e al netto delle semplificazioni che una tale tesi è stata costretta a subire per poter circolare tra il grande pubblico. Occorre semmai, secondo Lolli, ridimensionare la portata e stemperare il lirismo che ammanta questa efficace formulazione del giovane Lacan.
Occorre, precisamente, distinguere tra quelle che sono le condizioni trascendentali del desiderio, di cui la funzione simbolica incarnata dall’ordinamento patriarcale non è che un esempio storicamente determinato, e le incarnazioni empiriche, appunto, di queste stesse condizioni. Sul primo versante il Lacan più maturo, che ha filtrato la lezione di Levi Strauss e di Saussure, individua la forza propria del significante, il potere generatore e antropopoietico del linguaggio mentre sull’altro polo, al contrario, localizza il ruolo simbolico occupato del genitore, dalla figura parentale materiale e contingente che si trova (molto spesso senza esserne addirittura consapevole…) a occupare lo spazio che è quello del garante formale dell’ordine simbolico. La paternità, dunque, non ha mai coinciso e non è mai stata sovrapposta, per Lacan, all’ordine simbolico (come sembrerebbe dire Recalcati) e i padri, lungi dal costituirsi come gli agenti diretti dello stesso, i suoi facenti funzione, non sono mai stati concepiti come nient’altro che dei presta nome.
Attraverso questo movimento di riconfigurazione e di chiarificazione della terminologia tecnica Lolli ci invita allora a valutare a pieno quella che è la portata della scoperta freudiana ovvero ci invita a rintracciare, al netto delle dinamiche storiche che determinano di volta in volta l’emergenza di nuove morfologie soggettive e identitarie, la dimensione strutturale che si muove carsicamente al di sotto della superficie dei fenomeni. Freud, infatti, ha scoperto che l’uomo, per far sussistere quel progetto millenario che va sotto il nome di “civiltà” (quella Kultur di cui la psicanalisi definisce il costo di produzione nei termini dell’Unbehagen, del disagio), ovvero al fine di porre in essere un ordine, un qualsivoglia assetto civile, ha bisogno di rinunciare al soddisfacimento pulsionale:
«La rinuncia pulsionale non è un’esperienza che l’umano possa evitare: essa è imposta dall’operatività del significante come dato ineluttabile dell’antropogenesi. Il soggetto si genera da tale originaria azione, inevitabile e indifferente ai contenuti socioculturali che il discorso vigente promuove. Il cambiamento delle ‘figure’ dell’Altro (cambiamento che in alcune epoche storiche si rende particolarmente evidente) non deve, in altre parole, indurre ingannevolmente a pensare che la sua funzione di regolazione del godimento possa essere cancellata» (p. 23).
La “rinuncia pulsionale” e la perdita di godimento (o più semplicemente tutto quello che passa sotto il nome di “castrazione”) sono allora la conditio sine qua non sia della civiltà che del suo disagio e indicano l’orizzonte concettuale di ogni analisi critica delle realtà sociali, politiche e soggettive che vogliano fondare i propri presupposti sulla psicanalisi freudiana. Le teorie dei “declinisti” (l’appellativo usato da Lolli per definire chi attribuisce al declino dell’immagine paterna la causazione del nuovo disagio psichico), per contro, sembrano focalizzare l’attenzione su di un aspetto marginale e più che altro formale della questione. Queste teorie, in altre parole, sembrano da una parte rimuovere la persistenza eterna, ubiquitaria, strutturale e per certi versi anch’essa inattuale del disagio, della sofferenza umana. Da un’altra parte, inoltre, le teorie decliniste paiono strumentalizzare questo stesso disagio in modo da far leva su di una tendenza che, nell’epoca del tramonto del simbolico e dell’estensione assoluta del dominio tecnologico sulla comunicazione, mira alla resurrezione di un discorso conservatore, revanscista e tradizionalista. E questo, ovviamente, al netto di quelle dinamiche storicamente determinate e variabili che regolano la patogenesi e le mutazioni morfologiche dei sintomi psichici, in ottemperanza alla distinzione sopracitata tra condizioni trascendentali del desiderio e incarnazioni empiriche di queste stesse condizioni. Su questo tema Lolli tornerà nella terza parte del libro.
Per ora ci basti notare che, una volta gettata luce sulle vicissitudini storico-filologiche del concetto di “declino sociale dell’imago paterna”, risulta più chiaro come la riproposizione post-moderna di questa categoria critico-diagnostica forgiata negli anni trenta del secolo scorso figuri più come una grossolana semplificazione che come una rivoluzionaria e geniale trovata sociopsicologica. Il mantra Evaporazione-del-nome-del-Padre=disagio della civiltà postmoderna, che è stato ripetuto fino allo sfinimento e che in un certo senso ha funzionato più come un martello che come una chiave di lettura filosofico-politica, avrà sicuramente facilitato l’individuazione di alcune tendenze insite alla realtà Italiana di inizio millennio e avrà favorito la comprensione (almeno quella cronachistica) di processi che sarebbero stati altrimenti difficilmente rendicontabili (non da ultimo i capricci di un anziano signore che si trovava a occupare, in quel momento, il ruolo di leader politico, di padre dell’orda…), ma non soddisfa di certo quei criteri che ne farebbero lo strumento-chiave per produrre una cosiddetta “diagnosi epocale”.
Nella seconda sezione (pp. 59-42) Lolli compie un’operazione di ricerca storico-filologica che non ha precedenti nella letteratura che riguarda Lacan. Grazie a un lento e faticoso lavoro archivistico di dissodamento e di certosina ricerca filologica qui Lolli ci consegna finalmente, per la prima volta, un elenco ragionato ed esaustivo di tutte le occorrenze incontrate dal termine “analista” lungo l’intero arco del Seminario. La ricerca merita un’attenzione particolare anche perché attinge, oltre che alle trascrizioni di Miller, ai seminari non pubblicati neanche in francese e reperibili solo on-line, seminari di cui esistono solo annotazioni dattiloscritte, appunti e registrazioni audio. Ogni occorrenza è opportunamente contestualizzata e analizzata e tutta questa seconda sezione va letta come un’esplorazione approfondita dell’intero spettro di significato che si dipana, per Lacan, attorno al significante “analista”.
Riproduco qui l’intero elenco degli epiteti reperiti da Lolli e che Lacan ha evocato per rendere conto della professione che ha praticato per tutta la vita, riservandomi di rimandare il lettore al ricco commento proposto in Inattualità della psicanalisi: analista feccia, Pantagruele, saint homme, fuoco fatuo, analista diviso, traumatico, posto vuoto, soggetto-supposto-sapere, dupe, ignorante, ingannatore, sarto, analista-taglio, sofista, specchio opaco, tecnico, facente funzione, analista-nel-gioco-significante, impostore, retore, ostetrico, ipnotizzato, analista-Verleugnung, analista dell’amore, Tiresia, analista-oggetto-a, sembiante, capro espiatorio, destituito, segretario, analista-nodo, analista ultimo-arrivato.
Ebbene, senza voler riassumere la varietà e l’eterogeneità di una figura proteiforme come quella dell’analista ci basti ricordare, qui, del grande insegnamento metafisico ed epistemologico che traspare dalla lezione di Lacan relativo allo statuto ontologico della sua “figura professionale”. Egli, infatti, con il suo fare da flâneur incallito, attraverso le sue pindariche digressioni e i suoi calembour, forte di un nozionismo sconfinato che elargisce al suo uditorio e ai suoi lettori come si trattasse di caramelle o di canditi e assolutamente preoccupato di farsi intendere (anche se, ça va sans dire, non da tutti…) fin nella più improbabile delle sue intuizioni, ha incarnato un modello certamente problematico e difficilmente replicabile di analista. Questo è fuor di dubbio. Sarebbe pura follia pretendere che tutti gli psicoanalisti si conformassero al suo stile anche perché, a dirla tutta, è uno stile un po' troppo ricercato, barocco, e alla lunga può risultare stucchevole. Altra cosa, però, è cercare di mimare con flemma professorale, moraleggiante e con toni decisamente paternalistici la postura cangiante e le movenze ardite di Lacan. Da parte sua, inoltre, questi non ha mai dato consigli su come vivere, non ha mai istruito le masse in merito a cosa sia più o meno giusto votare alle urne (non ha mai osato accusare gli avversari politici, per esempio, di esser nevrotici per il solo fatto di voler votare “No” a un referendum…) e le poche volte che si è presentato in televisione lo ha fatto per il gusto di non farsi capire…o meglio: per suscitare il gusto dell’incomprensibile. Imperniare l’esperienza analitica su quanto vi sia di indecifrabile, di muto, di inerte e di privo di senso: è questa semmai la più grande lezione che la filosofia e la cultura tout court possono trarre da quella pseudo-scienza, o da quella fanta-scienza, che è in realtà la psicanalisi. Il ruolo dello psicanalista di conseguenza non può che essere definito, diretto e limitato da questo paradossale interdetto. Come afferma Lolli, allora:
«Ogni sapere esibito dall’analista che intende spiegare la ‘sostanza’ delle cose umane diventa […] una farsa che magari, come capita di osservare frequentemente, riscontra favori e riscontri positivi (nell’immediatezza e nelle reazioni emotive che una sua presentazione charmant è in grado di generare) ma che, a lungo termine, non può che avere degli effetti di svalutazione della psicanalisi. Non solo: la riduzione della psicanalisi a ‘sapere dell’uomo’ ne decreta irreversibilmente la fine. Una disciplina che pensa di poter spiegare l’uomo infatti ha cessato di interrogarsi e dimostra, in questo modo, di essere giunta al capolinea della sua evoluzione (teorica e storica)» (p. 140).
Come a dire: dimenticarsi della lezione epistemologica di Lacan equivale automaticamente a esporsi all’accusa di voler occupare il posto del guru, del mâitre à penser (ovvero del maestro dietro la cui figura, spesso, si nasconde quella dell’ammaestratore) e, di conseguenza, di svilire la professione di psicanalista nella misura in cui si disattende ai suoi principi dottrinali.Un rischio, questo, che dovrebbe risuonare alle orecchie di quanti, all’interno della più che nutrita tribù dei filosofi e degli psicanalisti attualmente in auge, fanno leva sul proprio ascendente carismatico e sul fascinum intellettuale con il malcelato intento imbonirsi e infatuare intere platee, amalgami indistinti di telespettatori ed elettorato, in un gioco perverso di specchi, riflessi di fantasmi identitari e identificazioni paterne. Lacan (così come Heidegger, Freud e Sartre, per dirne alcuni…) ha esplicitato meglio di chiunque altro che non c’è nulla da dire, di sostanziale, in merito tutto ciò che l’uomo reputi essenziale per sé stesso, quindi: perché ergersi a maestri di verità e di vita se non per godere del godimento del mâitre?
Tali elucubrazioni trovano nella terza parte (pp. 143-190) del volume di Lolli un’ampia e originale elaborazione. L’ultima sezione, infatti, è dedicata all’annosa questione di come aggiornare la tecnica e la teoria psicanalitiche o, per dirla in altro modo, di cosa significhi essere uno psicanalista oggi. Una considerazione che può valere da banale premessa a questo problema potrebbe essere quella relativa ai mutamenti culturali e antropologici intercorsi tra l’epoca in cui si consuma l’invenzione freudiana dell’inconscio e lo stato attuale delle cose. Mutazioni di ordine economico, politico e storico non indifferenti come l’affermazione del consumismo come sistema etico e la riforma della morale influenzata dall’ormai ubiquitario modello neoliberale hanno infatti mutato, giocoforza, le condizioni materiali in cui l’inconscio si manifesta. Ma anche l’esistenza e il successo stessi della psicanalisi (ovvero la libera circolazione di un discorso critico-analitico che esplora la dimensione pulsionale e che mira a disambiguare l’opacità che si condensa attorno al nucleo scabroso, abietto e perturbante dell’umano) hanno contribuito, e non di poco, alla metamorfosi ontologica del sociale tuttora in atto.
D’altronde già J. A. Miller, durante il quarto Congresso dell’AMP svoltosi a Comandatuba, nel 2004, registrava non senza stupore le trasformazioni che un secolo di psicanalisi hanno impresso nella società e nella cultura contemporanee. Quasi come a voler suggerire l’idea di un effetto quantistico tale per cui la posizione dell’osservatore finisce con il mutare la natura, la struttura dell’oggetto osservato, l’erede di Lacan affermava:
«La psicoanalisi è stata inventata per rispondere a un disagio nella civiltà, a un disagio del soggetto immerso in una civiltà, che potremmo enunciare così: per far esistere il rapporto sessuale, si deve trattenere, inibire, rimuovere il godimento. La pratica freudiana ha aperto la via a quella che si manifestava – metteteci tutte le virgolette che volete – come una liberazione del godimento. […]. La pratica lacaniana, dal canto suo, ha a che fare con le conseguenze di questo successo sensazionale; conseguenze che sono sentite come dell’ordine della catastrofe. La dittatura del più-di-godere devasta la natura, fa scoppiare il matrimonio, disperde la famiglia e rimaneggia il corpo» (2006, p. 27).
È su questo stesso solco che sembra muoversi Lolli. Più che di evaporazione-del-Padre, infatti, sembra che l’autore suggerisca che dai nuovi casi psicopatologici traspaia una vera e propria evaporazione-dell’Io, una sorta di sua regressione generalizzata a quella fase detta “dello specchio” che qualifica tanto il funzionamento della mente psicotica quanto quello, per certi versi, della mente infantile. La psiche in via di sviluppo, infatti, condivide con quella psicotica l’assenza di solidi punti di riferimento simbolici, l’assenza di stabili identificazioni dell’io. In un contesto del genere non è di certo il padre a essere causa, in quanto assente o evaporato, dello sfaldarsi dell’universo simbolico e dello sfibrarsi della tenuta sociale garantita da saldi punti di riferimento. Più che di “declino sociale dell’imago paterna”, forse, converrebbe allora porre l’accento, per quanto riguarda l’eziopatogenesi delle psicopatologie contemporanee, sulle trasformazioni tecnologiche o sullo strapotere esercitato dagli oggetti – dalla fascinazione per lathousa, se volessimo parlare in lacanese. Ciò che qualifica la condizione sociale contemporanea è infatti probabilmente più simile a una sorta psicosi collettiva, una specie di schizofrenia che va a braccetto con le dinamiche di sfruttamento, iper-consumo e iper-produzione come preconizzato da Deleuze e Guattari in quegli stessi, ruggenti anni in cui Lacan teneva il suo seminario. Ma si tratta di una deriva che, se concepita al netto della retorica rivoluzionaria e neanche troppo velatamente celebrativa della quale i due filosofi sopracitati hanno sempre ammantato la psicosi, può essere intesa come un grande processo di infantilizzazione su larga scala, di regressione generalizzata, che elicita quella dimensione ancestrale e neotenica dell’uomo da intendersi quale vera e propria condizione trascendentale dello psichismo. D’altronde Freud e Lacan hanno ripetuto instancabilmente che “Il bambino è il padre dell’uomo” (anche se la citazione è tratta da The rainbow, una poesia di W. Wordsworth). Sembra proprio che sia a partire da qui, allora, che Lolli ci invita a riconsiderare il rapporto che intercorre tra attualità e inattualità della psicanalisi, tra sintomo e struttura del disturbo psichico:
«Quelli che vengono considerati nuovi sintomi sono, in realtà, forme “aggiornate” alle dinamiche storiche contemporanee del medesimo meccanismo. Basta grattare l’involucro del sintomo per vedere apparire, al di sotto della superficie fenomenica, la questione che inquieta l’essere umano da sempre: come conciliare l’esigenza di soddisfazione personale del proprio desiderio (sostenuta – ed è questa la peculiarità che possiamo rinvenire nell’attualità – dall’enunciato del discorso sociale) con le richieste alla rinuncia della piena soddisfazione (sulla quali l’economia capitalistica si regge, per rinnovare infinitamente il circuito di produzione della merce da cui dipende)» (p. 152).
E di qui sorge infine una duplice necessità. Anzitutto occorre aggiornare la pratica psicoanalitica ai nuovi bisogni insorti negli ultimi decenni, bisogni che Freud non poteva assolutamente prevedere. Lolli definisce “Psicanalisi applicata” questo nuovo modo, più attivo e in un certo senso più “interventista”, di condurre la cura. L’analista, per esempio, ora non riceve solamente ma induce la domanda d’analisi in soggetti che, seppur bisognosi, si rifiutano di formulare una richiesta di aiuto. Ma il nuovo analista è anche chiamato ad assume una postura più elastica e non è più costretto nella sua posizione di ricettore imperturbabile dei patemi dell’analizzante: egli partecipa attivamente alla discussione (laddove la psicoanalisi, a differenza di altre strategie terapeutiche, prevede appunto un suo ritiro, una sorta di sua scomparsa) ed è anche a chiamato a farsi carico della costruzione del transfert e del rinforzo dell’Io, indebolito dalla difficoltà che i nuovi analizzanti (i nuovi “domandanti”, come li chiama Lolli) riscontrano, come abbiamo visto, al livello delle possibili identificazioni offerte dai contesti culturali privi di saldi basamenti simbolici. Anche la mutazione del setting, degli orari e della cadenza delle sedute necessitata dalla nuova scansione del tempo imposta dai ritmi produttivi delle società post-industriali è un’altra trasformazione necessaria, così come lo è la necessità di istituire la seduta come luogo di un sapere possibile, valorizzabile, e non come un semplice “muro del pianto”. La professione praticata da Lolli e da ogni psicanalista permette, in breve, di registrare una sorta di atrofizzazione o di occlusione su larga scala delle potenzialità comunemente attribuite al linguaggio, alla comunicazione e al capire. E va da sé che, se è conclamato che l’efficacia e la tenuta dottrinale della talking cure risentono di tali mutazioni antropologiche, gli psicanalisti siano costretti ad aggiornare il loro strumentario e le loro tecniche di intervento.
La seconda necessità che emerge dalla mutazione antropologica in corso, invece, è relativa al versante opposto a questo, più avanguardista e progressista, e concerne la fedeltà ai testi fondativi, al “testamento spirituale” di Freud e alle fondamenta teoretico – epistemiche della dottrina psicanalitica. In una sorta di movimento enantiodromico, infatti, Lolli accosta alla necessità di una riforma della psicanalisi quella di istituire e di rinforzare la continuità con la tradizione. L’accento qui è posto sulla difesa della centralità della sessualità nella patogenesi del sintomo, sull’esistenza di ciò che Freud ha definito Unbewusstein (un sapere, lacanianamente strutturato come un linguaggio, che è posseduto dal soggetto ma del quale l’Io non è al corrente), sul potere terapeutico del Transfert e sull’importanza capitale da attribuire a Thanatos, ovvero alla pulsione di morte. Tutti questi elementi, infatti, definiscono il nucleo concettuale del lascito freudiano e animano la prorompente forza euristica che caratterizza l’analisi dell’inconscio classicamente intesa.
Solo grazie all’appiglio sicuro garantito da questi punti saldi è possibile, infatti, rilanciare la partita terapeutica ed euristica della psicanalisi – e solo grazie alla reiterazione di un gesto inattuale qual è quello del “ritorno a Freud” promosso da Lacan, sembra dire Lolli, è allora possibile rendere attuale quel discorso che mira al fondo oscuro, indecifrabile e opaco del soggetto parlante e che si cura solo della singolarità, dell’eccezione e della verità di ognuno, della verità dell’uno-per-uno:
«L’analista inattuale non vede nella condizione psicopatologica di chi riceve le conseguenze del declino del padre, dell’assenza del limite, dell’educazione permissiva o della scomparsa dell’autorità. Egli vede, piuttosto, un soggetto alle prese con il compito che impegna qualunque essere umano. Con la differenza che, nella specificità dell’epoca storica nella quale l’incontro si svolge, il compito di trovare un accordo possibile tra le esigenze pulsionali e le esigenze della civiltà è reso più complicato dall’inganno fondamentale che sostiene il regime consumistico-capitalistico. Il quale, nella logica perversa che lo contraddistingue, autorizza il cittadino a pretendere il massimo della soddisfazione (affermandone l’assoluto diritto) e, contemporaneamente, progetta e applica programmi di frustrazione del desiderio stesso, necessari alla macchina produttiva affinché la domanda di consumo non cessi mai» (p. 188).
Après coup è la traduzione francese del vocabolo tedesco Nachträglighkeit: entrambi sono termini tecnici utilizzati in psicanalisi e servono a rendere conto della temporalità che qualifica i processi psichici inconsci. L'après coupè, orientativamente, il nome che indica il tragitto a ritroso che un soggetto entrato in analisi è indotto a percorrere e che, in quanto traversata della fantasia inconscia, conduce (quantomeno nelle intenzioni degli analisti...) a riformulare la struttura di quel rapporto estimo, più che intimo, che questo stesso soggetto – evidentemente bloccato, evidentemente osteggiato da una ripetizione mnestica che lo invischia in un godimento indesiderato e che lo induce, appunto, ad entrare in analisi... – intrattiene con il Reale.
Ma l'après coup, da intendersi più nello specifico quale effetto della temporalità retroattiva tipica del significante (sulla quale è imperniato tanto il lavoro del sistema inconscio quanto quello della direzione della cura) o quale effetto logico-strutturale, secondo la lettura di Lacan, non è un semplice precorrimento o una forma di veggente anticipazione in quanto (sempre nelle intenzioni degli analisti...) l'esperienza psicoanalitica che lo consente e che scommette su questo iternon è mera ricapitolazione, ricezione passiva degli eventi passati ma, al contrario, presuppone per definizione la costruzione e la ricostruzione incessanti della biografia del soggetto. Vi è quindi una dimensione evidentemente costruttivista, creativa, che appartiene alla logica dell'après coupe che traspare tanto dal lavoro onirico, dalla struttura del sintomo e degli atti mancati, quanto dalla effettiva possibilità di elaborazione e rielaborazione dei traumi. È infatti proprio la dinamica della temporalità après coupche permette, grazie all'analisi, il riassetto di questi stessi traumi nell'economia psichica del soggetto. Va da sé, allora, che un tale processo di rielaborazione, riconfigurazione e riscrittura dell'esistenza dell'analizzante non possa, giocoforza, che attingere e mobilitare quelle risorse soggettive, singolari e non replicabili (non oggettivabili da nessuna pratica scientifica così come da nessuna ermeneutica) che fanno di una vita un'esistenza, appunto, singolare ed unica. Il ricordo, il ritorno après coupdel passato e la rielaborazione di eventi unici che demandano un'interpretazione retroattiva o reclamano una nuova ed inedita rielaborazione, per quanto tardiva, di ciò che è avvenuto sono, in un certo senso, il cuore pulsante di uno psichismo in atto che è evento singolare, evento irripetibile e soggettivo.
Ricondurre l'après coup a un'esperienza generalizzabile, riconducendone la portata soggettiva (non rendicontabile da nessuna filosofia ed inassorbibile da nessuna Weltanschauung) e sussumendo la ricchezza, l'imprevedibilità e l'aleatorietà che un tale tragitto verso il futuro anteriore del soggetto implica entro le categorie dell'universale filosofico è quello che Alessandra Campo si propone di fare nel suo ultimo libro, Tardività (Mimesis, 2018).
Un libro, sia detto per in inciso, di difficile lettura. È un testo specialistico, riservato agli “addetti al mestiere”, che non a caso è la pubblicazione rivista e raffinata della colossale tesi di dottorato in Filosofia dell'autrice. È inoltre un testo scritto in una prosa poetica, alata, che riempie pagine intense, ricche di commozione e di quell'apprensione per l'Assoluto che traspare da un lirismo singolare, dall'inesausta ripetizione dei concetti chiave, dalla minuziosa attenzione dedicata alla dimensione squisitamente tipografica del testo (corsivi, trattini e parentesi giocano un ruolo fondamentale nello stile espressivo dell'autrice) e culminante in sentenze granitiche, definitive: “Ogni concetto è espressivo, ma ogni concetto è tale solo se è unitrino, ovvero se indica, contemporaneamente, la Cosa, la sua rappresentazione e il loro ‘rapporto’. In questo senso ogni concetto è erotico, intermediario tra l'umano e il divino, il somatico e lo psichico. Ogni concetto è erotico perché ogni concetto è terzoe ogni concetto è terzo perché ogni concetto per l'intervallo, ovverosia: per i movimenti dietro la Cosa. Quindi ogni concetto è un après-coup: nient'altro che il risultato di uno sforzo intellettuale” (p. 49).
Ora, tra la ridda di concetti erotici ed unitrini che incedono nella storia della psicanalisi Campo ne elegge uno, quello di Nachträglighkeitappunto, e si propone di ascriverlo alla regia classifica di quei concetti fondamentali in grado di operare, come un tornello girevole, sulla soglia che divide la filosofia dalla disciplina freudiana: “Per Freud, la Nachträglighkeitnon è un concetto metapsicologico. Lo saràtuttavia stato, speriamo, agli occhi di chi avrà avuta la pazienza di leggere queste pagine” (p. 28).
L'operazione, delicatissima e insieme mastodontica, è svolta dall'autrice con flemmatica e instancabile acribia, con puntigliosa meticolosità bibliografica, e progredisce sul solco teoretico tracciato da Rocco Ronchi nel suo Canone Minore(Feltrinelli, 2015) – libro rispetto al quale Tardivitàsi prospetta come una specie di sequel, di compendio o di tardivoimplemento. Campo, infatti, evoca a sé quelli che Ronchi definisce i “filosofi del processo” (Whitehead, Bergson, Deleuze) e, forte di una conoscenza enciclopedica della loro opera, si propone di ripensare il rapporto temporale che sussiste tra coscienza e inconscio in modo da tradurre la trovata freudiana in una sorta di esperienza contemplativa ed estatica, lasciando così trasparire la possibilità di spiegare l'essenza dell'Estramite il ricorso a testi che, a tutta prima, non hanno nulla o ben poco da spartire con la tradizione psicoanalitica in quanto mancano, ad esempio, di quell'apprensione terapeutica e clinica che è fondamentale sia per Freud sia per Lacan.
L'intento sembra, infatti, quasi quello di sottrarre la psicanalisi agli psicanalisti per farne, anche attraverso gli strumenti offerti dalla teologia speculativa di Cusano, Bruno e Spinoza, una branca specifica di una filosofia altrettanto specifica: quella che, insensibile tanto al conturbante richiamo dell'antropologia filosofica quanto alla perturbante (e non necessariamente malinconica) elaborazione lacaniana della mancanza ontologica, mira a ricostituire quell'ideale di compattezza e di completezza (ontologica, per l'appunto...) che si impone, ad oggi – e proprio laddove non ci si aspettava di trovarla: nella letteratura che ibrida la tradizione filosofica con quella psicanalitica! – come una sorta di nuovorealismofilosofico. Una nuova filosofia che, fregiandosi del titolo di “minore”, rilancia la partita della teoresi pura e sceglie di mirare direttamente al Reale ambendo, inoltre, a dirne il più possibile, a comprenderne il più possibile nel tentativo di ripensare, per rivitalizzarla, l'esperienza della trascendenza classicamente intesa.
È infatti proprio verso una nuova definizione di inconscio che l'autrice si propone di condurci, una definizione a dir poco rivoluzionaria e pionieristica che sembra voler rinnovare dalle basi la tradizione filosofica contemporanea poiché, secondo l'autrice, “l'inconscio ignora il '900 filosofico, il quale, a sua volta, ha ignorato l'inconscio ignorando Dio che, come das Es, non conosce contraddizione, morte e tempo” (p. 273).
La posta in gioco è evidentemente alta e l'autrice si premura di definire i termini entro i quali la sua interpretazione dell'inconscio freudiano andrà a svilupparsi:
L'Assoluto [...] non è supremo né grammaticale: l'ideadi espressione contrasta sia con la speranzache l'Assoluto sia l'Ente-eminente, l'anello sempre mancante, perché eternamente trascendente, della grande catena dell'Essere, che con la credenzaper cui l'Assoluto non è altro che il significato prodotto, per effetto retroattivo o accumulazione progressiva, dalle nostre pratiche di scrittura e simbolizzazione. L'Assoluto è espressivo: che si con-verta incessantemente in segni che, pure, lo di-vertiranno significa che esso non è il segno che lo esprime, pur non essendo altrove che lì, in quel segno, pur essendo, in altre parole, il suo atto, e quindi il suo essere, quella stessa generazione indefinita di segni da cui, come tale, come assoluto semplice, infinito e perfetto, per natura differirà. Questo significa univocità del reale. (p. 37)
L'inconscio di cui parla Campo è quindi espressivo, è un inconscio che traspare quale mera constatazione del fatto naturale che esiste, nonostante Freud e Lacan abbiano esplicitamente negato quest'ipotesi, una signatura rerum in fondo inequivocabile, innegabile, e che inoltre esiste presso questa scrittura originaria un significato, a portata d'uomo, decretabile definitivamente. Esiste, quindi, un senso universale essenzialmente disponibile non tanto alla razionalità, alla concettualizzazione o alla matematizzazione, quanto a quella forma di intuizione intellettuale che “è intuizione della soddisfazione del mondo (genitivo soggettivo e oggettivo), intuizione della sua ragione, che è sempre ragione dei misti” (p. 413). In pagine davvero intense e con il trasporto mistico che contraddistingue il suo stile, Campo si dedica allora alla smisurata operazione di correzione, di ricalibratura e di aggiustamento delle interpretazioni che, nell'ultimo secolo, sono state date dell'inconscio freudiano. Dalla logica del supplemento si passa così a una logica dell'incremento (ferale è la critica indirizzata all'opera di Derrida, pp. 238-256), da una concezione analogicadell'inconscio si giunge a una concezione espressivadello stesso e dalla posizione sostenuta da Lacan nel seminario sull'Etica della psicanalisi, quella che si spiega l'esistenza dell'ente ricorrendo all'idea di creatio ex nihilo, si giunge a una metafisica della creatio ab intrinseco. Tematizzando i concetti di bidirezionalità (p.58) e simultaneità (pp. 163, 164) Campo conduce così il lettore verso una concezione di inconscio come pura processualità:
L'inconscio ‘è, né più, né meno’, ed è superficiale. La sua memoria non è una memoria del sottosuolo, come quella di Derrida, né il suo essere è l'Essere heideggeriano, obliato ma comunque intriso di tempo. L'inconscio è ed è atto, Mouvant, processo, puro differenziale di potenziale. Perciò non differisce ma agisce, non soffre, ma gode, non nega, ma afferma, non ha tempo, ma è atemporale (p. 244).
E Après coupsi rivela essere così, nelle mani di Campo, una nozione veramente omniesplicativa: è l'oggetto (a), è l'Assoluto, è l'Unheimliche, è Das Ding, ed è anche l'inconscio stesso, pur non essendo nessuna di queste cose e allo stesso tempo nulla se non in esse: “Come il Dio della teologia speculativa l'inconscio è trans-immanente, ovunque e in nessun luogo. Non è in nessuno dei cogitata(le rappresentazioni o figure), pur non essendo altrove che là. E la Nachträglighkeit, in quanto concetto dettato dall'inconscio cogitans, eredita da questole sue caratteristiche” (p. 169). Come potrebbe, d'altronde, essere altrimenti per un concetto che è assunto quale immagine mediatrice dell'inconscio, sua “forma inapparente” (p. 169), rappresentazione eminente di una coscienza colta nel suo partecipare direttamente a quell'economia dell'assoluto di cui si scopre immancabilmente (anche se un po' in ritardo...) paladina e, insieme, esecutrice inconsapevole?
Immagine tratta dal film “Arrival” (2016) di Denis Villeneuve
“Tardività è” allora, secondo l'autrice, “la ragione del fondamento” (p. 33) in grado di risolvere quel soggettivismo relativistico che, da Kant in poi, impedisce a ogni speculazione filosofica di fondare un sapere universale e necessario, di raggiungere quella verità ultima e definitiva che, nell'arco più che bimillenario interessato dallo sviluppo del pensiero occidentale, è supposta migrare, quantomeno da una certa tradizione storicista, dal campo religioso monoteistico a quello più razionale e rischiarato della riflessione filosofica. Ciò che si prospetta, in queste pagine, è allora niente poco di meno che la vera e propria resurrezione del divino, un suo ritorno après coupdi cui Campo e Ronchi, dietro di lei, si fanno araldi. Risurrezione intempestiva, tardiva, che trova proprio nella concettualizzazione freudiana della retroazione temporale un'inaspettata e imprevista idea-alleata capace di esibire, a un tempo, sia la struttura della psiche sia quella del divino: “La Nachträglighkeitè l'idea adeguata dello psichico reale, adeguata perché lo coglie, grazie a un'intuizione intellettuale, come unico processo di ascesa e discesa, progresso e regresso; come lo ‘stupendo moto di reciproca espressione (admiranda in invicem progressio divina)’ in cui, per Cusano, si esprimel'essenza della vita divina” (p. 178).
Sulla scorta di tali premesse e attraverso una miscela sapientemente dosata di immanentismo, teologia speculativa e “canone minore” Campo ha quindi buon gioco nell'evidenziare come, nonostante tutto e nonostante soprattutto il ventesimo secolo, sia non solo possibile rinvenire da Parmenide a Deleuze una forte e poderosa tendenza del pensiero occidentale a rimarcare l'univocità dell'essere, ma sia anche evidente come una certa continuità con questa tradizione (lungi dal prospettarsi come teoreticamente reazionaria...) sia essenzialmente auspicabile e lasci trasparire la possibilità di intrattenere un rapporto di familiarità, di intimità e di vicinanza con quell'Assoluto che, da quanto traspare dal testo, sembra costituirsi quale conditio sine qua non della filosofia, se non del pensiero stesso.
La temporalità dell'inconscio che si profila in Tardivitàè allora una temporalità fantastica, a dir poco fantascientifica, così come la si incontra ad esempio in film quali Arrival(2016) o Signs(2002). Ed è la stessa autrice ad ammettere una certa continuità tra il “tempo favoloso” (p. 41) prospettato da Deleuze nel suo corso su Kant e l'interpretazione dai lei offerta della Nachträglighkeit. Continuità o coincidenza che, forse, trovano proprio nella sceneggiatura cinematografica il loro analogon più efficace in quanto è soprattutto (se non esclusivamente...) nelle storie narrate al cinema da Villeneuve o Shyamalan che è possibile fare esperienza di una realtà univoca il cui senso è, in un certo modo, assicurato da un Assoluto espressivoe garantito da una “Übercausälitat”(p. 355: quella causalità di ordine superiore, aionica ed eterna che Campo vuole rilevare nel suo studio) che sembra cogliere i protagonisti alla sprovvista salvo poi, in un attimo di estatica elevazione fuori dai cardini del tempo soggettivo, proiettarli al di là di sé, verso una trascendenza che assicura loro una conciliante rivelazione: “l'universo non è arbitrario né malvagio: l'ordine immanente nascosto ‘dietro’ le intricate e spesso enigmatiche interconnessioni che lo strutturano è per Freud, come per Einstein, essenzialmente degno di fiducia, perché unitario e coerente nella sua intellegibilità. Dio è nascosto, ma è buono” (p. 355).
Ed ecco che allora oltre alla creazione di una temporalità fantastica è anche verso l'invenzione di un Freud “minore”(p. 25) che l'autrice si volge, in un operazione a dir poco coraggiosa e non priva di originalità: un Freud “fantastico” come il tempo deleuziano-bergsoniano, un Freud che da medico positivista diventa filosofo della processualità pura e teorico dell'eterna coincidentia oppositorum. Quello che scopriamo, assieme a Campo, è un Freud inedito, un inconsapevole teologo speculativo:
L'intuizione intellettuale è l'intuizione dell'hen kai pan(‘Allenheit’ in tedesco), dell'Uno-che-è-Tutto e del Tutto-che-è-uno. Ma, se questo è vero, come principio ontologico e ragione dei misti, ossia delle sfumature, la Nachträglighkeitè visione diDio (genitivo soggettivo e oggettivo), di un Dio soddisfatto perché sufficiente e sufficiente perché soddisfatto. In quanto acto simplicissimo in sé contemplaturomnia simul sine successione, la percezione secondo l'immediatezza causale non è, infatti, nient'altro che un colpo d'occhio su Dio, totum simul atque perfectum, e sulla sua bontà (p. 416)
Quello di Campo è quindi un Freud che pare aver intuito e poi abbandonato ingenuamente o come se fosse stato colpito, lui stesso, da rimozione (Verdrangung), l'equivalenza e l'omogeneità sostanziale tra l'Inconscio (la sua creatura), l'Assolutointeso quale spontanea e naturale gemmazione di significato, e il Dio neoplatonico, l'Uno totum simul atque perfectumcelebrato da Cusano, Bruno e Spinoza nelle loro opere. E l'identità unitrinadi questi tre elementi è proprio ciò che Tardivitàsi propone di ricongiungere, di riannodare après coup, indicando nell'intuizione intellettuale tanto la via regia da percorrere quanto il metodo per condursi, attraverso la speculazione, presso questa beatifica visione dell'eterno.
Ma è un metodo, quello adottato da Campo, che forse nasconde un pericolo e solleva qualche impasse per quanto riguarda il progetto ermeneutico promosso in Tardività. L'insidia teoretica celata nel concetto di intuizione intellettuale, un concetto euristicamente a dir poco onnipotente, consiste nella possibilità di istituire una sorta di koinè concettuale omologante e giocoforza acritica che, pur di raggiungere quell'unità tanto agognata di soggetto e oggetto e pur di elicitare l'identità trascendentale, aspaziale e atemporale che accomuna tutti gli enti nell'eterno entanglementdivino, lascia da parte o non conferisce il giusto peso a quelle aporie e a quelle differenze essenziali che intercorrono tra gli autori, tra le filosofie e soprattutto tra i concetti, correndo così il rischio di travisarne il contenuto. Un rischio, questo, che Campo corre consapevolmente e che si assume con l'obiettivo, per nulla modesto, di elaborare una teoria metafisica dell'Assoluto, unitaria e coesa, che spazia da Deleuze alle isteriche della Salpêtrière, da Lacan a Nishida Kitaro passando per Carlo Rovelli, Einstein, Roland Barthes e Giordano Bruno, in un détourcolto e nozionistico, lirico e salace. Per decidersi in merito alla effettiva riuscita di questo progetto rischioso, imponente e decisamente ambizioso non possiamo che rimandare il lettore alla lettura completa di Tardività e ci solleviamo, per parte nostra, dall'esporre un giudizio definitivo. Più interessante, in questa sede, è rilevare – per concludere – i risultati che emergono dalla monumentale ricerca di Campo.
Aion (dio del tempo, nel cerchio in altro) e Gaia (dea della terra, in basso)
Freud e Lacan non si sarebbero accorti o non avrebbero pienamente compreso, in breve, che la temporalità non-lineare, frantumata e “impazzita” che qualifica quell'inconscio detto appunto “Zeitlos” (senza tempo) non sarebbe altro che il profilo, la sagoma di quel dio neoplatonico e cusaniano, di quell'ente sommo, perfettissimo e necessario che nella storia della filosofia passa sotto il nome di “Uno” e di cui la formula “hen kai pan” traduce il modello ontostatico, eterno ed infinito.
Il risultato teoretico della ricerca di Campo è allora una sorta di panacea teologico – speculativa per la psiche, una specie di medicamento universale per lo spirito che riscuoterà di certo il meritato successo e troverà modo di essere speso nei contesti intellettuali più svariati (nelle pratiche filosofiche o di counseling, nei convegni e nei festival) ma che, molto probabilmente, non potrà fungere in nessun modo da supporto o da strumento esplicativo per la teoria - pratica psicanalitica. Anzi, forse non farà altro che divaricare la distanza che separa la filosofia dalla creazione di Freud. Quest'ultima, infatti, ha storicamente istituito la sua identità ed ha fondato la sua legittimità proprio marcando la distanza dall'universale filosofico, dal presupposto metafisico di una coincidentiatra l'umano e l'assoluto che fosse accessibile dall'intuizione intellettuale (nota è l'avversione nutrita da Freud per ogni “sentimento oceanico”) e guarda con sospetto ogni costruzione metafisica forte, in grado cioè di spiegare definitivamente la realtà, priva di mancanze e per giunta intesa come totalità o univocità, nei suoi tratti salienti. Le aporie che sgorgano dal disturbo mentale quale evento e le perturbanti prospettive dischiuse dalla psicopatologia sembrano infatti non trovare posto, non avere il giusto rilievo nell'inconscio così come Campo lo definisce.
L'attenzione posta al soggetto, all'evento singolare e al destino psichico dell'analizzante assumono infatti, nel campo psicoanalitico, la preminenza rispetto a qualsiasi sistematica rendicontazione ontologica, a qualsiasi speculazione cosmologica e a qualsiasi riabilitazione dei modelli gnoseologici invalsi in occidente prima della rivoluzione scientifica – siano essi medievali, tardomedievali o moderni. Quando Campo afferma, a proposito dell'inconscio come causa assoluta
che la causalità processuale è una causalità materiale e formale, efficiente e finale perché l'inconscio è causa, ma non come una cosa (soggetto, substrato, sostanza) che causa. L'inconscio è causa come un processo, come un verbo, un'azione: causare. L'inconscio è causazione in atto. La sua azione – causante – è il suo essere – causa –, perché quando il sostantivo si verbalizza, la Sostanza diviene Processo e la Cosa si attiva, si anima (p. 273)
sembra infatti sposare il modello gnoseologico tomista dell'actus essendi, attribuendo così ai processi primario e secondario il ruolo di intelletto possibile ed intelletto attivo e facendo risorgere, questa volta per davvero, in questa bizzarra sovrapposizione, uno stile di pensiero a dir poco datato. Uno stile di pensiero (quello medievale, che verrà poi progressivamente smantellato nell'arco della modernità, in seguito allo sviluppo del metodo scientifico) che si fonda su di un'aprioristica complicità tra il soggetto e l'oggetto, tra l'uomo e il mondo, e postula una coappartenenza fondamentale e naturale tra gli opposti garantita ed assicurata dall'ipostasi divina. L'intuizione intellettualeche Campo invoca quale metodo della sua filosofia è evidentemente a questa mistica coincidenza che dovrebbe mirare. Ma è stato proprio Lacan, psicoanalista navigato e fine pensatore aduso alle resistenze del soggetto, ad affermare con caustica ironia: “E' difficile sottrarsi all'idea che non sia un pensiero a governare il mondo” (Lacan, 1979, p.143). E una tale istanza sembra valere anche e soprattutto se questo pensiero fondamentale e genetico, inteso quale aeterna nativita se intemporis generatio (termini che Campo preleva da Cusano e innesta sul testo freudiano), è identificato con l'inconscio in quanto tale. Sempre Lacan, poi, ha insistito fino allo sfinimento nel dire che l'inconscio è un concetto nato (o abortito?) dallo sviluppo della scienza moderna, come una sorta di impellenza scabrosa che insiste e ritorna a ogni passo (a ogni inciampo?) con l'urgenza di un atto mancato:
Il passo della scienza è consistito nell'escludere ciò che implica di mistico l'idea di conoscenza, nel rinunciare alla conascita[conaissance], e nel costituire un sapere che è un apparecchio sviluppantesi a partire dal presupposto radicale che noi non abbiamo a che fare con nient'altro che con apparecchi maneggiati dal soggetto, e, più ancora, che quest'ultimo può purificarsi in quanto tale, fino a non essere nient'altro che il supporto di ciò che si articola come sapere ordinato in un certo discorso, un discorso separato da quello dell'opinione e che se ne distingue come quello della scienza (Lacan, 2006, p. 280)
Risulta quindi problematico, per Tardività, affermarsi quale vero e proprio punto di connessione tra la psicanalisi di stampo freudo - lacaniano e filosofia immanentista in quanto, a tal riguardo, è necessario sottolineare che tanto la questione epistemologica quanto il cosiddetto “discorso della scienza”, così come la minaccia meccanicistico – deterministica che in esso è annidata, sono temi sistematicamente elusi dalla trattazione. L'insistenza sul carattere aionico del tempo così com'è declinata da Campo sembra assimilare indiscriminatamente, in un certo senso, le scuole freudiana e lacaniana a quella dell'eretico Jung, più proclivo a una certa deriva misticheggiante della pratica psicanalitica, più sensibile all'idea di un inconscio vaticinante, espressivoe intarsiato dalla signatura rerum, e inoltre teorico di quella “sincronicità” che nell'argomentazione di Campo riveste un ruolo pivotale (per quanto dissimulata sotto le mentite spoglie della “simultaneità”). È forse Jung, allora, il personaggio che nella storia della psicanalisi meglio si attaglia alla lettura della Nachträglighkeitproposta in Tardività. Freud e Lacan, per parte loro, l'inconscio l'hanno esplorato e compreso, né hanno eluso le questioni del sacro e della trascendenza: le hanno risolte, semmai, a modo loro (in un modo, per altro, che prescinde esplicitamente dal ricorso a una teoria metafisica quale è quella elaborata in Tardività).
Detto questo, e posto che le intenzioni dell'autrice sembrano invece altre, ovvero sembrano tendere verso un'assimilazione della psicanalisi freudiana alla proposta filosofica di Ronchi in modo da annoverare anche Freud tra la ridda di autori “minori”, è assolutamente necessario riconoscere e ammirare l'originalità e l'audacia dell'opera. In quanto ardito e coraggioso tentativo di ripensare la positività della trascendenza, o di riformularne i tratti essenziali in modo da ritrovarne la concreta possibilità nell'esperienza comune, Tardivitàsi qualifica come un libro di filosofia genuino, verace, che non mancherà di stimolare la fantasia e l'interesse di quanti siano alla ricerca, ancora oggi, di un'idea somma, assoluta e definitiva da eleggere a termine ultimo ed insieme a principio universale (d'altronde: prima = dopo) per il loro modo di pensare e di filosofare.
di Filippo Zambonini
Bibliografia
Campo A. Tardività, Mimesis, Milano – Udine 2018
Lacan J., Alla scuola Freudiana, in Lacan in Italia 1953 – 1978 – En Italie Lacan, a cura di G. B. Contri, La Salamandra, Milano 1979
Lacan J., Le Séminaire. Livre XVI. D'un Autre à l'autre, a cura di J.-A. Miller, Seuil, Paris 2006
L’intento di questa raccolta, che prende il titolo di “Soggettivazioni”, è stato quello di aprire una riflessione attorno alla teoria della soggettivazione lacaniana, così per come ce l’ha lasciata in eredità Lacan, a singhiozzi, nei testi stabiliti a partire dai suoi trent’anni di insegnamento orale. Cosa può dirci una psicoanalisi asistematica, distante dalle istituzioni universitarie rispetto a problemi di una concretezza innervata di realtà? Chi frequenta i dipartimenti di Psicologia e assieme l’insegnamento lacaniano sa che è incommensurabile la distanza che intercorre tra la specificità e la settorializzazione degli strumenti istituzionali a confronto con l’universalità dei concetti larghi e volontariamente mai definiti dello psicoanalista parigino. Tra l’estremamente particolare (l’ad hoc della psicologia contemporanea) e l’estremamente universale (il concetto, unità sintetica della filosofia) si rischia di incorrere in un deragliamento del punto focale, causato da uno scontro di metodi epistemologici che si sono stabilizzati ai bordi opposti l’uno rispetto all’altro. Nella scelta di prendere in considerazione un tema vasto e generale come la teoria della soggettivazione c’era l’interesse, da parte nostra, di porlo in dialogo con il campo altrettanto vasto e generale del presente. Speriamo che questa prima ricerca possa costituirsi come un’indagine (sebbene parziale) sullo statuto del soggetto in quanto campo epistemologico aperto: attingendo dalla teoria psicoanalitica e dal dibattito che ne è scaturito, il presente volume segue molteplici sentieri analitici e sottolinea di contributo in contributo la difficoltà di giungere a un’idea organica di soggetto, per la varietà di ipotesi spesso contrastanti in merito alla sua rappresentazione, formalizzazione e interpretazione. In questa raccolta crediamo che i punti maggiormente messi in rilievo da chi ha collaborato riguardino il problema della genesi, lo statuto della trasformazione, e infine un’attenzione specifica è stata rivolta al registro del Reale e ai suoi effetti.
Che questo bel libro di Federico Leoni si ponga al crocevia di discussioni vitali nel moderno dibattito filosofico lo si intuisce già dal titolo, Jacques Lacan. L’economia dell’assoluto(Orthotes, 2016); e nondimeno si rimane sorpresi alla conclusione della lettura dalla quantità di spunti che esso offre. Se ci si aspetta d’altronde un’opera lineare e saggistica nel senso classico della parola, si rimarrà delusi. Ma proprio qui sta l’interesse di questo libro, difficile, che tratta questioni difficili. Anche perché la filosofia contemporanea ci ha dimostrato, attivamente o passivamente, come la semplicità e la linearità corrano spesso il pericolo di risultare noiose e poco produttive, oltre che fuorvianti. Da buon ed esperto interprete Leoni non ci trascina infatti, né trascina se stesso, nel tentativo di ricostruire ciò che Lacan avesse intenzione di dire con precisione filologica; l’autore si chiede piuttosto cosa abbia Lacan da dire, a noi odierni, che forse non hanno fatto tesoro della lezione dello psicanalista-filosofo. Il motivo è che non vi abbiamo prestato orecchio; o forse, sembra suggerire Leoni, che ve ne abbiamo prestato troppo. Ma vediamo di chiarire cosa ciò voglia dire.
Già dall’introduzione l’autore dichiara il fine di rintracciare in Lacan la fase del «pensiero dell’Uno». La riflessione del nostro, spiega difatti Leoni, ha conosciuto uno sviluppo da una fase centrale «dialettica e riflessiva», fino all’approdo finale ad una “riflessione dell’immanenza”, che Leoni tenterà di descrivere più come un approdo piuttosto che una ripresa. In che senso intendere tale ripresa, e l’Uno stesso intorno a cui ruota, è il fil rouge dell’intero libro. Leoni rintraccia in Lacan il ripresentarsi di una scissione del pensiero che risale già a Platone. Ma per presentarci tale scissione, l’autore ricorre inizialmente all’analisi dell’opera aristotelica e alle distinzioni introdotte dallo stagirita tra potenza e atto. La distinzione non passa tuttavia tra pensiero in divenire e pensiero divenuto. Piuttosto il pensiero cosiddetto divenuto, cioè quell’atto in atto che sembrerebbe essere immobile nella propria impassibilità, sembrerebbe essere la sovrascrizione di una scissione più profonda che già nel Parmenide Platone aveva messo in luce. Se infatti si pensa il pensiero, non lo si può che immobilizzare nella sua rappresentazione, poiché è appunto illogico il pensiero dell’istante, del divenire. Lo è, certo, secondo la logica tradizionale delle proprietà e dei predicati. Ma, ci chiede Leoni sulla scorta di Lacan, è produttiva questa maniera si pensare? Anche la terribilità che Platone riconosceva al divenire, andrebbe quindi ad essere riletta come abissalità di quest’atto di pensiero che non può essere che praticato, sfuggendo costitutivamente al dirsi.
L’abbondanza di temi che nel corso dell’opera vengono affrontati o anche solo sfiorati non permette naturalmente una loro elencazione esaustiva. Né questa è l’intenzione o la sede. Piuttosto, il dualismo cui si è accennato, e che ha per Leoni i propri capisaldi in Platone e Aristotele, autore che verrà visto da Leoni stesso come lo sfondo teorico costante del Seminario XX, percorre costantemente le analisi del libro e ne costituisce il ritornante, sotto, potremmo dire, diverse e mentite spoglie. Filosofia e psicanalisi, soggetto e oggetto, immanenza e trascendenza, pensiero dell’uno e pensiero del tutto, vita e morte, interno ed esterno: tutti questi termini che si avvicendano nei vari capitoli costituiscono i molteplici scenari in cui si gioca una dualità più profonda, che l’autore evidenzia nelle primissime pagine, cioè quella tra un’etica del desiderio e un’etica del godimento. Se quest’ultimo si svolge nell’istante, nel momento, cioè, in cui il pensiero è immediatamente e semplicemente già sempre presso se stesso, il desiderio ha per contro bisogno di una distanza, di una separazione; si potrebbe dire di una differenza. Ma non è la differenza pura, libera, quella di cui necessita per mettere in moto la propria macchina: è piuttosto la differenza subordinata all’identico, la differenza tra parti, quella differenza che è la declinazione stessa della negatività, del non-essere. Chi in queste righe abbia sentito l’eco dei discorsi strutturalisti o post-strutturalisti non si è di certo ingannato. Sono molteplici i punti in cui Leoni vi si confronta. Ed è anche per questo che nel libro si sente risuonare l’Hegel kojeviano sotto le molteplici declinazioni del pensiero del rispecchiamento e della relazione.
Del resto è la stessa struttura del libro, oltre all’argomentazione condotta, a mettere in luce un sottofondo psicotico-ossessivo della relazione e del relativo, racchiuso com’è, il libro, tra due soglie – come le definisce l’autore – ediviso in due parti, all’interno delle quali il ritornare dell’uno, due e tre, ripetuti nella prima e nella seconda parte, ricordano sia le nenie di certi giochi infantili, sia il triangolo edipico, che il pensiero contemporaneo così fortemente cerca di esorcizzare, ma anche quello stesso gioco a tre che si è venuto abbozzando tra Lacan, Aristotele e Platone, in cui lo stesso Leoni sarebbe il quarto incomodo. Gioco che, per la sua costitutiva dissimmetria, non si può appagare di se stesso. Ma appunto è anche da questo che si evince come Leoni scacci qualsiasi ermeneuticità.
Si cadrebbe in inganno, però, se si leggesse tale struttura alla luce di quella «nuova grammatica della matematica» che inscriverebbe l’intero parcellizzato tra due limiti; o all’interno di un ripresentarsi di un unico limite. La terzità va letta, come si evince dalle argomentazioni del libro, sicuramente non come alterità, non come incommensurabilità (che nuovamente implicherebbe una misura, un nomos), ma come assolutezza. È il pensiero nel suo farsi cui tende Leoni – sulla scorta di Lacan. Ed esso non può essere che divenire. Divenire come pratica. Ecco anche il punto di innesto tra filosofia e psicanalisi. Ecco la vera obiezione che Leoni si sente di muovere all’economia finanziarizzata, come si vedrà. È anche, dunque, una immagine di Lacan molto meno conservatrice di quanto vorrebbe la vulgata, quella che si ottiene dalla lettura di quest’opera. Se è vero che Lacan ebbe a dichiarare che non vi è fuori, Leoni ci suggerisce che non è appunto nel fuori che si cela il problema. Il pensiero dell’Uno alla cui luce, o ombra che dir si voglia, si svolge tutta l’ultima riflessione di Lacan, è testimonianza del suo cruccio, anche doloroso – come dimostrano le testimonianze riportate – riguardo all’insistenza di un tema così cruciale come quello della topologia e della ricerca di una via al di là del tutto, in direzione dell’immanenza. Anche questo è ben trattato nel libro di Leoni, dal momento che egli non si occupa solo della riflessione metafisica di Platone e Aristotele, ma anche della loro, conseguente, politica.
Vi è, quindi, un paradosso, che giace nelle viscere stesse di tutta questa operazione. Leoni ritorna più volte, e sembra che ciò costituisca appunto l’impalcatura profonda dell’opera, sulla questione del dire e del linguaggio. Egli pone infatti, a ragione, alla base di tutta la metafisica occidentale, quella scissione tra soggetto e oggetto che rende possibile la stessa metafisica in quanto dire sul dire, e prima ancora, dire ciò che non può essere più detto una volta scisso, cioè l’Uno. Scissione che si opera nel e col linguaggio. La questione del poter dire ciò che si dice, e del dire financo se stessi, è legata a doppio filo con tutto ciò. Ma allora si potrebbe chiedere: quale operazione sta compiendo Leoni? Non una ermeneutica in senso classico, come si è già scritto. Ma quale è il suo ruolo? Non sta egli facendo di Lacan lettera morta? Non sta forse compiendo un altro passo su quella linea di regresso all’infinito che si origina dal pensiero riflessivo?
Innanzitutto, è bene dire che Leoni non tenta maldestramente di sciogliere questo nodo, e dunque non cade nel tranello stesso che le possibilità del linguaggio tendono. Non si parla, insomma, come di tanto in tanto si vede accadere, addosso. In secondo luogo è lui stesso a suggerirci, beninteso nella forma del non-detto, una via. A proposito dei nodi, luogo topologico eccellente, in cui Lacan stesso si immerse nei suoi ultimi seminari, intento com’era a farne e disfarne, Leoni descrive il nastro di Moebius, «genesi adialettica dei contrari» come lo chiama (p. 67). E così, quasi gli sfugga dalla penna, scrive come il nastro non vada osservato, ma piuttosto percorso. E neanche va percorso, ma, aggiunge, bisogna fabbricarlo. Ora, a parte la pregnanza di questa dichiarazione, è significativo proprio come a una dialettica della materia e della forma come quella aristotelica, si contrapponga qualcosa che «è dell’ordine del dispiegamento» (p. 68). Di fronte ad esso il linguaggio non può che fare silenzio, proprio perché è al di là di esso che tale dispiegamento avviene. Possiamo allora accostare il libro di Leoni alla famosa scala di cui parlava Wittgenstein?
Come egli stesso descrive l’operazione wittgensteiniana è un tradimento. Ma Leoni, a differenza di Wittgenstein, non tenta di dire il vero sul vero, si tira fuori da questa sfida, poiché, come argomenta esaurientemente, essa non può essere che persa.
È proprio al vero sul vero che sono dedicate alcune bellissime pagine di questo saggio. Si viene introdotti nel vivo del tema da un resoconto che fa lo stesso Lacan di un sogno di qualcuno che desiderava ardentemente, anche nella dimensione onirica, udire dallo psicanalista il vero sul vero, appunto. La riflessione su tale tema porta Leoni ad accostare l’operazione introduttiva svolta dalle cornici dei dialoghi platonici alle cornici di opere quali il Decameron e Le Mille e una notte. In questi tre casi assistiamo, ci dice, alla spinta del linguaggio fino alle proprie ultime possibilità, alla messa in atto di uno stratagemma teatrale che, invece di introdurre nel vivo della narrazione, sembra piuttosto sortire l’effetto di distrarci ulteriormente da essa, di alienarci. «Non c’è metalinguaggio», scrive Leoni sulla scorta di Lacan (p. 83). È per questo che il rimando alle dottrine non scritte platoniche non è casuale. Esse, avanza l’ipotesi l’autore, non sono tali poiché tramandate oralmente. Esse sono non scritte poiché non si tratta più di atti linguistici, ma propriamente di esercizio. Ciò che la cornice mette in moto è lo spirito di separatezza del lettore dall’opera, e l’incolmabilità di tale spazio, poiché colmarlo significherebbe tradirlo. I metafisici, infatti, che vogliono dire il vero sul vero, di quest’ultimo mantengono ben poco. La cornice è la messa in luce di quell’occhio sempre celato al campo visivo e che Wittgenstein, ecco dove sta il passo falso, ha cercato di mostrare, chiudendo il cerchio. «Dire la verità sulla verità non significa sigillare il cerchio, ma mostrare il punto in cui il cerchio non tiene, o non tiene proprio perché tiene o vorrebbe tenere» (p. 90). E ancora, scrive risolutivamente Leoni, poiché non ha senso voler dire il vero sulla cornice del vero, in quanto esso si pone al di là delle determinazioni di verità e falsità, «si tratta di abitare il paradosso sul piano della sua enunciazione» (p. 94). Il limite, la soglia, la morte, come la si voglia chiamare, è il temporeggiare all’interno di tale cornice, che coincide con il temporeggiare stesso del linguaggio che taglia un dentro e un fuori, un vuoto e un pieno, una traccia, una brocca, in seno all’Uno. E si è già detto troppo.
Tornando perciò a ciò che si scriveva sulla topologia e il nastro, è questo il punto nodale, nel senso letterale del termine, quello in cui si vede come l’insufficienza della metafisica aristotelica si esponga pienamente. Non è tuttavia una mancanza, ci dice Leoni attraverso Platone. Se infatti Aristotele cade vittima, egli sì, delle insidie del linguaggio, è forse per eccessivo ottimismo. È perché egli, tramite la sua categorizzazione, aspira all’esaustività, quando invece il residuale, il rimosso, sono la controparte necessaria e non rimuovibile di tale operazione. È di nuovo Platone, colui che nel Parmenide si fermava inorridito, immobilizzato, nel momento stesso in cui gettava lo sguardo nell’abisso, a dimostrare come l’irrazionale non sia in alcun modo rapportabile alla grammaticalità dell’ente o dello stesso essere, non parmenideo, beninteso. Perciò Lacan partorirà alla fine un mostro linguistico come «yad’lun». Non si può significare l’Uno, non si può dire. Ma non perché il linguaggio vede limitate le proprie possibilità; la questione non è la possibilità, come ribadisce Leoni a più riprese. Il linguaggio si consuma nella e con la rinuncia all’Uno. Con la sua rimozione. Con la sua Urverdrängung.
E tutto ciò viene ricondotto da Leoni nel solco di quella distinzione che già in apertura egli aveva tracciato tra etica del desiderio ed etica del godimento. Distinzione che si gioca in seno allo stesso itinerario lacaniano, e che vede i suoi estremi indicati, rispettivamente, nei seminari settimo e ventesimo. Nella comparazione di questi si assiste infatti al delinearsi di due etiche, una cristiana, del differimento e dell’infinitezza di un debito non saldabile (e naturalmente si riconosce a Nietzsche il merito di aver posto in essere tale problema, con e prima di Freud); dall’altro lato sta invece l’etica antica della divinizzazione, del dio aristotelico, dell’atto in atto. Antichità che, come si è visto, viene trattata con la dovuta problematicità.
Ma se noi oggi possiamo mettere in opera tale problematicità è perché nel frattempo abbiamo assistito all’entrata in campo di nuovi dispositivi e strumenti. In primo luogo naturalmente quello del soggetto, perno di una certa riflessione contemporanea, che si riflette anche negli scritti di Lacan, come mostra bene Leoni, nell’analizzare le implicazioni che i passi su linguaggio, vita ed economia hanno su di esso. Dall’altra la nascita di nuove scienze, quali biologia ed ecologia che, loro malgrado, ci mostrano la separatezza della vita da se stessa e in che senso la nascita della vita (o del linguaggio, potremmo dire) sia parimenti nascita della morte. Sono anche questi, temi su cui l’autore si sofferma a più riprese nel corso della trattazione. Se da un lato Leoni rintraccia in Lacan il persistere, in un primo tempo, di una visione ancora “cristianizzata” della soggettività, che vedrebbe in Shylock il proprio antesignano, in cui l’essere soggetto sarebbe legato a doppio filo a una legge che sancisce e garantisce la scambiabilità, la relazione, in subordinazione alla quale il soggetto stesso si costituirebbe (come mancanza, poiché in dipendenza dall’Altro); tuttavia il discorso sull’Uno porta con sé il tentativo di scavalcare il ricorso a tale mancanza costitutiva, e rintracciare l’attualità del pensiero nella forma del taglio. È così che Leoni scrive come il discorso di Lacan che confluisce nel Seminario VII, «Della creatione ex nihilo», sia in diretto contrasto, ancora una volta, con la metafisica aristotelica: «la materia è l’après coup della forma, e la forma è l’après coup del taglio» (p. 43).
Come si accennato, Leoni si confronta anche con le implicazioni politiche dei discorsi che porta avanti, e forse la distinzione tra politica e psicanalisi non ha più neanche senso di essere mantenuta, alla luce della lettura del libro, che tratta della dimensione istituzionale della psicanalisi stessa prendendo ad esempio una pratica tanto controversa quale quella della passe.
Basti dire, e ciò serva a stimolare la curiosità verso un libro che merita la lettura, come la politica che Leoni abbozza, in contrapposizione ad un restaurazionismo sempre in agguato, così come ad un progressismo vuoto di ogni significato, venga da questi caratterizzata come «politica dei divenire». Non resta che seguire l’autore nel suo itinerario.
Dalla psico-analisi all'analisi critica del soggetto politico
In Lacan politico (Cronopio, 2015), Bruno Moroncini si cimenta nell'impresa, quantomai ardita, di estrarre dal corpus letterario di uno dei pensatori più controversi dell'ultimo secolo una serie di concetti di matrice politica, rilanciando così la partita della politicità intrinseca alla pratica psicoanalitica - in particolare se di orientamento freudo-lacaniano - e insieme la riflessione sull'annosa questione del “disagio della civiltà” che, pur latitando dall’attuale orizzonte filosofico, non può che rimandare direttamente alla questione dell’ordinamento politico. L'impresa è davvero ardita, e lo è al netto di ogni retorica se si considera che lungo l'intero arco del suo insegnamento Jaques Lacan si è sempre ben guardato dal parlare esplicitamente di politica e non ha mai nascosto un certo qual disprezzo per il materiale antropologico di cui dispone ogni partito, governo o istituzione impegnati in un progetto teso a migliorare le condizioni di vita di una collettività. Significativa, a tal riguardo, è un'intervista rilasciata a Roma nel 1974: Lacan arriva qui addirittura ad affermare che gli scienziati «cominciano ad avere un'ideuzza che si potrebbero creare dei batteri resistenti a tutto, che nessuno potrebbe più fermare. Forse così si ripulirebbe la superficie della terra da tutte le cose merdose, in particolare umane, che la abitano», per poi lasciarsi andare a una fantasia: «che sollievo sublime sarebbe se tutto d'un tratto avessimo a che fare con un vero e proprio flagello, un flagello uscito dalle mani dei biologi. Sarebbe veramente un trionfo» (Lacan, 2006, p. 96).
L'aneddoto dovrebbe bastarci a diffidare dell’autore degli illeggibili Scritti qualora ci trovassimo, come accade oggi, a dover rivitalizzare un discorso politico che riversa esangue a partire almeno dal 1989, data che inaugura la cosiddetta “fine della storia” e consegna all'ultimo uomo quella condizione di languido tormento, quell'eterno sabato di nietzscheana memoria che è un po' la cifra della civiltà occidentale post-moderna o, che dir si voglia, contemporanea. L'invito di Moroncini, invece, è quello di scavalcare la radicale impoliticità del pensiero di Lacan per provare a scovare, nei meandri della sua scrittura mistica e respingente, dei punti cardinali per la riflessione politica odierna e degli strumenti concettuali raffinati che possano orientare una critica del presente alternativa all’usuale paradigma marxista.
Il libro si apre con un dialogo serrato tra lo psicanalista francese e Alain Badiou sulla possibilità, per le scienze umane, di individuare una logica collettiva sulla quale fondare movimenti di resistenza, ovvero degli insiemi politici che possano alterare l'ordine di cose esistente. Attraverso una dettagliata analisi de Il tempo logico e l'asserzione di certezza anticipata (Lacan, 1974, pp. 191-207)¹, forse lo scritto che sintetizza al meglio le basculanti e difficili relazioni tra psicanalisi e politica, Moroncini mostra come per entrambi gli autori il cominciamento del politico possa essere individuato nel processo di decifrazione del reale in cui ogni singolo soggetto è necessariamente implicato, e evidenzia come lo stesso processo, che per la psicanalisi non è altro che il meccanismo attraverso cui si istituisce il soggetto individuale, sia assunto da Badiou come direttiva pratica per la creazione di un movimento politico.
Il tentativo di far rientrare la psicanalisi all'interno della prospettiva rivoluzionaria-comunista, però, deve fare i conti con alcuni fra i postulati più importanti del pensiero di Lacan: «Se Lacan parte dal soggetto singolare - singolarizzato dal significante che lo rappresenta nell'ordine simbolico -, il rapporto intersoggettivo non potrà mai essere pensato come preesistente e fondante, ma dovrà essere compreso come il risultato di uno scambio ambiguo e complesso fra il soggetto e l'Altro. Nè appunto quest'ultimo può essere confuso con un'intersoggettività fungente di stampo fenomenologico; l'Altro da questo punto di vista è solo una batteria ordinata di significanti e non è né un Soggetto-sostanza, come lo spirito hegeliano, né una pluralità di soggetti da sempre in relazione fra di loro come per Husserl o per Arendt. Per Lacan il soggetto è sempre quello barrato che ex-siste rispetto all'Altro, che, giusta la figura topologica dell'otto interno, è dentro-fuori l'Altro. Perché si costituisca qualcosa come una relazione intersoggettiva o anche un'organizzazione politica nel senso di Badiou, è necessario allora partire dal tentativo di decifrazione che ogni soggetto fa per proprio conto di ciò che vuole l'Altro dal momento che il significato soggettivo è contenuto in quest'ultimo come un tesoro sta nascosto in uno scrigno (è il motivo d'altronde per cui Lacan lo chiama il tesoro del significante). Una decifrazione appunto ai limiti dell'impossibile dal momento che l'Altro è (l')inconscio» (Moroncini, pp. 29-30).
Porre l'accento sulla natura costitutivamente separata del soggettomina infatti alle basi la possibilità stessa di un'intersoggettività immediata, assunta spesso dalla riflessione filosofica alla stregua di un dato naturale e appunto postulata nella riflessione di Badiou, che sembra occuparsi della definizione di una soggettività collettiva senza minimamente problematizzare quella del singolo. Si staglia con precisione, in questo passaggio, la differenza radicale che distanzia la psicologia di Lacan dalla filosofia e che rende impossibile, anche per Badiou, l'assimilazione del lacanismo a qualsiasi progetto politico che si affidi alla forma-partito: la necessità di pensare il soggetto come fondamentalmente isolato, resto individuale, come sintomo sociale del reale, prodotto dal discorso e dilaniato dal linguaggio che presiede alla sua stessa costituzione. La caustica ironia che, come nell'aneddotosopracitato, Lacan sfodera nei suoi seminari e negli interventi pubblici, lascia infatti trasparire un pensiero politicamente disilluso, animato da una sobria e lucida solitudine, che non riesce a sganciarsi dall'assunto radicale secondo cui il dramma dell'insolubilità che definisce i conflitti politici non sia altro che la manifestazione di una soggettività separata a se stessa, votata alla mancanza e costitutivamente insoddisfatta. E'questo il senso da attribuire alla massima «non esiste rapporto sessuale», con la quale Lacan allude all'impossibilità per due soggetti di «fare uno», di unirsi in un rapporto altro da quello puramente fantasmatico, essendo i soggetti appunto già divisi in se stessi da una lacerazione costitutiva.
Ma se a sbarrare l'unità del soggetto è il «discorso dell'Altro», la catena significante che insiste quale condizione materiale del pensiero, Moroncini approfondisce e problematizza, nella seconda parte del testo, il concetto di «discorso» sviluppato nel Seminario XVII, non a caso intitolato Il rovescio della psicanalisi², e propone di leggerlo alla luce della differenza saussuriana tra langue e parole: «Il discorso è una realtà linguistica che si pone fra la langue e la parole: della prima conserva il carattere formale, di struttura, della seconda l'aspetto determinato e singolare; il discorso insomma da un lato indica relazioni concrete, specifiche, modi determinati di produzione del sapere, ruoli e posizioni assunti dagli attori coinvolti in queste relazioni, dall'altro evita la proliferazione potenzialmente illimitata delle emissioni di paroles, la dispersione disordinata di enunciati singolari, l'assenza di invarianti e quindi l'impossibilità di qualunque insegnamento e trasmissione» (Moroncini, pp. 77-78). Moroncini individua quindi nel concetto lacaniano di «discorso» quel «legame sociale attraverso il quale si compie il processo della produzione, accumulazione e trasmissione del sapere, e insieme quello in cui si produce il soggetto del sapere, il fondamento cioè su cui questi poggia o si regge» (p. 80), ovvero lo strumento concettuale più adatto a fondare una critica filosofica e psicoanalitica del campo politico odierno, ponendo l'accento, più che sui rapporti di sfruttamento capitalistici, sui processi di soggettivazione. Disposizione strategica del pensiero, questa, che si fa carico dell'alto grado di complessità che caratterizza il mondo contemporaneo, sempre più intasato da narrazioni salvifiche, escatologie low-cost e programmi politici di stampo paranoide, dei quali una certa critica mainstream non sempre riesce a rendere conto.
E' così allora che nella terza parte del libro, intitolata Politiche dell'angoscia, richiamandosi agli studi freudiani sulla psicologia delle masse e facendo dialogare Heidegger con Lévinas, Moroncinipone l'accento su come il politico si ponga sin dalle sue fondamenta storiche come quell'ontologia tesa a suturare il reale «bucato» dal discorso dell'Altro, attraverso l'impossibile instaurazione di un metalinguaggio, e su come l'insistita reviviscenza nella storia della «massa primordiale» altro non sia che «l'origine della civiltà umana in generale, la cui tematizzazione è resa possibile però solo dalle attuali condizioni della vita soggettiva. Come la conoscenza dello scheletro umano permette quello della scimmia, così la realtà delle folle urbanizzate dissolve le brume dei primordi ancestrali» (p. 145).
Considerazioni, queste, che dovrebbero risuonare in tutta la loro carica sovversiva di fronte allo spettacolo increscioso e barbaro offerto dalla politica contemporanea, condannata allo stallo da una sorta di coazione a ripetere che riproduce il fenomeno della campagna elettorale nei contesti più disparati, esemplificando al meglio la deriva che può assumere il dibattito politico – e l'esercizio stesso dell'autorità istituzionale – qualora non siano esplicitati e messi in causa i moventi libidici, gli interessi particolari e strumentali che questo dibattito presuppone o nel caso in cui non si disponga di un arsenale interpretativo tale da poter decostruirne il linguaggio o meglio, il «discorso». «L'intrusione nel politico può essere fatta solo riconoscendo che non c'è discorso, e non solo analitico, se non del godimento, almeno quando ci si aspetta il lavoro della verità» (Lacan, 2001, p. 93): è con questa massima, allora, che potremmo riassumere la posizione privilegiata detenuta oggi dalla psicanalisi nel dibattito filosofico-politico. Concentrando le sue attenzioni sulla dimensione puramente impersonale del linguaggio e sottomettendo l'attività conscia del soggetto a qualcosa che è disciplinare per necessità, Lacan pone così le basi per un ripensamento critico delle forme concrete in cui si articola il nostro vivere sociale, e rilancia così la partita politica sul campo dell'interpretazione e dell'atto soggettivo che rende conto dei rapporti di subordinazione strutturali, istituiti a partire dalla realtà politica in quanto «realtà di linguaggio».
E' questo, allora, il contributo concreto che la psicoanalisi può fornire oggi al dibattito filosofico, per favorire una riflessione che dislochi il reale della politica dall'arena pubblica in cui è condannato a essere mimato, rimosso e mistificato allo spazio intimo e interno al soggetto, radicando così nell'atteggiamento individuale di fronte al mondo e nello sforzo singolare verso la comprensione quella tensione eticain grado di realizzare, anche se per poco, una relazione intersoggettiva scevra da illusioni e fantasie sociali. Una relazione che sia però consapevole dei limiti intrinseci dell'essere parlante: «L'inconscio, che vi dico così fragile sul piano ontico, è etico...e comunque sia bisogna andarci dentro» (Lacan, 2003, p. 34).
Note
1. Testo nel quale al lettore è sottoposto il famoso apologo dei prigionieri, rompicapo logico che riassume le problematiche sollevate dall'introduzione dell'inconscio (quello di Lacan, strutturato come un linguaggio) come variabile nella riflessione filosofico politica.
2. L'allusione è proprio la filosofia come disciplina che, pur fruendo delle potenzialità creative del linguaggio, non ne considera quegli effetti che potremmo considerare di «rinculo», o di «contraccolpo», che sono invece il campo dell'esperienza psicoanalitica: «Attraverso lo strumento del linguaggio si instaura un certo numero di relazioni stabili, all'interno delle quali è di certo possibile iscrivere qualcosa che è molto più ampio e che va ben oltre le enunciazioni effettive. Nessun bisogno di queste perché il nostro comportamento, i nostri atti si iscrivano eventualmente nel quadro di certi enunciati primordiali» (p.5)
Bibliografia
Lacan, J. (1974). Il tempo logico e l'asserzione di certezza anticipata (in Scritti, Vol. I). Einaudi : Torino
Lacan, J. (2001). Il Seminario XVII: Il rovescio della psicanalisi. Einaudi : Torino
Lacan, J. (2003). Seminario XI: I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi. Einaudi : Torino
Lacan, J. (2006). Dei Nomi del Padre seguito da Il trionfo della religione. Einaudi : Torino
«L’architettura è un’arte di frontiera. Solo se si accetta la sfida di farsi contaminare, ha ragione di essere. Altrimenti è roba da salotto». Renzo Piano
Nonostante la funzionalizzazione costrittiva che ha iniziato a investire anche questa lingua di terra alberata, continuano a manifestarsi davanti a noi indizi di un diverso utilizzo dell'area e di un passato piuttosto recente: un vecchio divano sotto un acero, un tavolino, qualche scatola di medicine e piccoli suppellettili che richiamano l'intimità della vita domestica. Vedere questi oggetti in un parco è abbastanza peculiare perché non è il luogo che per primo si associa alle scelte di sosta dei senzatetto. Subito verrebbe da pensare che ci fosse fino a poco tempo fa un riparo più stabile, e che forse proprio la presenza degli ingenti lavori abbia minato in qualche modo le vite di chi ne usufruiva.