-
-
Dall’incrinatura alla creazione
Longform / Novembre 2021Nel suo primo libro che non si presenta nella forma di studio monografico su un autore, ma come un’opera di carattere spiccatamente teorico, vale a dire Différence et répétition, Gilles Deleuze introduce un tema significativo: quello dell’incrinatura dell’Io. Egli fa risalire la presa di coscienza di tale fenomeno a Kant, richiamando in particolare una nota, nella Critica della ragione pura, in cui si legge: «L’io penso esprime l’atto del determinare la mia esistenza. Con ciò l’esistenza è quindi già data; tuttavia, con ciò non è ancora dato il modo in cui io debba determinare tale esistenza, cioè porre in me il molteplice che appartiene ad essa. Per questo si richiede l’auto-intuizione, che si fonda su una forma data a priori, cioè il tempo» (Kant 1997: 115) [1]. Da questa breve osservazione derivano, secondo Deleuze, conseguenze radicali. Infatti, se «la mia esistenza indeterminata può essere determinata solo nel tempo», allora «la spontaneità di cui ho coscienza nell’Io penso non può essere intesa come l’attributo di un essere sostanziale e spontaneo, ma soltanto come l’affezione di un io passivo il quale avverte che il proprio pensiero, la propria intelligenza, ciò attraverso cui egli dice io, si esercita in lui e su di lui […]. L’attività del pensiero si applica a un essere ricettivo, a un soggetto passivo, che si rappresenta dunque tale attività piuttosto che attuarla, ne sente l’effetto piuttosto di averne l’iniziativa, e che la vive come un Altro dentro di lui. […] Da parte a parte, l’io è come attraversato da un’incrinatura; è incrinato dalla forma pura e vuota del tempo» (Deleuze 1997: 116-117) [2].
Ma non basta: mentre ancora in Descartes «l’identità supposta dell’Io non ha altro garante che l’unità di Dio stesso», Kant annuncia «la simultanea scomparsa della teologia razionale e della psicologia razionale, il modo in cui la morte speculativa di Dio porta con sé un’incrinatura dell’Io» (Deleuze 1997: 116). Va precisato, però, che quest’audace avanzata teorica kantiana è seguita da un arretramento, per cui «il Dio e l’Io conoscono una resurrezione pratica. E anche nell’ambito speculativo, l’incrinatura è presto colmata da una nuova forma d’identità, l’identità sintetica attiva» (Deleuze 1997: 117). La prospettiva prima dischiusa e poi richiusa da Kant viene, a giudizio di Deleuze, riaperta da un poeta, Hölderlin, «che scopre il vuoto del tempo puro e, in tale vuoto, scopre nel contempo il continuo distogliersi del divino, l’incrinatura prolungata dell’Io e la passione costitutiva del Me. In questa forma del tempo, Hölderlin scorgeva l’essenza del tragico o l’avventura di Edipo, come un istinto di morte» Deleuze 1997: 117).
Il riferimento è ai commenti aggiunti dal poeta alle proprie traduzioni di due tragedie di Sofocle, e in particolare alle Note all’«Edipo» (Hölderlin 2019: 763-773). Qui Hölderlin sostiene che nella tragedia trova espressione il fatto che, «in un’epoca ristagnante, il dio e l’uomo, affinché non vi sia lacuna nel corso del mondo e non si spenga la memoria dei celesti, comunicano nella forma, dimentica di tutto, dell’infedeltà […]. In tale momento l’uomo dimentica sé e il dio, e gli si rivolta – seppur in modo sacro – come un traditore. Al limite estremo della sofferenza, infatti, non esiste più niente, tranne le condizioni del tempo e dello spazio» (Hölderlin 2019: 772-773). Deleuze allude anche a un’altra osservazione hölderliniana, quella secondo cui, essendo «il trasporto tragico […] in sé vuoto», ne consegue che, «nella sequenza ritmica delle figurazioni in cui il trasporto si manifesta, diventa necessaria la parola pura, l’interruzione antiritmica – ciò che nella metrica si chiama cesura» (Hölderlin 2019: 764). Quest’ultima nozione viene rapportata dal filosofo francese non soltanto al tempo, ma anche alla psiche, per cui «sono la cesura, e il prima e il dopo che essa ordina una volta per tutte, a costituire l’incrinatura dell’Io (la cesura è esattamente il punto d’insorgenza dell’incrinatura)» (Deleuze 1997: 119).
Già dai pochi passi citati (relativi a Kant e Hölderlin) emergono due tratti caratteristici: la propensione di Deleuze a proporre interpretazioni piuttosto libere dei testi, in funzione di una teoria che egli intende avanzare per interposta persona, e la tendenza ad utilizzare spesso esempi letterari, accanto a quelli filosofici. Questo secondo aspetto del suo modo di procedere trova conferma nel rinvio, nelle stesse pagine, a testi narrativi: «Sul tema di una “incrinatura” dell’Io, in rapporto essenziale con la forma del tempo intesa come istinto di morte, ci si riporterà a tre grandi opere letterarie, benché assai diverse fra loro: La bête humaine di Zola, Il crollo di F. S. Fitzgerald, Sotto il vulcano di M. Lowry» (Deleuze 1997: 117) [3].
Al primo di questi testi, Deleuze ha dedicato un saggio, incluso nel volume Logique du sens (Deleuze 1975: 281-291). Egli ricorda che è stato lo stesso Zola ad usare nel suo romanzo il termine «incrinatura», in riferimento a una specie di tara ereditaria di cui il protagonista, Jacques Lantier, subisce le conseguenze (Zola 2019: 63-64). In effetti è noto che lo scrittore prestava molto credito alle teorie, in voga a quell’epoca, relative all’ereditarietà. Ma Deleuze sostiene che, nel caso specifico di Lantier, le cose sono più complesse: «L’ereditarietà non è ciò che passa attraverso l’incrinatura, ma è l’incrinatura stessa: la frattura o il buco, impercettibili. […] Non trasmette nulla tranne se stessa» (Deleuze 1975: 282). Anche l’istinto (sessuale o omicida) a cui il protagonista cede, con esiti rovinosi per lui e per altri, «non si confonde mai con l’incrinatura, ma intrattiene con essa stretti rapporti variabili: ora la ricopre e rincolla alla meglio, e per un tempo più o meno lungo […]; ora l’allarga, le dà un diverso orientamento che fa esplodere i frammenti» (Deleuze 1975: 282-283). L’incrinatura non opera dunque alla maniera dell’ereditarietà, «non riproduce un “medesimo”, non riproduce nulla, si limita ad avanzare in silenzio, a seguire le linee di minor resistenza, sempre deviando, pronta a cambiare direzione» (Deleuze 1975: 284). Da ultimo, il filosofo ritiene di poter affermare che «l’essenziale di La bête humaine è l’istinto di morte nel personaggio principale, l’incrinatura cerebrale di Jacques Lantier, macchinista di locomotiva» (Deleuze 1975: 286).
Parlare di istinto di morte equivale senza dubbio a chiamare in causa la psicoanalisi. In Différence et répétition, Deleuze ricorda le tesi esposte (o, per meglio dire, prese in esame) da Freud in Al di là del principio del piacere (Freud 1989: 187-249), e tuttavia lo fa soprattutto al fine di contestarle. Così, se il fondatore della psicoanalisi giungeva a ipotizzare un contrasto di fondo tra pulsioni di vita, identificabili con l’eros, e pulsioni di morte, il filosofo nega l’indipendenza di queste ultime: «Non vediamo dunque alcuna ragione per supporre un istinto di morte che si distingua da Eros, sia per una differenza di natura tra due forze, sia per una differenza di ritmo o di ampiezza tra due movimenti. In entrambi i casi, la differenza sarebbe già data, e Thanatos indipendente. Secondo noi, al contrario, Thanatos si confonde interamente con la desessualizzazione di Eros» (Deleuze 1997: 148). Poiché la concezione di Deleuze è di tipo essenzialmente vitalistico, egli non può far altro che arretrare di fronte all’idea che esista un’autonomia delle pulsioni di morte.
Nel contempo, però, egli si rende conto che sarebbe poco corretto pensare all’incrinatura dell’io come se si trattasse unicamente di un fenomeno negativo, di una mera sottrazione di energia, sicché in altri punti del suo libro egli presenta la crepa che si produce nella psiche in maniera del tutto differente, ossia come generatrice di idee: «Per quanto il Cogito rinvii a un Io incrinato, spaccato da parte a parte dalla forma del tempo che lo attraversa, bisogna dire che le Idee formicolano in tale incrinatura, emergono costantemente sui bordi di essa, uscendo e rientrando senza posa, componendosi in mille modi diversi» (Deleuze 1997: 221). Può sembrare contraddittorio conferire all’incrinatura psichica caratteri nel contempo negativi e positivi, ma questa duplicità appartiene alla natura stessa del fenomeno in questione. Chi subisce gli effetti dell’incrinatura si trova suo malgrado a sperimentare qualcosa di eccessivo, che lo destabilizza fin nel profondo. A ciò può reagire in due maniere opposte, o lasciandosi scivolare sulla china della perdita, dell’istinto di morte, oppure trasformando l’incrinatura in uno stimolo, ad esempio per la creazione di concetti filosofici o di opere artistiche.
Infatti l’insorgenza del pensiero innovativo non dipende, secondo Deleuze, da una predisposizione innata o da uno sforzo volontaristico, bensì da uno choc iniziale che si è subito. Già nel suo libro su Proust egli avvertiva che «il torto della filosofia sta nel presupporre in noi una buona volontà di pensare, un desiderio, un amore naturale del vero. Perciò la filosofia arriva soltanto a verità astratte, che non compromettono nessuno e non sconvolgono nulla. […] Tali idee restano gratuite, perché sono nate dall’intelligenza, che conferisce loro una sola possibilità, e non da un incontro o da una violenza che potrebbero garantirne l’autenticità. […] La verità dipende da un incontro con qualcosa che ci costringe a pensare, e a cercare il vero» (Deleuze 1986: 16-17). Dato che Deleuze sta parlando di Proust, si può scorgere una corrispondenza tra la valorizzazione delle idee filosofiche subite rispetto a quelle elaborate razionalmente e il privilegio (conoscitivo, oltre che emotivo) concesso dall’autore della Recherche alla memoria involontaria in confronto a quella volontaria. Ma anche nel diverso contesto di Différence et répétition Deleuze ribadisce che le idee cui si perviene per semplice ragionamento logico hanno un valore limitato: «Manca ad esse una provocazione, che sarebbe quella della necessità assoluta, cioè di una violenza originaria fatta al pensiero, di un’estraneità, di un’inimicizia che sola lo farebbe uscire dal suo stupore naturale o dalla sua eterna possibilità: […] non c’è pensiero se non involontario, costrizione suscitata nel pensiero» (Deleuze 1997: 182).
Il fatto che la violenza subita dalla psiche non raggiunga necessariamente l’individuo quando si trova nel pieno possesso delle proprie forze fisiche e mentali, ma possa pure esercitarsi su persone in apparenza deboli verrà chiarito in opere successive, a cominciare da Dialogues. In quel libro leggiamo che, «attraverso ogni combinazione fragile, è una potenza di vita ad affermarsi, con una forza, un’ostinazione, una perseveranza nell’essere che sono impareggiabili. È curioso come i grandi pensatori abbiano una vita personale fragile, una salute molto incerta, e al tempo stesso innalzino la vita allo stato di potenza assoluta o di “grande Salute”» (Deleuze & Parnet 1998: 11-12) [4]. Così, parlando dei filosofi a cui si sente più legato, primi fra tutti Spinoza e Nietzsche, Deleuze osserva: «Tutti questi pensatori hanno una costituzione fragile, eppure sono attraversati da una vita insuperabile. Procedono solo per potenza positiva, e di affermazione. Hanno una sorta di culto della vita» (Deleuze & Parnet 1998: 21). È ammirevole la discrezione che induce il pensatore francese a non dire nulla riguardo al proprio stesso caso, che è quello di una persona afflitta, per gran parte dell’esistenza, da seri problemi di salute.
Il discorso non è valido solo per il filosofo, ma anche per l’artista. Quest’ultimo – si legge in un’altra opera – è qualcuno che «ha visto nella vita qualcosa di troppo grande, di troppo intollerabile anche», ed è proprio questa esperienza a renderlo «un veggente, un diveniente» (Deleuze & Guattari 1996: 176). Occorre dunque essersi trovati ad affrontare una dura prova: «Per aver raggiunto il percetto come “la fonte sacra”, per aver visto la Vita nel vivente o il Vivente nel vissuto, il romanziere o il pittore tornano con gli occhi rossi, col fiato corto» (Deleuze & Guattari 1996: 177) [5]. Sotto questo profilo, dunque, non c’è differenza tra il pensatore, che lavora con i concetti, e l’artista, che invece ha a che fare con i percetti. «In tal senso gli artisti sono come i filosofi, hanno spesso una salute troppo fragile; non a causa delle malattie o delle nevrosi, ma perché hanno visto nella vita qualcosa di troppo grande per chiunque, di troppo grande per loro, e che ha impresso su di essi il sigillo discreto della morte. Ma questo è anche la fonte o il respiro che consente loro di vivere, attraverso le malattie del vissuto (è ciò che Nietzsche chiamava salute)» (Deleuze & Guattari 1996: 178).
Anche nell’ultimo libro pubblicato in vita, Critique et clinique, il filosofo tornerà a ribadire la propria convinzione, parlando stavolta in maniera più specifica degli autori di opere letterarie: «Non si scrive con le proprie nevrosi. La nevrosi, la psicosi non sono passaggi di vita, ma stati in cui si cade quando il processo è interrotto, impedito, chiuso. […] Perciò lo scrittore in quanto tale non è malato, ma piuttosto medico, medico di se stesso e del mondo. Il mondo è l’insieme dei sintomi di una malattia che si confonde con l’uomo. La letteratura appare allora come un’impresa di salute: non che lo scrittore abbia necessariamente una salute vigorosa […], ma gode di un’irresistibile salute precaria che deriva dall’aver visto e sentito cose troppo grandi, troppo forti per lui, irrespirabili, il cui passaggio lo sfinisce, e tuttavia gli dischiude dei divenire che una buona salute dominante renderebbe impossibili» (Deleuze 1996: 16).
In queste stesse frasi non mancano gli echi letterari. Così la formula «cose troppo grandi, troppo forti per lui», presuppone forse, da parte di Deleuze, la reminiscenza di una lettura di Proust: infatti, nel romanzo giovanile incompiuto Jean Santeuil, il protagonista manifestava le proprie incertezze e paure pensando: «Il mondo è troppo complicato per me, la vita è troppo forte per me» (Proust 1976: 63). Quanto poi all’idea secondo cui lo scrittore non va considerato come malato bensì come terapeuta, era già stata formulata da un altro scrittore caro al filosofo, ossia Artaud, che parlando a nome degli alienati (categoria a cui sentiva di appartenere) dichiarava: «Noi che il dolore ha fatto viaggiare nella nostra anima alla ricerca di un luogo di calma a cui aggrapparci, alla ricerca della stabilità nel male come gli altri nel bene. Noi non siamo folli, siamo dei medici meravigliosi» (Artaud 2004: 128). Un terzo riferimento, stavolta reso esplicito da Deleuze, è al testo in cui Michaux, riferendosi alla propria raccolta di brani narrativi e poetici dal titolo Mes propriétés, dichiara di averla composta «per la mia salute. Senza dubbio non si scrive per un motivo diverso. Non si pensa in altro modo. […] Questo libro, quest’esperienza che pare dunque provenire tutta dall’egoismo, mi spingerei fino a dire che è sociale, a tal punto si tratta di un’operazione alla portata di tutti e che sembra dover essere così vantaggiosa per i deboli, i malati e malaticci, i bambini, gli oppressi e i disadattati di ogni genere. In tal modo, vorrei essere stato utile almeno a quei sofferenti immaginosi, involontari, perpetui» (Michaux 1998: 511-512) [6].
Si può dire pertanto che aver subito una certa incrinatura a livello psichico, o comunque l’aver fatto esperienza di qualcosa che destabilizza il soggetto percipiente, sottoponendolo a un eccesso di dolore (o magari di gioia), se può in certi casi indebolirne le difese, così da indurlo a cedere a pulsioni mortifere, in altri e più fortunati casi può conferirgli delle capacità di pensiero e di creazione che in precedenza erano per lui inaccessibili. Deleuze elogia ad esempio scrittori americani come Fitzgerald e Lowry perché, a suo dire, hanno colto appieno la potenza della vita e, per poterla sopportare, hanno fatto ricorso all’alcol. Questo ha consentito ad essi di trasmettere, nella scrittura letteraria, la loro particolare visione, ma evidentemente ha comportato anche dei rischi, poiché in effetti occorrerebbe sempre «fare in modo che la linea di fuga non si confonda con un puro e semplice movimento di autodistruzione» (Deleuze & Parnet 1998: 44). Infatti, quando la linea di fuga si volge in linea di morte, l’esistenza, e con essa la scrittura, divengono impraticabili. «Perché si scrive? Il fatto è che non si tratta di scrittura. Può darsi che lo scrittore abbia una salute fragile, una costituzione debole. Ciò non toglie che sia proprio l’opposto del nevrotico: una sorta di grande Vivente (alla maniera di Spinoza, di Nietzsche o di Lawrence), anche se è soltanto troppo debole per la vita che lo attraversa o gli affetti che passano in lui» (Deleuze & Parnet 1998: 55). Occorre dunque saper trasformare l’incrinatura iniziale in una creativa linea di fuga, ma occorre anche, mentre si è impegnati a tracciare tale linea, imparare a conoscere «i pericoli che vi si corrono, la pazienza e le precauzioni che bisogna impiegare, le correzioni che bisogna apportare di continuo» (Deleuze & Parnet 1998: 44). Solo così, secondo Deleuze, l’atto di creazione giungerà a buon fine, e il pensatore o lo scrittore potranno dire di essere riusciti a esprimere la potenza, nel contempo terribile ed esaltante, della vita.
di Giuseppe Zuccarino
.
.
Bibliografia
Artaud, A. (2004). Sûreté générale - La liquidation de l’opium. In Œuvres. Paris: Gallimard, 2004, 126-128.
Deleuze, G. (1986). Marcel Proust e i segni. Torino: Einaudi.
Id. (1975). Zola e l’incrinatura. In G. Deleuze, Logica del senso. Milano: Feltrinelli, 281-291.
Id. (1997). Differenza e ripetizione. Milano: Cortina.
Id. (1996). Che cos’è la filosofia? Torino, Einaudi, 1996.
Deleuze, G. & Parnet, C. (1998). Conversazioni. Verona: Ombre corte.
Deleuze, G. & Guattari, F. (2017). Mille piani. Capitalismo e schizofrenia, Napoli-Salerno : Orthotes.
Id. La littérature et la vie, in Critique et clinique, Paris, Éditions de Minuit, 1993, pp. 11-17 (tr. it. La letteratura e la vita, in Critica e clinica, Milano, Cortina, 1996, pp. 13-19).
Deleuze G. (2004). L’abbecedario di Gilles Deleuze, Roma: DeriveApprodi.
Fitzgerald, F. S. (2010), Il crollo. Adelphi: 2010.
Freud, S. (1989). Al di là del principio del piacere. in Opere, vol. 9. Torino: Bollati Boringhieri, 187-249.
Hölderlin, F. (2019). Note all’«Edipo». In Prose, teatro e lettere, Milano: Mondadori, 763-773.
James, H. (1984). La fonte sacra. Torino: Einaudi.
Kant, I. (1995),.Critica della ragione pura. Milano: Adelphi.
Lowry, M. (1961). Sotto il vulcano. Milano: Feltrinelli.
Michaux, H. (1998), Postface a Mes propriétés. In La nuit remue, in Œuvres complètes, vol. I. Paris: Gallimard, 511-512.
Nietzsche, F. (1991), La gaia scienza. in Opere, vol. V, tomo II. Milano : Adelphi, 13-323.
Proust, M. (1976), Jean Santeuil, Torino : Einaudi.
Zola, É (2019). La bestia umana, Milano: Rizzoli.
.
.
[1] Al passo si rimanda in Deleuze 1997: 115.
[2] Si avverte che i passi delle traduzioni italiane cui si rimanda vengono spesso citati con modifiche.
[3] Cfr. Zola 2019; Scott Fitzgerald 1961. Sul racconto di Fitzgerald, si veda anche Deleuze & Guattari 2017: 287-289.
[4] L’espressione citata da ultimo fra virgolette rimanda a un concetto nietzschiano: cfr. l’aforisma La grande salute, in Nietzsche 1991: 307-309.
[5] La fonte sacra è il titolo di un romanzo di Henry James del 1901 (1984).
[6] Deleuze rimanda a queste pagine in Deleuze & Guattari 1997: 163 e in Deleuze 1996: 16.
-
Estetica dell’improvvisazione
Recensioni / Ottobre 2021Da anni ormai i concetti di performance e performatività animano il dibattito contemporaneo, tagliando trasversalmente i più svariati settori disciplinari e offrendo strumenti per corroborare discorsi che possono anche essere di segno opposto l’uno rispetto all’altro. In estetica, l’attenzione per il performativo ha restituito lavori molto interessanti – magistrale in questo senso è la Ästhetik des Performativen di Erika Fischer-Lichte, uscita nel 2004 e preceduta di un paio d’anni dalle Untersuchungen di Dieter Mersch; nello stesso periodo, in ambito analitico, si affacciavano le ricerche di David Davies sull’arte come performance. In questo orizzonte teorico assistiamo oggi alla nascita di molteplici estetiche del performativo, che declinano variamente la linea di ricerca inaugurata dall’attenzione artistica per il carattere evenemenziale della performance.
Ed è precisamente in questo solco che si colloca l’Estetica dell’improvvisazione di Alessandro Bertinetto, uscita per il Mulino nel giugno 2021. Imperniandosi sul concetto di improvvisazione, indagato dall’autore nel corso di una ricerca ormai più che decennale, questa specifica “estetica del performativo” rappresenta ed articola le esigenze della contemporanea riflessione sull’arte (intesa, con Georg Bertram, come prassi umana). Se da una parte il testo tiene conto di un gran numero di autori e dibattiti a noi coevi (dalla material culture all’enattivismo, dal pensiero ecologico al post-human turn), esso si nutre però anche di alcuni classici della filosofia (Kant e Hegel, Wittgenstein e Gadamer) che paiono almeno in parte mediati dalla formazione dell’autore avvenuta sotto la guida di un maestro del tenore di Gianni Vattimo. Numerosissime sono anche le tesi di chiaro sapore pareysoniano; questo libro si pone così in dialogo con la contemporaneità più attuale e urgente pur rappresentando, al contempo, un’eredità del pensiero torinese del secondo Novecento.
Dopo aver brevemente ricostruito la storia del concetto e aver offerto alcune coordinate nel panorama del dibattito sull’improvvisazione, il primo capitolo introduce alcuni dei temi che verranno sviluppati nel corso del testo. Tra questi, di non poco rilievo è la questione della spontaneità. In questa prospettiva, infatti, l’improvvisazione non è intesa come un’azione estemporanea, realizzata ex nihilo: piuttosto, l’improvvisazione stringe un’alleanza con pratiche ripetitive come l’allenamento, l’esercizio e l’abitudine, che dell’improvvisazione divengono non solo la controparte ma, più radicalmente, la condizione di possibilità. La spontaneità, dunque, non è spontanea ma «coltivata» (p. 82); il gesto improvvisativo è radicato in un contesto “ecologico” fatto di vincoli materici, tradizioni culturali, pratiche e schemi sedimentati nella memoria collettiva e nella memoria del corpo, i quali vengono a loro volta modificati nella prassi che li coinvolge.
È nel secondo capitolo che i tratti precipui di tale estetica dell’improvvisazione vengono delineati. Il pregio dell’improvvisazione è, secondo l’autore, quello di mettere in scena in maniera eminente il carattere artistico del confronto con la contingenza: l’imprevisto non va subìto passivamente, ma neppure si può pretendere di esercitare su di esso un controllo trasparente. In queste pagine viene allora articolata una «grammatica della contingenza» (p. 37) che «mette in scena e mette in questione» (p. 88) nozioni come quella di autorialità, promuovendo l’idea che la creatività artistica sia «ossimorica attività passiva» (p. 45) – laddove non si abbia a che fare, addirittura, con casi di «creatività distribuita» (p. 105). Emergenza, presenza, curiosità e autenticità: queste sono le categorie estetiche in cui la grammatica artistica della contingenza si articola. Soprattutto le prime due categorie, che più o meno implicitamente tracciano una continuità forte con l’estetica di Fischer-Lichte e con il suo lessico, permettono di portare l’attenzione su un altro elemento interessante: il ruolo del fruitore in questo quadro. Qualificandosi come coincidenza ontologica di invenzione ed esecuzione, l’improvvisazione parrebbe destinata a fondare un’estetica imperniata sulla produzione. Ma così non è nel testo di Bertinetto, il quale non rinuncia a delineare anche un’estetica della ricezione: la fruizione, qui, è intesa come partecipazione attiva alla costituzione dell’opera (secondo una tesi non solo di Bertram ma già, almeno, di Luigi Pareyson e Umberto Eco); il fruitore sperimenta un coinvolgimento empatico rispetto all’opera ed entra nel circolo di retroalimentazione che forma e trasforma l’opera stessa, in un processo trasformativo che non risparmia neppure il contesto né il fruitore stesso. Senso e significato emergono così in una dinamica autopoietica e ricorsiva che si realizza in virtù della compresenza corporea di artista e fruitore – dove la presenza dell’artista può essere reale oppure differita.
Proprio l’eventualità che l’artista sia presente in differita apre alla possibilità di adottare l’improvvisazione come modello applicabile anche all’analisi di opere d’arte “non performative”. Se infatti è piuttosto chiaro come l’improvvisazione possa divenire paradigmatica per quelle arti, come il teatro o la danza, in cui non si fatica a pensare la simultaneità di invenzione e performance produttiva, meno evidente è invece il valore che l’improvvisazione può assumere qualora processo e prodotto non coincidano, come nel caso della pittura o della scultura. Il terzo capitolo propone una carrellata di fenomeni artistici che vanno dalla poesia alla Land Art, dall’installazione alla fotografia, cercando di mostrare di volta in volta come l’improvvisazione giochi un ruolo di rilievo in queste pratiche. Nelle arti non performative, sostiene Bertinetto, l’improvvisazione può essere non solo una tecnica di produzione: essa può anche divenire il tema estetico dell’opera, incoraggiando una fruizione in cui l’opera sia intesa come «presentazione, per così dire per delega, del produttore» (p. 113). Il dipinto, così, è indice del gesto del pittore, il quale è allora presente nel suo prodotto; nella configurazione dell’oggetto il fruitore rivede l’artista all’opera – e in questo modo l’improvvisazione, pur facendo cenno, in certi casi, all’opportunità di accogliere partner macchinici o animali, si configura in questo libro come una pratica di pertinenza esclusivamente umana.
Tra le altre cose, il quarto ed ultimo capitolo insiste anche sul tema che, sottotraccia, sembra animare l’intero testo: l’idea che la specificità dell’improvvisazione consista nell’esibire la normatività trasformativa dell’esperienza estetica dell’arte mostrando questa dinamica proprio nel suo farsi. Tale «normatività trasformativa, fluida e consegnata alla possibilità del fallimento» (p. 151) si inquadra nell’ambito di una «estetica della riuscita»: come scrive l’autore, «i criteri di successo e fallimento dell’arte sono negoziati in e attraverso ogni singola opera e performance» (p. 145). Muovendo una critica all’approccio “imperfezionista” e al categorialismo di Kendall Walton (su cui tale approccio è basato), Bertinetto sostiene che norme e categorie estetiche non precedono le singole opere e le singole esperienze estetiche, ma sono generate e modificate nel corso stesso delle pratiche artistiche ed estetiche, costituendosi dunque come sistema aperto secondo il modello della ricorsività autopoietica.
Le ultime pagine del testo, infine, suggeriscono declinazioni politiche (seppur in senso lato) di tale estetica dell’improvvisazione. L’esperienza estetica è vista come esercizio di socialità, il giudizio estetico come emergenza di «un senso comune plurale e in fieri» (p. 182). Se «l’improvvisazione è esercizio di un con-sentire da cui possono svilupparsi valori e significati condivisi», allora le pratiche improvvisative potrebbero aprire il campo a scenari in cui le comunità si mantengono sempre plastiche, trasformabili e trasformative nel proprio stesso farsi. E l’improvvisazione, allora, assumerebbe il massimo spessore eccedendo l’estetica e assumendo valenza etica e politica, mostrandosi capace di «intensificare l’umanità» (p. 188) in un corrispondere del soggetto agli altri e all’ambiente.
di Alice Iacobone
-
In simbiosi c’a natura, in guerra c’a mij
Ugo ScicoloneOltre natura e cultura (2005) di Philippe Descola – riproposto ora da Raffaello Cortina, a cura di Nadia Breda, dopo una prima traduzione SEID del 2014 divenuta presto irreperibile – è un libro che certo non si adopera per nascondere la portata dell’operazione cui si dedica. Ed ecco il primo merito da riconoscere a questo instant classic del pensiero antropologico contemporaneo: il candore nel confessare l’ambizione, e la consequenzialità dello sforzo messo in opera per esserne all’altezza. Le oltre quattrocento pagine (seicento, nell’edizione poche di Gallimard) lungo le quali si articola il volume fanno un uso sapiente dell’esperienza etnografica dell’autore – tra gli Achuar dell’Amazzonia ecuadoregna – così come di una vasta letteratura etnologica e di selezionati riferimenti teorici per rimetter mano a uno dei temi più classici della disciplina: il rapporto tra natura e cultura.
Si tratta di una questione d’importanza capitale per l’antropologia, il campo di una partita «narcisistica» (Viveiros de Castro 2017) in cui ne va delle fondamenta stesse – epistemologiche e politiche a un tempo – della disciplina. Nel primo capitolo de Le strutture elementari della parentela, Claude Lévi-Strauss, di cui Descola è stato discepolo ed erede al Collège de France, aveva indicato nell’incesto il luogo in cui, all’interno dell’avventura umana, la natura prende le forme sempre locali, sempre specifiche, della cultura – delle culture. La natura umana è vuota, mancante, segnata; la cultura, dunque, altro non sarebbe che la maniera in cui gli umani s’ingegnano per riempire questa natura, e così compierla, nelle forme sempre specifiche e mai concluse prodotte e riprodotte dai vari collettivi. All’epoca, si trattava di affermare l’autonomia della disciplina, e l’arbitrarietà del segno linguistico – la violenza muta della castrazione – sembrò sufficiente a garantire l’invalicabilità di una soglia al riparo della quale l’antropologia poteva dirsi scienza. Tale gesto inaugurava quello che ancor oggi va probabilmente annoverato come il momento di maggior lustro della disciplina, stagione di un fortunato contrabbando che avrebbe portato alla diffusione degli strumenti forgiati nel laboratoire d’anthropologie sociale presso psicanalisti, filosofi, storici e linguisti. Lungo le rotte di questo commercio, lo strutturalismo assumeva l’ambizione – se non la solidità – di un paradigma.
In Oltre natura e cultura, Descola si pone esplicitamente nel solco di Lévi-Strauss; e in particolare si ripromette di proseguire una pista additata eppure lasciata inesplorata da parte del maestro, che ne Il pensiero selvaggio aveva scritto:
Il marxismo – se non proprio Marx – ha ragionato troppo spesso come se le pratiche dipendessero direttamente dalla praxis. Senza mettere in causa l’incontestabile primato delle infrastrutture, noi crediamo che tra praxis e pratiche si inserisca sempre un mediatore che è lo schema concettuale per opera del quale una materia e una forma, prive entrambe di esistenza indipendente, si adempiono come strutture, ossia come esseri al tempo stesso empirici e intellegibili (Lévi-Strauss 2010, p. 146, cit. in Descola 2021, 116).
Tra la disposizione simbolica dell’umano e la varietà delle forme concrete cui essa può dar luogo, ecco stagliarsi una terra di mezzo che l’antropologia sarebbe attrezzata per conquistare, e dove potrebbe giocarsi la tenuta del proprio rinnovato progetto intellettuale. Così, Descola ritiene che «sia possibile e necessario risalire […] verso un nucleo di schemi elementari della pratica le cui differenti configurazioni permetterebbero di dar conto di tutta la gamma delle relazioni con gli esistenti, una sorta di matrice originaria dove gli habitus troverebbero la loro fonte e di cui conserverebbero una traccia percepibile in ciascuna delle loro manifestazioni storiche» (Descola 2021, p. 112).
Di questi schemi – disposizioni apprese e largamente inconsce che garantiscono la possibilità agli esseri umani di rapportarsi al mondo senza doverselo reinventare a ciascuna occasione daccapo, script generalissimi d’interazione con l’alterità capaci di darle consistenza e ricondurla ogni volta entro l’ambito del domestico e dell’abituale –, Descola distingue due prestazioni fondamentali: da un lato, essi concorrono a definire l’identità dell’alterità che popola i mondi umani, attualizzando alcune delle affordances che essa reca intrinseche in seno; dall’altro, sulla base dei tratti ascritti alle entità del mondo, determinano il campo delle possibilità interattive con tali entità, rendendo disponibili certi pattern d’interazione e impedendone invece altri. Ma oltre a distinguere i due piani, Descola postula anche una gerarchia precisa che li organizzerebbe: le identificazioni precedono le relazioni; la maniera in cui gli umani percepiscono gli esistenti influenza univocamente le pratiche tramite cui essi vi si relazioneranno.
È in questo primato delle identificazioni che risiede l’originalità della proposta descoliana nel panorama del dibattito contemporaneo. È a tal riguardo, peraltro, che Descola impiega il termine, finito al centro di tante polemiche, che più ha finito per identificare il suo lavoro: ontologia. Se nell’utilizzo fattone da Viveiros de Castro o – con più moderazione – da Stengers o Latour il concetto di ontologia funge da grimaldello anticorrelazionalista, utile a ricercare – per stessa ammissione degli autori, più a tentoni che nell’ambito di un progetto dotato di ambizioni sistematiche – un accesso al mondo e non soltanto alle sue rappresentazioni, nel caso di Descola esso va invece riconosciuto svolgere, curiosamente, un ruolo squisitamente epistemologico. In un impiego del termine in questo senso più prossimo a quello dell’informatica che a quello tradizionalmente proprio della filosofia, le ontologie descoliane sono indistinguibilmente orizzonti di senso e regimi di operabilità del mondo, abitudini cognitive coltivate dai gruppi umani e insiemi di pratiche che ricorsivamente ne rinnovano la pertinenza.
Dettando il profilo degli esistenti, le diverse ontologie limitano dunque i margini entro cui i mondi potranno essere composti e modificati: così, per esempio, se gli Indiani d’Amazzonia non hanno mai addomesticato il pecari, ciò sarebbe in virtù esclusivamente della collocazione che tale animale ha entro gli schemi concettuali che organizzano il loro accesso al mondo, la quale impedirebbe loro di applicare a questo animale un tipo di relazione che pur dimostrano, nel rapporto con altre specie, di conoscere bene. La scena, allora, è quella kantiana: da una parte il soggetto umano, dall’altra un mondo conoscibile e maneggiabile solo in virtù degli schemi che ne organizzano la percezione fenomenica. Al livello di questi schemi, per Descola, ha luogo una – beninteso, inconscia – decisione fondamentale, riguardante la collocazione degli esistenti, da parte del soggetto, su un piano di continuità o discontinuità rispetto a due dimensioni che l’autore giustifica senza troppi imbarazzi come universali della percezione umana: «interiorità» e «fisicalità». Il gioco combinatorio produce una matrice quadripartita: e allora quattro sono, per Descola, le ontologie. Noi moderni, «naturalisti», ci figuriamo in un rapporto di continuità con l’alterità del regno animale e vegetale sul piano della fisicalità (quanto meno da Darwin in poi), mentre ci riteniamo distinti su quello dell’interiorità (delle facoltà cognitive); i popoli «animisti», come gli Achuar studiati da Descola, al contrario, raccontano di un mondo originariamente tutto umano, decaduto in seguito a eventi mitologici sino ad assumere il profilo ingannevole di una fisicalità frammentata; ma la speciazione nasconde una continuità irriducibile e sempre pronta a riaffiorare, lungo il tracciato invisibile – ma non per questo impercorribile – della metamorfosi (Viveiros de Castro 2019). Agli altri due poli della matrice, i «totemisti» – per esempio i popoli aborigeni dell’Australia – riconoscono continuità tra sé e determinate entità non umane su entrambi i piani, delineando così i confini di collettivi che non possono ricercare nella differenza di regno o di specie la garanzia della loro identità; mentre l’ontologia «analogista» – di cui il pensiero cinese costituisce un esemplare prototipico –, postulando discontinuità su entrambi i piani, concepisce un «cosmo composto da immanenze particolareggiate» (Descola 2021, p. 342).
L’assunto che regge l’impianto descoliano va riconosciuto essere in netta controtendenza con buona parte dell’antropologia degli ultimi trent’anni. Dal punto di vista dell’autore, come detto, le identificazioni precedono le relazioni: la diversità delle pratiche, cioè, è da ricondurre alla varietà – ampia ma finita – dei modi in cui gli umani attribuiscono capacità di agire alle entità che compongono i loro mondi. Da una parte gli umani e le loro ontologie; dall’altra, lo schermo immacolato del mondo, sul quale gli umani continuano a prodursi in un’attività in fin dei conti proiettiva. I non umani fanno capolino nel ponderoso volume unicamente come input per la cognizione di esseri umani che, a seconda dell’abitudine, potranno ritenerli più o meno affini a sé, e li tratteranno di conseguenza; ma non hanno mai occasione di dispiegare un’agentività che possa dirsi in senso stretto loro propria. In un tempo in cui proliferano le etnografie multispecie e i tentativi di simmetrizzare la scena epistemologica, Descola porge in dono all’antropologia il campo definito di un oggetto omogeneo e nuovamente tutto umano verso il quale concentrare i propri sforzi.
Ma se è vero che l’apertura postumanista delle scienze sociali, e dell’antropologia in particolare, ha coinciso con la progressiva messa a tema della questione ecologica come affare di cui le humanities non solo avrebbero i titoli per occuparsi, ma di cui esse sole saprebbero elucidare il tenore squisitamente politico, è su questo genere d’implicazioni che conviene chiudere la nostra breve rilettura di Oltre natura e cultura. Se nel gioco combinatorio disegnato dall’autore le relazioni fanno ingresso solo in un secondo momento, quando le entità hanno già acquisito il profilo di un’identità – ovvero sono state identificate da un essere umano –, è entro quei margini che esse saranno passibili di mutamento. Nell’intento di abolire ogni orizzonte evoluzionistico per la classificazione delle tecnologie umane, è la tecnica stessa a finire per sfumare sino a scomparire in uno sfondo nel quale saranno sempre le inferenze di carattere identificatorio a determinare le disponibilità del mondo a essere trattato altrimenti. Al fondo, si potrebbe dire che il mondo – così come l’insieme dei rapporti a esso – esiste, nell’antropologia di Descola, solo come correlato delle differenti visioni che diversi gruppi umani hanno di esso. E a queste condizioni, evidentemente, la storicità si trova ancora una volta ristretta all’umano soltanto – il resto ridotto a materia grezza per le nostre identificazioni. Le ontologie, in effetti – a differenza della cultura, che biologi e antropologi si erano ormai accordati a dismettere quale fattore identificativo di una qualsivoglia singolarità dell’animale umano (cfr. Morin 1974) –, sono affare squisitamente umano; e alla facoltà ontologica spetta il compito d’individuare, come era precedentemente toccato al linguaggio o alla coscienza della propria condizione mortale, una specificità irriducibile dell’essere umano, che assegna alla nostra specie il ruolo di una innegoziabile eccezionalità entro il campo della storia naturale.
Commisurato alla rivoluzione lovelockiana proposta da Latour (2019), allora, lo sforzo di Descola assume il profilo di una restaurazione perfettamente katiano-copernicana: il soggetto umano nuovamente al centro, e attorno a esso un mondo fatto unicamente delle diverse rappresentazioni che esso ne produce. La linea tra natura e cultura che l’opera ambisce a oltrepassare, di conseguenza, si trova rimpiazzata da un’altra linea: quella – inerte, priva di storia, tracciata una volta per tutte e indisponibile a rinegoziazioni – tra l’umanità e un mondo con cui essa intratterrebbe rapporti certo variegati ma comunque unilaterali.
Bisogna concluderne che l’antropologia di Descola ricerca la propria efficacia sugli stessi terreni ove il progetto strutturalista aveva ritenuto di fondare le proprie ambizioni paradigmatiche; e così facendo, finisce per esporsi al medesimo genere di critiche che quel progetto avevano bersagliato sino a minarne le fondamenta. Ma è anche vero che l’etichetta dello strutturalismo, pur esibendo la facciata di un edificio intellettuale possente e dai confini definiti, riesce a stento a tenere assieme le traiettorie di avventure che furono dotate di propositi, ambizioni e percorsi diversissimi tra loro. E ciò implica la necessità di spingersi un passo oltre nel caratterizzare l’eredità intellettuale che Oltre natura e cultura assume e rilavora. Proponendosi di raccogliere il lascito di Lévi-Strauss, in effetti, Descola si ritrova in mano un’opera certo marcata in origine da un dualismo profondo, che vede la struttura e il mondo contrapporsi in maniera frontale, segnando la giurisdizione di due regni radicalmente eterogenei. Tale opera, tuttavia, è anche popolata di trickster, figure mediane che mentre sembrano convocate in quanto punto – arbitrario – di contatto tra i due piani, sono pronte a tradire il proprio ruolo impiegatizio, mostrandosi invece – se interpellati con la giusta malizia – essi stessi artefici della sintesi, geni della significazione. Lo sciamano, per esempio: apparentemente rentier di un privilegio strutturale nel quale risiederebbe il segreto – simbolico – dell’efficacia delle sue pratiche, e in realtà depositario di tecniche e saperi che tale ordine concorrono a fondare e manutenere, «cristo magico» (De Martino 1948) di mondi il cui stare assieme non è garantito dall’arbitrarietà di un segno linguistico che sul piano orizzontale della differenza trova la propria consistenza necessariamente logica, bensì dal lavoro materiale e speculativo che incessantemente compone forma e vita; oppure il mana polinesiano, cui Lévi-Strauss parrebbe attribuire il ruolo di architrave del sistema simbolico – «semplice forma» dal «valore simbolico zero» (Lévi-Strauss 1965, LII) –, ma che a un esame più attento si rivela traccia di un gesto originario il quale, aprendo il campo del simbolico, può solo sopravvivere come cicatrice sulla sua superficie liscia (cfr. Leoni 2019).
In quegli anfratti, l’opera di Lévi-Strauss ospita già una venatura che lo strutturalismo trascende e reimpagina, schiudendo linee di fuga «selvagge» capaci, a volerle seguire, di aprire il sistema e mostrare la struttura nella sua consistenza di gesto e di evento. Non è tuttavia questo, bisogna convenire, il versante dell’opera levistraussiana che Descola percorre e decide di proseguire; bensì quello più saldo e rassicurante del paradigma. Ma come dimostra l’importante libro di Nastassja Martin (2016), che di Descola è stata allieva, messo alla prova dell’etnografia, l’impianto di Oltre natura e cultura rende necessarie ibridazioni che finiscono per snaturare la linearità del progetto che esso propone. Che si tratti dello sguardo latouriano che Martin assume come controcanto all’impostazione del maestro, o quelli resi possibile dai lavori di Donna Haraway (2003), Anna Tsing (2021), o Isabelle Stengers (2018), che in maniera simile potrebbero svolgere un ruolo analogo, le voci della cosiddetta “svolta ontologica” trovano nel testo di Descola l’opportunità per un dialogo capace di esplicitare sino in fondo la radicalità del sommovimento politico-teoretico che interessa l’antropologia da ormai trent’anni.
Alla luce di quanto detto, diviene lecito domandarsi quanto il volume riesca, a conti fatti, negli intenti da cui prende le mosse; in quale misura cioè si mostri capace di dotare l’antropologia della concettualità nuova che le aveva promesso, in grado di addomesticare le terre selvagge che si schiudono varcata la linea che distingue e istituisce gli ambiti speculari di natura e cultura. Come notato anche dalla curatrice nella sua densa postfazione, tuttavia, si tratta di bilanci che sarebbe probabilmente prematuro fare ora, se è vero che nel corso di quest’anno è attesa la pubblicazione del libro dedicato al tema della figurazione cui Descola ha consacrato i suoi sforzi negli oltre quindici anni trascorsi dalla pubblicazione originale di Par-delà. E in ogni caso, considerazioni di una tale portata non possono spettare a questo scritto, che aveva la ben più modesta ambizione di additare il percorso teoretico imbastito da Descola e dettagliare la frizione che esso provoca nel contesto del dibattito antropologico contemporaneo.
È con un auspicio, allora, che conviene chiudere queste note fugaci. Nell’inaugurare un capitolo italiano nella Wirkungsgeschichte del volume, e in attesa dell’uscita del nuovo libro, questa traduzione offre l’occasione perché, anche nel nostro paese, l’antropologia muova passi decisivi verso quel ruolo di primo piano che altrove essa è riconosciuta occupare nelle discussioni sull’ecologia politica. La questione ecologica e il relativo dibattito, in Italia, s’intrecciano infatti alle traversie di un mondo culturale nel quale all’antropologia ancora tocca in sorte una posizione largamente subalterna. Se il testo – accompagnato dalle voci che già vivaci hanno cominciato ad accoglierlo – saprà propiziare movimenti in tale direzione, un passo oltre la linea di natura e cultura sarà effettivamente stato intrapreso.
di Nicola Manghi
.
.
Bibliografia
De Martino, Ernesto (1948), Il mondo magico. Prolegomeni a una storia del magismo, Einaudi, Torino
Descola, Philippe (2021), Oltre natura e cultura, Raffaello Cortina, Milano
Haraway, Donna (2003), The Companion Species Manifesto: Dogs, People, and Significant Otherness, Prickly Paradigm Press, Chicago
Latour, Bruno (2019), Essere di questa terra. Guerra e pace al tempo dei conflitti ecologici, Rosenberg & Sellier, Torino
Leoni, Federico (2019), “Struttura. Antropologia dell’immanenza. Mauss Lévi-Strauss Deleuze”, in R. Panattoni e R. Ronchi (a cura di), Immanenza: una mappa, Mimesis, Milano-Udine, pp. 59-74
Lévi-Strauss, Claude (1965), “Introduzione all’opera di Marcel Mauss”, in M. Mauss, Teoria generale della magia e altri saggi, Einaudi, Torino, pp. XV-LIV
Lévi-Strauss, Claude (2010), Il pensiero selvaggio, il Saggiatore, Milano
Martin, Nastassja, (2016), Les âmes sauvages. Face à l’Occident, la résistance d’un peuple d’Alaska, La Découverte, Paris
Morin, Edgar (1974), Il paradigma perduto. Che cos’è la natura umana?, Bompiani, Milano
Stengers, Isabelle (2018), “The Challenge of Ontological Politics”, in M. de la Cadena e M. Blaser (a cura di), A World of Many Worlds, Duke University Press, Durham, pp. 83-111
Tsing, Anna Lowenhaupt (2021), Il fungo alla fine del mondo. La possibilità di vivere nelle rovine del capitalismo, Keller, Rovereto
Viveiros de Castro, Eduardo (2017), Metafisiche cannibali. Elementi di antropologia post-strutturale, Ombre Corte, Verona
Viveiros de Castro, Eduardo (2019), Prospettivismo cosmologico in Amazzonia e altrove, Quodlibet, Macerata
-
Alla memoria di Giulio Giorello, maestro e amico
La meccanica quantistica, occupandosi delle particelle elementari della materia – della sostanza del mondo, diremmo in termini metafisici –, ha dovuto convenire che a quel livello non si incontrano cose, ma solo relazioni. Non c’è una particella in sé, ad esempio l’elettrone, ma una serie di relazioni tra l’elettrone e tutto ciò con cui interagisce.
La grande popolarità riscossa dai libri divulgativi di Carlo Rovelli ha avuto il merito di sollevare questioni filosofiche di fondo a proposito della ricerca fisica di oggi, anche tra non specialisti.
Rovelli è uno dei massimi esponenti della lettura detta “relazionale” della fisica quantistica. Ovvero, spiega – a un pubblico che non dovrebbe essere il proprio – la propria visione scientifica. Approfitterò allora di questo suo testo, Helgoland (Rovelli 2020), per mostrare l’importanza filosofica di alcuni problemi aperti dalla teoria scientifica più rivoluzionaria del XX° secolo, la fisica dei quanti, soprattutto nella prospettiva della filosofia di Wittgenstein.
Quando il fisico fa buona divulgazione, fa per forza filosofia: potremmo dire che le questioni scientifiche diventano filosofiche quando le si guarda fuori dalla pratica scientifica, e infatti nella divulgazione il fisico guarda la fisica dall’esterno, dal punto di vista di chi sa di non sapere. Non entrerò quindi nel merito dell’elaborazione propriamente fisica di Rovelli, piuttosto discuterò la sua interpretazione filosofica (divulgativa) della sua elaborazione.
1.
La teoria [quantistica] non descrive come le cose “sono”: descrive come le cose “accadono” e come “influiscono l’una sull’altra”. Non descrive dov’è una particella, ma dove la particella “si fa vedere dalle altre”. Il mondo delle cose esistenti è ridotto al mondo delle interazioni possibili, la realtà è ridotta a interazione. La realtà è ridotta a relazione (Rovelli 2015, loc. 1632)[1].
Ora, Wittgenstein aveva ricordato ai filosofi (e anche agli scienziati) che essi lavorano sempre con parole, e con parole poste in una successione molto particolare: quella della proposizione. Ogni discorso teorico parla per proposizioni, non con parole alla rinfusa. Questo è il succo di quel che poi si è convenuto chiamare linguistic turn in filosofia: questa non deve mai dimenticare di quale materiale è fatta, del materiale proposizionale.
La proposizione è sempre una relazione. Classicamente si dice che una proposizione è formata da un soggetto e un attributo. Ad esempio in “Giulio Cesare morì pugnalato.”, il soggetto è “Giulio Cesare”, l’attributo è “morire pugnalato”. Wittgenstein nel Tractatus ha semplificato la cosa, dicendo che una proposizione è sempre la relazione tra due oggetti, appunto “Giulio Cesare” e “morire pugnalato.” Questo significa che Giulio Cesare non si è limitato a essere ucciso con pugnalate, ma ha fatto tantissime altre cose. Ed è ovvio che siano morte pugnalate molte altre persone oltre Cesare. Ovvero, i due oggetti si combinano nella proposizione, ma si suppone che esistano indipendentemente dalla loro relazione.
Aggiungiamo (perché questo ci servirà dopo) che secondo Wittgenstein ogni proposizione è un Bild, un’immagine dello stato-di-cose del mondo, di “dati di fatto”: la proposizione di cui sopra ci dà una certa immagine non di Cesare e nemmeno dell’essere uccisi, ma del “dato di fatto” (che sappiamo storicamente vero) che Cesare morì pugnalato. Le proposizioni sono immagini del mondo, non immagini delle cose stesse, dato che il mondo è relazione tra cose per Wittgenstein. Del resto “Giulio Cesare” e “morire pugnalato” sono a loro volta delle relazioni (ad esempio “morire pugnalato” è una relazione tra pugnalare e morire), e così via…. All’infinito? Non arriveremo mai a una cosa veramente elementare? No. Ma qui si apre un altro problema che non tratteremo qui.
Potremmo dire allora che, se “Giulio Cesare morì pugnalato” fosse una proposizione della teoria quantistica (secondo Rovelli), avremmo Cesare solo quando viene pugnalato e muore. Non ci sarebbe un Cesare indipendente dal suo venir pugnalato. Come anche non ci sarebbe un morire-pugnalato che non sia cesarista, per dir così. Il che certo cozza con il nostro senso comune riguardo alla significazione del linguaggio. È quel che Rovelli esprime dicendo che nel mondo delle particelle elementari non ci sono entità, ma solo eventi.
Prima che venisse formulata la fisica dei quanti, alcuni scrittori erano giunti abbastanza vicini a una ontologia del genere. Nel 1893 Henry James (1893) aveva pubblicato un racconto, The Private Life. Tra i personaggi di questo racconto c’è Lord Mellifont, un gentleman perfetto, molto socievole, irreprensibile nel comportamento sociale, il miglior host mondano che si possa incontrare. Ma il narratore scopre un piccolo difetto del Lord: che quando non c’è qualcuno in sua presenza, si dissolve. E si ricompone non appena qualche altra persona appare. Quando Lord Mellifont dipinge un quadro davanti a un’altra persona, se questa si allontana, lui scompare; quando l’altra persona torna, troverà il quadro allo stesso punto in cui il Lord l’aveva lasciato. Persino sua moglie pare non essersi accorta di questo handicap del marito, anche se sembra nutrire qualche sospetto…
Insomma, Lord Mellifont anticipa le particelle elementari secondo la fisica quantistica: esiste se si fa vedere dagli altri. Questo racconto può essere preso come un’allegoria della crisi del pensiero proposizionale a opera della fisica quantistica.
In effetti, su un piano filosofico, la teoria relazionale delle particelle elementari di Rovelli dice che la fisica dei quanti trasgredisce la struttura proposizionale del sapere. Perché la proposizione è sempre una relazione tra cose che vengono presupposte come esistenti al di fuori della loro relazione, abbiamo detto.
Quindi, quando la meccanica quantistica giunge alla conclusione che l’elettrone, ad esempio, è un ente solo relazionale, un evento, si varcano i limiti del linguaggio proposizionale stesso. La scienza, come la filosofia, descrive e spiega la natura attraverso proposizioni: ma quando essa raggiunge il livello del più elementare, questa forma linguistica si mostra inadeguata.
Per questa ragione, si dirà, la scienza preferisce sempre più, anziché parlare per proposizioni, parlare con relazioni matematiche, con equazioni. Ad esempio, con matrici matematiche, come fece Heisenberg, o con “le variabili che non commutano” di Dirac. Perché nessuna proposizione del linguaggio comune può dire i fenomeni degli enti più piccoli. Ora però le equazioni matematiche sono anch’esse delle proposizioni, anche se di tipo particolare.
(Il punto è che Rovelli, non appena si impegna a scrivere opere divulgative, non può fare a meno di ricorrere a proposizioni non matematiche. Insomma, deve dare una forma proposizionale alla fisica dei quanti, anche se questa sembra dare un’immagine non proposizionale della natura. Qui tocchiamo una sorta di paradosso. Ovvero, come esprimere con proposizioni ciò che non è proposizionale?)
Per Wittgenstein le proposizioni matematiche e logiche sono proposizioni analitiche, cioè, in fin dei conti, delle tautologie. Di fatto, esse equivalgono a definizioni. Ad esempio
“5 = 2 + 3”
è sì una proposizione (“cinque è la somma di due e tre”), che di fatto è una delle (infinite) definizioni possibili di “5”. Quelle matematiche sono proposizioni tautologiche o definitorie. Ad esempio “scapolo è un uomo non sposato” potrebbe sembrare una scoperta, in realtà è una semplice definizione di ‘scapolo’, è stabilire una sinonimia tra due significanti (‘scapolo’ e ‘uomo non sposato’).
Ricorrendo sistematicamente a equazioni matematiche, o a equazioni in generale, la scienza di fatto traduce le proprie scoperte in proposizioni definitorie. Per esempio,
“acqua = H2O”
È una definizione dell’acqua? Oggi sì, perché crediamo nella chimica odierna e quindi per acqua intendiamo qualcosa che è formato da due parti di idrogeno e una di ossigeno. Ma quando nel 1783 Lavoisier scoprì questa struttura chimica dell’acqua, allora si trattava di una proposizione sintetica, che dava un’informazione precisa sull’acqua. L’equazione, matematica o chimica che sia, è un atto di forza: scommette sul fatto che una relazione scoperta possa valere come definizione. In questo senso, la scoperta scientifica – ad esempio, la struttura dell’acqua – cambia il senso stesso dell’oggetto di ciò che essa spiega[2]. Da Lavoisier in poi, chiamiamo acqua solo H2O; e tutto ciò che sembra acqua ma non è H2O non sarà acqua (e in effetti, distinguiamo l’acqua dai vari sali che vi sono sciolti). Scoprendo certe strutture, la scienza modifica l’assetto semantico dei nostri linguaggi.
Come in ogni proposizione, anche qui abbiamo entità indipendenti tra loro: l’acqua, l’idrogeno e l’ossigeno. Perché questa formula abbia senso, occorre che i suoi componenti siano già noti, che siano insomma delle entità riconosciute. Se un elemento invece non è noto, avremo un’incognita. Nella scienza non si è contenti finché non si dà il nome di un’entità a questa incognita.
2.
In effetti, dimentichiamo che noi interroghiamo la natura – attraverso la scienza, ma non solo - attraverso il nostro linguaggio, che è strutturato più o meno, come ha dimostrato Noam Chomsky (1970), in un modo che alla scuola media studiavamo come “analisi logica”[3]. C’è una logica del linguaggio (proposizionale) che è a priori, un po’ come le sintesi a priori di Kant. Sostantivo, predicato nominale o verbale, complementi, attributi, ecc. È il tipo di rete che gettiamo sulla natura perché essa ci parli. In effetti, questo non lo dice Wittgenstein, lo dico io elaborando quel che lui dice: fare scienza non è dare semplicemente un’immagine della natura, è prima di tutto una serie di domande che poniamo alla natura e ciò che la natura risponde a esse[4]. È un gioco di domande e risposte. Domande secondo una griglia che lo scienziato appronta, e che può dimostrarsi più o meno perspicua o pertinente. È un po’ come quei sociologi e sondaggisti che pongono alle persone domande con risposta multipla: chi risponde può scegliere, ma solo al di dentro di una griglia data. È previsto anche “Non so”. E in effetti la natura spesso risponde “Non so”. O risponde in modo contraddittorio: per esempio, per secoli la luce, alla domanda “sei fatta di corpuscoli?” o “sei fatta di onde?”, in certi casi rispondeva che era fatta di corpuscoli, in altri casi rispondeva che era fatta di onde…
Ora, le domande poste dalla scienza alla natura hanno una forma proposizionale basilare, anche se, come abbiamo detto, il ricorso a vari tipi di matematica consente di domandare in modo variegato. Il nostro concetto di “ente” in effetti è assolutamente inscindibile dalla forma proposizionale, che implica un sostantivo, qualcosa di sostanziale. Anche se possiamo, a rigore, cambiare il ruolo di sostantivo e attributo. Ad esempio, anziché dire “il mio tavolo è verde” potrei dire “la verdità si particolarizza nel mio tavolo”, dove il sostantivo diventa “la verdità”. Perché no? Probabilmente la forma proposizionale – comune a tutte le lingue, come dimostra la grammatica trasformazionale – è non il nostro modo umano di percepire il mondo, ma di interpretarlo, di ordinarlo ab initio. Comunque è il nostro, non è detto che sia quello della natura stessa. In effetti, se – come asserisce Wittgenstein - ogni proposizione è immagine del mondo, la conseguenza è che il mondo stesso ci dà un’immagine di sé come proposizionale.
Qui avvertiamo l’eco delle fondamentali distinzioni kantiane: c’è uno scarto tra il soggetto e il reale che nessun idealismo potrà colmare. Un’eco kantiana che ritroviamo nell’affermazione di Niels Bohr: “Non c’è un mondo quantistico. C’è solo un’astratta descrizione quantistica. È sbagliato pensare che il compito della fisica sia descrivere come la Natura è. La fisica si occupa solo di quanto possiamo dire della Natura”[5]. Ovvero, la Natura è cosa-in-sé, possiamo dire solo come essa si manifesta a noi. O, in altri termini, una cosa è la natura, altra cosa è quel che possiamo dirne. Ma il paradosso è questo: possiamo dire che di una parte della natura non possiamo dir nulla?
E così, tornando al nostro esempio di “Cesare morì pugnalato”, diamo per scontato che Cesare esista anche quando non viene ucciso. Wittgenstein però si chiede: quando dico a qualcuno “Cesare morì pugnalato”, che cosa intendo per “Cesare”? Per me Cesare è il conquistatore delle Gallie, per te è quello che passò il Rubicone, per un altro è quello che dette a Cleopatra un figlio chiamato Cesarione... Al limite, possiamo associare a Giulio Cesare tratti del tutto diversi, in modo che il mio Cesare non avrà alcun tratto in comune col tuo. Possiamo dire che abbiamo allora “comunicato”? Crediamo di capirci perché usiamo le stesse parole, in realtà per ciascuno di noi le parole significano cose diverse. Gottlieb Frege (1892) direbbe: siamo sicuri che al di là dei Sinne (sensi) delle nostre proposizioni, ci riferiamo alla stessa Bedeutung (denotazione)? Da qui la necessità di definire le nostre parole con altre proposizioni, che a loro volta esigeranno altre proposizioni, e così via….[6] Non all’infinito, perché alla base – si pensa - ci sono degli oggetti sostanziali (“oggetti elementari” dirà Wittgenstein nel Tractatus). Ma lo stesso Wittgenstein si renderà conto che questo presupposto della “sostanza” è puramente immaginario. Per cui darà poi una risposta diversa (nelle Ricerche filosofiche): quando parliamo tra noi, ci capiamo nel senso in cui giochiamo a uno stesso gioco. È come giocare a scacchi: se entrambi conosciamo le regole del gioco, possiamo giocare assieme. Alla base del parlare non ci sono “oggetti” comuni ma giochi linguistici comuni. Parlare in modo sensato non è raffigurare, ma giocare assieme.
3.
Che cosa significa che la scienza viene fatta con proposizioni? Ora, come abbiamo visto in Wittgenstein, le proposizioni sono immagini del mondo, che possono essere anche false, ovviamente. Se dico “Cesare morì di tubercolosi”, dò un’immagine falsa del mondo, ma sempre immagine del mondo è. Quindi la scienza, siccome è un sistema di proposizioni, ci dà un’immagine del mondo, vera o falsa che sia (oggi si parla molto di fake news: ovvero, abbiamo un’immagine essenzialmente falsa del mondo). In filosofia queste immagini del mondo si chiamano modelli. La fisica di Newton ci ha dato una certa immagine dell’universo, Einstein ce ne ha data un’immagine un po’ diversa. E Rovelli ci dice: la fisica dei quanti invece non ci dà alcuna immagine del mondo. E questo al dispetto del fatto che per Rovelli – dico: giustamente – la scienza non si limita a fare previsioni. La scienza non dice solo “se riscaldi l’acqua a 100° C od oltre, allora evaporerà”, del resto si sono fissati 100° C della scala Celsius partendo proprio dal punto di ebollizione dell’acqua… Lo scienziato non avrà pace finché non avrà spiegato il perché l’acqua bolle e a quella temperatura. Ovvero, la scienza non si limita a prevedere, ma cerca di darci un’immagine intellegibile dei fenomeni. Quindi, ci fornisce modelli di come funziona il mondo.
Si prenda la teoria darwiniana, che è comunque una teoria scientifica, vera o falsa che sia: essa non prevede assolutamente nulla del futuro della vita (che in gran parte, del resto, dipende ormai da decisioni umane[7]), ma ci offre un modello storico della vita, cioè ci rende comprensibile ciò che è accaduto e ciò che accadrà degli esseri viventi. Ma rendere intellegibile la natura significa appunto costruire un sistema di proposizioni. La teoria darwiniana è un sistema di proposizioni.
Il punto è che la scienza si trova spesso di fronte a enigmi, ovvero non trova alcuna proposizione per certi fenomeni. Prenderò come esempio un enigma risolto (per ora) e due irrisolti: (1) l’attrazione a distanza tra sole e pianeti nella teoria di Newton, (2) il gatto di Schrödinger, (3) il paradosso EPR.
La teoria di Newton della gravitazione universale all’epoca fu criticata – in particolare dai fisici cartesiani – perché essa supponeva che il sole attraesse i pianeti attraverso il vuoto. Ma come facevano i pianeti a sapere che il sole li attraeva, se tra loro non c’era nulla? Newton non lo sapeva, perciò scrisse “hypothesis non fingo”[8], “non avanzo alcuna ipotesi”. In effetti la difficoltà nasceva dal fatto che i fisici all’epoca accettavano il postulato cartesiano secondo cui ci deve essere contatto diretto tra due oggetti perché l’uno influenzi l’altro. E a distanza non può esserci contatto[9]. Ovvero, certe proposizioni di Newton erano in contrasto con un’altra proposizione considerata fondamentale in fisica, quella del contatto tra gli oggetti perché l’uno fosse causa dell’altro. Riprendendo da Jacques Lacan la nozione di reale[10], dirò allora che l’inspiegabile attrazione a distanza segnalava qualcosa di reale, nel senso che nessuna proposizione fisica all’epoca riusciva a darne un’immagine. L’attrazione a distanza era “miracolosa”.
Dovremo aspettare l’elaborazione della teoria del campo grazie a Maxwell e Faraday, e all’uso che Einstein ne ha fatto, perché l’enigma newtoniano fosse risolto: quella che Newton vedeva come attrazione tra corpi celesti, va interpretata ora come percorrenza in uno spazio curvo. La massa solare curva lo spazio attorno a sé e quindi i pianeti, nella misura in cui vanno dritti… girano attorno. Possiamo quindi dire, col senno di poi, che il campo era il reale per la teoria newtoniana. Quando la scienza è stata in grado di descriverlo – cioè di dargli forma proposizionale – ha cessato di essere reale (nel senso lacaniano).
L’esperimento mentale del gatto di Schrödinger (del 1935) era una provocazione, da parte di Schrödinger, nei confronti dei colleghi quantistici, nel senso che esso sfida un punto fondamentale della teoria dei quanti: l’indeterminatezza. Possiamo dire insomma che Schrödinger stava ai quantistici “puri” (come Bohr e Heisenberg) così come i fisici cartesiani stavano a Newton: entrambi sfidarono i loro avversari facendo appello a un sapere che la teoria non ammette: “come le cose fanno a sapere che…?”
Non descrivo qui il “gatto di Schrödinger” perché basta la descrizione di Rovelli[11]. Va detto comunque che è abusivo dire che, finché non si apra la scatola, il gatto sarà allo stesso tempo vivo e morto, perché il gatto è un oggetto macroscopico. Per gli oggetti macroscopici vale il buon senso, cioè il determinismo: se la scatola fosse trasparente, ad esempio, vedremmo bene che o il gatto resta sempre vivo, oppure a un certo punto muore. Resta però un problema per la fisica quantistica: come spiegare il fatto che a livello macroscopico non si riveli la struttura indeterministica delle particelle elementari? In effetti la fisica dei quanti vale per oggetti molto isolati, mentre nel nostro mondo macroscopico tutto risulta deterministico perché tutto è interconnesso. Abbiamo quindi oggi una visione indeterministica a livello delle particelle elementari, e una visione deterministica a livello degli oggetti macroscopici.
Un altro paradosso, elaborato lo stesso anno del gatto di Schrödinger, è l’EPR (Einstein-Podolsky-Rosen 1935). Il problema sollevato da EPR era la violazione del principio di località, in quanto l'entanglement[12] si mantiene indefinitamente anche tra due particelle (dei fotoni, secondo l’interpretazione più corrente) che hanno interagito e si sono allontanate. Ciò implica che se si misura una grandezza fisica di una, risulta determinata istantaneamente anche quella dell'altra, a prescindere dalla distanza. Anche qui: siccome l’informazione non può superare la velocità della luce, come fa la seconda particella a “sapere” istantaneamente la grandezza della prima e a uniformarsi?
Il paradosso era volto a dimostrare l’incompletezza della meccanica quantistica (essa presupporrebbe cioè delle variabili nascoste). In ogni caso, Wittgenstein diceva che ogni teoria fisica è incompleta[13].
Il termine entanglement non viene mai tradotto nelle varie lingue, data l’ambiguità del suo senso in inglese. Non è una semplice correlazione. Il termine indica qualcosa come groviglio, garbuglio. Il termine più appropriato mi sembra: invischiamento. Ma anche – si badi – imbroglio, truffa… Insomma, il termine connota qualcosa di raffazzonato, se non addirittura di fraudolento… La scelta del termine mi pare che la dica lunga.
Di fatto è la riedizione del dibattito sull’attrazione a distanza: come oggetti sanno quel che succede ad altri oggetti distanti? Sottolineo sanno perché la fisica si basa sul presupposto che “sapere” è una nozione che riguarda solo la mente; la nozione di informazione non implica ipso facto che un oggetto sappia di cosa è informato. Ovvero, la scienza – non solo la fisica – separa nettamente l’epistemico (il sapere) dall’ontico (ciò che è). È quel che Einstein chiamava, a proposito del paradosso EPR, realismo: la fisica dei quanti, secondo lui, infrange il presupposto realista della fisica. Degli animali e degli esseri umani possono sapere, ma una sedia, una foresta, una galassia, non possono sapere… a meno appunto di non riformulare completamente il senso del termine “sapere”, come ha cercato di fare la teoria dei sistemi[14], per esempio. Ma allora, si sospetta sempre un po’ la truffa, l’entanglement…
Eppure il concetto di sapere non solo ammette, ma esige una distanza tra chi sa e cosa è saputo. Sarebbe ridicolo pensare che l’orbita della luna sia deviata dal fatto che un astronomo la osservi con un telescopio. Sappiamo che la luna come massa interagisce con la terra, ad esempio producendo maree. Ma come un puro sapere – animale, per definizione – può interagire con la cosa saputa, che appartiene a tutt’altro ordine ontico? Certo, se sono un osservatore posso interagire con la cosa che osservo: se osservo che mi arriva una palla in faccia, interagisco alzando il braccio e deviando la palla. Ma non interagisco in quanto osservatore, interagisco in quanto massa corporea, il che è molto diverso. L’osservatore in quanto puro osservatore non interagisce, eppure la teoria quantistica dice che si interagisce come osservatori.
Ora, se si segue la falsariga di Wittgenstein, si capirà che la funzione del soggetto (parlante, osservante, percipiente…) è inerente allo stesso concetto di proposizione. Non il soggetto psicologico, sottolineerà Wittgenstein, ma un soggetto che chiamerà metafisico (o trascendentale). Ogni proposizione implica un soggetto che la crea, la dice o la scrive, perché ciò è una conseguenza della definizione stessa di proposizione. Prendo un esempio semplice: “X è in relazione con Y”. Appena leggiamo una proposizione di questo tipo, subito ci chiediamo: Chi l’ha scritta? Quando l’ha scritta? Come l’ha scritta? Che cosa voleva dirci? … Ovvero subito supponiamo un soggetto che sia in relazione con la proposizione “X è in relazione con Y”. Diamo per scontato insomma che ogni relazione, descritta da una proposizione, implichi un’altra relazione, tra la proposizione stessa e chi l’ha emessa. Certo, possiamo giungere alla conclusione che quella frase non l’ha emessa nessuno, che un computer casualmente l’ha prodotta. Ma anche quella tra il computer e la frase che esso ha generato è una relazione.
Ora, voler inserire l’osservatore nell’osservato – come propone Rovelli – significa esplicitare questa relazione? Ad esempio, scrivo
“P scrive che ‘X è in relazione con Y’”
E siccome scrivere è una forma di relazione, possiamo dire anche genericamente: "P è in relazione con 'X è in relazione con Y'"
Come si vede, abbiamo messo una bambolina russa dentro un’altra bambolina russa. Ora la nostra proposizione si occupa della relazione tra P e la sua proposizione. Questo significa che il gioco delle bamboline russe può proseguire potenzialmente all’infinito. Noi che ci occupiamo della proposizione (2) potremmo scrivere a nostra volta:
“Noi N siamo in relazione con “P è in relazione con ‘X è in relazione con Y’””
E così via.
Come si vede, ogni proposizione e ogni meta-proposizione implicherà sempre, da qualche parte, un soggetto enunciante che resta sempre al di qua della proposizione stessa. Un soggetto che viene sempre ricacciato all’indietro. Sartre – ad esempio – chiamò coscienza[15] questo soggetto puntuale, un quasi-nulla, direi un non-nulla. Non si tratta di un soggetto concreto ma di una funzione: ogni proposizione, nella misura in cui è immagine del mondo, rimanda a un per chi questa è immagine. Questo per chi non è nessuno di preciso. Certo possiamo creare immagini del mondo in cui il “per chi” è incluso, ma di fatto non esautoreremo mai la funzione soggettiva implicata da ogni proposizione. Un soggetto resta sempre extra, fuori-del-mondo, per il quale il mondo si manifesta. È come nel mondo polare descritto da E.A. Poe (1838) in Gordon Pym, dove nulla è bianco, tutto è nero o scuro. Ma anche se di fatto non c’è alcuna cosa bianca, “il bianco” è sempre presupposto a ogni cosa proprio nella misura in cui ogni cosa è percepita come nera.
Questo del resto è il limite dell’empirismo filosofico. Esso è consistito nel dire che ogni descrizione del mondo va preceduta da una clausola: “Io vedo (o odo, o tocco, od odoro) che ‘X è in relazione con Y’”, ma si tratta solo di un’inscrizione della descrizione del mondo a un altro livello, che non muta affatto la descrizione del mondo. In questo senso l’empirismo filosofico, nato come scettico (Hume), è stato reintegrato dal realismo più severo: l’aggiungere una clausola soggettiva non muta nulla dell’enunciato oggettivo. Trasforma l’enunciato oggettivo in un enunciato-oggetto da parte di un soggetto, ma non ne cambia affatto la struttura. Dire
“Io penso che il mondo è descritto bene dalla meccanica quantistica”
non cambia nulla della valutazione della meccanica quantistica, equivale insomma a dire:
“il mondo è descritto bene dalla meccanica quantistica”[16]
Possiamo togliere benissimo quell’”Io penso che”. Ogni enunciato assertivo implica sempre un “io penso che”, “io credo che”, “io dico che”… che possiamo togliere senza che il senso generale dell’enunciazione cambi. L’empirismo assoluto de facto coincide con un realismo assoluto[17]. E Wittgenstein si situa su questa linea.
Ma è proprio ciò che non vuol dire Rovelli: non crede che introdurre l’osservatore (o l’enunciatore) nella cosa osservata sia costruire enunciati metalinguistici che includano l’osservatore, perché questi, abbiamo visto, sono superflui. Intende dire, al contrario, che l’osservatore modifica sempre l’osservato, quindi ne è parte.
Da notare che Wittgenstein aveva affrontato il problema nel Tractatus, solo che aveva usato una figura visiva (l’occhio) e non una figura enunciativa (chi dice).
5.632 Il soggetto non appartiene al mondo ma è un limite del mondo.
5.633 Dove, nel mondo, un soggetto metafisico andrebbe visto? Tu dici che questo caso è proprio come quello dell’occhio e del campo visivo. Ma tu non vedi realmente l’occhio.
E nulla nel campo visivo fa concludere che esso sia visto da un occhio.
5.6331 Perché il campo visivo non ha una forma come questa:
5.634 Ciò inerisce al fatto che nessuna parte della nostra esperienza è anche a priori (Wittgenstein 1922)[18].
Quel che Wittgenstein chiama qui soggetto metafisico è qualcosa che non può mai essere incluso nel campo, perché è presupposto a ogni campo – posto prima di ogni campo. Si ritira sempre più indietro, fino a coincidere con un “punto senza estensione”, come abbiamo già visto. È solo la distanza che c’è in ogni enunciato rispetto al suo enunciatore supposto. L’Io metafisico insomma è vuoto, eppure ineliminabile. Non è parte del mondo perché per Wittgenstein il mondo è sempre relazioni che una proposizione descrive, mentre nessuna proposizione può descrivere questo soggetto al di qua di ogni proposizione. È questa la differenza con la fenomenologia di Sartre, ad esempio, che ha sempre cercato di tematizzare proposizionalmente il soggetto metafisico, chiamandolo per-sé.
Ma cosa succede se proviamo invece a introdurre davvero l’enunciante nella proposizione?
Abbiamo visto come Henry James ci abbia descritto un essere puramente relazionale. Due artisti, Picasso e Braque, hanno anch’essi preceduto la fisica dei quanti con il cubismo (peraltro evocato da Rovelli [2020, p. 46] stesso a proposito del q-bismo). Un quadro cubista è costruito mettendo insieme molteplici punti di vista su uno stesso oggetto: il risultato, come è noto, è che non c’è più “oggetto”. In effetti, provate a descrivere un quadro cubista!
Parliamo di arte figurativa quando siamo in grado di descrivere il contenuto di un quadro, ovvero descrivere (enunciare proposizioni su) un oggetto. Ma con quali proposizioni possiamo descrivere un oggetto cubista?
In realtà, pensiamo che un “oggetto” cubista sia il risultato di svariati punti di vista su un oggetto perché ce l’hanno detto i pittori, ma potremmo vedere quei quadri anche come semi-astratti. Ovvero, l’idea cubista di moltiplicare gli osservatori era un modo per dare senso proposizionale a quello che facevano. Vedremo un’operazione simile anche in Rovelli.
Il punto è che, anche dopo questo primo tentativo, si dissolve l’oggetto figurativo, ovvero ci possono essere parole per descrivere un quadro cubista, ma non proposizioni… Forse dovremmo ricorrere piuttosto alla musica per descrivere un quadro cubista.
4.
Ma cosa significa, in fisica, che ogni oggetto è osservatore rispetto all’altro? Qui si attinge al concetto di informazione: le interazioni fisiche possono essere descritte come scambi di informazioni. Eppure “informazione” resta un concetto, se non antropomorfico, certamente bio-morfico: estendiamo alla realtà inorganica quel che attribuiamo a enti viventi. Il che è perfettamente legittimo.
Ora, Rovelli vuol dare a informazione un senso puramente fisico: esclude che informazione debba presupporre una mente informata. Di fatto, riduce il concetto di informazione a quello di interazione. Eppure ogni tanto usa il termine manifestare: dice anzi che un ente esiste solo se un altro si manifesta a lui. Ma il concetto di “manifestazione”, ancor più di quello di informazione, implica una mente. Dico che, quando non è luna nuova, la luna mi si manifesta perché io la vedo. Possiamo dire che la luna si manifesta all’acqua del mare, quando c’è alta marea? Possiamo dirlo in modo metaforico. Ma la scienza può far passare delle metafore come spiegazioni? A meno di non cambiare completamente il senso di “manifestazione”, ma allora occorre aver scoperto qualcosa che legittimi questa modificazione di senso. Ovvero, non è cambiando il senso di alcune parole del linguaggio comune – o creando sinonimi del linguaggio comune - che possiamo fornire una vera spiegazione scientifica.
Il punto forte del gatto di Schrödinger o dell’EPR è che in entrambi i casi si denuncia, per dir così, un presupposto che nemmeno la fisica quantistica può accettare: l’intersecarsi tra epistemologia e ontologia. Altrimenti sarebbe magia. Il mago pretende di fare proprio questo: usa dei significanti, dei simboli, per influire sulla realtà. Pronuncia alcune frasi tipo abracadabra, e afferma che quelle parole agiscano sulla natura. Ma la fisica parte dal presupposto che il rapporto natura-scienziato non è magico. Il significante deve restare separato dalla cosa.
Sarebbe come se Newton per cavarsela di fronte ai suoi critici, avesse detto “la terra e il sole sono due oggetti entangled”. Ma sarebbe stata questa una vera risposta? Il fatto che siano entangled – invischiati l’un l’altro - è un dato di fatto che dobbiamo spiegare, appunto, è un explanandum (qualcosa che deve essere spiegato), non un explanans (qualcosa che spiega). Altrimenti si è tentati di dare a entanglement il senso che pure il termine ha, di inganno.
[Alcuni non credono che la spiegazione scientifica consista nel determinare le cause dei fenomeni. “La causa”, dicono, è un concetto metafisico, ma non esiste. In realtà dobbiamo considerare, come Aristotele, almeno quattro cause. Il punto non è comunque sapere se la causa esista o meno, il punto è chiedersi: nel linguaggio comune come in quello scientifico, che cosa si intende per causa? Cosa vogliamo dire quando diciamo, ad esempio, “il calore ha causato la dilatazione di quel pezzo di ferro”? Certo non esiste l’ente causa, ma che cosa significa dire quella frase? Un’analisi del concetto di “causa” esigerebbe un libro a sé, per lo meno. Qui mi limiterò a dire quel che, secondo me, intendiamo, sia nel discorso comune che in quello scientifico, per “causare qualcosa”. In “il calore ha causato la dilatazione del ferro” diciamo che assumiamo qualcosa – il pezzo di ferro – come stabile, qualcosa che non muta. Poi a un certo punto questo oggetto muta, ad esempio si dilata. Oppure si muove. Assumiamo che qualcosa di esterno al ferro abbia disturbato il ferro, lo abbia dilatato o lo abbia mosso, e per “causa” intendiamo questa forza esterna che l’ha modificato. Il concetto di causa implica sempre una modificazione, la fine di una stabilità, e pensiamo di aver trovato la causa quando possiamo asserire che una certa cosa ha modificato un’altra cosa. Certo la scienza può trovare eventi senza causa, ma questo non significa che li spieghi altrimenti. L’indeterminazione è un limite della spiegazione, non è una spiegazione di ordine superiore. Se scopro ad esempio che quel pezzo di ferro si dilata due volte al giorno sempre alla stessa ora in assenza di qualsiasi aumento di calore, è certamente un successo aver constatato questa regolarità, ma la regolarità non è la spiegazione della dilatazione. La scienza non è costretta a spiegare tutto – può anche semplicemente descrivere – ma quando essa spiega, diciamo allora che ha trovato una causa. Ovvero, ha messo in relazione due fenomeni, in cui il primo ha modificato il secondo.]
5.
In sostanza, Rovelli propone qualcosa che anche Newton avrebbe potuto fare se avesse risposto ai suoi critici “dobbiamo assumere che nello spazio c’è un’attrazione a distanza”, ovvero viene proposta come soluzione una riformulazione del problema stesso. L’attrazione, da explicandum che era, viene messa in posizione di explicans. Ma Newton non ha fatto così, innanzitutto perché questo avrebbe violato il rasoio di Occam (entia non sunt multiplicanda praeter necessitatem), introducendo un ente particolare come l’attrazione a distanza, e soprattutto perché la cosa sarebbe stata accolta come un trucco. Si sarebbe potuta accostare questa sua “soluzione” alla “spiegazione” data dai medici di Molière: “l’oppio fa addormentare perché possiede una virtus dormitiva”. Quei medici ci fanno ridere perché spacciano come spiegazione una semplice riformulazione del fenomeno che dovrebbero spiegare: il potere dell’oppio di far dormire.
Ma ciò che ci fa ridere nel teatro di Molière, smette di farci ridere quando Rovelli dice che, di fatto, l’entanglement, il garbuglio, fra due particelle non è qualcosa che bisogna spiegare, ma è la spiegazione stessa. L’entanglement è si una relazione, ma speciale: un invischiamento. Se due particelle si influenzano, in qualsiasi modo, pur essendo distanti tra loro, ciò che spiega questa informazione senza informazione è il loro entanglement. Come considerare filosoficamente una manovra del genere?
Di fatto, la fisica dei quanti vince ogni obiezione grazie alla sua forza predittiva. Per esempio, Rovelli parla di un’esperienza con un apparecchio fotonico di cui lui stesso è stato testimone (Rovelli 2020, pp. 34-37). Lo sperimentatore spezza un fascio di fotoni facendoli passare per due percorsi paralleli. Dopo di che i due spezzoni si riuniscono e devono “scegliere” tra due percorsi, diciamo “alto” e “basso”. Si constata che, in questo caso, tutti i fotoni prendono il percorso “basso” e nessuno “alto”, e non metà “alto” e metà “basso” come la probabilità farebbe prevedere. A meno che un osservatore non misuri uno dei due percorsi precedenti: allora effettivamente i fotoni prenderanno metà e metà i percorsi “alto” e “basso”. Anche in questo caso, hypothesis non fingo, ovvero la teoria non ha alcuna spiegazione per questa variazione in cui pare prodursi un corto-circuito tra sapere e realtà (tra significanti e cose).
Quel che conta, allora, è che questa esperienza permetta una previsione precisa. Ovvero: “solo se interferisco con uno solo dei fasci di fotoni divisi in due percorsi, potrò avere una distribuzione eguale di fotoni nei due percorsi divaricati successivi”. Posso fare questa predizione, anche se non so perché accade.
Eppure Rovelli aveva detto che la scienza non si limita a prevedere, vuole anche capire perché, vuole rendere intellegibile il mondo. Ora, mi pare che invece la grande forza della teoria dei quanti sia proprio nella sua potenza predittiva, accanto a un deficit esplicativo. Il che non deve sorprenderci. Questo, ancora una volta, accadde con la controversia tra newtoniani e cartesiani. La fisica cartesiana spiegava tutto ma non prevedeva nulla, la fisica newtoniana aveva grandi falle esplicative ma prevedeva tante cose. Alla fine ha prevalso la fisica newtoniana perché la scienza ha messo la capacità predittiva in una posizione preminente: si è auto-promossa come soprattutto gioco predittivo. Non ha certamente buttato alle ortiche ogni volontà esplicativa, comunque ha messo la prevedibilità in una posizione diciamo dirimente. È quel che si ripete oggi con la fisica dei quanti: la sua straordinaria forza predittiva ne assicura il successo. La prevedibilità compensa, per dir così, l’indeterminazione. La filosofia della scienza e la stessa scienza hanno optato per una visione pragmatista.
Possiamo vedere allora questo deficit esplicativo della fisica dei quanti in due modi. Un modo è quello di aspettarci una soluzione, per dir così, dalla storia. Ovvero, accettare il deficit esplicativo della teoria come un deficit effettivo ma provvisorio, e aspettare un nuovo Einstein il quale troverà un giorno la teoria che finalmente darà una ragione all’indeterminismo quantistico, così come Einstein – quello vero – trovò la risposta all’enigma dell’attrazione a distanza. La fisica dei quanti dovrebbe riconoscere un proprio relativo scacco esplicativo, ovvero un’incompletezza che andrà riparata.
C’è poi un altro modo – quello preferito da Rovelli, suppongo – che consiste invece nel dire (nella nostra terminologia) che l’indeterminazione è reale. Ovvero, non ci sarà mai una teoria più forte della fisica quantistica che darà ragione delle indeterminazioni quantistiche. Che davvero, a livello delle particelle elementari, abbiamo scoperto quella che chiamerei la libertà della Natura dal determinismo. Si ripete spesso la frase di Einstein “Dio non gioca a dadi” come critica della fisica quantistica, e così la risposta che gli dette Bohr: “La vuoi smettere di dire a Dio che cosa deve fare?” Ovvero, Dio è libero, può fare quello che vuole. In questa ottica, potremmo anche accettare che Dio (ovvero la Natura) crei qualcosa dal nulla. Perché proibirglielo? (Ammettere che si crei qualcosa dal nulla non implica che ci debba essere per forza un creatore, del resto.) La scienza non dovrebbe partire da alcun presupposto che ci dica a priori che cosa la Natura può fare o non può fare. Che è poi quel che aveva detto Wittgenstein: “nessuna parte della nostra esperienza è anche a priori” (vedi più sopra).
Ovvero, potremmo dire che la teoria scopre, a livello delle particelle elementari, qualcosa che dobbiamo presupporre a livello non del molto grande (sistemi solari, galassie), ma del più grande che ci sia: a livello del tutto. La fisica dei quanti ci dice che le particelle non sono entità, ma eventi. Ora, anche l’universo tutto – a meno che non ci siano altri universi a noi ignoti – può essere descritto solo come evento. In effetti, se è il tutto, non può essere in relazione con altro-dal-tutto. Ovvero, l’universo tutto non può essere determinato, insomma non ci possono essere cause dell’universo. È evento perché è absolutus, assoluto, sciolto da qualsiasi altra cosa: altrimenti non sarebbe tutto l’universo, ma solo una parte.
Oggi la maggior parte degli scienziati accetta la teoria del Big Bang, che sembra una teoria implicitamente creazionista. Il Big Bang ci dice che il nostro universo è conseguenza di un evento singolare, un’esplosione che del resto è ancora in corso, a partire da un volume piccolissimo, probabilmente quello di un protone. Ora, questo evento è connesso a un’assoluta singolarità. Con singolarità si intende qualcosa che è impossibile ma che pure esiste (definizione stessa del reale nella nostra accezione ripresa da Lacan). Nessuna teoria fisica può minimamente descrivere cosa abbia provocato quest’esplosione.
6.
Ora, mi distacco da un commento del libro di Rovelli e cerco di rispondere comunque alla questione di fondo che il suo approccio solleva: che cosa significa spiegare qualcosa in fisica, e nelle scienze in generale?
Le scienze esplicative, prima tra tutte la fisica, pretendono fornirci leggi universalmente valide. Secondo molti, queste leggi universalmente valide (che non ammettono quindi eccezioni) descrivono le vere cause degli eventi. (Secondo Koyré [1965, 1966] e Kuhn [1977, pp. 21-30] la fisica moderna privilegia le cause formali, come direbbe Aristotele, distinte dalle cause materiali, efficienti e finali). E le leggi causali sono dei "come" che trovano il loro senso nell'esigenza del "perché?" È questa la molla che fa sì che la scienza non si accontenti mai della propria capacità predittiva, ma si ponga domande sulle cause vere, allargando grazie a questa pretesa il proprio campo predittivo. L’impostazione di Hume, secondo cui la scienza punta alla pura prevedibilità grazie a regolarità riscontrate (ciò che chiamiamo “causa” è di fatto una concomitanza regolare), senza curarsi di ciò che è reale e ciò che non lo è, non coglie il bisogno essenziale alla base della scienza. Un vero scienziato non si accontenta mai della previsione pratica: punta sempre a capire il perché delle cose. Per esempio, Copernico e Kepler avevano descritto con una certa precisione i moti dei pianeti attorno al sole, ma ben presto i cosmologi si sono chiesti: perché girano? Newton fornì la risposta, interpretando quel “girare attorno” come risultato di un “cadere nel”. E poi a sua volta ci si è chiesti: “perché i corpi cadono nel…?” E così via di seguito. All’infinito?
Come abbiamo detto, la fisica di Newton lasciava inesplicata l'attrazione a distanza. Per due secoli, gli scienziati non hanno smesso di cercare il perché (cioè la causa) dell'attrazione a distanza. Da qui l'ipotesi dell'etere cosmico, ecc. Se la scienza si fosse limitata al "come" della gravitazione, ci saremmo fermati alla fisica newtoniana[19]. È vero però che i "perché?" della scienza sono a loro volta strutture di calcoli predittivi. La scienza rimanda sempre più in là la risposta al why? allargando l'ambito del because. Ma la regola delle sequele di because è in un why? trascendentale, potremmo dire.
In un film di Jean-Luc Godard, Alphaville (1965), siamo in una galassia che assomiglia molto alla terra: qui tutto è dominato dalla razionalità scientifica e da un computer tipo Matrix. Così è proibito dire “pourquoi?” (il why? inglese), si può dire solo “parce que” (il because inglese). L’ideale della scienza è esaurire la domanda esplicativa?
Significa questo che la scienza può imbattersi nell'evento puro, cioè in qualcosa senza causa, sine ratione? Wittgenstein nel Tractatus pensava che "il mondo è tutto ciò che accade [o cade][20]"; allora può anche accadere qualcosa senza causa? Per Wittgenstein la scienza non può scoprire un puro evento senza cause per la semplice ragione che questo non fa parte del proprio gioco. In questo senso la scienza non potrà mai legittimare i miracoli, ad esempio; potrà al massimo dire che certi fenomeni sono provvisoriamente non spiegati.
Immaginiamo, disse Wittgenstein (1967, pp. 5-19), che mentre sto qui parlando la testa di uno dei miei ascoltatori si trasformi nella testa di un leone. Sarà mai ciò un miracolo per un uomo di scienza? No, l'uomo di scienza cercherà di trovare le cause del fenomeno - cioè, cercherà di formulare delle leggi in cui quella metamorfosi potrebbe rientrare. Che ci riesca o meno è solo una questione di tempo, si pensa - l'umanità potrebbe estinguersi prima di aver trovato una risposta.
Eppure, in un certo senso, l'essere umano, lo stesso che poi opta per la scienza, è sempre confrontato - nota Wittgenstein - al miracolo: al fatto che esista l'universo. E ciò - nota Wittgenstein - "mi riempie di meraviglia". La causa di tutto ciò che accade è qualche altra cosa che accade, ma qual è la causa dell'accadere delle cose? A questa domanda la scienza non ha risposta, perché tutte le sue risposte sono un avvicinarsi asintotico a questa risposta impossibile. Ovviamente, nemmeno la riflessione filosofica sarà mai in grado di dare una risposta a questa ingenua domanda.
Scrive Rovelli (2020, p. 34), “Una ‘sovrapposizione quantistica’ è quando sono presenti insieme, in un certo senso, due proprietà contraddittorie”. Ora, in logica la contraddizione ha la modalità dell’impossibile: è come dire “piove e non piove”. La fisica quantistica ci dice insomma che “il reale è l’impossibile” (come diceva Lacan). Ma questo reale o impossibile è il limite della spiegazione scientifica (che quindi risulta incompleta), non il suo trionfo. Ed è proprio questa l’importanza della fisica quantistica: che determina i limiti della fisica stessa. La fisica quantistica è una fisica limitativa della spiegazione fisica, così come – suol dirsi – il teorema di Gödel è una limitazione della dimostrabilità matematica: non tutto il vero matematico è dimostrabile.
7.
Popper ha fatto rilevare, contro la tradizione empirista, che l'aumento di contenuto delle teorie scientifiche è inversamente proporzionale al crescere della probabilità che l’evento descritto dalla teoria si produca. Se chiamo a l'enunciato "venerdì pioverà" e chiamo b l'enunciato "sabato non pioverà", la congiunzione ab avrà ovviamente un contenuto più ricco dei due enunciati isolati, è una proposizione più informativa. Ma, fa notare Popper, questo aumento di contenuto - cioè di informatività - implica anche una maggiore improbabilità, e quindi una maggiore rischiosità della previsione. La previsione "venerdì pioverà e sabato non pioverà" è difatti più improbabile (è un pronostico più rischioso) di dire "sabato non pioverà" o “venerdì pioverà”. Da qui la formula:
Ct(a) ≤ Ct(ab) ≥ Ct(b)
Dove Ct(a) è il contenuto di ‘a’, Ct(b) è il contenuto di ‘b’, e Ct(ab) è il contenuto di ‘ab’.
Questa formula, fa notare Popper, è l'inverso della formula classica della probabilità:
p(a) ≥ p(ab) ≤ p(b)
dove p(a) è la probabilità di ‘a’, p(b) è la probabilità di ‘b’, e p(ab) è la probabilità di ‘ab’.
Quindi,
se l'accrescersi della conoscenza significa che operiamo con teorie di contenuto crescente, ciò deve anche significare che operiamo con teorie di decrescente probabilità (nel senso del calcolo delle probabilità). [...] Nella misura in cui la scienza aspira al massimo contenuto, essa aspira all'improbabilità. [...] Il calcolo delle probabilità, nella sua applicazione ("logica") alle proposizioni o asserti, non è altro che un calcolo della debolezza logica, o mancanza di contenuto di questi asserti. (Popper 1972, pp. 373-5).
Il caso estremo sono asserti del tipo
"venerdì pioverà o non pioverà"
Questo asserto è assolutamente vero proprio perché è tautologico, ovvero lapalissiano. I logici di un tempo dicevano che enunciati del tipo (8) sono "veri in tutti i mondi possibili", ovvero hanno probabilità 1 (che equivale alla necessità), ma proprio per questo hanno un contenuto informativo 0. Le verità logiche e matematiche sarebbero di questo tipo: hanno la probabilità massima di essere vere (nel senso che sono necessarie, certe) ma non dicono nulla del mondo esterno, hanno contenuto 0. (Anche se Popper e Wittgenstein si sono sempre cordialmente detestati, bisogna dire che essi danno comunque questo punto come assodato: solo la logica è necessaria, e proprio per questo non dice nulla del mondo.)
Ora, la ricostruzione empirista classica della spiegazione scientifica vedeva le teorie scientifiche come enunciati sempre più probabili, in una convergenza asintotica verso la necessità logica (probabilità 1). Nella filosofia logica moderna è il contrario: le teorie scientifiche, proprio perché mirano a un contenuto più ampio - il cui massimo è il tutto, ovvero l'insieme di tutti gli enti -, tendono a un'improbabilità sempre maggiore, tendono insomma verso l'impossibile, la probabilità 0. "Venerdì pioverà e non pioverà", enunciato sicuramente falso perché enuncia una contraddizione, è ciò verso cui tutte le spiegazioni scientifiche asintoticamente tendono, nel senso che non raggiungono mai questa probabilità zero, questo impossibile. E abbiamo visto, con Rovelli, che la fisica quantistica ci è molto vicina. Ma il fatto che vi tendano presuppone questo evento: è l'evento allo stato puro, senza alcuna causa, più che improbabile. È il fatto che ci sia questo universo di enti e non un altro. Ovvero, il tendervi comporta il fatto che l’universo abbia una storia, piuttosto che essere pura entropia. Il reale come impossibile non è qualcosa che la scienza scopre, insomma, ma qualcosa di presupposto dal suo “gioco”. Così come è presupposto a ogni gioco di scacchi che esso non possa continuare dopo lo scacco matto, per esempio. Il "fatto" che ci siano enti è impossibile, eppure è presupposto dalla scienza. La scienza non può mai porre la creazione, ma deve sempre in qualche modo presupporla – porla come presupposto, porla prima, supporla come precedente - come l’impossibile che contiene le possibilità del mondo.
La scienza biologica, ad esempio, ha eliminato giustamente il vitalismo, che si riduceva a un limite della capacità esplicativa del tutto vivente. La moderna biologia studia i tessuti viventi come fatti chimici, ovvero come fenomeni deterministici. Ma così facendo ha rimandato il paletto all’indietro, dato che la biologia non sa rendere conto come dall’inorganico si passi all’organico nella storia della materia; ovvero, come possa essere accaduto qualcosa di così improbabile, fino a sfiorare l’impossibile, come il formarsi della vita. L’estrema improbabilità della vita – si dice – rende verosimile la tesi che la vita forse si sia sviluppata una volta sola nell’universo, sulla terra.
Ma allora, che cosa succederebbe se tutto l'universo fosse finito[21], e se quindi la scienza ampliasse il proprio contenuto fino a poter spiegare, cioè prevedere, tutto quello che avverrà, da ora in poi, fino alla fine dei tempi, come il Dio di Laplace? Questa amplificazione massima del contenuto coinciderebbe con una probabilità bassissima - e quindi, secondo Popper, con una controllabilità massima? - oppure avverrebbe il salto nell'impossibile? Tutto lascia presumere che saremmo in questo secondo caso. Ergo, è impossibile spiegare il reale, cioè il tutto dell’universo, in quanto reale.
[Qualcuno può obiettare che do l’universo come un tutto, ein Ganz, ma non è detto. Personalmente, non ho alcuna idea di come sia l’universo, se sia finito o infinito, tutto o non-tutto, non so se ci siano infiniti universi o uno solo, ecc. Siccome non sono un metafisico, non ho alcuna idea a priori dell’universo. Considero qui l’universo così come lo concepisce la cosmologia di oggi, 2021, una concezione che un giorno potrebbe dimostrarsi falsa, ovviamente. Che poi nel nostro universo ci possano essere dei buchi che lo mettono in contatto con altri universi, con infiniti universi…. può darsi, ma chi può dirlo? Mi attengo al sapere scientifico, che parla dell’universo come di un tutto chiuso. E che, come tutto chiuso è destinato all’entropia. Tutta la teoria del Big Bang e dell’universo in espansione implica il presupposto che l’universo sia un tutto finito, anche se illimitato].
Prendiamo i dadi. L'enunciato "il dado cadrà su uno dei sei lati" ha probabilità 1 e contenuto informativo 0[22]. Un enunciato che prevedesse il risultato dei prossimi mille miliardi di lanci avrebbe un contenuto esplicativo enorme e una probabilità bassissima. Ma la previsione di tutti i risultati dei lanci possibili sarebbe impossibile, o ancora possibile mantenendo una sua probabilità infinitesima? È una domanda metafisica senza risposta intelligibile?
Ora, spiegare tutto significherebbe anche rispondere alla questione di Leibniz: spiegare perché c'è qualcosa piuttosto che nulla. Il tutto deve restare malgrado tutto contingente, cioè non necessario - altrimenti avrebbe probabilità 1, la sua occorrenza sarebbe certa, e quindi l'onni-spiegazione avrebbe contenuto informativo 0. Questo implica che debba esistere un minimo di non-impossibilità perché appunto il mondo sia. Ma questa infinitesima probabilità che il mondo sia quello che è, che il mondo resti evento - cioè nel suo insieme non necessario - coincide con la differenza infinitesima per cui "spiegare tutto" non sarebbe appunto tale, una spiegazione di tutto. Spiegare tutto – ovvero, rendere ragione del Tutto - è impossibile perché altrimenti il mondo sarebbe necessario, come pensavano le vecchie metafisiche, prima di Kant. E ogni metafisica che voglia spiegare il Tutto finisce sempre con ciò che a Napoli si chiama “finale a tarallucci e vini”, il lieto fine è assicurato: l’ente ha un senso, il mondo è il migliore dei mondi possibili, tutto va bene, Dio è buono…[23] Ma è proprio escludendo la necessità dell'universo nel suo insieme che ha senso la scienza empirica, la scienza tout court. La scienza si sviluppa sulle ceneri di ogni metafisica sorridente che in tutto vede una necessità, dunque un senso, anche nell’orrore della vita.
Il paradosso è questo: che la scienza, escludendo che il mondo sia necessario, ne presuppone l'esistenza come impossibile da spiegare - nel doppio senso, che è impossibile spiegarlo tutto, ma anche un impossibile che pur va spiegato. L'universo nel suo insieme appare alla scienza (questo è corollario del gioco della scienza) come un evento senza probabilità, come uno sprazzo di luce che emerge dalla notte invadente dell'impossibile. L'intero universo risulta, agli occhi della scienza, un’infinitesima differenza dall'impossibile. In questo senso la tesi di Lacan "il reale è l'impossibile" va interpretata come: il reale è impossibile, eppure esiste. Ed è verso questo reale come impossibile - vale a dire il mondo come puro evento - che la spiegazione scientifica si dirige, come Achille di Zenone tende a raggiungere la sua tartaruga, senza raggiungerla mai. La scienza è la corsa infinita che ci avvicina all'impossibile, cioè all'emergenza stessa di ciò che è. La scienza salva il salvabile dell'essere, punta sul resto infinitesimo che separa l'essere dall'assurdo.
di Sergio Benvenuto
.
.
BIBLIOGRAFIA
Benvenuto, S:
(2002). ”Il filosofo nel giardino delle scienze cognitive”, Sistemi Intelligenti, anno XIV, n. 1, aprile 2002, pp. 173-196. https://www.sergiobenvenuto.it/meditare/articolo.php?ID=164
(2013). Lacan oggi. (Milano: Mimesis).
Chomsky, N. (1970). Le strutture della sintassi. Roma-Bari: Laterza.
Einstein, A., Podolsky, B. & Rosen, N. (1935). Can quantum-mechanical description of physical reality be considered complete?, in Phys. Rev., vol. 47, n. 777, 1935.
Frege, G. (1892). “Über Sinn und Bedeutung”, Zeitschrift für Philosophie und philosophische Kritik, NF 100, 1892, S. 25-50.
Gribbin, J. (1996). Schrodinger's Kittens and the Search for Reality: Solving the Quantum Mysteries (New York: Back Bay Books).
Hintikka, J:
(1975). Logica, giochi linguistici e informazione (Milano: Mondadori).
(1998). Language, Truth and Logic in Mathematics (Heidelberg: Springer Netherlands).
(1999). Inquiry as Inquiry: A Logic of Scientific Discovery (Heidelberg: Springer Netherlands).
Hume, D. (1748). A Inquiry Concerning Human understanding. In Philosophical Essays Concerning Human Understanding (1 ed.) (London: A. Millar. 2014).
Koyré, A.:
(1965). Newtonian studies (postumo). Tr.it. P. Galluzzi, Studi newtoniani (Torino: Einaudi, 1972).
(1966). Etudes d'histoire de la pensée scientifique (postumo). Tr.it. parziale di A. Cavazzini, Filosofia e storia delle scienze (Milano: Mimesis, 2003).
Kuhn, T. S. (1977). “Concepts of Cause in the Development of Physics”, The Essential Tension. Chicago-London: Univ. of Chicago Press.
James, H. (1893). La vita privata. Parma: Nuova Editrice Berti, 2016.
Luhmann, N. (1986). L'autopoiesi dei sistemi sociali (Napoli: Liguori).
Petersen, A. (1963). The philosophy of Niels Bohr, “The Bulletin of the Atomic Scientists”, September 1963.
Poe, E. A. (1838). The Narrative of Arthur Gordon Pym of Nantucket. Tr.it. Le avventure di Gordon Pym (Milano: Feltrinelli, 2013).
Popper, K. (1972). Congetture e confutazioni, vol. 1.. Bologna: Il Mulino.
Rovelli, C. (2020). Helgoland. Milano: Adelphi.Sartre, J.-P. (1936). La trascendenza dell’Ego, a cura di R. Ronchi (Milano: Marinotti 2011).
von Bertalanffy, L. (1968). General System Theory: Foundations, Development, Applications (New York: George Braziller).
Waismann, F., a cura di (1975). Wittgenstein e il Circolo di Vienna (Firenze: La Nuova Italia).
Wittgenstein, L.:
- (1922). Logisch-philosophische Abhandlung. Tr.it. Tractatus logico-philosophicus e Quaderni 1914-1916. Torino: Einaudi 1964.
- (1967). Conferenza sull’etica; in Lezioni e conversazioni. Milano: Adelphi.
[1] C. Rovelli, La realtà non è come ci appare, Raffaello Cortina, Milano 2015, loc. 1632.
[2] Ho sviluppato questo concetto in Benvenuto (2002).
[3] Il famoso parse tree, albero analitico, di Chomsky ricalca la vecchia analisi logica: ogni frase comprende un Nome e un Tratto verbale, quest’ultimo a sua volta comprende un Verbo e un Tratto nominale (complemento oggetto)….
[4] Mi rifaccio qui alla ricostruzione di Hintikka (1975; 1998; 1999).
[5] Riportato da Petersen (1963, p. 8).
[6] In modo più tecnico, Wittgenstein dice che le proposizioni sono funzioni di verità di proposizioni elementari.
[7] A questo proposito, alcuni filosofi che non hanno capito il darwinismo mi dicono che Homo sapiens avrebbe rotto i meccanismi dell’evoluzione darwiniana, dato che l’uomo decide lui, oggi, quali specie devono sopravvivere e quali no. Ma questo potere di Homo sapiens rientra perfettamente nel gioco dell’evoluzione darwiniana: nella quale ogni specie determina più o meno l’esistenza delle altre (così i predatori regolano la demografia delle prede, ad esempio).
[8] I. Newton, “General Scholium”, Principia, Second edition, 1713. Per una discussione su questo enunciato, cfr. Koyré (1972).
[9] Possiamo dire che la fisica è tornata a questo presupposto cartesiano nel XIX° secolo, quando è stato elaborato l’elettromagnetismo.
[10] Spiego la nozione lacaniana di reale in Benvenuto (2013).
[11] Cfr. Gribbin (1996).
[12] Definizione: “L'entanglement quantistico, o correlazione quantistica, è un fenomeno quantistico, non riducibile alla meccanica classica, per cui in determinate condizioni due o più sistemi fisici rappresentano sottosistemi di un sistema più ampio il cui stato quantico non è descrivibile singolarmente, ma solo come sovrapposizione di più stati. Da ciò consegue che la misura di un osservabile di un sistema (sottosistema) determini simultaneamente il valore anche per gli altri.”
[13] “Se cercavate di concepire la fisica come una mera registrazione su dati osservati fino ad oggi, manchereste il suo elemento più essenziale, la sua relazione al futuro. Sarebbe allora come la narrazione di un sogno. Gli enunciati della fisica non sono mai completi. Assurdo pensare che siano completi.” Waismann (1975, p. 101).
[14] von Bertalanffy (1968). Luhmann (1986).
[15] Si veda in particolare l’opera di esordio filosofico di Sartre (1936).
[16] Ma non nel caso che io dica (6) “Rovelli pensa che il mondo sia descritto bene dalla meccanica quantistica”, perché Rovelli potrebbe non essere affatto d’accordo con questo giudizio. Quando il soggetto è “un altro” esso non può essere eliminato dalla proposizione.
[17] Wittgenstein non parlava di empirismo ma di solipsismo, il che in fondo è lo stesso. Scriveva nel Tractatus (Wittgenstein 1922): “5.64 Qui si può vedere che il solipsismo, quando si seguono rigorosamente le sue implicazioni, coincide col puro realismo. Il sé del solipsismo si restringe a un punto senza estensione, e vi resta la realtà coordinata con esso”.
[18] È una riformulazione della formula empirista essenziale, articolata da Hume (1748): “Non vi è alcuna cosa tale che la negazione della sua esistenza implichi contraddizione.”
[19] Come è noto, la fisica newtoniana lasciava inesplicato solo un piccolo particolare, all’epoca: la precessione o rotazione del perielio di Mercurio, fenomeno che risultava anomalo. La relatività la spiegò. Ben poca cosa. Certo Einstein non aveva elaborato la teoria della relatività per spiegare quella precessione del perielio…
[20] Tractatus, 1, “Die Welt ist alles, was der Fall ist” (Wittgenstein 1922).
[21] Oggi quasi tutti i cosmologi danno per scontato che l’universo che conosciamo è finito. Se non lo fosse, di notte non ci sarebbe il buio dove poche stelle brillano, ma sarebbe tutto un brillare continuo di tutto il cielo. Alcuni pensano che l’universo sia una bottiglia di Klein, figura illimitata ma finita.
[22] Nella realtà, un dado potrebbe cadere su uno spigolo e restare in equilibrio – evento rarissimo, ma non impossibile. Comunque, basta mettere la regola che per “risultato” si intende solo quando un dado cade su un lato solo.
[23] È da metafisico, non da scienziato, che Einstein poté dire: “Raffiniert ist der Herr Gott, aber boshaft ist Er nicht" (frase riferita da Oswald Veblen, aprile 1921), “Il Signore Iddio è sofisticato, ma non è perfido”. La fisica quantistica, per fortuna, non ci autorizzerà mai a dire questo. Ma nemmeno a dire che Dio è boshaft.
-
Sul secolo mistico
Recensioni / Luglio 2021Il campo semantico che gravita attorno alla parola “mistico” è comunemente riferito a riflessioni e, ancor più, a esperienze che sembrano riguardare esclusivamente l’ambito dell’esperienza religiosa o della rivelazione. Il vocabolario online dell’Enciclopedia Treccani, per esempio, indica come significato primario del termine mistico ciò ch’è relativo alla mistica, una «esperienza di vita interiore che porta il soggetto verso un’intima unione con una realtà superiore, diversa, assoluta, fuori delle forme ordinarie di conoscenza e di esperienza». Poco più avanti, invece, esso è riferito a ciò che potremmo chiamare il “misticismo”, termine con cui s’indicano quegli atteggiamenti e quelle posizioni che interpretano la realtà trascendendo «i dati sensibili» e rapportandoli «con forze soprannaturali». A un primo sguardo, dunque, il termine “mistico” sembra essere direttamente riassorbito nel dominio di pertinenza della mistica e del misticismo, che interseca le sfere del religioso e della metafisica. Uno sguardo più attento, però, è in grado di rivelare una situazione ben più complessa: un filone importante della riflessione filosofica del Novecento ci ha insegnato che con “mistico” si può indicare un’esperienza che non collima necessariamente con questi due significati. E che, anzi, proprio la definizione e l’esplorazione della dimensione aperta da quest’ulteriore esperienza possono condurci al cuore di nodi e problemi teorici cruciali per determinare il senso dell’esperienza umana in genere.
L’ultimo libro di Stefano Oliva, intitolato Il mistico. Sentimento del mondo e limiti del linguaggio, pubblicato per i tipi di Mimesis nel 2021, sembra far propria quest’ultima constatazione, da cui prende le mosse, per proporre un percorso teoretico di ampio respiro e di grande attualità attraverso alcuni fra i principali luoghi teorici del pensiero novecentesco. Come si legge nelle pagine dell’Introduzione, con “Mistico” (la maiuscola ricalca la grafia prediletta dall’autore) si designa qui, innanzitutto e soprattutto, un sentimento «connesso a una specifica modalità di visione del mondo» e «radicato in ciò che più di ogni altra cosa caratterizza la forma di vita umana», ovvero la «facoltà di linguaggio» (p. 9). Tale sentimento non va inteso pertanto nel senso di una rivelazione «riservata a pochi eletti, spiriti elevati o patologicamente eccitabili», bensì dev’essere compreso come una «esperienza paradossale» che «costituisce una possibilità antropologica basilare, inscritta nella stessa articolazione linguistica del pensiero umano» (ibid.). Anche per questo motivo l’interrogazione di Oliva sulla specificità dello sguardo mistico è condotta sempre in relazione a ciò che lo distingue dallo sguardo dell’uomo comune.
Il rapporto fra questi due è uno dei fil rouge più evidenti del libro, continuamente ripreso fino al capitolo conclusivo, in cui l’autore sancisce che la differenza fra il sentimento mistico e lo sguardo comune è dovuta alle rispettive modalità di relazione al mondo che essi dischiudono (cfr. p. 94-98). Più precisamente, nella prospettiva istituita e indagata da Oliva il Mistico possiede alcuni caratteri che in filosofia sono stati a lungo «attribuiti all’esperienza estetica», ovvero «i tratti della riuscita e del compimento» (p. 96). Uno degli aspetti che contraddistinguono la modalità propria del Mistico è, infatti, quello della finalità senza fini, che almeno da Immanuel Kant in poi ha rappresentato per il pensiero critico ed estetico uno dei segni distintivi del bello. Per esempio, immerso nel sentimento mistico è, come si legge nel testo, il camminatore che avanza «con la gratuità di chi è senza meta e può così dedicarsi semplicemente al fatto stesso di camminare» (p. 95), di chi cammina, a rigore, “senza perché”. Similmente, osserva Oliva, l’osservazione del mondo sub specie artis «vuol dire vederlo al di fuori dei consueti interessi pratici che indirizzano la nostra attenzione» (p. 96). Per tale motivo la locuzione “senza perché”, che ricorre sovente in relazione al tema del mistico (in particolare nella mistica renana), possiede una «risonanza» potente con l’ambito estetico e permette pertanto di comprendere il Mistico come un’esperienza la cui possibilità è radicata nella struttura esistenziale dell’essere umano.
Il quotidiano e il Mistico, in altre parole, divergono per atteggiamento, per modalità, e non per essenza, ontologicamente. Così, a nostro avviso il libro di Oliva si propone come una riflessione sul secolo Mistico nel duplice senso cui la parola secolo può rinviare: da una parte, il periodo di riferimento principalmente (ma, come vedremo, non esclusivamente) indagato dall’autore, ovvero il pensiero filosofico del Novecento che sul Mistico è ritornato in numerose circostanze; e, dall’altra, il Mistico nel suo radicamento nella dimensione della quotidianità, dunque di ciò ch’è secolare in quanto contrapposto alla vita spirituale, religiosa o ultraterrena.
Nel primo dei sette capitoli che strutturano il testo, Oliva riprende appunto la distinzione citata in apertura fra mistico, mistica e misticismo per impostare la propria indagine. Questa necessaria operazione preliminare di precisazione terminologica è condotta con riferimento alle opere di Michel de Certeau e alla sua analisi della mistica, ad alcune note di Bertrand Russell sul tema del misticismo e ad alcuni passi di Ludwig Wittgenstein. È il pensiero di quest’ultimo, infatti, a costituire la stella più luminosa della costellazione filosofica che guida il testo: dalle pagine del filosofo austriaco è possibile ricavare strumenti teorici accuratissimi per affrontare una lettura rigorosa e profonda del secolo mistico poiché troviamo in esse, formulato con la massima radicalità, il problema cruciale incarnato dall’esperienza-limite del mistico, quel «sentimento del mondo come totalità delimitata» (Tractatus Logico-Philosophicus, prop. 6.45) indagato da Oliva. Dal momento che l’intenzione di quest’ultimo è di non relegare il Mistico esclusivamente alla sfera dell’estatico e del religioso per indagarlo piuttosto nel campo del quotidiano e, più generalmente, per cogliere il senso ch’esso può rivestire in riferimento alla struttura esistenziale dell’essere umano, allora è proprio Wittgenstein il filosofo che ha inaugurato tale pista interpretativa e più di tutti ha saputo ricavare dall’esperienza del mistico un inedito e proficuo angolo prospettico per osservare la costituzione dell’animal loquens. Tale proficuità è dimostrata dall’autore anche nel capitolo successivo, che insiste e scava ancor più profondamente nella filosofia di Wittgenstein mostrando come non siano soltanto i passi più noti ch’egli dedica al tema del Mistico – con riferimento a das Mystische che appare nelle celebri proposizioni finali del Tractatus Logico-Philosophicus (1921) – a rappresentare un terreno di confronto fruttuoso per una simile indagine, ma rilevando la persistenza, composta beninteso pure attraverso tensioni e slittamenti, di problemi affini a quelli del Mistico anche nella sua produzione successiva, riferendosi per esempio alla Conferenza sull’etica (1929) e ad alcuni passi delle Ricerche filosofiche (1953). Infatti, le occorrenze del Mistico presenti nelle proposizioni finali del Tractatus, che, sottolinea Oliva, si configurano sia in forma di sostantivo sia in luogo di aggettivo (cfr. p. 24), sembrano riflettere e, insieme, istituire i limiti fra il mondo e l’ineffabile lasciando aperto il problema di un sentimento «senza soggetto e senza oggetto, ma che non per questo perde la propria specifica connotazione affettiva» (p. 27). In altre parole, il Mistico nel Tractatus appare connesso a una «visione del mondo sub specie aeterni» (p. 35) senza però che la dimensione dischiusa da quest’ultima sia esplorata fino in fondo, in linea con l’ultima proposizione dello stesso Tractatus la quale prescrive di tacere su ciò di cui non si può parlare. In tal senso, il Mistico rinvia qui a un’esperienza pre-logica, al di qua del linguaggio e al limite del mondo, che precede ogni possibile analisi logico-filosofica. Nel “secondo Wittgenstein”, invece, pur diradandosi i riferimenti espliciti al mistico (in merito cfr. p. 84), sono presenti talvolta passi e considerazioni in cui sembra affiorare una configurazione logica e problematica simile a quella che scaturisce da esso – come nella Conferenza sull’etica, dove il filosofo austriaco si confronta col sentimento di stupore per l’esistenza del mondo e con quello di assoluta sicurezza. Secondo Oliva, la distinzione e la «divaricazione» fra queste due fasi del pensiero wittgensteiniano in merito alle configurazioni problematiche ingenerate dal mistico «si gioca sul terreno logico e modale» (p. 30): il mistico del Tractatus si lega alla «contingenza del mondo […] vista come necessità» (p. 35), mentre la meraviglia per l’esistenza del mondo è un sentimento riconducibile alla “possibilità” dell’esistenza del mondo.
Col terzo capitolo Oliva tenta quasi una prosecuzione delle riflessioni wittgensteiniane attraverso i testi di Simone Weil, autrice che, pur apparendo molto lontana dai temi e dai problemi affrontati dal filosofo austriaco, sembra possedere nondimeno alcuni punti di contatto singolari con la sua produzione che riguardano perlopiù il tema dell’impersonalità e dell’indipendenza dalla forma soggettiva. In primo luogo, la prospettiva adottata dall’autore rileva nel concetto weiliano di persona impersonale «una delle possibili traduzioni» del Mistico wittgensteiniano poiché ne specifica un aspetto caratteristico. Nel Mistico, infatti, sarebbe esibito un «divenire-mondo» dell’individuo che, «coinvolto in un simile processo trasformativo», giunge a deporre la forma soggettiva, «il proprio Io», per divenire «impersonale […] ‘morendo’ come persona» (pp. 40-41). La configurazione logico-sentimentale del mistico, dunque, possiede un carattere impersonale che Weil sembra esplorare laddove l’analisi di Wittgenstein si arresta molto prima. In secondo luogo, nel «sentimento di realtà» che secondo Weil accompagna l’esperienza mistica si ravvisa un movimento concettuale analogo a quello presente nell’analisi wittgensteiniana poiché, similmente a quanto accade per quest’ultimo, nel sentimento di realtà «non vi è più un soggetto che stia lì a provarlo» e, «liberato dalle profondità interiori entro cui viene abitualmente relegato» tale sentimento sprigiona la propria «natura effusiva e atmosferica» (p. 43). Occorre aggiungere, infine, come rileva puntualmente Oliva, che questi accostamenti sono resi possibili anche dai lavori di alcuni allievi di Wittgenstein, come Maurice O’Connor Drury, Drush Rees e Peter Winch, che hanno in qualche misura favorito l’evidenziazione di prospettive teoriche inedite fra le posizioni dei due autori.
Nel quarto capitolo è soprattutto Jacques Lacan a figurare come l’intercessore privilegiato del percorso sulle tracce del Mistico compiuto da Oliva. Da una parte, lo psicoanalista francese ha disseminato qui e lì nel proprio insegnamento e nei propri scritti riferimenti e considerazioni su questo tema. In merito si possono ricordare, per non fare che qualche sparuto esempio, tanto l’affermazione contenuta nel Seminario XX secondo cui i suoi scritti apparterrebbero all’ordine della mistica, quanto le sezioni del medesimo in cui riflette su desiderio e godimento a partire dal Camino de Perfección di Teresa d’Avila, dalla mistica di Hadewijch di Anversa e san Giovanni della Croce; tanto il commento ad alcuni brevi passi del Peregrino Cherubico di Angelus Silesius nel Seminario I, quanto l’idea che l’accesso al godimento sia accessibile soltanto alla mistica esposta fulmineamente con la consueta allusività durante il corso del Seminario VI. Dall’altra parte, invece, la nozione lacaniana di «Reale» e l’insistenza con cui, almeno a partire da un certo momento, egli vi ritorna per svilupparla, rivela dei tratti e delle sfumature che collimano con i caratteri del Mistico indagati da Oliva in questo libro. Entrambe le nozioni, infatti, si situano aldilà di ciò che cattura e costituisce la rete del simbolico e del linguistico; entrambe si determinano come un punto cieco degli strumenti categoriali che il soggetto utilizza per la propria autopoiesi e per la strutturazione del mondo; entrambe sembrano implicare un sentimento, un modo di sentire, come testimoniato dall’analisi della «gioia dolorosa» osservata da Simone Weil (punto di partenza concettuale del capitolo) e dal godimento indagato da Jacques Lacan; entrambe, infine, come mostra Oliva passando attraverso e riformulando un accostamento di Alain Badiou, possono essere accostate grazie al concetto lacaniano di matema, il cui «contatto con il reale […] condivide con il Mistico l’individuazione dei limiti del linguaggio come operazione che ha luogo all’interno del linguaggio stesso» (p. 63). Un paragrafo del medesimo capitolo, inoltre, compie un breve détour che ha per oggetto il «non-sapere» di Georges Bataille, inquadrato criticamente attraverso alcune annotazioni di Alexandre Kojève – secondo il quale è contraddittorio, come fa Bataille, contrapporre l’«esperienza interiore» alla «speculazione filosofica» determinando una sorta di ritiro al di qua della parola per parlare del quale, tuttavia, è necessario l’uso del linguaggio. Secondo Oliva, in tal modo Bataille «scade nel misticismo», secondo l’accezione prima osservata, poiché, diversamente dal Mistico «inteso come mossa integralmente filosofica di ‘interruzione della filosofia’», le sue posizioni compiono un «un passo oltre l’“estremo del possibile”», terreno dove non può darsi alcun progetto, foss’anche «quello di uscire dal campo del progetto» (p. 53).
La sezione successiva, invece, osserva le riflessioni di Martin Heidegger relative alle «tonalità emotive», seguendone le vicissitudini, gli avanzamenti e gli slittamenti sino a sorprendere nel concetto di Stimmung «il limite del domandare e del chiedere ragioni» (p. 79). E il sesto capitolo prende le mosse da questo limite per far ritorno ancora una volta a Wittgenstein e per considerare le proposizioni contenute nella sua ultima grande opera – Della certezza (pubblicata postuma nel 1969) – rilevandone alcune possibili consonanze proprio con la fenomenologia heideggeriana della tonalità emotiva. Tanto nell’indagine heideggeriana sulle tonalità emotive fondamentali – come l’angoscia che appare in Essere e tempo (1927) e in Che cos’è metafisica? (1929) o la noia abbordata nel corso I concetti fondamentali della metafisica (1929-1930) – quanto la riflessione dell’ultimo Wittgenstein, infatti, a tenere banco sono la questione dei limiti del linguaggio e quella della visione del mondo «come tutto concluso» (p. 80). Entrambe “compendiate” nella lettura del Mistico esposta al termine del Tractatus, tali questioni sembrano risuonare in numerosi luoghi degli itinerari filosofici dei due autori, conducendo il lettore al settimo e ultimo capitolo, di cui abbiamo anticipato precedentemente alcune argomentazioni, che si conclude riflettendo sulla modalità che abita intrinsecamente il gesto del Mistico. Come abbiamo visto, per Oliva ciò che tiene insieme tutte queste riflessioni apparentemente disparate che vanno dagli albori agli anni conclusivi del XX secolo è l’aver rilevato, osservato, approfondito e studiato una peculiare modalità di guardare il mondo dischiusa dal mistico. Esso si configura pertanto come un gesto che trasforma lo sguardo comune. In questo esso non è un gesto necessariamente filosofico, eppure è di grandissima pregnanza per la disciplina perché esibisce e suscita esemplarmente alcune questioni al centro dell’interrogazione filosofica del Novecento. In ciò il Mistico figura come «un gesto conclusivo che, in una inaspettata inversione del pensiero wittgensteiniano, non aggiunge nulla sul piano del ‘che’ ma modifica – come in un improvviso cambiamento d’aspetto – la determinazione del ‘come’» (p. 96). In altre parole, nel Mistico non è più ciò che vediamo di fronte a noi a determinare il nostro sguardo, ma è quest’ultimo a presentarsi secondo una modalità radicalmente altra.
Ai sette capitoli sin qui osservati, si aggiungono, inoltre, una postfazione a firma di Daniela Angelucci, la quale sottolinea la pregnanza delle argomentazioni di Oliva per il modo in cui quest’ultimo riconfigura ed elabora la «dimensione estetica» connessa al tema del Mistico rivendicandone «la pesantezza, la necessità, la solidarietà con gli aspetti essenziali della nostra vita» (p. 123); e, soprattutto, un denso Post-scriptum sul quale vogliamo soffermarci per terminare le nostre considerazioni. In questa sede, infatti, Oliva prolunga ulteriormente la riflessione sul “secolo mistico” mostrando la persistenza dell’interesse per il mistico nella filosofia contemporanea più recente.
Il poscritto inquadra il prepotente ritorno, sulla scena filosofica mondiale degli ultimi quindici-venti anni, di posizioni che a vario titolo si richiamano al realismo (dal nuovo realismo di Maurizio Ferraris al realismo speculativo di Graham Harman) concentrandosi in particolar modo su Quentin Meillassoux e il suo libro Dopo la finitudine (2006). La critica al «correlazionismo» avanzata da quest’ultimo, infatti, giunge a considerare il Mistico e dipingerlo come una figura affatto rivelatrice, a suo dire, di alcuni esiti estremi cui la filosofia correlazionista del Novecento può dar luogo. Il Mistico, rileva l’autore, «diviene nelle pagine di Meillassoux la figura di una riduzione della filosofia a pietas, in cui l’accettazione dei limiti della pensabilità si traduce in una apertura nei confronti della credenza irrazionale e del fanatismo» (p. 103). Eppure, a ben vedere, grazie a un’argomentazione puntuale, Oliva rovescia le posizioni del filosofo francese mostrando che, contrariamente a quanto egli afferma, ciò ch’è contenuto nella declinazione wittgensteiniana (quella considerata da Meillassoux) del Mistico «non è il frutto scettico-fideistico del correlazionismo forte», bensì, piuttosto, «l’incarnazione di un realismo ancor più radicale di quello speculativo» (p. 108). Tale rovesciamento è operato da Oliva attraverso la dimostrazione che la maniera adottata da Meillassoux per inquadrare il Mistico (o, perlomeno, la sua declinazione wittgensteiniana) è viziata da un errore piuttosto vistoso. Il filosofo di Vienna, infatti, «non ha mai inteso il Mistico in maniera diversa da un assoluto» (p. 106) e dunque comprenderlo come l’esito di una posizione correlazionista vuol dire, in realtà, non averlo compreso affatto. Il poscritto si chiude con una riflessione che prende le mosse dalla constatazione di Badiou secondo cui in Wittgenstein si disvela il compimento di un atto teorico definibile come «arci-estetico» (cfr. p. 110) e gettare le basi per la formulazione di un «realismo mistico» o «estetico» (p. 113).Il mistico è un testo decisamente rilevante per numerosi problemi che interessano e abitano il dibattito filosofico contemporaneo. Essi vanno dal rapporto fra l’uomo e il mondo, in un’epoca di globalizzazione e crisi ecologica in cui diventa sempre più urgente la riflessione sulle modalità in cui esso si realizza, all’interrogazione della specificità dello sguardo estetico contemporaneo; dalla diatriba contemporanea sui nuovi realismi, sui correlazionismi e sul senso del filosofare oggi, alla discussione dell’eredità filosofica consegnataci dal Novecento; dalle nuove possibili configurazioni della teoria psicoanalitica, alla questione, sempre aperta, relativa ai limiti del linguaggio. Il libro di Oliva pone così il lettore di fronte a un’esperienza radicale, e lo invita a riflettere sui possibili sensi che la determinano e che a partire da essa si dipanano, fedele all’esigenza filosofica di riflettere sui limiti che ci attraversano e ci costituiscono.
di Claudio D'Aurizio
-
Filosofia del gesto
Recensioni / Giugno 2021Diceva Peirce che il pensiero di uno scrittore vivente risiede maggiormente nelle copie stampate dei suoi libri piuttosto che nel suo cervello (CP 7.364). Ovviamente, con questa formulazione, Peirce non voleva affatto mettere in luce la mera dimensione quantitativa della produzione di un autore, quanto piuttosto sostenere che è nella pratica di scrittura – condivisa, corporea, intersoggettiva e proprio per questo valutabile e aperta al dibattito – che si discutono le idee, che i pensieri acquisiscono corpo e che diventa possibile saggiarne la consistenza e l’effettività pratica. La filosofia del gesto di Giovanni Maddalena, nella versione italiana appena pubblicata, conferma in qualche modo questa idea del pragmatista americano. Mentre The Philosophy of Gesture, uscito nel 2015 per la prestigiosa casa editrice McGill, si presentava come un testo più corposo e tecnico, la versione italiana è invece più agile e diretta e nasce dall’esigenza di far arrivare la proposta teoretica di questo testo ad un pubblico più ampio di quello degli studiosi e degli specialisti del pragmatismo. Giovanni Maddalena è professore ordinario di filosofia teoretica all’università del Molise e si occupa principalmente di pragmatismo americano, della semiotica di Charles Peirce, della logica della continuità e dello studio dei grafi esistenziali.
Per inquadrare agilmente la struttura di questo testo, si potrebbe dire che è suddiviso in due parti. Con un piccolo nota bene però: che con questa operazione – e dunque con questo gesto – si è già tradita in qualche modo la complessità e la sinteticità di questo nuovo modo di intendere la pratica gestuale, dove teoria e prassi, mente e corpo, comunicazione e pensiero sono già da sempre coinvolti in un’unità dinamica e creativa.
Nella prima parte Maddalena discute, sul versante teoretico, in quale senso quello del gesto sia un nuovo paradigma di ragionamento sintetico. Nella seconda parte, invece, l’autore fornisce un ventaglio di applicazioni pratiche entro cui questo nuovo paradigma di ragionamento può muoversi e contribuire, dalle riflessioni sulla tecnologia alla religione, dal diritto alla pedagogia.
Sin dalle prime pagine, questo testo presenta le ragioni per cui è necessario pensare ad una filosofia del gesto: l’obiettivo polemico di questo nuovo paradigma di ragionamento è infatti il come della distinzione kantiana tra analitico e sintetico. Nella Critica della ragion pura, Kant definisce analitico quel giudizio che, basandosi sul principio di contraddizione, presenta le caratteristiche di necessità e universalità; definisce invece sintetico quel giudizio che, basandosi sull’esperienza, permette di acquisire nuove conoscenze. Di più: partendo da questa distinzione, Kant si chiedeva se fosse possibile trovare dei giudizi che fossero allo stesso tempo universali, necessari e sintetici. Secondo Kant, i giudizi della matematica e della geometria (si ricordi il famoso esempio 7+5=12) incarnano la struttura dei giudizi sintetici a priori, poiché permettono di conoscere un contenuto nuovo senza però dover rinunciare alla necessità e all’universalità. La critica che Maddalena rivolge a Kant è che i giudizi sintetici a priori, per come vengono intesi e esposti da Kant, hanno caratteristiche di universalità e necessità ristrette. Si applicano cioè solamente ad un certo tipo di spazio e di tempo. In breve, “la sintesi a priori kantiana si appoggia su uno schema tutto-parte che è identico a quello dell’analitica…La sintesi dunque funziona, cioè mantiene universalità e necessità, perché è analitica” (p. 26).
Oltre a Kant, vi è poi un altro obiettivo polemico di cui occorre fare menzione per comprendere il quadro teorico entro cui si colloca la filosofia del gesto. Dopo un breve storia della gestualità volta a scardinare l’idea antica e moderna che i gesti costituiscano un linguaggio primordiale e incoativo, Maddalena si confronta con i gesture studies e quindi con la classificazione dei gesti di Adam Kendon. Secondo Kendon, i gesti si suddividono in 1) gesticolazione, 2) gesti language-like, 3) pantomine, 4) emblemi, 5) lingue segnate.
Maddalena riconosce il contributo di autori come Kendon e Austin nell’averci insegnato che si possono fare cose con le parole, ma intende, attraverso gli strumenti concettuali della teoria segnica di Peirce, mostrare la necessità di allargare questo paradigma di ragionamento, assumendo un diverso approccio per trattare la complessità delle pratiche gestuali: “i problemi classici dello studio dei gesti, i tipi vecchi e nuovi di parallelismo e continuismo, possono in questo modo essere compresi senza creare alternative: la gesticolazione è un modo di conoscere ma l’aspetto simbolico-linguistico riveste una parte fondamentale affinché tali gesti giungano a una completezza” (p. 94).
È vero che in questo testo le sottili analisi della semiotica di Peirce sono maggiormente lasciate sullo sfondo rispetto al precedente Philosophy of Gesture; è altrettanto vero che sarebbe impossibile prescindere dal progetto peirciano per comprendere la struttura di questo testo. Uno dei meriti di questo testo sta proprio nel vedere la teoria del segno di Peirce come un punto di rottura con la filosofia kantiana e in particolare, con la distinzione tra fenomeno e noumeno, così come tra sintetico e analitico.
Per descrivere al meglio in cosa consista questo nuovo paradigma di ragionamento, Maddalena, in contrasto con Kant, ci invita a guardare la sintesi non come “il rovesciamento dell’analisi ma come un processo originale per cui conosciamo mentre facciamo e mentre comunichiamo” (p. 9).
Il ragionamento, sostiene Maddalena, non è bipartito ma tripartito e pendolare e comprende l’ambito analitico, quello sintetico e, infine, quello vago. Sintetico è il ragionamento che riconosce l’identità nel cambiamento mentre invece quello analitico è il ragionamento che la perde. Il giudizio vago rappresenta la transizione tra l’analitico e il sintetico, il confine liminare tra il riconoscimento e la perdita dell’identità nel cambiamento. Delinea dunque una zona del ragionamento ancora inarticolata. La nozione di identità in mutamento è fondamentale per comprendere la critica che Maddalena rivolge alle filosofie della coscienza così come per strutturare questo nuovo paradigma gestuale. In ambito matematico, il termine mutamento si traduce con “continuo” ed è per questo motivo che i punti da tenere fermi per capire l’urgenza di ragionamento sintetico gestuale sono l’identità e il continuo.
Entrando nel vivo della strutturazione del gesto, Maddalena ne distingue due aspetti, uno semiotico e uno fenomenologico: più nello specifico, per quanto riguarda il versante semiotico, il gesto, secondo la celebre tripartizione peirciana, si compone di icona, indice e simbolo. Iconico è quel segno che rappresenta il proprio oggetto per similarità, indicale quello che lo rappresenta per connessione diretta mentre simbolico è quel segno che richiede una mediazione interpretativa per poter rappresentare il suo oggetto. Sul versante fenomenologico (o, come direbbe Peirce, faneroscopico), il gesto si articola in firtsness, secondness e thirdness. Queste tre categorie traducono sul piano fenomenologico i tre modi del segno prima accennati “ma ne sottolineano la trasmissione del significato” (p. 39). La dimensione fenomenologica permette di intendere simultaneamente le modalità del segno e la pratica comunicativa che le istanzia.
Un gesto è completo quando produce una sintesi, cioè quando operano in completa sintonia sia gli aspetti semiotici che quelli fenomenologici, permettendo di acquisire un nuovo significato. Un gesto è invece incompleto quando non vi è una piena collaborazione di questi aspetti e dunque non è possibile produrre una sintesi completa. Ovviamente, precisa Maddalena, seppure incompleti, tali gesti non sono però inutili; anzi, “coincidono con gran parte delle nostre azioni ed hanno una funzione” (p. 37).
A questa gran parte delle nostre azioni occorre accennare, facendo così emergere la trattazione applicativa di questo nuovo paradigma di ragionamento, fondato sulla struttura semiotico-fenomenologica dei gesti completi e incompleti. Anche se il focus del testo è rivolto alla distinzione tra analitico e sintetico e alla sua riformulazione, non bisogna dimenticare la terza partizione del ragionamento, ossia la vaghezza. Il ragionamento vago è infatti un costituente irriducibile del gesto poiché rappresenta il punto di partenza di ogni azione e dunque di ogni pratica gestuale. La dimensione vaga mette in luce l’orienza del significato, la potenziale qualità differenziantesi che, in the long run, condurrà alla costituzione di una generalità significante. Certo la conoscenza umana è fallibile, sempre in difetto e correggibile: in breve, in cammino. Quello che però non bisogna omettere da questo racconto è che il nostro rapporto quotidiano con il mondo è costantemente regolato da un groviglio di certezze, di abiti cristallizzati e di pratiche per lo più non tematizzate che ci permettono un incontro gestuale e corporeo con esso. Uno dei contribuiti a mio parere più interessanti di questo testo sta nel riconoscere che “il nostro modo di affrontare, conoscere e comunicare la realtà è innanzi tutto vago” (p. 47). L’origine del significato è vaga poiché è praticamente certa, o meglio, stabilizzata da una parte della conoscenza che “ha a che fare il corpo, con l’esistenza, con l’azione” (p. 7).
In questo senso occorre considerare le riflessioni di Maddalena sul lavoro, inteso come “modo quotidiano di ragionare sinteticamente” (p. 81), capace di offrire una comprensione della propria identità e di quella altrui grazie alla prospettiva simbolica che accompagna lo sforzo del lavoro. Oppure l’analisi che l’autore rivolge al mondo della tecnologia e del digitale, vedendo la tecnologia come il motore del pensiero e gli strumenti tecnologici come prolungamenti macchinici dei nostri gesti.
In conclusione, concluderei questa recensione con una citazione di Nietzsche, tratta dallo Zarathustra e dedicata ironicamente ai dispregiatori del corpo, che ben sintetizza l’impianto e la tonalità pragmatista di questo libro: “V’ha maggior ragione nel tuo corpo, che non ne contenga la tua miglior sapienza. E chi sa mai perché il tuo corpo ha proprio bisogno della tua miglior sapienza?”.
di Rocco Monti
-
Vortici, forme dell’esperienza
Recensioni / Aprile 2021Inevitabilmente, la considerazione più immediata che ci assale quando pensiamo ad un vortice è quella di un fenomeno caratterizzato da un movimento incontrollato, un flusso o un risucchio in un evento in cui non si può trovare ordine o fine. Anche la letteratura ci ha lasciato tale concezione del vortice, si pensi al turbine di anime lussuriose descritte da Dante nel V canto della Divina Commedia, scosse eternamente in tutte le direzioni dai venti infernali a espiazione del loro peccato.
Il lavoro di Tuppini però si propone di trasformare tale concezione del vortice, presentandolo invece come un modello esperienziale proprio dell’uomo e, più generalmente, come uno schema ontologico riscontrabile in più aspetti del reale. Il libro, infatti, analizza il concetto di vortice sotto vari punti di vista: culturale, artistico, psichico e fisico, mostrando come noi, volenti o nolenti, siamo costantemente trascinati in un vortice.Tommaso Tuppini è professore associato di filosofia teoretica presso l’Università di Verona. I suoi campi di studio si muovono dalla filosofia morale, nello specifico il criticismo kantiano, all’ontologia, specialmente in ambito americano e fino al post-strutturalismo francese. Questa varietà di interessi viene espressa in Vortici: si coglie molto bene come l’autore sappia far dialogare tra loro diverse correnti e aspetti del pensiero.
Il testo inizia con una disamina ontologica e teoretica del concetto di vortice, prendendo subito le distanze dalla teoria definita del “trascendentalismo”, cioè quel pensiero che ricerca costantemente un fondamento altro (trascendentale) su cui fondare la realtà, affermando invece come il vortice sia una messa in discussione di tale paradigma. Tuppini, rifacendosi alla Object Oriented Ontology americana, afferma che la critica principale da muovere al trascendentalismo è quella di un’impropria assunzione dell’uomo come unico ente-soggetto in grado di ordinare la realtà, mentre l’intera esistenza non è altro che un’interdipendenza di relazioni tra soggetti che popolano il mondo, piante, animali e computer, che formano una rete, un vortice di esperienze e legami tra di essi: «se l’essere è partizione, è sbagliato pensare che qualcuno o qualcosa eserciti un possesso esclusivo su un tratto ontologico qualsiasi» (p.7). Perciò non è solamente l’esistenza umana ad essere esperienziale, ma lo sono tutte, in opposizione alle teorie che esaltano un accesso privilegiato ed esclusivo all’ente, quali il soggettivismo estremo, il relazionismo radicale e il sostanzialismo. L’autore conia in queste pagine un’analogia che tornerà continuamente nel corso del testo, quella della rete. L’esistenza infatti si può esprime con la figura della rete e gli enti-soggetti mondani come i fili che costituiscono tale tessuto, creando nodi e intrecci nel loro relazionarsi. L’incontro dato dai fili è casuale, senza fine o programmazione e questo intreccio non è altro che l’interdipendenza tra i vari soggetti dell’esistenza che in tal modo possono individuarsi. Questo è il vortice: «Le cose si individuano secedendo da un ambiente con il quale però non smettono di comunicare. Individuarsi significa stringere un nodo che si distingue dall’ambiente nel quale è immerso, cioè dai fili con i quali il nodo è stato tessuto» (p. 10). Così il vortice si presenta come un punto di non determinazione del reale, il quale sfugge da mere classificazioni teoriche, mantenendosi e cancellandosi per via dei suoi stessi elementi costitutivi. Esso è sempre in bilico tra organizzazione e disorganizzazione dell’esperienza, essendo l’instabilità, l’esser turbolenza, l’aspetto più insito e profondo del vortice. Ma esso, in tale processo, genera anche degli effetti che sono stabili, cioè delle relazioni. Pertanto, il vortice è un tessuto di nodi che formano il reale, il quale regola gli scambi energetici tra le parti che lo costituiscono mettendo il tutto in reciproca comunicazione. Il vortice è «un vuoto, una soglia di passaggio, uno spazio di articolazione» (p.20), un canale tra passato e futuro, senza sostanza o individualità in sé, che genera un movimento spiralico del reale.
Queste sono dunque le basi teoriche su cui si muove il testo di Tuppini: mostrare come il vortice sia una struttura energetica che attraversa la realtà, il virtuale, la società, le arti e la psiche, e come esso si possa utilizzare come strumento analogico per interpretare il mondo e dar ragione delle sue differenze. Il lavoro svolto nelle pagine introduttive consiste nel mostrare il piano concettuale sul quale si intende lavorare e dal quale creare, nei successivi capitoli, le varie esemplificazioni del vortice, realizzando una rete che tiene insieme i testi di De Sade e Merleau-Ponty, la mescalina e il gioco degli scacchi, arrivando fino alle particelle atomiche e alla cinematografia contemporanea.
Il primo confronto con un vortice che viene presentato nel libro è quello presente nel De Sade letto da Bataille. Questi autori si oppongono a ciò che viene definita la “società omogenea”, cioè il mondo in cui viviamo, riassumibile dal binomio lavoro-consumo. Gli scritti di De Sade, secondo Bataille, sono un solvente per tale società. Egli, nei testi del nobile francese, trova quel lato recondito che non ha espressione in altri posti. L’autore sintetizza questo fenomeno con il concetto di scarto o «escrezione» (p.27), cioè la produzione di impulsi ambivalenti dati dall’incontro con un corpo estraneo, sul quale agiamo e che al contempo agisce su di noi. L’escrezione è l’atto finale di un vortice in cui oggetto e soggetto fuoriescono come esausti e dal quale emergono gli aspetti più nascosti di entrambi. Questo è un bisogno che non riusciamo a controllare e a spiegare, ma a cui diamo il nome di godimento, cioè «la condizione di massima intensità ed eterogeneità di cui il vortice umano può fare sperienza» (p.34). Il capitolo si conclude con la presentazione dei due tipi di vortici presenti nei testi di De Sade, la rivoluzione e l’apatia. Il primo viene definito come l’articolazione esterna e interna del godimento, data dall’intreccio di potenza tra individui, un accrescimento del singolo nel piacere, un vortice che si diffonde e si perpetua. L’altro vortice è invece quello dell’apatia, cioè dell’indifferenza, la solitudine che muove gli uomini nel mondo tra un godimento e l’altro, e che esemplifica la chiusura e l’oppressione presente dentro di noi. Ma unicamente dal contatto tra queste due entità, conclude Tuppini, si sprigiona il vortice dell’energia che De Sade ci descrive e dal quale siamo travolti.
Il vortice però non è appannaggio esclusivo della letteratura. Un altro campo nel quale esso si dà è quello psichico-percettivo, come espresso nel capitolo Sensazione e sonno e in quello denominato Mescalina. Nelle pagine di Sensazione e sonno viene analizzato il rapporto che oggigiorno noi abbiamo con il dormire e di come esso sia in simbiosi con la percezione. Infatti, non solo un corretto ciclo del sonno influisce sulla nostra sensazione, ma la stessa esperienza onirica è da considerare come un evento sensitivo. Bisogna specificare, però, che la sensazione non è percezione, poiché non è chiara e distinta, come direbbe Cartesio, ed ha, secondo Merleau-Ponty uno «statuto pre-intenzionale» (p.46). Con la sensazione, come nel sonno, noi abbiamo davanti a noi delle qualità sensibili non ben specificate, mai definitive o definite: la sensazione è quel senso di vaghezza prima di una percezione-comprensione. Perciò la sensazione è un vortice, un flusso di elementi differenti che appena vengono elaborati svaniscono, un movimento o una distonia, come viene chiamata nel testo. Questo fenomeno è analogo a quello del sonno, della confusione onirica notturna, in cui i flussi di pensieri sono in perenne movimento senza mai darsi completamente, dispiegando una nuova dimensione in cui l’asse del vortice è il soggetto assopito nel quale nuove relazioni si danno e si disfano continuamente. Così anche il sonno, il più tranquillo dei momenti, cela in realtà un quieto trambusto di sensazioni che termina con il destarsi del corpo e la lucidità del risveglio.
Ma non solo nel riposo è possibile alterare la nostra comprensione, anche nel mondo fattuale è praticabile una distorsione della percezione, ad esempio con l’utilizzo di droghe psichedeliche come la mescalina. Ovviamente Tuppini non intende fare un’apologia di tali sostanze, vuole invece esporre come gli allucinogeni siano una droga-vortice per l’accesso ad un campo extrasensoriale. Di fatto quello della mescalina non è propriamente un vortice, ma una turbolenza, poiché non presenta ordine ma solo dis-ordine, «La turbolenza mescalinica è uno stato incoativo che si prolunga oltre ogni limite dentro uno spazio che rigurgita, spazio di gestazione, di trasformazione, di moltiplicazione, proliferazione sterile» (p.67). Colui che assume tale sostanza perde la sua soggettività intenzionale, esso non sa più distinguere i confini spaziali diventando un flusso continuo con l’esperienza. Il risultato è un movimento che non si può fermare ma, a differenza del sonno, non è un vagare confusionario, bensì uno scendere nel profondo della realtà, un vagliare le varietà di forme del mondo con un cambio prospettico su di queste. Il trip derivante dall’allucinogeno è come un’onda che si espande per poi dissolversi, un vortice che crea un altro vortice, un giramento infinito senza causa.Il vortice però ha anche un fascino artistico, il suo movimento fluido è stato d’ispirazione per moltissime correnti culturali ed esso «diventa immagine quando il nodo di cui è fatto riesce a catturare l’immagine» (p.82). Questo concetto lo fece proprio il Vorticismo inglese, nato sotto l’influenza del futurismo italiano agli inizi del 1900, ed è, come l’ispiratore italiano, un’avanguardia non solamente pittorica, ma anche poetica e sociale. Tuppini si sofferma in particolare sull’interesse di molti esponenti di questo movimento per il gioco degli scacchi, mostrando come anche un gioco così estremamente codificato celi dentro di sé un vortice. Esso è un gioco di movimento e torsi, di incontro e di scontro tra pezzi, un annodarsi di mosse che crea la rete della scacchiera.
Tale idea di vortice come struttura viene poi ripresa e approfondita nel capitolo successivo, Atomo, dove l’autore illustra in che modo il costituente basilare dell’esistenza, il mattone più piccolo dell’universo, cioè l’atomo, per via analogica si possa interpretare come un vortice che trasversalmente attraversa, con il suo movimento vorticoso, ogni ordine e grandezza. Tuppini avvalora queste sue tesi sull’atomo come forma energetica riprendendo gli esperimenti di inizio Novecento sul mulinello idraulico, condotti dai fisici inglesi Willliam Thomson e Peter Tait. Costoro sostennero che l’atomo vorticoso faccia sfumare con il suo movimento la materia, rivelando come questa non sia alla fine che un intreccio di energie in movimento, «L’atomo vorticoso è semmai una materia energetica o un’energia materiale» (p. 100). Quest’atomo si esprime con il moto a spirale, presentato lungo tutto il corso del libro, dando come risultato un cono, un vortice, nel quale si incontrano le varie dimensioni spazio-temporali e gli stessi elementi si danno e si disfano nel loro relazionarsi. Così in queste pagine viene confermata la tesi iniziale: tutto è vortice e ogni entità vi è dentro.L’ultimo aspetto trattato dal libro è quello del movimento, presentato nel sesto capitolo del testo: Kìnêma. Il titolo del capitolo è una ripresa del termine greco kinesi, movimento, dal quale deriva la nostra parola cinema, essendo il cinema un fenomeno che è al contempo statico e in movimento, e che in greco si esprime appunto con la parola kìnêma, mosso. La particolarità di questa sezione, però, risiede nel fatto che l’autore esponga questa tematica attraverso l’analisi cinematografica del film Uncut Gems. Il parallelismo condotto durante tutto il capitolo è quello tra le tesi di Zenone di Elea sul movimento e le vicissitudini del protagonista di Uncut Gems, un gioielliere ebreo di New York che vive immerso nei debiti di gioco e che ha l’opportunità di vendere un prezioso opale per fare la “vincita della sua vita”. Tuppini, riprendendo l’insegnamento zenoniano per cui, «ciò che si muove non si muove né nel luogo in cui è, né nel luogo in cui non è» (p. 115) mostra come il movimento verso un luogo, da A a B, sia illusorio poiché composto e mediato da infinite tappe intermedie; così come il protagonista del film che non esce mai dal circolo delle scommesse e dei debiti, la sua corsa verso la vincita è sempre spezzata da molteplici insuccessi. Il risultato ultimo è quello di mostrare come sia impossibile assegnare al movimento un valore assoluto, essendo questo fisico e mentale, lento e veloce, regressivo e progressivo, ossia imprevedibile. Oltre all’analisi di Uncut Gems, Tuppini mostra come il genere cinematografico sia immerso nella questione filosofica del movimento, essendo il film, nella sua composizione, un susseguirsi di fotogrammi, mentre il risultato finale è un unico flusso continuo di immagini. Il primo punto di vista è quello dello sceneggiatore, il quale deve comporre l’azione del film, mentre il secondo caso è relativo allo spettatore, che nel film deve trovare quella coerenza che si aspetta dalla trama. Eppure, anche nel movimento vorticoso del cinema, che sia in fotogrammi o in un flusso, è presente un momento in cui il moto e l’immobilismo della scena si incontrano: l’attimo del primo piano, poiché «Il primo piano scioglie e riannoda il tessuto del racconto» (p.135). Questa tecnica registica conferisce o toglie il senso alla trama, è un coinvolgimento, anche emotivo, con il personaggio, un face to face tra lo spettatore e l’attore. Questo è l’attimo in cui movimento e paralisi, corpo mosso e corpo fermo si danno, cioè il kìnêma.
In conclusione, il vortice studiato e presentato da Tuppini nel corso del libro non è altro che il movimento, la sensazione e la turbolenza che incontriamo negli eventi con cui ci relazioniamo e con il quale dobbiamo intessere una rete composta da nodi esperienziali, i quali compongono i caratteri più profondi di questo sistema e, dunque, della nostra esistenza.
di Alessandro Balbo
-
Il libro di Manlio Iofrida, Per un paradigma del corpo: una rifondazione filosofica dell’ecologia, uscito per Quodlibet alla fine del 2019, si presenta come uno snodo ricco e importante per un approccio teoretico, etico e critico all’attuale questione ecologica. In questo senso, il libro s’inserisce nel cuore stesso del dibattito – non solo italiano – incrociando tematiche come il corpo, il concetto di Natura, lo statuto filosofico del vivente e della sua relazione con la tecnica (a questi temi si aggiungano la critica della cultura, la storia dell’arte, il dialogo tra filosofia e altri campi del sapere, i rapporti tra la cultura Europea e i suoi grandi altri ecc.).
Il libro assume quella che potremmo definire un’ottica cosmopolitica e si presenta come il crocevia d’intuizioni, idee e riflessioni che animano il gruppo di ricerca Officine Filosofiche (il gruppo gestisce anche un’omonima collana editoriale), fondato e diretto dallo stesso Iofrida assieme a Ubaldo Fadini. Molti argomenti sviluppati nel libro intrecciano le principali linee di lavoro del gruppo, contribuendo così a fare dell’ecologia filosofica uno dei campi di ricerca più innovativi e stimolanti dell’attuale panorama filosofico italiano.
Si può dunque comprendere, sin da queste prime considerazioni, che riportare in maniera analitica o anche solo accidentale tutti gli impliciti teorici – nonché la profonda erudizione dell’autore che conferisce all’ecologia un ampio spessore culturale – è compito improbo per una recensione e, probabilmente, anche inutile. Quel che ci proponiamo di fare in questa sede è di attraversare il testo in maniera “libera” tentando di esplicitare alcuni aspetti che sembrano restituire, nella parzialità della nostra lettura, alcune delle intenzioni di base dell’autore.
Non si può non partire dalla centralità teorica del tema del corpo che, non nuova nel lavoro di Iofrida, si richiama esplicitamente all’opera complessiva di Merleau-Ponty e all’attualità del suo concetto di Natura (pp. 19-31) «come limite che la cultura non può sorpassare» (p. 30). Sotto tale aspetto, questo studio si riallaccia (pp. 9-16), pur con oltre dieci anni di distanza, al precedente lavoro dell’autore Per una storia della filosofia francese contemporanea: da Jacques Derrida a Maurice Merleau-Ponty. Dire che questo sia un libro “merleau-pontyano” è senza dubbio corretto e tuttavia rischierebbe di schiacciarne la profondità su un “arroccamento” teorico, una semplice riproposizione ermeneutica. Devono essere menzionati, infatti, almeno altri due autori classici presenti come linee di basso nell’architettura del testo: Schelling ritorna diffusamente nel testo, utilizzato in chiave anti fichtiana-attualista (pp. 38, 141) o hegeliano-sintetico (anche se Hegel resta comunque un autore importante nell’impostazione ecologica iofridiana, pp. 138-140); ma è soprattutto il Kant della Critica della facoltà di giudizio a fornire un’impalcatura teorica di primo piano (vanno, poi, almeno ricordati i nomi di Goethe, Schiller e Adorno, per completare la batteria tedesca di riferimento, cfr. pp. 47-52). Ci sia concesso dunque di entrare nel vivo del libro approcciandolo alla lontana, così da poter restituire, se non altro, il profumo della complessa architettonica di Iofrida.
In siffatta architettonica, l’ecologia non si presenta tanto, né solo, come una disciplina scientifica (pp. 45-47) ma, potremmo dire, si tratta di una questione di gusto, di istituire un paradigma del gusto ecologico. Come si può intuire, molto lessico di Iofrida è intriso di una semantica post-kantiana. Il gusto, permettendoci l’ardire di parafrasare Kant, è quella strana facoltà di giudicare secondo sentimento (leggendo in questa chiave il giudizio riflettente).
Sappiamo anche che il sentimento è un vero e proprio mondo intermedio che si situa tra la facoltà di conoscere e quella di desiderare, ossia tra l’intelletto e la ragione, tra la “necessità naturale” e la “libertà umana” (che Iofrida definisce prometeica, cfr. pp. 59-61). Dire, dunque, che l’ecologia è questione di gusto significa affermare che essa si situa nel mezzo di un’ardita relazione tra la Natura e la Cultura – dualismo principale di molte riflessioni ecologiche. Ma, altresì, ci dà delle informazioni sugli aspetti “filosofici” dell’ecologia: il gusto, sappiamo dal §40 sul senso comune della Terza Critica, va educato. L’ecologia, secondo Iofrida, non consiste né nella descrizione di uno stato di cose oggettive (ci sia concessa la banalizzazione: filosoficamente, l’ecologia non può essere ridotta a una disciplina naturalistica) né, occorre fare attenzione, nella prescrizione di massime della ragione (che si limiterebbe a un greenwashing della Ragion Pura Pratica): l’ecologia è filosoficamente fondata nella misura in cui è capace di una vera e propria educazione sentimentale. Così, l’ecologia filosofica non è né scientifica (occorre «declinare l’ecologia come critica anti-intellettualista», p. 54) né morale («non si pone come sussunzione dominante», p. 119), ma è intimamente etica (l’ecologia, ci ricorda l’autore, è un pensiero della finitezza, pp. 52-56). È a partire da una esigenza etica (e, con Merleau-Ponty, connesso a un certo spinozismo schellinghiano, da un’esigenza anche ontologica) che va letta la proposta di un paradigma del corpo. Non si tratta, così, di fondare un principio di rappresentazione, o massime pratiche, ma di sviluppare delle ipotesi etiche, per dir così, da un punto di vista pragmatico.
Fatta questa premessa, possiamo addentrarci in alcuni aspetti concettuali. Uno dei concetti chiave per leggere la proposta iofridiana è quello di inerenza (pp. 29-31). Di matrice fenomenologica, l’inerenza è un fenomeno corporeo e rimanda a una «ontologia relazionale» (p. 41) che si pone in antitesi tanto con le ontologie costruttiviste del pensiero debole (p. 43) quanto con le ontologie realiste di certi modi di intendere il materialismo (pp. 60-61). L’inerenza è il concetto cardine di un’ecologia che si propone di lavorare in chiave ontologica sulla «nostra relazione coi milieux» (p. 41) – i riferimenti sono alla «geografia […] fenomenologica» (p. 39) di A. Berque: la relazione degli “individui” con gli ambienti (o paesaggi) «non è quella della sostanza pensante con la sostanza estesa; […] piuttosto c’è uno sconfinamento, un’interpenetrazione» (p. 41). L’inerenza ci offre una cifra filosofica importante: essa è la relazione chiasmatica – è evidente nel lessico iofridiano l’influenza di Merleau-Ponty – del vivente con i suoi dintorni, le sue Umwelten, il co-appartenersi di individuo e ambiente. Intreccio, potremmo dire, della parte con il tutto.
In quanto etica ontologicamente orientata, l’ecologia si interessa non alle partizioni sostanziali – che comportano, sul piano etico, la costruzione di un’impalcatura morale – bensì agli assunti relazionali (ci sia concessa un’assonanza col lavoro di Giuseppe Semerari 2009) che solo centrando l’analisi filosofica sulle potenze corporee possono essere messi in risalto. Questa inerenza, che è una mediazione senza soggetto – e che anzi produce soggettività – non è pensabile come Aufhebung, bensì come un’unità senza concetto (p. 115) attuata per il tramite del corpo «e la sua apprensione orizzontale del mondo» (p. 25). L’esigenza di un paradigma del corpo è dunque insito nella tematica stessa della relazione ecologica, così che, per Iofrida, ogni ecologia, sul piano etico, non può non passare – anche implicitamente, come traspare mediante la critica alla smaterializzazione postmoderna (pp. 67-68) – per il tramite di un paradigma del corpo.
Il problema del corpo è però l’altra faccia di un ulteriore assunto di Iofrida, ovvero l’idea complementare che la Natura non sia un oggetto (p. 45) e che il vivente non sia meccanizzabile (p. 30). Il rischio di interpretare in chiave puramente valoriale, facendo di tali assunti delle massime della Ragione, è grosso. Occorre dunque tentare di essere chiari, ancora una volta, sul lessico dell’autore. Siamo pur sempre, lo si è detto, sul piano del giudizio riflettente. I riferimenti sono ancora all’opera di Merleau-Ponty e, tramite lui, Schelling e Kant. In ultima istanza, l’orizzonte concettuale ci appare ancora di matrice kantiana. L’idea che il vivente non sia meccanizzabile vuol dire che lo specifico fenomeno di inerenza dell’umano agli altri viventi (che compongono i suoi dintorni) non è un rapporto conoscitivo, o intellettuale, né tuttavia un rapporto pratico. Non è conoscitivo perché, in quanto soggetti empirici, non tutti gli umani sono “scienziati”, e questo non pone particolari problemi. Ma non è neppure un rapporto pratico, perché non è possibile estrapolare una massima categorica da questa idea: non tutti i viventi possono agire conformemente a scopi (tralasciamo i motivi di tale impossibilità). L’idea che il vivente non sia meccanizzabile non è un enunciato che riguardi il regno della libertà. Concessa la formula, quella tra viventi non è una relazione tra esseri (radicalmente) liberi, situandosi, invece, nel regno intermedio tra la necessità dell’oggetto naturale e la libertà radicale del soggetto trascendentale (Merleau-Ponty 1996, 312-313).
Il problema del vivente – che possiamo anche chiamare, se ci è concesso, il problema della finalità senza scopo – è un problema sentimentale e affettivo. È ancora un paradigma del corpo che permette di comprenderlo: un corpo è il medium non solo, e non tanto, della natura e della libertà, bensì della inerenza al mondo e agli altri viventi. È mediante il corpo – un’utilità non strumentale – che si è costitutivamente aperti ad altre modalità dell’esistere e del vivere. Una mediazione senza soggetto che si fa nel mezzo delle relazioni inter-individuali: l’inerenza come vero e proprio fenomeno trans-individuale, contatti molteplici e variegati tra corporeità (cfr. Merleau-Ponty 1996, 254-261). Appare, in queste considerazioni, un altro dei concetti cardine della proposta di Iofrida, concetto che crea un ponte col suo lavoro precedente: si tratta della nozione di libertà strutturale. Una concezione strutturale – o ecologica – della libertà comporta che essa non sia la radicale assenza di limiti, bensì che trovi la propria potenza esistenziale ed espressiva nella composizione delle relazioni, nella ricchezza e varietà degli affetti e degli incontri corporei.
È una libertà che non è competenza di una filosofia della prassi, ma di un’etica, come accennato, dal punto di vista pragmatico. Un’ecologia della libertà richiede pratica e attenzione [Aufmerksamkeit] (p. 146), un’educazione sentimentale finalizzata a un uso ragionevole degli affetti. Insomma, la libertà, in una prospettiva ecologicamente orientata, presuppone una capacità tecnica. È in quest’ottica che leggiamo, infatti, la proposta di Iofrida di una tecnica ecologica (pp. 84-90). Si tratta di una formula ambigua, ma le ambiguità spariscono se non usciamo dalla semantica nella quale ci stiamo muovendo. Un tale epiteto, infatti, è lontano da un greenwashing delle attuali configurazioni tecnico-tecnologiche del tardo capitalismo: insomma, non si prospetta la necessità di una Green Economy. Si tratta, invece, di una concezione ecologica della tecnica che tenga conto del portato affettivo – cioè esistenziale e vitale – della tecnica.
In questo senso, una tecnica ecologica è di segno contrario rispetto alle attuali configurazioni produttive (si tratta di uscire dal dualismo manicheo «produzione o libertà», p. 60; andare al di là dell’alleanza demoniaca di capitalismo e schizofrenia, cfr. Pignarre & Stengers 2016) configurandosi invece come rivolta alla convivialità – tra umani e tra umani e non umani – incastonata nella complessità variegata degli ambienti di vita (fondamentale in quest’ottica il capitolo dedicato alla teoria dei sistemi, pp. 121-140). È ancora una semantica del giudizio: la tecnica rimanda all’arte, cioè una tecnica ecologica diventa una vera e propria arte dello stare in vita da parte dei viventi – ecologicamente, vi è tecnica ovunque vi sia fragilità e ostinazione della vita: occorre «concepire l’arte come un nuovo modo di rapportarsi al mondo […] poiché, già in se stessa, tale prassi priva di finalità è un’altra e superiore modalità di azione del nostro corpo vivente rispetto a quella meramente utilitaria, essa può essere punto di partenza di una prassi concreta […] e punto di arrivo di una costruzione dal basso, partecipata, intersoggettiva» (p. 152).
Senza dubbio si tratta di una concezione ottimistica della tecnica: nessuna caduta da un eden ormai perduto, né solo nichilistica distruzione della vita da accettare passivamente come un destino. Si tratta, invece, di un’arte pericolosa, quella dello stare in vita, proprio perché la vita – un vivente – è insieme ostinazione e fragilità: l’educazione sentimentale serve a saper «reggere delle crisi, saper gestire il rischio […], anche se rischio significa appunto che la crisi non è mai del tutto esclusa e che il disordine può avere sempre il sopravvento» (p. 123). È una concezione ecologica e ottimistica della tecnica, sì, ma non è il frutto di una anima bella (ecco comparire una certa ispirazione hegeliana). Rifacendosi al lavoro di Kurt Goldstein (2016), neurologo tedesco del secolo scorso, tra le fonti di Merleau-Ponty, Iofrida ci ricorda che «un organismo vivente, e l’uomo in particolare, è teso ad accrescere continuamente la propria complessità […]; esso cerca dunque la relazione e anche il conflitto, in un mondo in cui l’ordine è sempre un momento precario all’interno di una lotta di forze eterogenee che genera un perenne dinamismo» (p. 127).
Educazione sentimentale, teoria degli affetti e concezione tecnica del vivente: i tre capisaldi che istituiscono la fondazione filosofica dell’ecologia proposta attraverso un paradigma del corpo. Tale paradigma fa sì che un’ecologia filosofica si trovi a proprio agio non nel contemplare un’astratta e fondativa Natura Naturante, un’origine ormai perduta o distrutta dalla cattiveria dell’Uomo, bensì nel concepire modi possibili del vivere in comune, forme collettive di esistenza con i più ampi margini di gioco transindividuali, vincoli che non obbligano capaci di aumentare le potenze esistenziali e le capacità creative dei viventi umani e non (è questo il principale rimando al concetto di natura di Merleau-Ponty). Si tratta di una concezione minoritaria della storia, del divenire minoritario dell’umano, dei suoi affetti, delle sue ibridazioni, delle sue contaminazioni (cfr. Deleuze & Guattari 2015, 349-357). Una storia minore che non ha la Natura come Grande Altro, bensì che è caratterizzata dalla sua inerenza all’elemento naturale, alla sua imprevedibilità, alle sue complessità ontologiche (ma anche epistemologiche, dato che, ecologicamente, l’ontologia è inscindibile da un’epistemologia): si tratta di una storia universale della contingenza (Deleuze & Guattari 2002, 86).
L’ecologia filosofica proposta da un paradigma del corpo è così una filosofia artistica, un’arte, pericolosa e sublime a un tempo, del vivere insieme, del condividere la Terra con altri viventi (l’Autore parla di «un materialismo della Terra», p. 44). Un’arte, per chiudere restituendo il ruolo di Michel Foucault nel nuovo paradigma ecologico (pp. 205-211), che sia una «estetizzazione della vita come progetto condiviso di una comunità di eguali che dialogano e, esercitando la socievolezza, istituiscono con il mondo e gli altri una relazione che non è quella della ragione strumentale, brutalmente utilitaria, ma che può a tutti gli effetti definirsi ecologica: non è il bello quella dimensione sempre mobile di limite in cui ci apriamo al mondo e agli altri non in funzione di un dominio, ma per essere passivi quanto attivi, copresenti in una relazione con l’alterità che può definirsi col termine, anch’esso fenomenologico, di attenzione?» (p. 211).
Bibliografia minima
Deleuze, G. & Guattari, F. (2002; ed or. 1991). Che cos’è la filosofia?. Torino: Einaudi.
Deleuze, G. & Guattari, F. (2015; ed. or. 1980). Mille piani. Capitalismo e schizofrenia 2. Tr. it. G. Passerone. Roma: Castelvecchi.
Goldstein, K. (2016; ed. or. 1934). L’organismo. Un approccio olistico alla biologia derivato dai dati patologici nell’uomo. Tr. it. L. Corsi. Roma: Fioriti.
Merleau-Ponty, M. (1996; ed. or. 1995). La natura. A cura di M. Carbone. Milano: Cortina.
Pignarre, P. & Stengers, I. (2016; ed. or. 2005). Stregoneria capitalista. Pratiche di uscita dal sortilegio. Tr. it. di S. Consigliere e A. Solerio. Milano: IPOC.
Semerari, G. (2009; ed. or. 1961). La filosofia come relazione. Milano: Guerini.
di Gianluca De Fazio
-
Com’è noto, il volume XI della Husserliana 1 (1966) raccoglie i manoscritti che Husserl dedica al problema delle sintesi passive tra il 1918 e il 1926. In realtà, la più recente pubblicazione dei Bernauer Manuskripte nel volume XXXIII (2001), a cui Husserl lavorò con Edith Stein nelle estati 1917 e ’18, mostra come la tematica della passività fosse latentemente presente già da molto tempo, in quanto strettamente connessa con il problema – «il più complesso di tutti i problemi fenomenologici» (Husserl 1966a, 276) – della coscienza interna del tempo. E se si considera che quest’ultimo tema occupa Husserl almeno fin dai corsi sulla percezione del 1905-’08 (raccolti in Hua X e XVI), è lecito almeno supporre che la fenomenologia genetica “covasse” nel laboratorio fenomenologico husserliano molto prima degli anni Venti.
Anno più anno meno, un secolo fa. Un secolo in cui si è tentato dapprima di archiviare la fenomenologia husserliana, per fare spazio alle grandi ondate culturali esistenzialiste, strutturaliste e post-strutturaliste, per poi ridarle nuova linfa innestandola su tradizioni di pensiero anche molto lontane dalle sue origini. La storia della fenomenologia nell’ultimo secolo è dunque caratterizzata dalla sua continua ibridazione con altri modelli filosofici – iniziata ben prima della morte di Husserl: si pensi al § 7 di Sein und Zeit, dove troviamo in nuce il concetto di “fenomenologia dell’inapparente” (Heidegger 1976, 59) – e, soprattutto, con intenti teorici molto frequentemente in aperto contrasto con lo spirito fenomenologico che ha da sempre animato le ricerche husserliane.
A cura di Claudio Tarditi e Alberto Giustiniano
Scarica PDF
English version
DOI: https://doi.org/10.13135/2385-1945/12.2020
Pubblicato: marzo 2020
Indice
EDITORIALE
Claudio Tarditi - Le sintesi passive, un secolo dopo [PDF It]
Filippo Nobili - Oltre la stratificazione costitutiva:
per una lettura dialettico-ricorsiva del rapporto tra passività e attività in Husserl [PDF It]Eugenio Buriano - L’arca dell’origine. Follia tolemaica e deponenza del trascendentale nell’ultimo Husserl [PDF It]
Alessandra Campo - Presenza impossibile, assenza necessaria: aporia, diaporia ed euporia delle analisi husserliane sulla passività [PDF It]
Steven DeLay - Being Oneself Self-Consciousness in Husserl and Henry [PDF En]
Giovanni Jan Giubilato - A First Glimpse into the Ultimate Absolute. The Emergence of Genetic Analyses in Husserl’s Beranuer Manuscripts on Time-Consciousness and the Exploration of the Realm of Passivity [PDF En]
Stefano Gonnella - La sintesi passiva e le radici iletiche della sensibilità [PDF It]
Lavinia Martelli - Genesi passiva e hyle: la fondazione della coscienza trascendentale [PDF It]
OFF TOPIC
Raimondo Cubeddu - L'epicureismo nell'opera di Leo Strauss [PDF It]
Sergio Benvenuto - Freud oggi: che cosa mi pare essenziale conservarne [PDF It]
-
Tra le più originali e acclamate filosofe della scienza degli ultimi anni, Susan Haack, è ben nota nel mondo anglosassone. Nonostante tale ambiente culturale sia solitamente rappresentato come dominato egemonicamente da approcci analitici, la Haack ha fondato il nucleo concettuale del suo pensiero su basi diverse, operando una rielaborazione critica del Pragmatismo originario di Peirce, James e Dewey. Inglese per nascita e per formazione, avendo studiato ad Oxford con maestri della filosofia oxoniense quali Dummet e Ryle, ha in seguito abbracciato questa americanissima corrente di pensiero, sviluppandola e applicandola estensivamente in campi quali l’epistemologia e la filosofia della scienza.
Purtroppo, ben poche opere dell’autrice sono disponibili in italiano, lingua in cui sono reperibili solo le opere dedicate alla logica, altro settore a cui essa ha contribuito significativamente. Nonostante il grande apporto dato ad altri settori della filosofia, riteniamo che l’aspetto più interessante dell’opera dell’autrice sia quello legato alla filosofia della scienza.
Il testo che rappresenta la summa di tali riflessioni è il suo Defending Science - Within Reason, pubblicato nel 2003 per Prometheus Book. L’anno di pubblicazione non è irrilevante: il testo arriva a conclusione di un lungo periodo di dibattito e di fermento culturale, passato alle cronache americane come il tempo delle science wars.
Il dibattito aveva visto contrapposti i fautori di un realismo scientifico intransigente, nutrito della filosofia della scienza neoempirista, e il nascente studio storico-sociale della pratica scientifica, incarnato dalle teorie costruzioniste e sfociato a volte in un relativismo culturale anti-scientifico.
Largamente esauritosi con l’inizio degli anni ‘2000, il dibattito riecheggia tuttavia in ogni pagina del libro della Haack, a cominciare dal sottotitolo, “between scientism and cynicism”, descrizione piuttosto fedele degli orientamenti polarizzati che erano emersi dalla discussione degli anni precedenti.
Sul tema l’autrice, che nel titolo di un altro suo lavoro si definirà «a passionate moderate», è incredibilmente misurata, attenta e, appunto, moderata. Il testo si propone infatti di difendere la pratica scientifica dagli attacchi dei suoi critici e al contempo di esaminarne i limiti e le specifiche. Come in una Critica kantiana, l’autrice osserva fino a che punto può spingersi la scienza, come può funzionare così bene e come può incontrare ostacoli nel processo conoscitivo, la sua metodologia e la sua specificità, nonché il suo rapporto con altre sfere di attività umana come il diritto, la religione e l’etica. Compito della riflessione è offrire un quadro il più accurato possibile di ciò che la scienza è, al di là di posizioni troppo deferenti nei confronti di essa oppure troppo critiche. I deferentialists sono identificati come i rappresentanti della filosofia della scienza classica, empiristi logici o popperiani, caratterizzati da un acritico entusiasmo per la scienza, mentre tra i cynics troviamo sociologi della scienza reduci dall’esperienza del “programma forte” e alcune filosofe femministe, a cui l’autrice imputa un immotivato astio verso la scienza. Ad entrambi Susan Haack oppone la sua specifica concezione della scienza, a partire dall’analisi metodologica e dalla definizione di cosa essa sia.
Nei primi capitoli troviamo infatti una disamina delle peculiarità del metodo scientifico: esso non è inerentemente migliore di altre forme di indagine umana né radicalmente diverso da altre forme di indagine di senso comune. Riprendendo il critical common-sensism di Peirce, la filosofa pone in continuità i meccanismi che attiviamo per rispondere a questioni nella vita comune e ciò che facciamo nella scienza. Non c’è nessuna forma logica della scoperta scientifica, nessuna metodologia rigida e univoca, ma tutto si basa sulla qualità delle prove addotte a supporto di una teoria e sulla forza che esse ricevono da altre credenze che consideriamo solide.
Come analogia la Haack porta un cruciverba, in cui ogni entrata è fortemente interrelata con quelle già presenti, che fuor di metafora possono essere rappresentate da altre teorie, ulteriori dati o conoscenze di senso comune. La teoria trae la sua forza da due fonti: la fondatezza che essa trae dai dati e la sua coerenza con altre buone teorie, in un approccio che l’autrice chiama foundherentism, rifacendosi alla distinzione epistemologica tra fondazionalismo (foundationalism) e coerentismo (coherentism).
Solo ponendo ogni forma di indagine in un continuum è possibile spiegare veramente la concreta natura della ricerca scientifica, oltre formalizzazioni logiche astratta e impratiche nell’applicazione, come quelle dei “deferenzialisti”. Chiaramente ciò concede qualche punto ai “cinici”, ma la Haack ribadisce l’oggettività della scienza, il cui essere storicamente e socialmente situata nulla toglie alla potenza esplicativa delle buone teorie.
Non potendo qui soffermarci a lungo su queste questioni, basterà ricordare alcune delle conseguenze più rilevanti che sono tratte da questa osservazione.
Prima di tutto, il problema della demarcazione appare ora triviale: non c’è limite definito tra ciò che è scienza strictu senso e ciò che non lo è, bensì una distinzione pragmatica tra buone teorie, sostenute da dati e inferenze convincenti, e cattive teorie, che mancano di quella rete di sostegno sopra accennata. Secondariamente, notiamo come la scienza non abbia nessuno “statuto onorifico”, ma solo una particolarità epistemologica. Velata ma non tanto è la critica all’uso onorifico si scienza, per dare legittimità a campi che in termini strettamente epistemologici scientifici non sono. Molte forme di ricerca sono valevoli ma non scientifiche, molte pratiche umane non sono neanche forme di indagine in senso stretto, ma sono comunque apprezzabili, pur non avendo metodologie scientifiche. Equiparare “scientifico” a “buono” vuol dire misconoscere che la scienza è senz’altro diversa da altre forme di conoscenza, ma non inerentemente migliore. Per terza cosa, le scienze naturali e quelle sociali risultano accomunate da una natura condivisa, che le lascia libere di perseguire il loro oggetto di studio senza imporre o adottare acriticamente metodologie di ricerca inappropriate. Esse sono forme di indagine che si avvalgono di specifici strumenti, come le scienze naturali, ma non allo stesso modo, vista la diversa natura dell’oggetto di studio.
Nella parte centrale del volume, l’autrice inizia a osservare criticamente i legami tra scienza e altre branche di riflessione umana. Particolarmente tranchant è la parte sui rapporti tra scienza e religione, a cui la Haack imputa una radicale inconciliabilità. Tutt’altro che irenica, la filosofa nota come la religione non sia in continuità con la vita comune, a differenza della scienza, ma si fondi su esperienze religiose, credenze di fede e riflessioni speculative. Essa ha anche lati positivi, ma il suo impatto sulla vita umana non è esente da contraddizioni e contrasti.
Detto ciò, la religione, come visione del mondo, non può essere relegata a “magistero non sovrapponibile” e innocuo, con autorevolezza solo nella sfera dei valori: essa accampa pretese su come è fatto il mondo, come la ricerca scientifica, ma in modo decisamente diverso. Il conflitto esplicativo che ne consegue vede la scienza come alternativa migliore, per una maggiore affidabilità epistemologica rispetto alle credenze religiose. Forse un po' eccentrico rispetto al resto delle discussioni sul tema, delle critiche humeane alla religione, questo capitolo offre senz’altro un originale punto di vista sull’argomento.
Ben diverso è invece il rapporto tra la scienza e il diritto, a cui la essa presta le sue scoperte. Esso presuppone nella scienza un’affidabilità che non può però fondarsi su riflessioni metodologiche troppo stringenti: così, ciò che entra in tribunale come “prova” scientifica è oggetto di riflessioni giuridiche confuse e poco accurate epistemologicamente, principalmente basate su assunti della filosofia della scienza classica riarrangiati in sintesi contraddittorie.
Distanziandosi dai miscugli popperiani-hempeliani proposti (che l’autrice scherzosamente chiama Hopper-Pempel) l’autrice mostra come le conseguenze della nuova concezione della scienza da lei proposta si offrono a nuove applicazioni in campo giuridico. Analizzando alcuni casi giudiziari in cui è emersa la questione della testimonianza scientifica, la Haack supera alcune pedanterie metodologiche per proporre nuovi approcci all’uso di evidenze scientifiche in tribunale.
Il tema del rapporto tra etica, inclusività e scienza è un altro punto forte della difesa della scienza operata dalla Haack, in questa parte del libro. Senza nulla togliere alla peculiare natura storica della scienza, caratterizzata da fattori storici e culturali, essa nega che la ricerca scientifica sia un’impresa occidentale o colonialista, difendendone la natura inclusiva, oggettiva e aperta al contributo di tutti. La scienza è sempre più globalizzata, come il resto della vita umana, e sarà in futuro sempre più aperta a contributi non occidentali. Essa non è neanche maschilista, perché per quando per secoli dominata da scienziati maschi la scienza non è inerentemente biased: ben venga l’apporto dello specifico punto di vista femminile, escluso dalla pratica scientifica per secoli, ma distinguendo tra la maggiore inclusività e l’idea che ci sia una “scienza al femminile” e una maschile. Chiaro è il distacco da epistemologhe femministe come Sandra Harding, che invece hanno un approccio critico nei confronti della scienza “patriarcale”.
Il capitolo si chiude con una riflessione sulle conseguenze delle scoperte scientifiche e delle loro implicazioni morali, che per la Haack non sono imputabili alla ricerca scientifica in sé ma alla moralità di chi la sfrutta. Strizzando l’occhio all’etica delle virtù, pur non citando specificamente alcuna posizione etica, la filosofa sottolinea l’intersezione significativa tra virtù epistemiche, necessarie alla ricerca scientifica, e virtù morali, necessarie alla vita etica. Tali virtù non combaciano e non sono sempre necessarie in ogni contesto, ma come detto c’è un positivo overlapping tra di esse.
L’ultima parte del libro è la più speculativa, trattando del futuro della scienza e della sua eventuale conclusione come processo conoscitivo. A tale proposito, l’autrice non esclude che in futuro la scienza raggiungerà qualche “teoria generale” onnicomprensiva, ponendo effettivamente fine al processo di ricerca scientifica, ma ci ricorda comunque come molte volte in passato la “fine della scienza” sia stata annunciata per essere seguita da grandi rivoluzioni concettuali, che hanno aperto nuovi campi e rilanciato grandemente la pratica scientifica. Facendo sua l’immagine di Popper, per cui la scienza sarebbe come una montagna nebbiosa, durante l’ascesa della quale ogni volta che si pensa di essere arrivati si scopre che la strada continua, l’autrice chiude il libro con uno sguardo ottimista al futuro della scienza, ben lungi dall’essere priva di limiti, ma capace di auto-correggersi e di varcare ogni volta nuove frontiere.
Il libro di Susan Haack raggiunge decisamente lo scopo che si prefigge, cioè trattare la scienza “nei limiti della ragionevolezza” (within reason nel titolo), senza esaltazioni o critiche ma con grande chiarezza e accuratezza. Per quanto scritto in un periodo storico e culturale ben preciso, quello dopo le sopra ricordate science wars, il libro mantiene ancora oggi la sua attualità e la sua freschezza, offrendo una delle più sistematiche e complete trattazioni del fenomeno-scienza nella sua multiforme e sfaccettata natura. Ciò che traspare è una difesa appassionata ma coerente della bellezza della pratica scientifica, inserita però nell’umanissimo contesto in cui essa è nata e si è sviluppata, retta dalla consapevolezza che la scienza non è un sapere perfetto e infallibile, ma è forse uno dei migliori che abbiamo a disposizione.
di Riccardo Cravero
-
Alenka Zupančič – Che cosa è il sesso?
Recensioni / Maggio 2019Che cosa è il Sesso? (trad. di P. Bianchi, Ponte alle Grazie, Genova 2018), ultima opera della filosofa slovena Alenka Zupančič, già autrice di lavori su Kant, Nietzche e Lacan, è un testo che raccoglie anni di riflessione sulla psicoanalisi freudo-lacaniana e che si pone la sfida di affrontare la sessualità come una questione intimamente ontologica. Lo scopo di Zupančič non è però quello di “recuperare” la psicoanalisi di Freud e Lacan e dare a essa uno statuto ontologico che nobiliti la disciplina psicoanalitica (che sicuramente ha sempre subito accuse di pseudoscientificità e determinismo sessuale). Quello di Zupančič non è neanche (o non solo) un tentativo di rispondere alle domande della filosofia con la psicoanalisi né una sua difesa acritica; anzi, la posizione della filosofa slovena è conflittuale anche internamente al discorso psicoanalitico, portando al centro una delle questioni che sono state problematiche sin dagli esordi freudiani – appunto, la sessualità. Il sesso di cui ci parla Zupančič non è semplicemente l’insieme di pratiche sessuali, a cui fornire uno statuto ontologico maneggevole che ci risollevi immaginariamente dagli imbarazzi e angosce che questa dimensione ha scatenato nel tempo; piuttosto la filosofa vuole andare a svelare quanto il sesso sia proprio quella faglia o mancanza strutturale che permette al soggetto di diventare tale. Il sesso protagonista di questo libro non è una presunta naturalità che dovremmo accettare, ma è esattamente quella dimensione “disontologica” e “disorientante” che fa che sì che emerga un soggetto e, quindi, un inconscio.
Non è un caso, infatti – e Zupančič lo sottolinea continuamente nel testo – che Freud abbia sempre così insistito sulla centralità del Sesso nella psicoanalisi e che i suoi primi allievi, come Jung e Adler, abbiano sempre e sistematicamente reagito su questo punto. Ancora oggi la questione della sessualità rimane problematica e fa spesso da confine fra le varie correnti psicoanalitiche. André Green, nel 1995, pone una domanda apparentemente banale per la disciplina: “la sessualità ha ancora a che fare con la psicoanalisi?”. La questione, difatti, non è scontata: se in Europa (soprattutto in Francia) le nozioni di sessualità e pulsione avevano continuato a godere di un certo successo, oltreoceano invece la psicoanalisi aveva fatto vertere la propria pratica e la teoria verso concetti come quello di Sé e di Relazione. A dare ulteriore conferma del rapporto problematico della psicoanalisi con la sessualità, è una ricerca di Shalev e Yerushalmi (2009), ripresa anche da Zupančič, dove gli autori intervistano 10 psicoanalisti riguardo la tematica della sessualità in psicoterapia: ne emerge una generale e diffusa rimozione, e addirittura imbarazzo da buona parte dei clinici. La primigenia scoperta di Freud, la sessualità, piuttosto che essere l’elemento unificante delle varie divisioni e diaspore psicoanalitiche, è proprio il seme della discordia.
La domanda “Che cosa è il sesso?” – che, come abbiamo visto, è problematica anche per la stessa psicoanalisi – diventa il fil rouge per affrontare in maniera inedita e “rumorosa” domande classiche dell’ontologia. Non è senza peso che Freud, che aveva sempre cercato di tenersi distante dai riferimenti filosofici, in Endliche und Unendliche Analyse (1937) abbia riconosciuto proprio alla sessualità (come alla questione della pulsione di morte) un’origine filosofica nel dualismo empedocleo fra Eros e Neikos, che, sempre secondo Freud, avrebbe lavorato come criptomnesia inconscia. Ma in che misura il sesso (o meglio, l’interrogazione continua su quel punto di frattura e di inciampo che è il sesso) può funzionare come vettore nella lettura dei problemi dell’ontologia, del soggetto e della politica contemporanei? Non si tratta di ribadire, per Zupančič, semplicemente che il sesso c’è e che nasconderebbe in Sé quel senso e quella verità che tanto gli esseri umani si affannerebbero a cercare. Su questo la filosofa è chiara: il sesso non è “l’ultimo orizzonte del senso e della realtà”, qualcosa che semplicemente si può ritrovare dopo aver grattato la patina delle apparenze, eppure il Sesso è qualcosa di Reale. Ma questo Reale, ricavato dalle elaborazioni di Lacan, su cui tanto insiste Zupančič, non è la realtà dei filosofi, un orizzonte ontologico-epistemologico neutro e quasi rassicurante, piuttosto il Reale è, della realtà, quel nocciolo che resiste a ogni forma di simbolizzazione e ontologizzazione. Il Reale è esattamente ciò che viene tagliato fuori dall’Essere-in-quanto-essere perché sia possibile descriverlo e parlarne, e allo stesso tempo è quella dimensione che curva lo spazio ontologico dell’Essere. Non è un caso che sia Lacan sia Zupančič insistano tanto sulla sessualità di questo Reale, ed è l’inconscio il concetto che permette loro di giustificare questa insistenza. L’inconscio sessuale non è luogo di rimozione di un’istintività animale che “farebbe ritorno” in maniera disturbante, ma piuttosto un gap, un buco strutturale nel soggetto, che lo frattura dall’interno. Questo buco o negatività non è semplicemente un’assenza o uno zero, ma una quantità negativa (di eredità kantiana), inassimilabile e disgregante che funziona come luogo di emergenza del soggetto. Una crepa non è un niente, anzi conta spesso più dei muri, e il sesso è esattamente la crepa che divide i soggetti internamente. È in questo senso che la ripresa delle tavole della sessuazione lacaniana non serve a reiterare la formula della differenza sessuale, bensì a mostrare come essa lavori come operatore simbolico, tagliando il soggetto da dentro, piuttosto che dividendo i soggetti in due sessi o generi determinati fra di loro da un fantasmagorico rapporto sessuale (che non c’è). La sessualità, l’inconscio, il godimento e il Reale sono tutti nomi di ciò in cui il soggetto cartesiano inciampa svelando la frattura che lo domina dall’interno. Zupančič , riprendendo la questione lasciata aperta da Lacan (1973) nel Seminario XI su una sua possibile (para)-ontologia, in cui vi sarebbe una schisi fra l’Essere e il suo Reale, contribuisce a radicalizzare, anche in risposta ai progetti delle Object-Oriented Ontologies, nelle quali il soggetto tende a confondersi neutralmente con gli oggetti in una sorta di democrazia ontologica, l’immagine di un’ontologia dis-orientata agli oggetti, dove, invece, il soggetto continua a essere la frattura e l’alienazione scritta nel tessuto della realtà. Ed è proprio uno dei concetti fondamentali della psicoanalisi, la pulsione, a permettere la costruzione di una topologia del soggetto estimo, in cui i confini fra interiorità e esteriorità si deformano e l’oggetto (il famoso oggetto piccolo a lacaniano) si incista dentro il soggetto. Certo, parlare di pulsioni significa anche riportare all’attenzione antagonismi e conflitti rimossi o appiattiti in seno ai discorsi contemporanei.
Si può dire che ciò che pone le basi del progetto (dis)ontologico di Zupančič sia proprio questa nozione di pulsione. Infatti, Zupančič riprende e rianalizza il Trieb freudiano, le cui vicissitudini di significante lo hanno portato ad essere tradotto e rinaturalizzato come istinto. Invece, ciò su cui insiste, a ragione, la filosofa slovena, è proprio l’innaturalità della pulsione, che poco ha a che fare con eventuali istinti biologico-riproduttivi: essa si produce piuttosto come scarto di godimento nel lavoro del corpo, eccedenza che ritorna sul soggetto, lavorando sui suoi bordi. E non è un caso che Zupančič riprenda quella sezione del Seminario XI dove Lacan parla della pulsione come “farsi vedere”, “farsi cacare”, “farsi masturbare”: pulsione è ritorno del godimento del soggetto, nelle parole di Freud “una bocca che si bacia da sola”. Nel bambino attaccarsi al seno non è semplicemente la soddisfazione di un istinto dell’ordine del nutrimento, ma si produce un resto di godimento, un’eccedenza “libera” nel neo-soggetto. Certo, come dice la filosofa, “con la soddisfazione in eccesso non si può ancora parlare di pulsione” (p. 156) ma è necessario che la soddisfazione inizi “a funzionare, allo stesso tempo, come incarnazione oggettiva […] del negativo e come gap implicito nell’edificio significante dell’essere” (p. 157). Allora la pulsione è proprio il rappresentante di questo negativo interno al soggetto, ne diviene la figura (dis)ontologica centrale. La pulsione è per definizione parziale e frammentaria: non ha un Eden perduto verso il quale tornare né una “teleologia” pulsionale. Non esiste, dunque, un carattere genitale maturo a cui il soggetto dovrebbe tendere. L’impasto pulsionale è sempre un azzardo, un incastro sregolato e polimorfo: “se c’è qualcosa cui la pulsione assomiglia, è a un montaggio” (Lacan, 1973 p. 172). Non c’è sessualità né desiderio normale (ma al massimo normalizzabile) proprio perché queste dimensioni non hanno una forma precisa alle quali le pulsioni si dovrebbero adattare. L’incastro è sempre necessariamente contingente, idiosincratico. E proprio a partire da questa ripresa della pulsione, Zupančič apre una possibilità (psicoanalitica) di ricucire la ferita aperta fra i queer studies e la psicoanalisi, mostrando il volto “anarchico” e “polimorfo” delle pulsioni e cercando di sollevare la psicoanalisi da quella posizione “normalizzatrice” di cui spesso è stata accusata (e di cui di fatto è stata responsabile in molti casi).
Altro merito della filosofa è quello che, seguendo il percorso della pulsione sessuale, fra Freud, Lacan e Deleuze, viene ritrovata la tanto temuta pulsione di morte. Come sostiene Lacan stesso: “Come stupirsi che il suo termine ultimo sia la morte? Poiché la presenza del sesso nel vivente è legata alla morte” (Lacan, 1973 p. 180). L’essere umano non è la lamella lacaniana, il mitico essere scissiparo e immortale: per noi la condizione della divisione sessuata implica la morte del soggetto individuale. L’equazione è questa: dove il soggetto è sessuato, significa che il soggetto deve morire. Allora, di nuovo con un gioco topologico, una condensazione si verifica: cercando il sesso sul nastro di Möbius, questo viene incontrato nel luogo della morte. Non solo, la pulsione di morte, primaria rispetto al brulichio delle pulsioni sessuali ci appare proprio come quell’incrinatura, quella contraddizione, “singolarità unificante” dalla quale le pulsioni emergono e alla quale ritornano: “Presa a questo livello, la sessualità è davvero sinonimo di pulsione di morte e non è un suo opposto come Eros con Thanatos.” (p. 176)
Se il lavoro di Zupančič è proprio quello di svelare filosoficamente le contraddizioni inerenti il soggetto (il sesso, la morte, l’inconscio, il Reale), allora proprio questo soggetto è “l’incarnazione oggettiva di questa contraddizione nella realtà” (p. 185). Per la filosofa incontrare la paradossalità della contraddizione non significa, però, doversi abbandonare a un atteggiamento scettico o cinico; si tratta, piuttosto, di accettare la contraddizione proprio come quel Reale accessibile al pensiero, di pensare la contraddizione, come gli stessi matemi lacaniani hanno fatto, portando la logica ai suoi punti di frattura e rendendo disponibile al pensiero, paradossalmente formalizzata, la contraddizione.
What is Sex? è un libro originale, radicale e coraggioso per la forza con cui l’autrice invita a affrontare, pensare e concepire la contraddizione e il conflitto (e l’invito non è rivolto solo a filosofi e psicoanalisti, poiché la filosofa ha la capacità di sciogliere nodi intricati con battute immediatamente comprensibili). Chi volesse cercare qui una risposta alla domanda “cosa è il sesso” nel senso più rassicurante e definitivo di certo si troverebbe deluso, perché questo interrogativo diventa piuttosto l’intelaiatura di una riflessione filosofica che vuole prendere di petto tutte quelle contraddizioni, quei conflitti e quelle fratture che la psicoanalisi ha saputo riconoscere (e che, in molti casi, ha saputo anche dimenticare e rimuovere) nel soggetto, nella sessualità, nella morte, nell’inconscio e nell’ambiguità del legame sociale. In questo senso Che cosa è il Sesso? è anche un testo esplicitamente politico, che ci porta nuovamente di fronte quell’antagonismo strutturale che anima e agita la società dal suo interno, facendoci guardare con sospetto dove e quando il Rapporto (sessuale) e la Relazione sono state scritte con la R maiuscola, ponendo proporzioni “sacre” e determinate fra classi, sessi, popoli. Alenka Zupančič ci insegna a guardare con diffidenza chi istituisce questo rapporto in maniera ferrea (come i sistemi dittatoriali), ma anche chi tende a nascondere il conflitto insito nella relazione, neutralizzandolo nell’Etica. La filosofa, infatti, leggendo in chiave politica il famoso ed enigmatico detto di Lacan “non c’è rapporto sessuale”, ci restituisce l’immagine di un rapporto senza prototipo o modello ideale, ma che può sorgere, ogni volta nuovo e da ricostruire, sotto la “necessità” della contingenza, dell’idiosincrasia degli incontri fra i soggetti e nei conflitti che si generano dentro e fra i soggetti. Insomma, una prospettiva che ci fa assumere la responsabilità della contraddizione, piuttosto che negarla o rimuoverla, della frattura che ci domina da dentro e che noi incarniamo nel mondo anche in una dimensione autenticamente politica e trasformativa.
di Lorenzo Curti
Bibliografia:
Freud, S. (1937) Analisi terminabile e interminabile.Trad. it. R. Colorni. OSF Vol. XI. Torino: Bollati Boringhieri
Green, A. (1995) Has sexuality anything to do with psychoanalysis? International Journal of Psychoanalysis78: 871-883
Lacan, J (1973). Seminario: Libro XI. I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi. Trad. it. S. Loaldi e I. Molina. Torino: Einaudi, 1979
Shalev, O. & Yerushalmi, H. (2009) Status of sexuality in contemporary psychoanalytic psychotherapy as reported by therapists. Psychoanalytic Psychology, Vol. 26, No. 4, 343–361
Zupančič, A. (2018) Che cosa è il sesso?. Tr. it. P. Bianchi. Milano: Ponte alle Grazie.
-
Nelle sei lezioni che compongono Il senso della possibilità, edito a gennaio per Feltrinelli (2018), Salvatore Veca completa una trilogia di saggi ̶ iniziata nel 1997 con Dell’incertezza e continuata nel 2011 con L’idea di incompletezza ̶ che rappresenta uno dei più complessi itinerari teorici del panorama filosofico italiano degli ultimi vent’anni. Nello specifico, in questo terzo volume, Veca si impegna nella difficile impresa di delineare il senso della nozione di possibilità entro il quadro di un’interpretazione filosofica delle modalità che si dimostri in grado di dar conto della connessione tra l’impiego dei termini modali (attuale, possibile, necessario, contingente) e i nostri atteggiamenti proposizionali ordinari del reputare “come stanno le cose” nel mondo che ci circonda. In altre parole, l’autore muovendo da una prospettiva epistemica prova a far luce sui processi che generano le nostre descrizioni e prescrizioni e, in particolar modo, sulle ragioni del loro trasformarsi nel tempo, imputabili in vario modo ai mutamenti nell’ambito delle teorie e delle pratiche (p. 16).
A partire dalle precedenti ricerche sulle nozioni di incertezza e incompletezza, ritenute rispettivamente l’origine della tensione teoretica e il carattere proprio del risultato che ne scaturisce, Veca ci accompagna in un tortuoso itinerario lungo i limiti della pratica filosofica, fino al punto di rottura in cui il necessario diviene contingente e l’inaspettato si manifesta nella forma dello scacco. L’intento però non è soltanto porre l’accento sullo stato di crisi di fiducia o legittimità che investe ciclicamente l’impresa del senso ma di indagarne il ruolo epistemologico. Il ripetersi della crisi, manifestantesi attraverso l’esigenza di impegnarsi in manovre metateoriche, andrebbe interpretato piuttosto come un promemoria antiriduzionistico dovuto a una sorta di inesauribilità propria degli oggetti dell’indagine filosofica. La natura di tali oggetti stimolerebbe l’adozione di una molteplicità di punti di vista in una manovra intellettuale che fa “di necessità virtù” ma che nel contempo rappresenta la possibilità stessa di una relazione conoscitiva con “ciò che c’è”. Si pensi al senso di povertà e angustia che ci assale quando dimostriamo le ragioni irrevocabili di un unico punto di vista rispetto agli enigmi ricorrenti o inaspettati della filosofia, ci ricorda l’autore. Da queste considerazioni preliminari (oggetto della Prima lezione), seguendo una linea che dall’enciclopedia di Husserl porta ai giochi linguistici di Wittgenstein per giungere fino al paradigma della spiegazione di Nozick, Veca torna a chiedersi se «non dovremmo guardare all’attività filosofica come a un ventaglio di stili d’indagine e di scopi e obiettivi di ricerca differenti e alternativi» che, se prendiamo sul serio la storia, ci accorgiamo «persistere quasi nella forma di motivi musicali, nel repertorio o nell’archivio» (pp. 32-33). Ed è proprio qui, all’incrocio tra dimostrazione e spiegazione, che la nozione modale di possibilità diviene elemento cruciale per mettere a fuoco la stretta connessione tra contingenza e verità. Connessione che si manifesta in tre sensi del possibile: 1) reputare qualcosa possibile in senso ampio (epistemico); 2) immaginare e sperimentare mentalmente mondi possibili; 3) pensare se stessi nella durata e dunque nel proprio essere oggetto di trasformazione.
A fornire la struttura portante del saggio è la lunga riflessione rivolta al primo senso del possibile, che si svolge trasversalmente a tutte le sei lezioni ma che diviene protagonista, in particolare, della prima e della quarta. Qui, ripartendo dall’analisi delle categorie e dei giudizi modali svolta da Kant nella Critica della ragione pura, Veca osserva innanzitutto che quando reputiamo possibile, attuale o necessario qualcosa non facciamo riferimento al contenuto proposizionale degli enunciati «quanto piuttosto al tipo di relazione fra l’atteggiamento del soggetto che giudica e l’enunciato corrispondente». Le modalità hanno dunque a che vedere con i nostri atteggiamenti proposizionali, con «la posizione che noi specifichiamo, assegnando epistemicamente modalità alternative agli stessi stati di cose. x è p: possibile, attuale, necessario» (p. 41). Questo genera due problemi per la riflessione kantiana che si rivelano cruciali per l’indagine. In primo luogo, il fatto che le categorie modali risultano distinte nettamente dalle altre categorie in quanto tetiche: esse accompagnano le variazioni del “porre” dando conto del soggetto e non dei modi dell’oggetto. In secondo luogo, diviene centrale la categoria dell’attuale (wirklich) e il giudizio assertorio. Queste assumono un ruolo prioritario poiché chiamano in causa la posizione “in quanto tale” dell’oggetto nello spazio e nel tempo (absolute Setzung) mentre possibilità e necessità di un oggetto indicano soltanto rispettivamente l’accordo con la regola o la posizione secondo una regola. In questo senso l’attuale (nel senso della Wirklichkeit), implicando l’assegnazione di esistenza a qualcosa, «è immerso in un intorno in cui si danno ex ante possibilità e, ex post, necessità» (p. 42). In questo senso, secondo Veca, la priorità dell’attuale così come intesa da Kant indica l’unica via d’accesso per il soggetto al possibile e al necessario e nondimeno implica una gerarchia in cui l’orizzonte di partenza ineludibile è l’esperienza presente. Il problema che tuttavia permane nella prospettiva kantiana è il suo realismo empirico: perché l’esemplificazione esistenziale abbia successo è necessario soddisfare la condizione della percezione nello spazio e nel tempo di un oggetto. Tale componente del sistema kantiano è però inutilmente restrittiva e non tiene conto di una vasta gamma di modi con cui assegniamo esistenza a qualcosa nel nostro linguaggio ordinario. L’autore fa qui riferimento ai recenti sviluppi logici dei temi kantiani elaborati da Hintikka per mostrare come il nostro reputare vero o falso un qualsiasi stato di cose sia implicitamente legato a processi di comparazione tra una serie di stati di cose possibili al fine di classificare quelli che sono compatibili con ciò che viene percepito come stato attuale. Questo significa che quando esploriamo il mondo che ci circonda mettiamo in atto «giochi di ricerca e ritrovamento» sul modello dei giochi linguistici di Wittgenstein che però in questo caso si svolgono tra il ricercatore e la natura. Che qualcosa esista è l’esito riuscito di tale attività che, come sostenuto da Kant, si svolge nell’ambito delle nostre percezioni di oggetti. Gli oggetti nello stato attuale a loro volta vanno intesi come ciò cui possiamo riferirci alla luce dell’esito positivo dei nostri giochi di ricerca e ritrovamento, e fino a prova contraria (pp. 43-44).
È bene precisare che l’idea guida di queste analisi non mira a negare l’importanza degli aspetti aletici o deontici al contrario vuole impegnarsi «a connettere l’impiego dei termini modali ai nostri atteggiamenti ordinari e, in particolare, ai nostri atteggiamenti proposizionali, ai nostri giudizi intuitivi di modalità, al nostro reputare» come stanno le cose in una varietà di domini. Questo significa impegnarsi nell’elaborazione di una versione del realismo che integri l’assunzione realistica elementare, secondo cui esiste un mondo là fuori indipendente da noi, e che tenga conto della rilevanza del fatto che all’attuale è possibile riferirsi in più di un modo. Sostenere infatti che qualcosa c’è non è affatto controverso, più complesso è rispondere alla domanda a proposito di ciò che diciamo che vi è (p. 44). In particolare nella quarta lezione, dal titolo Epistemologia, necessità e realismo, Veca si propone di mostrare come la progressiva trasformazione dell’immagine della scienza ̶ dalla visione statica neopositivista della prima metà del secolo all’interesse per la dinamica dell’impresa scientifica dalla seconda metà in avanti ̶ abbia determinato una profonda revisione, non soltanto della nostra concezione del rapporto tra teoria e realtà, ma anche dell’appropriato significato epistemico da attribuire all’operatore modale di necessità (p. 130). La svolta causata nel Circolo di Vienna dal falsificazionismo di Popper prima e dalle Ricerche filosofiche di Wittgenstein dopo ha messo fuoco la dinamica storica che caratterizza il cambiamento concettuale dell’impresa scientifica, ponendo l’accento sulla sua dimensione pragmatica e in un secondo momento sociologica, chiudendo così i conti con le posizioni concernenti la plausibilità di isomorfismo strutturale fra proposizioni e stati di cose. In termini modali, secondo l’autore, questo ha generato l’esigenza di una riformulazione della nozione di necessità che, con le parole di Nozick, da «necessità incondizionata che resiste a qualsiasi controesempio a un tempo dato, connessa alla verità di qualcosa in tutti i mondi possibili» passa a «necessità condizionata […] sino a prova contraria» ovvero fino a che dimostri di resistere a tutti i controesempi concepibili nel tempo (p. 132-133). È facile dunque comprendere come dall’assunzione del carattere condizionato della necessità derivino gravi problemi sul piano ontologico e semantico per quelle prospettive filosofiche che aspirino a prendere sul serio le pratiche scientifiche come vincolo per qualsivoglia programma di ricostruzione concettuale. Qui emerge la tesi di Veca: il riconoscimento del carattere in ogni caso condizionato della necessità ha natura prettamente epistemica quindi «non c’è nulla che ci autorizzi a sostenere che non si diano o non siano definibili relazioni o proprietà necessarie che hanno a che vedere con come sono fatte o stanno le cose» semmai «non sappiamo che farcene di necessità metafisiche» (p. 136). Anche se la necessità dipende dalla serie di circostanze in cui quella relazione è inserita non significa che non sia per noi uno strumento efficace di accesso al mondo. Proprio come avviene per i designatori rigidi di Kripke quando definiamo qualcosa come necessario facciamo riferimento a un oggetto la cui interpretazione riteniamo stabile a un tempo dato e che lo definisce entro un qualche ordine o una qualche ontologia formale. Riconosciamo in esso una certa invarianza rispetto ad almeno alcuni gruppi di trasformazioni. Veca definisce questo tipo di oggetti saturi rispetto all’interpretazione, gli oggetti insaturi sono invece quegli oggetti per cui è disponibile una varietà di interpretazioni divergenti. Ora gli oggetti insaturi sono connessi in qualsivoglia spazio concettuale a oggetti saturi che svolgono il ruolo di limiti per la loro interpretazione, secondo un principio olistico della connessione delle nostre credenze (p. 139). Questo non significa che gli oggetti saturi siano speciali, come le necessità metafisiche: più semplicemente assumono un rilievo particolare a un tempo dato poiché accade che nel loro caso abbiamo una singola interpretazione a fissarne il riferimento. Come per i designatori rigidi, una volta fissato il riferimento «si è liberi di variare in modo puramente combinatorio le proprietà dell’oggetto designato, semplicemente considerandolo come al centro di un insieme di mondi possibili che ruotano intorno ad esso» (p. 143). In tal modo saremo in grado di pensare una varietà di mondi possibili ma tale libertà sarà limitata dalle proprietà essenziali dell’oggetto in quanto saturo. Siamo qui al confine tra epistemico e aletico ed è per questa ragione che «è sensato pensare un mondo possibile in cui Cesare non passa il Rubicone, mentre appare irragionevole pensare un mondo possibile in cui Cesare è un coccodrillo» (p. 143). L’attuale teoria scientifica sarebbe dunque il riferimento iniziale che stabilisce ciò che è saturo fino a prova contraria e in questo modo verrebbe meno la cogenza della celebre distinzione fregeana tra Sinn e Bedeutung: «se il senso di qualcosa attiene al modo con cui ci viene dato l’accesso al riferimento a qualcosa, questo ha luogo entro il dominio epistemico che è certo distinto ma non indipendente dal dominio aletico che ospita solo il riferimento a oggetti. Accettiamo il significato come riferimento, ma non rinunciamo dal punto di vista epistemico alla prospettiva del senso inteso come una tra le possibili vie del riferimento» (p. 145).
Veca giunge a proporre una forma di realismo scientifico dallo sfondo modale fondato sull’equilibrio riflessivo tra l’intuizione empiristica rappresentata dal riferimento fisso, cui pertiene il carattere aletico del significato, e l’intuizione costruttivista rappresentata dalle modalità epistemiche, che garantiscono la possibilità di definire differenti descrizioni nel tempo del medesimo oggetto. La varietà delle vie del riferimento coincide con la possibilità di essere aperti al mondo (con McDowell) nel senso della doppia esigenza di conservare un attrito con esso, in quanto limite per le nostre ragioni, e al contempo di mantenere una certa distanza al fine di rendere possibile quel gioco di ricerca e ritrovamento con un cui miriamo a descrivere la realtà. Tuttavia, come avverte Putnam, il mondo non ci si “rivela”: abbiamo bisogno di un grande lavoro concettuale per metterci nelle condizioni di accedervi. Questo però non equivale a costruire il mondo ma semplicemente a cercarlo nella pratica non epistemicamente ideale di esseri che fanno uso del termine vero (p. 150).
di Alberto Giustiniano
-
Il gesto oltre l’azione. Una filosofia dell’innocenza
Longform / Dicembre 2017
Il problema della colpa è il problema dell’azione, e di colui che la compie. La colpa, lungi dall’appartenere intrinsecamente alla sfera giuridica, ne costituirebbe piuttosto la soglia d’accesso.
La colpa è un concetto che traccia i limiti di una seria questione filosofica, prima ancor che giurisprudenziale: come si costituiscono i confini del diritto? Come si traccia la frontiera tra la struttura del diritto e l’immanenza in sé del vivente? Come si può, altresì, definire la colpevolezza del soggetto a partire dall’imputabilità dell’azione e dalla pena comminata? E soprattutto, una volta posto in questi termini il problema, è possibile superare la concezione dell’azione in quanto imputabile? È possibile, per il soggetto, fuoriuscire dalla struttura del diritto - e quindi dalla triangolazione azione-colpa-pena - per “consacrarsi” a quell’innocenza radicale che attraversa originariamente tutto ciò che vive?
Sono questi alcuni degli interrogativi che trapelano, talvolta tra le righe, spesso più manifestamente, dalle pagine dell’ultimo libro di Giorgio Agamben, Karman. Breve trattato sull’azione, la colpa, il gesto (Bollati Boringhieri, 2017). Read More » -
Maurizio Ferraris – Emergenza
Recensioni / Maggio 2017Sul problema del realismo in filosofia tanto si è detto negli ultimi anni da renderlo un tema inflazionato. Non di meno, è innegabile che la svolta realista sia uno degli eventi più importanti per la filosofia contemporanea dell’ultimo decennio, ed è quindi doveroso porre attenzione a quelle pubblicazioni che affrontano il tema del realismo in modo serio e ponderato. Emergenza di Maurizio Ferraris (Einaudi 2016) appartiene certamente a tale categoria. Il concetto di emergenza è per Ferraris l’asse portante di tutto il lavoro ed egli lo racconta a partire da una premessa ontologica: la realtà che emerge è qualcosa che prima non c’era, mentre la verità è la scoperta di qualcosa che già esisteva. Ciò per Ferraris equivale a dire che l’essere viene prima del conoscere. Tale premessa è necessaria in qualsiasi realismo che voglia davvero definirsi tale. Una volta messa in chiaro questa premessa l’Autore fa un altro passo nell’approfondimento del proprio realismo, definendolo attraverso due aspetti tra loro strettamente connessi. Si tratta innanzitutto di un realismo “negativo”, nel senso che la realtà “resiste” al pensiero, ci colpisce con una forza che a volte non è controllabile, che si impone in modo talvolta anche violento. La realtà possiede, insomma, una inemendabilità difficile da smentire, a cui dobbiamo sottometterci. Ma questa inemendabilità costituisce anche il primo “invito” del reale, la sua disponibilità per noi, lo stimolo a conoscerlo e a trasformarlo. Oltre a queste due accezioni del realismo – negativa la prima, positiva la seconda – ve ne è poi una terza, di carattere trascendentale. Resistenza e invito costituiscono infatti un movimento circolare che nel suo ripetersi, nel suo “iterarsi” direbbe Ferraris, produce accumulo, “registrazione”, e quindi, disponendo di abbastanza informazioni e di abbastanza tempo, produce “senso”. La documentalità è quindi secondo l’Autore il vero trascendentale, intendendo con questo termine una sorta di memoria sempre presente e operante – come aveva sostenuto già Bergson – nella materia ogni qualvolta un nuovo senso emerge da quello precedente. Essendo la memoria la materia stessa. Questo vale sia per le dinamiche che regolano l’evoluzione del vivente che per quelle sociali, non essendoci tra le due soluzione di continuità, ma anzi volendo questa prospettiva superare nettamente il dualismo tra biologico e culturale, tra materia e spirito, tra naturale e artificiale, in favore di una visione documentale, appunto, del regno naturale. In una simile prospettiva, dunque, abbiamo un solo tipo di significato, quello che l’Autore definisce “emergenziale”, il quale nasce dall’iterazione e dall’iscrizione, dall’accumulo di “tracce” prima e di “segni” poi. Questi ultimi sono allora la fonte del significato emergenziale, che di spirituale ha solo l’aspetto ma non la sostanza. Prima viene la documentalità, la traccia “cieca”, i rituali delle api e la costruzione dei formicai, l’accumulo di tecniche, di pratiche, ma anche il casuale sedimentarsi di riti e modi di affrontare problemi pratici, e poi viene il senso, la riflessione e la coscienza di cosa si è sedimentato. L’epistemologia perfetta è quindi la storia in quanto accumulo, registrazione e iscrizione da parte dei singoli. Ecco allora esplicato il senso della premessa ontologica di cui dicevamo: l’essere/accumulo/documentalità viene prima del conoscere/traccia/senso. Una radicale pre-esistenza dell’essere al pensiero che però sancisce anche una radicale ri-unificazione tra essere e pensiero nella categoria portante di “mobilitazione”. Cos’è la natura in questo sistema se non una sorta di infinito dispositivo tecnologico che produce emergenza attraverso la dinamica che abbiamo brevemente illustrato? E la mobilitazione è la nozione che Ferraris utilizza per provare a illustrare questa dinamica che percorre l’inerte e il vivente conferendogli una innata competenza tecnica che è sempre avanti rispetto alla sua comprensione (una sorta di neo-finalismo sul modello di quello proposto da Raymond Ruyer all’inizio degli anni 50 del secolo scorso).
Il libro di Ferraris ha il grande merito di presentare in modo chiaro e conciso la posizione critica comune a gran parte dei realismi contemporanei, ovvero l’attacco frontale e senza compromessi all’idealismo trascendentale e ai suoi molti eredi. Tale critica si può riassumere nel modo seguente: l’intenzionalità non è il cominciamento dell’essere. La correlazione coscienza-mondo non è la condizione di esistenza del reale. C’è qualcosa che viene prima e fonda la correlazione, qualcosa esisteva prima della correlazione e continuerà ad esistere dopo. L’idealismo trascendentale sbagliava quindi nel sostenere che la radice dell’esperienza si situasse nell’Io penso. Ed è così che persino in pensatori “emancipati” da una fenomenologia troppo kantiana, come Sartre ad esempio, l’esternalità rivendicata per la coscienza irriflessa, il suo essere “là fuori” insieme agli oggetti del mondo, non è altro che un’esternalità claustrale, claustrofobica, che rimanda immediatamente ad un dentro camuffato da esterno. Lo stesso dicasi per Heidegger e la sua angoscia, per Levinas e i suoi Altri. Tutti tentativi di demandare il problema del fondamento della correlazione ad un irrelato che però assume subito un carattere paradossale e ambiguo. Una sorta di circolo vizioso tra pre-riflessività e auto-riflessività che, come si diceva poc’anzi, non sfonda realmente verso nessun Grande Fuori. Tutti tentativi questi, come nota giustamente Ferraris, figli della rivoluzione kantiana prima e dell’idealismo trascendentale poi. Non sfuggono alla critica del realista nemmeno le versioni postmoderne del correlazionismo, come ad esempio la filosofia analitica e il costruttivismo. Anch’esse mosse dall’intenzione di individuare nel linguaggio o nel concetto un a-priori al quale ancorare l’esistenza del reale che conosciamo.
Detto questo, bisogna anche dire però che le argomentazioni di Ferraris corrono su di una linea sottile e sono sempre minacciate dal pericolo di finire nel baratro dell’eccessiva semplificazione. Semplificazione che spalanca poi le porte a facili fraintendimenti. Infatti, una cosa è dire che da Kant in avanti la filosofia dell’esperienza ha messo eccessiva enfasi sul soggetto, rischiando di diventare sempre di più una sorta di antropologia; cosa ben diversa è invece sostenere senza mezzi termini che per l’idealismo trascendentale «il mondo è il frutto della costruzione di un Io penso onnipresente e, almeno sulla carta, onnipotente» (p. 76). E quindi sostenere che per gli idealisti trascendentali il pensiero crea la realtà e dunque nulla esiste all’infuori di quello che penso, assimilando il trascendentalismo al solispsismo. Kant e i suoi successori avrebbero quindi sposato una posizione ontologicamente molto forte secondo la quale la materia non sarebbe pre-esistita allo spirito, identificando completamente ontologia ed epistemologia. Esempio sommo di questo slittamento verso il regno del puro pensiero sarebbe l’attualismo di Gentile. La stessa operazione Ferraris la compie nei confronti del postmodernismo, arrivando quindi a concludere: «l’idea è sempre che ci sia una qualche dipendenza della ontologia dalla epistemologia, ossia, in altre parole, che il Big Bang non abbia potuto aver luogo realmente perché noi non c’eravamo, o che il Big Bang abbia avuto luogo solo perchè noi sappiamo che ha avuto luogo» (pp. 83-84).
Attraverso una simile interpretazione dell’idealismo trascendentale si perde però l’aspetto utile della critica. Qual è infatti il senso di tale critica? Chi scrive ritiene che il senso sia quello di mostrare come da Kant in avanti la filosofia abbia progressivamente rinunciato alla sua vocazione originaria a occuparsi del Tutto. Quel Tutto che, per forza di cose, comprende il soggetto come un suo momento, ma non certo come suo fondamento. Un altro aspetto di questa faccenda che la critica mette in evidenza è il paradosso generato da una soggettività così scettica da mettere in discussione persino la propria stessa capacità di far filosofia, ripiegandosi su se stessa e accettando solo se stessa come metro di tutte le cose. Scetticismo che poi, inevitabilmente, ricade su tutto ciò che non è soggetto, compreso il tanto problematico “mondo esterno”. Ma il problema è così serio proprio perché in questione è il diritto della filosofia a spingersi tanto avanti nel dubbio sul mondo, non perché tale dubbio abbia realmente una valenza ontologica. Che poi la vulgata abbia interpretato la domanda come una domanda ontologica vera e propria fa parte della dispersione intrinseca ad ogni teoria che non possiede una vera e propria pars construens, ma questo Ferraris lo sa certamente molto meglio di chi scrive...
Giacomo Foglietta
-
START-UP: L’ENTUSIASMO
Serial, Start up / Aprile 2017Il presente: Palazzo di Ghiaccio, Milano, 14 dicembre 2015. Sulle note de “Gli immortali” di Lorenzo Jovanotti e “Lo stadio” di Tiziano Ferro si è svolto a Milano l’Italia Startup Open Summit. L’evento, «impensabile fino a qualche anno fa» nelle parole di Riccardo Luna, presentatore della giornata, è «la festa di Natale delle start-up italiane, un momento di celebrazione di storie di coraggio».
Luna, nuovo direttore dell’AGI e già Digital Champion italiano, dà avvio alla mattinata in un modo spettacolare: con la musica ad alto volume che lo accompagna («[…] E cambieremo il mondo, se cambierà davvero […]») e ripreso frontalmente da una telecamera, percorre di corsa il corridoio del parterre dove è disposto il numeroso pubblico lungo file di sedie, ne cerca lo sguardo e il coinvolgimento, "batte il cinque". La società civile è presente: rappresentanti delle istituzioni locali e nazionali, imprenditori start-up, investitori, giornalisti, grandi aziende, curiosi. L’atmosfera è eccitante, si percepisce «una partecipazione emotiva al bene» (Kant, 1994, p. 167). E il fine comune, ideale e puramente morale qual è? «Un bel percorso che possiamo fare per l’innovazione (enfasi aggiunta) in questo paese», dichiara uno degli autorevoli ospiti della giornata.
Tutto chiaro. O forse no. «Riavvolgendo il nastro», questo frammento etnografico che ha destato una certa meraviglia in chi scrive, invita ad un’interpretazione: di che cosa stanno parlando queste persone? E che cosa stanno facendo? La percezione è di essere spettatori di qualche cosa di singolare, ma già in buona sostanza di senso comune (almeno per alcuni collettivi dotati di un certo capitale à la Bourdieu).
Nel tentativo di fare un po’ di chiarezza, si può iniziare dicendo che nella contingenza attuale un tale linguaggio non è per nulla astruso, ma al contrario assai comune. O meglio, non è astruso nella misura in cui ciò che esprime è una cosa percepita come bella e desiderabile tanto a livello di singolo quanto di collettivo. Di questi tempi, l’innovazione desta una simpatia disinteressata nel pubblico (Ivi., p. 165): d’altronde, chi si spenderebbe contro di essa o chi può non dirsi sedotto da questa parola?
Al tempo stesso però, la significazione di innovazione è oscura proprio in virtù della sua popolarità e della declinazione in campi semantici svariati. A ben pensarci, il segno linguistico “innovazione”, là dove il segno linguistico è l’atto di unificazione di un'immagine acustica ad un concetto, è ovunque. Non corrisponde più soltanto a una pratica economica specifica, ovvero la traduzione di un’idea in un prodotto acquistabile sul mercato, ma a una pratica antropologica, a un certo modo di essere che sembra andare ben al di là della sola sfera di produzione di beni e servizi. L’innovazione è precisamente una disposizione d’animo e la sua confusa significazione linguistica è una metafora, come il linguaggio sa essere, di una trasformazione culturale profonda e in corso (Williams, 1983). Ma qual è dunque il segno di tale trasformazione?
Facciamo ora un passo indietro.
Il passato: Collegè de France, Parigi, 5 gennaio 1983. Durante la prima ora di lezione, Michel Foucault situa ciò di cui intende trattare nel Corso i.e. il governo di sé e degli altri praticando un’ontologia del presente, in continuità con un breve testo di Immanuel Kant: Che cos’è l’Illuminismo? del 1784. Nell’esposizione, Foucault pone in dialogo il tema «dell’uscita dell’uomo da uno stato di minorità di cui egli è colpevole» (Kant, 2012) con un’altra questione molto cara al filosofo tedesco: se e come la specie umana sia in continuo progresso. Più precisamente, Foucault ricorda come Kant, ritornando in varie occasioni sulla questione, nel 1798 abbia posto i lumi in relazione ad un altro evento che «non si può dimenticare» (Kant, 1994, p. 169): la Rivoluzione francese. Nella parte seconda de Il Conflitto delle facoltà del 1798, Kant individua in un avvenimento che lascia un indizio storico, la condizione di possibilità del progresso: «un segno rimemorativo, dimostrativo e prognostico di un progresso costante che trascina il genere umano nella sua totalità» (Foucault, 2009). Ciò che è interessante è la lettura che Kant propone della rivoluzione: se essa è il segno di tale avvenimento, non lo è per «il dramma rivoluzionario in se stesso. […]» (Foucault, 2009) e neppure poiché corrisponde a «importanti fatti o misfatti compiuti dagli uomini. […] No, nulla di tutto ciò» dice Kant (1994, pp. 165). Piuttosto, dobbiamo ricercare una disposizione di base degli spettatori: «una partecipazione, sul piano del desiderio, prossima all’entusiasmo (enfasi aggiunta)» (Ivi., pp. 165-166). E’ propriamente questo entusiasmo che riguarderebbe la totalità di un collettivo[1], secondo Kant, ad autorizzare alcune osservazioni antropologiche.
Innovazione, dunque, quale discorso sull’antropologico e quale questione antropologica che va, cioè, a interrogare un insieme i modi di esistenza individuali e collettivi. Sotto queste spoglie, l’innovazione avanza una richiesta a chi è sensibile al richiamo del suo discorso: di crederci e soprattutto, di credere alla cifra trasformativa, intrinsecamente positiva e perciò desiderabile che lo caratterizza. In questo senso, essa non appare come un discorso tra tanti né business as usual. Al contrario, potrebbe intendersi come un nuovo discorso di tipo fondativo, che si intreccia ad altri e che avanza una precisa richiesta ai soggetti contemporanei: la richiesta di “trasformare se stessi”.
Qual è quindi il problema? «Che c’è di tanto pericoloso nel fatto che la gente parla e che i suoi discorsi proliferano indefinitamente» (Foucault, 1972, p. 9)? La parola “innovazione” è forse un pericolo?
Riprendendo Kant (1994, p. 165), si legge, a proposito del segno storico di un tempo rivoluzionario di cui sopra, quanto segue:
«Si tratta solo del modo di pensare degli spettatori che in questo gioco di grandi trasformazioni si palesa pubblicamente e manifesta a gran voce una generale e tuttavia disinteressata simpatia per i giocatori di una parte contro quelli dell’altra (enfasi aggiunta)».
Ci si può dimenticare cioè, di ciò che è politico, dunque conflittuale. Tornando all’episodio di apertura, in quella giornata di festa delle oltre cinquemila start-up italiane, il primo a salire sul palco è stato il Presidente dell’associazione Italiastartup, Marco Bicocchi-Pichi. «Il papà […] dell’ecosistema», dichiara Luna, «ma alcuni quando parlano dicono anche il Papa, per questo approccio ecumenico (enfasi aggiunta), inclusivo che ha». Ecco allora la comunione e la cooperazione capaci di superare la divisione politica e confessionale rispetto ad un fine comune che può celare il conflitto. Tale attitudine, come vedremo, si riflette bene in alcuni spazi del “discorso dell’innovazione”, per esempio gli spazi di co-working e “l’eco-sistema”, metafora biologica a indicare l’insieme e la varietà degli attori che si mettono al lavoro “per l’innovazione”.
In conclusione, si potrebbe dire che il fascino che evoca e la presa di cui è capace tale discorso rendono difficoltoso l’esercizio di de-soggettivizzazione del soggetto, arte indispensabile, scrive Foucault (2007), al fine di non essere governati eccessivamente.
Bibliografia
Kant, I. (1994), Der Streit der Fakultäten (1798); edizione italiana a cura di Domenico Venturelli: Il conflitto delle facoltà. Brescia: Editrice Morcelliana.
Kant, I. (2012),“Risposta alla domanda: che cos’è l’Illuminismo?” in Foucault, M. e Kant I., Che cos’è l’Illuminismo. Milano, Mimesis (edizione digitale).
[1] Kant parla di “genere umano” nel suo scritto e lo fa in riferimento alla Rivoluzione francese. La presente riflessione, com’è ovvio, non vuole estendersi a questa totalità. Nonostante sia verosimile che quanto argomentato mostri una certa assonanza rispetto a quanto avviene in altri luoghi nel Nord e Sud Globale, il contributo si limita a una lettura del contesto italiano contemporaneo.
* Parte di questo scritto apparirà in Anna Paola Quaglia, "Innovazione, imprenditorialità, tecnologia: la promessa di una nuova urbanità” in Ambiente, Società e Territorio, 2, 2017
Di Anna Paola Quaglia
-
Estesie #1 – Il visual, un’arte applicata
Estesie, Serial / Marzo 2016Amon Tobin, ISAM 2011
Al volgere del Sessantotto, un fine critico come Filiberto Menna lanciava la sua Profezia di una società estetica, intuendo per la società postmoderna i modi di una creatività diffusa, la diluizione dell’arte nella quotidianità, rintracciandone i precursori in Preraffaelliti e Simbolisti. La tendenza alla sintesi e all’alleggerimento dell’immagine contemporanea ha infatti favorito un rifiorire della decoratività, che oggi si dà in numerose forme, dal tatuaggio al gadget allo sticker, dalle copertine dei dischi alle cover per lo smartphone. Sono queste le nuove forme di quella che un tempo si diceva arte applicata e che oggi passa anche come design, con una panoplia di possibili prefissi. Persino il video mapping, che può essere legittimato come un nipote eccentrico dei sons et lumières francesi, rientra a pieno nell’alveo delle arti applicate contemporanee: spettacoli, nel senso stretto della parola, ornamenti mobili, dinamici, evanescenti ed effimeri, ma pur sempre mirati a intrattenere e divertire un pubblico di massa animando la facciata di un qualche palazzo, riqualificandola esteticamente. Così valga anche per quei variegati tappeti visuali che animano i live di musica elettronica o le discoteche, etichettati con il termine un po’ generico di visual. Essi fungono da apparato decorativo, mutuano i loro stilemi perlopiù dai geometrismi concretisti del Neoplasticismo e del Suprematismo, o viceversa, in altri casi, simulano le pulsioni organiche dell’Informale e dell’Espressionismo Astratto mediante le molte possibilità della computergrafica. Sia la dinamicità sia le evoluzioni delle loro forme sono subordinate alla velocità e alle peculiarità della musica che accompagnano: la loro funzione è quella di alleggerire l’ascolto cosiddetto “acusmatico”, come lo ha definito Pierre Schaeffer, quello della musica registrata, separata dal gesto o dall’evento che l’ha generata, per favorire un più equilibrato bilanciamento di stimoli sensoriali.
Esistono però motivi più profondi che permettono di ricondurre il fenomeno del visual per musica alle arti applicate, motivi che legano indissolubilmente decorazione e musica rintracciati da grandi filosofi e teorici già tra Sette e Ottocento. Nella Critica del giudizio Kant afferma che «i disegni à la grecque, i fogliami delle cornici e delle tappezzerie […] sono bellezze libere» (1997, p. 124), riconducendo così l’ornamento a quella che nel terzo momento della “Analitica del bello” viene da lui stesso etichettata come pulchritudo vaga, una bellezza estranea agli obblighi della rappresentazione e quindi formalmente autoreferenziale. La libertà formale degli ornamenti porta il pensatore di Königsberg a considerarli «come della stessa specie di quelle che in musica si chiamano fantasie (senza tema), ed anche tutta la musica senza testo» (ibidem). Meno di un secolo dopo anche Eduard Hanslick, musicologo praghese e teorico del formalismo musicale, si appresterà a stabilire una stretta corrispondenza ontologica tra le forme dell’ornamento e le forme della musica, riconoscendo a entrambe una comune autonomia di significato, istanze di una pulchritudo vaga, per dirla ancora con Kant. Nel tentativo di spiegare in che modo la musica possa dare “forme belle senza contenuto”, Hanslick trova infatti un appoggio ideale nel paragone con l’arabesco e ne fa emergere le possibili corrispondenze con la composizione musicale, tracciando nella propria immaginazione «linee curve che ora si abbassano dolcemente, ora audacemente si innalzano, si incontrano e si allontanano, si corrispondono in archi piccoli e grandi, sono apparentemente incommensurabili, ma sempre ben proporzionate, si contrappongono o si fanno riscontro: insieme di piccole unità singole che pure costituisce un tutto» (2001, pp. 63-64). L’invito di Hanslick è ora quello di immaginare un arabesco mobile, vivente, «che nasca davanti ai nostri occhi in una continua autoformazione» e in quanto «attiva estrinsecazione di uno spirito artistico, che riversi incessantemente tutta la pienezza della sua fantasia nelle vene di questo movimento» (ibidem), proprio come in una composizione musicale. La suggestiva descrizione di Hanslick, ricca di verbi di movimento, appare già come la descrizione di un film astratto di Hans Richter, di Len Lye o di Norman McLaren, così come dei visual (eredi diretti di queste esperienze) dei live di Alva Noto. Il perfetto matrimonio tra visual e musica elettronica si deve poi alla loro affinità ontologica, all’identità delle loro origini: entrambe le forme nascono infatti dai medesimi algoritmi, da calcoli celati, nascosti, che le intrecciano e le canalizzano in un unico flusso temporale. Anche l’ornamento più tradizionale ha in sé un certo movimentismo, come notava a suo tempo Henri Focillon, ma di certo è solo il video a renderlo un fatto concreto e a trasformare così la metafora di Hanslick nella realtà delle nuove dimensioni dell’ascolto musicale: un ascolto espanso, sinestetico, vitalistico.
di Pasquale Fameli
-
Bibliografia
Focillon, H. (1987). Vita delle forme (1934). Torino: Einaudi.
Hanslick, E. (2001). Il bello musicale (1854). Palermo: Aesthetica.
Kant, I. (1997). Critica del giudizio (1790). Roma-Bari: Laterza.
Mazzoni, A. (2011). Il gioco delle forme sonore. Studi su Kant, Hanslick, Nietzsche e Stravinskij. Milano-Udine: Mimesis.
McLuhan, M. (2011). Capire i media. Gli strumenti del comunicare (1964). Milano: Il Saggiatore.
Menna, F. (1968). Profezia di una società estetica. Roma: Lerici.
Schaeffer, P. (1966). Traité des objets musicaux. Paris: Éd. du Seuil.
-
Rocco Ronchi – Deleuze. Credere nel reale
Recensioni / Settembre 2015Perché un’altra monografia su Deleuze? E perché dedicare un lavoro a Deleuze in una collana che si chiama «Eredi» (diretta da Massimo Recalcati), quando si è cominciato il proprio cammino filosofico studiando Bergson? Ma, soprattutto, perché scegliere un sottotitolo, Credere nel Reale, per un saggio consacrato al re dei simulacri, a colui che ha rovesciato ogni credenza e ogni realtà, similmente a ogni credenza nella realtà?Il Deleuze di Rocco Ronchi (Feltrinelli, Milano 2015) non è l’ennesimo saggio dedicato al filosofo francese a cui Michel Foucault, con una lungimiranza prossima alla veggenza, legò le sorti della filosofia a venire. Non è l’ennesimo saggio però proprio perché lo è: è ennesimo e lo vuole essere.Questo è solo il primo dei tre paradossi con cui è possibile afferrare l’operazione che Ronchi fa col suo ultimo lavoro. Gli altri due sono veicolati rispettivamente dal rapporto che quest’ultimo intrattiene col titolo della collana («Eredi») e col suo stesso sottotitolo (Credere nel reale). A partire da questi tre interrogativi, solo apparentemente aporetici, è cioè possibile trattenere per qualche istante l’attenzione sulla nuova immagine che, di Deleuze, emerge dall’ultimo libro di Ronchi., non stupendosi però che sia proprio una via paradossale e lastricata da cattive intenzioni a permetterci di toccare il senso di questo breve ma calibratissimo saggio.
Deleuze è stato infatti il filosofo che più di tutti, almeno nel 900, ha fatto del paradosso l’agente provocatore della filosofia, il lampo scatenante il tuono del pensiero. A esso, ci insegna, siamo costretti da un trauma, da un incontro imprevisto e letale al quale non possiamo sottrarci. Un unico e intempestivo incontro che poi risuona e si distribuisce frattalmente in piccoli traumi che si ripetono come “piccoli limiti” (L’Anti Edipo, 1972), traumi e limiti che coincidono con i singolari arresti della doxa, con i suoi controsensi e i suoi inciampi.
È qui che si comincia a pensare, perché è in un controtempo che Deleuze rintraccia la possibilità di “generare l’atto di pensare nel pensiero” (Differenza e ripetizione, 1968). E prima di lui fu Platone a intercettare la stessa possibilità nel contraccolpo provocato dai ta parakalunta, oggetti capaci di scuotere il pensiero provocando “sensazioni nello stesso tempo contrarie” (Filebo 46 c e Repubblica VII, 523 b). Pensare non è nulla di ovvio, afferma Ronchi (p. 77) e i ta parakalunta sono proprio le pieghe in cui si sospende il dativo dell’“a me pare”, sono gli scogli su cui si frantuma bruscamente l’opinione, i luoghi in cui si contorce e storce il duplice filo del senso comune e del buon senso.
Al bucolico e troppo irenico thaumazein di aristotelica memoria, Deleuze ha del resto sempre preferito il traumatizestai, l’essere ferito, la violenza dell’urto, l’impatto col Reale e col Fuori che, solo, forza il pensiero costringendolo al movimento. Il traumatizestai è dunque questa spinta paradossale e quella situazione ottica pura in cui, soltanto, gli eventi fanno segno (p. 63).
Che sia una via paradossale a permetterci di cogliere il senso di questo libro è dunque forse il primo e più significativo segno che non si tratta di lettera morta. Per dire, per esplicitare il sottinteso di una filosofia, lo storico, così come il saggista e lo scrittore, deve d’altronde condividere con quel pensiero una “causa comune”, la medesima urgenza nascosta magari tra le pieghe del discorso. In altre parole, l’atto ermeneutico è sempre creativo, ma creativo perché critico e critico perché violento.
«Con questo saggio non pretendo di aggiungere una mia introduzione all’opera di Gilles Deleuze alle tante, validissime, che circolano. La mia intenzione è un’altra. Ciò che mi sono proposto è scrivere un capitolo di storia della filosofia contemporanea» (p. 9). Tutto sta, quindi, nell’intendersi su cosa sia la storia della filosofia contemporanea e su cosa significhi scriverne un capitolo. Deleuze al riguardo è piuttosto chiaro: «Il mio modo di cavarmela –scrive ‒ consisteva soprattutto nel fatto di concepire la storia della filosofia come una specie di inculata o, che è lo stesso, di immacolata concezione. Mi immaginavo di arrivare alle spalle di un autore e fargli fare un figlio, che fosse suo e tuttavia fosse mostruoso» (Pourparler, 1990).
L’immacolata concezione evocata da Deleuze è critica radicale all’immagine dogmatica e stereotipata della filosofia e della storia che se ne scrive. «Critica» nel senso in cui, provocando un “crollo centrale” del pensiero, obbligandolo a pensare questo crollo e questa impotenza che è sua propria, essa apre una crisi che mette in causa il modello trascendentale implicato dall’immagine dogmatica, ossia il modello della ricognizione mediata dall’esercizio concorde di tutte le facoltà e garantita dall’identità dell’Io per un soggetto supposto identico. Nella sua differenza la filosofia deve, per Deleuze, opporre all’immagine l’avventura dell’incontro senza affinità né predestinazione. Detto altrimenti, in gioco è una certa tensione, da sopportare e da cui lasciarsi attraversare. Per Deleuze infatti non è questione di giudicare ma di “far esistere” (Critica e clinica, 1993), di creare, spingendo il pensiero critico fino in fondo, ossia al di là del principio della quadruplice e organica ragione.
“Sua e mostruosa”, in una parola, perturbante, la nuova immagine del pensiero (a cui Deleuze dà il nome di empirismo trascendentale) non è perciò una semplice rappresentazione ma un’intuizione e questa non tanto come sguardo panottico e distaccato che tenta il sorvolo quanto, piuttosto, come esperienza diretta, intensiva e affettiva di forze che si dispiegano e che disfano ogni elemento di trascendenza, il soggetto come l’oggetto. Questa è l’avanguardia deleuziana: stazionare, fuggire fermi sul posto, perché divenienti infinite variazioni. E quale filosofo non si augurerebbe di produrre una immagine del pensiero che non dipenda più dalla buona volontà del pensatore e dalla sua decisione premeditata? Chi cioè non vorrebbe affrancarsi dal dogmatico atteggiamento trascendentale che questiona le condizioni dell’esperienza possibile per guadagnare quella genitalità che è genesi statica e intrinseca dell’esperienza reale?
La differenza dunque risiede nella concezione di storia della filosofia che si presuppone e che, nel caso di Ronchi lettore di Deleuze, è indubbiamente mutuata dal suo oggetto di studio. Nessun racconto lineare in cui la vicenda si è già tutta consumata e che, da qualche parte nella “mente” dell’autore che si accinge a esporla, attende solo di essere “rivelata”. Nessun monumentale e mortifero allestimento di fatti avvenuti, e perciò morti, in cui il tempo del racconto non fa nulla (p. 9). Da Deleuze viene tutta un’altra idea di storia della filosofia che, accettando il suggerimento di Ronchi, si può definire “problematica”, campo e insieme teatro di una battaglia di cui non si conosce anticipatamente né l’esito né lo scioglimento. Del resto, solo l’assenza di presupposti punta dritta alla creazione. E lo fa procedendo senza concetto: come l’intuizione di Kant e al modo della differenza di Deleuze.
Affermare che il testo di Ronchi non è l’ennesimo saggio su Deleuze proprio perché lo è significa, allora, affermare quest’assenza di presupposti, ribadire quel “senza concetto”. Così vicino al “senza tempo” dell’inconscio di Freud, al “senza senso” del Reale che ossessiona Lacan, ma anche e soprattutto, al “senza immagini” che Deleuze attribuisce al pensiero.
E tuttavia, se il saggio di Ronchi non è l’ennesimo lavoro consacrato a Deleuze è perché, anzitutto, esso consiste in quell’atto, del vivente prima che della matematica (o della matematica perché del vivente) che è l’elevazione alla n, la “messa in potenza”. La n come lettera, viva, della ripetizione cara a Deleuze, della buona ripetizione in cui a tornare è la differenza. N è la lettera del ritornello a cui la musica fa subire il “trattamento molto speciale della diagonale o della trasversale” (Millepiani, 1980) strappandolo così alla sua territorialità. Ennesima è cioè la ripetizione che sfugge al concetto perché preferisce crearlo, è la differenza come forza selettiva. N è il tema assunto come radiale e non come terminale per dirla con Glenn Gould; è il marchio di quella “superfetazione di un atomo intuitivo e indicibile” che è il filosofo secondo Henri Bergson. N è, infine, il segno di una nuova immagine del pensiero.
A partire da un singolare anacronismo si sostanzia la scelta di dedicare a Deleuze e non a Bergson un saggio in una collana che si chiama «Eredi». Se infatti il filosofo, come Deleuze ama ricordare, è l’artista del concetto, egli è tale, ossia lo diviene, solo dopo essere stato un umile ritrattista. Perché è nel servizio, nell’apprendistato e nell’esercizio con la E maiuscola che si prepara il terreno propizio alla creazione. Ronchi ha cominciato ritraendo Bergson e lo ha fatto mostrando che ogni volta che si rileggono davvero, ossia integralmente e senza pregiudizi, i testi di autori famosi, di filosofi e maestri da tempo assegnati e «sistemati» entro la tradizione storico-critica, si scopre, con immenso stupore, quanto quest’ultima sia spesso in difetto rispetto alla verità. E siccome ogni apprentissage è, nel tempo, un’avventura dell’involontario (Proust e i segni, 1964), accade che, après-coup, dopo i colpi della tecnica e dell’esercizio, improvvisamente s’incontri qualcuno per la prima volta pur avendo certezza che sia l’ennesima. Primultima direbbe Jankélevitch.
In una collana dedicata ai maestri di cui ci sente eredi, Ronchi sceglie Deleuze proprio perché ha cominciato con Bergson. Ritraendo il filosofo dell’élan vital (cose antiche), egli si è infatti imbattuto nell’empirismo trascendentale (cose meno antiche). Meglio: è riuscito a ritrarre Bergson come un filosofo dell’interpretazione solo perché, senza saperlo, era già interpretante dei segni deleuziani (cose antiche che vengono dopo cose meno antiche). Come ricorda Deleuze: «apprendere è qualcosa che concerne essenzialmente i segni. Questi sono appunto oggetto di un apprendimento temporale e non di un sapere astratto […] Occorre essere predisposto ai segni, aprirsi al loro incontro, aprirsi alla loro violenza» (Proust e i segni, 1964).
Dalle cinque sezioni-sfondo in cui si articola il volume, si staglia l’immagine di un Deleuze radicalmente monista, inaspettatamente platonico e sorprendentemente reale. Contro ogni lettura della filosofia deleuziana in termini di metamorfismo energetico, caleidoscopico e, però, eminentemente entropico, Ronchi insiste su quell’unico ritornello, su quell’unico evento colto da diverse date e rifrangentesi in quella “multiversità dello spettro filosofico” (P.A. Rovatti) che è la filosofia di Deleuze, il quale, come l’autore sottolinea più volte, dice, in fondo, sempre la stessa cosa. In secondo luogo, ribaltando la vulgata tradizionale – quella che allestisce l’immagine, forse la più stereotipata, di un Deleuze eroe del rovesciamento del platonismo, colui che cioè ha realizzato, nel senso di portare a compimento, il programma nietzscheano ‒ Ronchi piazza al centro del pensiero contemporaneo l’immagine di un Deleuze profondamente platonico, di un Deleuze classico e perciò davvero eversivo. Infine, alla lettura militante ma sclerotizzata che ha fornito le chiavi per aprire e utilizzare quello scrigno di parole-azione che è L’Anti Edipo, immagine sacrificata all’aut-aut tra simbolico e immaginario, Ronchi sostituisce quella di un Deleuze speculativo, filosofo rigoroso e singolarmente realista, nel duplice senso di colui che, con un unico atto di fede nel Reale, dichiara simultaneamente scacco matto al re e alla regina. Né simbolico né immaginario, al di là del padre e della madre, il Deleuze di Ronchi è infatti assolutamente reale, vera e propria intrusione del primum et tertium, puro e anedipico, che spezza il doppio vincolo tra legge repressiva e godimento illimitato. Facendo dell’intuizione un metodo e della diairesis agonistica il suo banco di prova, la lettura che Ronchi propone di Deleuze è militante perché atletica, in lotta per l’affermazione dell’infinita uguaglianza dell’essere in ogni ente contro ogni oscena e fascista visione di questa univocità.
Si tratta, per riprendere una battuta delle pagine iniziali del testo, di essere “veggenti più che attanti”, di provare a vedere nella luce più che con gli occhi e di indicare, poi, ciò che si è visto, piuttosto che sforzarsi a organizzarne fin da subito la traduzione simbolica. Il mistico infatti “fissa, intensifica e completa in azione” ma, soprattutto, crede. Crede intransitivamente perché veggente. L’atto di fede è questa forza neghentropica che approda a un’immagine diretta del tempo e/o dell’evento e che spinge in direzione contraria all’entropia del senso comune (p. 18). E l’evento in questione è il ’68. A quella data Deleuze associa l’intrusione del Reale puro, del Reale univoco che è processo morfogenetico, produzione incessante della forma risalente all’indietro la china dell’indifferenziato. Se il Deleuze di Ronchi non né simbolico né immaginario è perché è un’esperienza pura, un’intuizione come simultaneità delle due direzioni contrarie e una penetrazione insieme impossibile (per la rappresentazione) e necessaria (alla filosofia).
Solo nell’opportuna espressione, che è inevitabile esplicatio, di questa esperienza e complicatio riecheggia quell’unico ritornello che intona ciò che tutti vogliamo e siamo: unitas multiplex. Ed è questo rumore di fondo, che è quello del processo ‒ per dirla con Whitehead ‒, dell’atto in atto – per usare un lessico caro a Gentile ‒ e/o della molteplicità illimitata e mouvante di forme finite, che sono le immagini mobili di Bergson e le figure atletiche di Deleuze, che bisogna allenarsi a ascoltare trasformando l’occhio in orecchio. Si tratta di esercitarsi a stazionare presso questo brusio fino a fare tutt’uno con esso, fino a sentirsi divenire quel rumore e quel fondo. Solo così si è degni dell’istante pulsionale in cui Alfa cortocircuita Omega.
Se questo, come rimarca Ronchi, è il programma di ogni ontologia è perché è anzitutto il compito primo della filosofia, della philosophia perennis et bona: «arrivare alla formula magica che cerchiamo tutti. Pluralismo=monismo, passando per tutti i dualismi che sono il nemico, ma il nemico assolutamente necessario, il mobile che non cessiamo di spostare» (p.79). Millepiani = un piano: questo è il sesamo per una filosofia dell’immanenza assoluta.
di Alessandra Campo
-
Che cosa può motivare la scelta di dedicare un libro al problema del «precategoriale» in Husserl? Il libro di Federica Buongiorno, Logica delle forme sensibili. Sul precategoriale nel primo Husserl, è motivato dalla convinzione che il problema del precategoriale sia un tema inaggirabile della fenomenologia di Husserl, un problema del quale la fenomenologia husserliana può e deve rispondere. In un passo molto chiaro Buongiorno afferma che il «compito della fenomenologia […] è appunto quello di condurre l’anonimo (l’implicito) al categoriale e ricondurre poi quest’ultimo […] alle radici pre-categoriali» (p. 184). La difficoltà – a ragione valorizzata in questo libro – risiede nel fatto che la precedenza del precategoriale non rappresenta il momento iniziale di un processo conoscitivo, bensì quel tratto costitutivamente «anonimo» e «non tematico» dell’«esperienza fondante» (p. XVII). L’Autrice, dunque, evidenzia sin dall’inizio come la differenza tra «categoriale» e «precategoriale» non vada intesa, per così dire, in maniera lineare, cioè come una differenza tra due momenti di un medesimo processo conoscitivo, ma come il problematico opporsi di due livelli irriducibilmente distinti: il «tematico» e il «non tematico». Il precategoriale è un fenomeno rilevante proprio in quanto costituisce quella «esperienza fondante» che si sottrae alla tematizzazione e alla conoscenza tradizionale, e che impegna la fenomenologia nella sua specificità.
Ma non è questo il tema specifico del libro, che tratta, come esplicita il sottotitolo, del precategoriale «nel primo Husserl». Questa restrizione tematica rende ancor più ambiziosa la sfida di questo testo. Mettere a tema il precategoriale nel primo Husserl significa infatti individuare e discutere tale questione al livello metodologico e problematico delle Ricerche Logiche, quindi, prima della «riduzione fenomenologica» delle Idee, prima delle analisi genetiche e prima che Husserl, nella Crisi delle scienze europee, affronti esplicitamente il problema del «mondo della vita». Ma è proprio questa la sfida del libro di Federica Buongiorno, che – sempre consapevole di queste difficoltà – cerca di pensare il precategoriale con Husserl (nello specifico, con il primo Husserl) ma anche oltre Husserl. Per ragioni di spazio, in questa recensione mi concentro su questi due aspetti principali del libro, sebbene esso affronti con precisione filologica moltissime altre questioni; mi limito a ricordare il rapporto con Brentano (cap. I), l’influenza di Bolzano (cap. II) e il confronto con Kant, che l’Autrice valorizza costantemente.
Innanzitutto, vorrei richiamare l’attenzione sul titolo del testo. Che il problema del precategoriale abbia a che fare con qualcosa come una «logica delle forme sensibili» può sembrare, soprattutto per lo studioso di fenomenologia, una cosa ovvia. In realtà questo legame, tutt’altro che pacifico, tra il precategoriale e la logica delle forme sensibili sintetizza la tesi centrale di questo libro. Si tratta dell’idea – lo dico con parole mie – che il problema del precategoriale conduca all’elaborazione di una radicale “logica del sensibile”, a una “logica” che, in quanto “dedotta” dalla sensibilità stessa, di “logico” in senso tradizionale conserva ben poco. Ci si deve innanzitutto chiedere in che misura il primo Husserl ci offra la possibilità di pensare questa “logica del sensibile”, e in che misura questa “logica” sia capace di restituire, nella sua ricchezza e originarietà, il fenomeno del precategoriale.
Nell’“Introduzione”, in un passo molto significativo sul quale tornerò in chiusura, si dice che il carattere «costitutivamente problematico» del precategoriale introduce una «tensione di carattere fondazionale all’interno della teoria husserliana». Il punto è che questa tensione non può «essere risolta richiamandosi alla predelineazione del categoriale nel suo fondamento ante-predicativo, sebbene sia questo il ragionevole orizzonte interpretativo nel quale disporre il problema» (p. XII, corsivo mio). Il problema del precategoriale comporta infatti una strutturale eccedenza rispetto a una certa idea di precategoriale, una idea già attiva a livello delle Ricerche Logiche e definibile come una «predelineazione del categoriale» nella sensibilità. Questa “eccedenza” rappresenta a mio avviso qualcosa di decisivo per questo libro, nel quale l’analisi filologica del testo husserliano, volta a individuare la presenza del precategoriale nel primo Husserl, è costantemente ravvivata dalla consapevolezza della portata filosofica e teoretica del problema. La discussione del problema del precategoriale nel primo Husserl trova il proprio centro nel concetto di «intuizione categoriale», di cui Federica Buongiorno rintraccia le origini (cap. III. 1,2) e di cui ricostruisce – inquadrando la nozione all’interno delle Ricerche Logiche – il contesto problematico (cap. III. 3), per offrirne poi una analisi mirata nella parte finale del libro (cap. IV).
A un primo livello si può dire che la rilevanza dell’intuizione categoriale per il problema del precategoriale risiede nel fatto che, come è noto, attraverso questa nozione diventa possibile pensare il categoriale come dato. Questa nozione – ecco la sfida lanciata a Kant – implica una «profonda riconsiderazione dei rapporti tra sensibilità e intelletto, tra base estetica (precategoriale) e operazioni logico-discorsive» (p. 148). Ma, a mio avviso, Buongiorno coglie un punto fondamentale quando parla di una «duplice vettorialità» dell’intuizione categoriale (p. 136). Questa espressione dà voce al duplice aspetto dell’intuizione categoriale, come atto fondato sull’intuizione sensibile e come atto che offre al tempo stesso un nuovo tipo di oggettualità, una oggettualità eccedente rispetto all’intuizione sensibile. È forse proprio questa duplice vettorialità dell’intuizione categoriale ciò che permette di preservare il carattere originario, sensibile e intuitivo del precategoriale, senza tuttavia ridurre la sensibilità (per dirla con Kant) a una “intuizione cieca”, o (con le parole dell’Autrice) a una “mera sensibilità”, con cui il precategoriale, come giustamente viene precisato, non deve essere mai confuso (p. XVII). È sempre in quest’ottica che nel testo ci si confronta con il concetto fenomenologico di intuizione «in senso ampio». L’intuizione categoriale – l’esempio della copula è emblematico – presuppone proprio la possibilità di intuire (in senso ampio) qualcosa di radicalmente non intuibile (in senso stretto). Come rileva Buongiorno, l’allargamento fenomenologico del concetto di intuizione va di pari passo con l’«ampliamento dell’esistenza alla sfera logico-ideale» (p. 115).
L’insistenza su questa duplice vettorialità dell’intuizione categoriale è inoltre coerente con una prima importante scelta metodologica del testo. Buongiorno individua infatti nella rielaborazione husserliana della teoria brentaniana delle «rappresentazioni improprie» una chiave di lettura per comprendere la specificità della concezione fenomenologica del rapporto tra «intuizione (riempimento)» e «intelletto (intenzione significante)». Se per Brentano «le rappresentazioni improprie e i giudizi su di esse fondati avevano carattere “pseudo-conoscitivo”, […] per Husserl è possibile cogliere intuitivamente gli oggetti ideali» (p. 52). L’Autrice mette in luce il fatto che le rappresentazioni simboliche (intese come rappresentazioni improprie) contengono in sé un rinvio al «pre-logico». È proprio in virtù di questo «presupposto pre-logico» che il rappresentare simbolico, sebbene improprio, non si vede precluso un orizzonte di possibile datità. L’intuizione categoriale viene poi tematizzata in maniera analitica nell’ultimo capitolo del libro, di cui posso ricordare solo alcune pagine. L’Autrice, richiamandosi a Lohmar, distingue tre diversi livelli dell’intuizione categoriale (p. 173). In primis, la percezione semplice o «percezione complessiva» (Gesamtwahrnehmung), che offre un oggetto sensibile «unitario» (per esempio una porta rossa). Successivamente, la «percezione specifica» o «intenzione esplicitante», che è «ancora percezione, dunque un atto semplice», anche se «non ha più un carattere complessivo»; a questo livello «l’atto non è ancora mutato: ci limitiamo a concentrare il nostro interesse percettivo su un momento dell’intero» (nell’esempio, il rosso della porta). Infine, l’intuizione categoriale, dove «le parti esplicitate della Sonderwahrnehmung vengono ricombinate e connesse da un atto categoriale e sintetico» (l’esser-rossa-della-porta, il giudizio ‘la porta è rossa’). Secondo l’Autrice – e qui veniamo a uno snodo fondamentale del testo – il «fenomeno decisivo, sul piano categoriale, avviene già nel passaggio dalla Gesamtwahrnehmung alla Sonderwahrnhemung, le quali rientrano ancora nella modalità intuitiva semplice, sensibile». In questo livello intermedio si mostrerebbe dunque una strutturale e positiva ambiguità dell’intuizione: il momento esplicitante si configura come una «sintesi della coincidenza» che «non è ancora una formazione categoriale, ma non è neppure più o soltanto un contenuto sensibile. […] È proprio in questo discrimine interno alla sensibilità ma già aperto sul categoriale, in questo tratto di scivolosa commistione tra intuizione primaria e secondaria che il precategoriale fa valere il proprio impatto problematico all’interno della Sesta Ricerca» (pp. 175-176, corsivo mio).
Federica Buongiorno può dunque affermare che il precategoriale, costituendo la “radice sensibile” dell’intuizione categoriale, è implicitamente presente nella Sesta Ricerca. Questa tesi non è affatto ovvia. L’Autrice, infatti, riconosce con Lohmar che a livello di quest’opera (nelle quale le analisi genetiche sono lasciate da parte) la percezione è assunta «a-problematicamente». Del resto, già nell’“Introduzione” si legge che il tentativo di tematizzare il precategoriale nel primo Husserl si scontra con un dato innegabile: il carattere statico e non genetico delle analisi delle Ricerche Logiche. Eppure il problema può e deve essere posto, perché tanto il carattere «complessivo» della percezione quanto la «sintesi della coincidenza» risulterebbero difficilmente spiegabili senza presupporre questo riferimento al precategoriale. Ci si può infatti chiedere: «come fa la percezione ad afferrare A come un intero?» (p. 206). È per rispondere a domande come questa che l’Autrice richiama, come «supplemento concettuale indispensabile» (p. 180), la nozione di Typus, che Husserl guadagnerà successivamente, nella quale è possibile individuare quella forma di «schematismo fenomenologico» che costituisce un presupposto implicito dell’intuizione categoriale. Proprio a partire da questo schematismo fenomenologico si rende inoltre apprezzabile la differenza tra Husserl e Kant, sulla quale l’Autrice insiste in vari luoghi ma che emerge molto incisivamente dalla considerazione della Terza ricerca. La «riconsiderazione dei rapporti tra sfera analitica e sintetica» – rendendo pensabile un rapporto che ha carattere essenziale e analitico, pur implicando una sintesi (è il caso del legame essenziale tra qualità e intensità) – permette ad Husserl di «fondare esteticamente l’apriori» (p. 120). Attraverso l’apriori materiale Husserl riferisce la forma «“alle cose stesse”» (p. 125), «sono gli oggetti a fornire il Leitfaden della conoscenza» (p. 127).
Il radicamento dell’intuizione categoriale in una sensibilità “ibrida” e “già aperta al categoriale”, e così l’idea secondo la quale la sensibilità racchiude una “logica degli oggetti”, sono aspetti particolarmente emblematici del modo in cui il primo Husserl pensa il precategoriale. Ma è forse proprio in questa logica degli oggetti che il tentativo husserliano sembra essere attraversato da quella problematicità che rappresenta un aspetto essenziale del fenomeno del precategoriale, il contrassegno della sua “eccedenza” rispetto al categoriale. Si può infatti dire che se da un lato l’intuizione categoriale, esibendo il necessario radicamento del categoriale nella sensibilità, è una condizione per porre il problema del precategoriale, dall’altro si ha l’impressione che in Husserl l’“anteriorità originaria” del precategoriale rimanga limitata a questa predelineazione delle categorie nella sensibilità. Ciò è del resto riconosciuto dall’Autrice in un passo dell’“Introduzione” che ho già citato, ma che voglio richiamare di nuovo. Vi si dice, per l’appunto, che la «tensione» provocata dal precategoriale non può «essere risolta richiamandosi alla predelineazione del categoriale nel suo fondamento ante-predicativo, sebbene sia questo il ragionevole orizzonte interpretativo nel quale disporre il problema» (corsivo mio). Per questo motivo il libro di Federica Buongiorno suggerisce la necessità di pensare il precategoriale non solo «con» Husserl, ma anche «oltre» Husserl.
A mio avviso, le ultime pagine di questo testo possono essere lette come una ripresa e una radicalizzazione della situazione problematica presentata nell’“Introduzione”, dove il precategoriale è indicato come un fenomeno situato «nello scivoloso discrimine tra originarietà e descrittività» (p. XII). Questa radicalizzazione è operata facendo riferimento alla «paradossalità» fenomenologica del soggetto (come soggetto e come oggetto, come costituente e costituito), che rappresenta secondo l’Autrice «la cifra stessa della fenomenologia». In effetti, lo statuto paradossale del soggetto comporta una difficoltà teoretica analoga alla più volte segnalata “problematica anteriorità” del precategoriale. Ma in che senso si può dire che la domanda sul soggetto costituisce una radicalizzazione della domanda sul precategoriale? Leggendo queste ultime pagine la risposta sembra essere la seguente: la commistione tra «passività» e «attività» oppure tra «intuizione» e «pensiero», fin qui affrontata in stretto rapporto all’intuizione categoriale, viene ora pensata come essenzialmente appartenente alla struttura del soggetto. Da questo punto di vista, a essere ambigua non è innanzitutto la sensibilità, come mostra l’analisi dell’intuizione categoriale, ma la stessa soggettività umana. La questione del precategoriale, dunque, comporta non soltanto un abbandono del presupposto antropologico kantiano (la divisione della capacità conoscitiva in sensibilità e intelletto) ma mette la fenomenologia di fronte alla domanda «come è l’uomo?», domanda che secondo l’Autrice è presente nel pensiero di Husserl, pur restando «difficilmente dipanabile» al suo interno.
Per concludere, questo libro, nel suo lato più strettamente husserliano, mostra in maniera filologicamente dettagliata come il problema del precategoriale conduca all’elaborazione di una logica delle forme sensibili che trova – diversamente che in Kant – negli oggetti stessi il proprio filo guida. D’altro canto, le ultime pagine di questo testo, rivendicando una aspirazione teoretica che va oltre il testo husserliano, indicano nella domanda antropologica «come è l’uomo?» una via più radicale per pensare il precategoriale.
di Fabio Pellizzer
-
Martha C. Nussbaum – Persona oggetto
Recensioni / Marzo 2015Può l’oggettualizzazione essere considerata una parte meravigliosa e inestirpabile della vita sessuale? È questa la spiazzante domanda che Martha Nussbaum si pone in un articolo risalente al 1995, ora disponibile in edizione italiana presso le Edizioni Centro Studi Erickson, dal titolo Persona oggetto. In quell’occasione la filosofa americana si inseriva in un dibattito che trovava quali interlocutrici privilegiate due voci autorevoli e irriverenti del femminismo radicale d’oltreoceano come Andrea Dworking e Catharine MacKinnon. L’oggetto del contendere – mi si perdoni il gioco di parole – consisteva nella ridefinizione di un concetto fondamentale della teoria femminista, per la quale appunto l’oggettualizzazione rappresentava il problema centrale nella vita delle donne – ma anche eventualmente per gli uomini, data la generalità della questione – e contro il quale andava concentrato tutto l’impegno politico. Il testo che qui proponiamo alla lettura tenta di fare chiarezza sul senso del termine oggettualizzazione, non tanto proponendone una definizione chiara ma piuttosto dimostrando la sua ambiguità sia logica che morale attraverso l’esempio fornito da sei estratti di altrettanti romanzi, nei quali sono narrati una serie di comportamenti che oggettualizzano il o la partner sessuale in modi difficilmente giudicabili in maniera univoca. Partendo da Lawrence e Joyce per giungere a Hollinghurst e Henry James, senza dimenticare Playboy e Laurence St. Clair, Nussbaum mostra come la definizione più elementare di tale comportamento, «trattare come un oggetto ciò che in realtà non è un oggetto, ciò che è, di fatto, un essere umano», non renda la complessità di una simile pratica.
Complessità che affiora invece in maniera evidente dalle molteplici e stratificate connessioni logiche che intercorrono tra le sette nozioni fondamentali (Strumentalità, Negazione dell’autonomia, Inerzia/Passività, Fungibilità, Violabilità, Proprietà, Negazione della soggettività) riconosciute quali modalità determinanti nel trattare una persona come una cosa. Spesso infatti, ammonisce l’autrice, usiamo tale termine come un contenitore approssimativo applicando il quale giudichiamo solo uno di questi tratti, benché più frequentemente siano presenti una pluralità di elementi nel suo verificarsi. Dunque per capire che cosa accade e quando si tratta di oggettualizzazione bisogna chiedersi se ciascuna di queste voci sia una condizione sufficiente perché si possa definire un comportamento oggettualizzante. L’analisi che ne segue mette in luce una grande varietà nelle modalità attraverso le quali ci relazioniamo agli oggetti – tra loro molto differenti come una penna a sfera e un quadro di Monet – ma nello specifico mostra che gli elementi che caratterizzano maggiormente il nostro modo di trattare un oggetto sono la considerazione di non autonomia e di strumentalità in quanto moralmente più esigenti. In particolare la non strumentalità risulta determinante nel veder garantita l’umanità altrui kantianamente intesa come fine in sé. Del resto trattiamo i nostri figli piccoli come soggetti non autonomi ma sarebbe riprovevole considerarli come meri strumenti per i nostri scopi. Il rapporto tra autonomia e strumentalità è invece messo in evidenza dalla condizione dei lavoratori e da quella degli schiavi.
Questi ultimi due esempi mostrano inoltre che riducendo a mero strumento un altro essere umano, sembra manifestarsi un’automatica tendenza nel produrre altre forme di oggettualizzazione non implicate logicamente dalla prima a causa di un blocco dell’immaginazione. Come se fosse più difficile rendersi conto dell’umanità altrui. Nonostante ciò anche la strumentalità – ci avverte Nussbaum – non risulta negativa in tutti i contesti ma solo quando l’altro viene trattato principalmente o esclusivamente come strumento. Non parleremo infatti di strumentalizzazione in senso negativo qualora usassi la pancia della mia amante come cuscino, a patto di avere il suo consenso naturalmente, ma anche in questa situazione si tratterebbe ugualmente di strumentalizzazione. Ciò che ne emerge è che per determinare un trattamento di oggettualizzazione nei confronti di qualcuno entrano in gioco valutazioni complesse che non si devono limitare all’individuazione di una sola delle nozioni indicate, ma piuttosto distinguere quali di queste si manifestano e in quale relazione si dispongono, con la consapevolezza che prese di per sé singolarmente e fuori contesto non possiedono un carattere intrinsecamente negativo o positivo.
È a questo punto che Nussbaum mostra il suo legame con la teoria kantiana del desiderio sessuale e del matrimonio. La filosofa americana concorda in parte con Kant rispetto all’idea che il desiderio sessuale sia una forza molto potente che contribuisce alla strumentalizzazione delle persone come se fossero cose, mezzi per la soddisfazione dei propri desideri. Nell’atto sessuale – secondo il filosofo tedesco – entrambi i soggetti smettono di considerare l’altro come autonomo e come dotato di soggettività poiché non si domandano più che cosa l’altra persona sente o pensa, protese come sono ad assicurarsi la propria soddisfazione. Al tempo stesso però il forte interesse reciproco di entrambe le parti per la soddisfazione sessuale le spingerà a permettere a se stesse di farsi trattare come cose, farsi cioè deumanizzare per deumanizzare a loro volta l’altro/a. Tale dinamica non presenta connotazioni di genere o asimmetrie gerarchiche di matrice sociale ma è intrinseca all’atto sessuale stesso. La reciprocità diviene dunque elemento rilevatore della natura intrinsecamente ambigua della relazione sessuale, nella quale strumentalizzazione, inerzia, passività etc., possono avere un ruolo positivo a seconda del contesto. «Il contesto è tutto» se affrontiamo un'analisi di questo genere poiché operiamo su di un terreno in cui la psicologia dei particolari individui coinvolti risulta determinante, così come la natura del loro rapporto e le sue dinamiche interne in relazione alle consuetudini culturali nel quale è immerso. Spesso intimi scambi di battute, atteggiamenti e comportamenti tra amanti, se avulsi dalla situazione in cui si verificano o vengono pronunciati, possono essere fraintesi poiché ciò che viene perduto dalla generalizzazione è proprio quella densità significante data dall’interrelazione tra essa e gli elementi che compongono, stratificandolo, il concetto di oggettualizzazione.
A questo livello opera la critica di Nussbaum nei confronti delle posizioni assunte da Dworking e MacKinnon che, se pur fedeli alla visione kantiana dell’incompatibilità tra rispetto e negazione dell’autonomia, della soggettività e strumentalizzazione, non sono disposte a credere che tali negazioni siano intrinseche alla natura stessa del desiderio sessuale, ma fanno pendere l’ago della bilancia interamente verso la socializzazione dell’erotismo in un contesto ricco di gerarchia e dominazione. Ciò impedisce loro di distinguere i differenti aspetti che costituiscono l’oggettualizzazione e che fanno emergere la complessità del desiderio e della sessualità. Questa semplificazione del campo di indagine si riflette soprattutto a livello politico poiché la soluzione addotta per questo stato di cose consisterà in un progressivo disfacimento di tutte le strutture istituzionali che inducono gli uomini a erotizzare il potere. Se pur in parte d’accordo sulla necessità di una profonda riforma sociale e istituzionale, Nussbaum pare meno incline a considerare le istituzioni soltanto in senso negativo; il punto non sembra tanto essere una questione di disfacimento, quanto piuttosto di modifica e riformulazione attraverso la conoscenza di come gli elementi che costituiscono la pratica dell’oggettualizzazione si connettono, interagiscono ed emergono dal contesto.
L’uso della letteratura assume proprio questo scopo, fungendo all’autrice da laboratorio sperimentale nel quale mettere alla prova la sua proposta e la critica alle sue interlocutrici, analisi questa che lasciamo percorrere al lettore.
di Alberto Giustiniano
-
Take Away #3 – Filosofia pop
Serial / Marzo 2015Fra le abitudini filosofiche più antiche e inveterate, forse la più antica e la meglio documentata è quella di rendere conto di cosa si sta facendo, quando si fa filosofia. Non solo può trovarsene traccia consistente nell'opera di qualunque filosofo, a dispetto delle differenze abissali che fra un'epoca e l'altra mostrano le attività del pensiero che si raccolgono a posteriori sotto il nome di filosofia, ma non sarebbe nemmeno difficile sostenere che proprio a partire da questa caratteristica sia possibile rispondere – con una certa circolarità – alla questione: che cos'è la filosofia.
In questo medesimo tratto ritroviamo la più antica delle virtù filosofiche, e al tempo stesso il peccato originale della filosofia: di volta in volta la si esalta o condanna per la sua pretesa di reggersi da sé, e di giustificarsi con le sue proprie forze, differenziandosi così una volta per tutte da quelle altre discipline che piuttosto devono cercare fuori dai propri confini – nella filosofia, appunto – la propria legittimità.
Nell'ambito di questa rubrica non pretendiamo di affrontare tale annosa questione, che proseguirà probabilmente in eterno accompagnando ogni successivo sviluppo del pensiero filosofico, dal momento che, come Arthur Danto ricorda all'inizio del terzo capitolo del suo best-seller filosofico La trasfigurazione del banale il rapporto simbiotico fra la filosofia e quello che essa prende ad oggetto è tale da far procedere simultaneamente la cognizione che la filosofia ha del suo oggetto e quella che essa ha di se stessa, dimodoché ogni filosofia è anche istantaneamente una metafilosofia.
Non possiamo fare a meno di rimandare a questa peculiare e centralissima circolarità filosofica, tuttavia, per introdurre un tema differente, ben più periferico e “terra terra” rispetto all'ambito più o meno definito del pensiero filosofico ufficiale, vale a dire quello dell'utilizzo “volgare” del termine filosofia.
Succede infatti sempre più spesso di sentir parlare di filosofia fuori dall'ambito della filosofia propriamente detta. Non è raro infatti che, in ogni ambito del discorso pubblico che agglutina e rende indistinguibili informazione e spettacolo, qualcuno enunci la “sua filosofia”. Dal conduttore televisivo la cui filosofia è “riportare i fatti” alla grande azienda la cui filosofia è incentrata sul rispetto dell'ambiente o del consumatore, allo sportivo la cui filosofia è non arrendersi mai e non farsi scoraggiare dalle avversità, l'utilizzo del termine filosofia sembra aver subito una sorta di diaspora: lo si trova ora associato a delle massime di natura etica, ora all'enunciazione di precauzioni metodologiche, ora all'espressione di obiettivi esistenziali, o ancora a “pillole di saggezza” delle quali si rivendica una autenticità che fa il paio con l'efficacia pragmatica.
La tentazione del filosofo professionista, di fronte al proliferare delle filosofie aziendali, delle filosofie di vita e così via, è quella di derubricare tali occorrenze a un uso improprio o scorretto del termine: dopo tutto, anche se in una forma meno netta di quella delle scienze hard, anche i filosofi possono rivendicare un linguaggio tecnico, e nulla vieta di pensare che in filosofia il termine “filosofia” si usi appunto in senso tecnico, vale a dire meno “alla leggera” e in un'accezione differente, più o meno come in fisica il termine “forza” significa qualcosa di molto diverso da ciò che il termine significa nell'uso quotidiano.
Tali osservazioni, benché siano senz'altro corrette, non ci mettono tuttavia al riparo da una ulteriore riflessione. A ben guardare, infatti, ognuna delle accezioni nelle quali oggi si parla di “filosofia” porta con sé un frammento del significato del termine preso nel suo habitat naturale. Nel corso dei secoli infatti la filosofia ha inteso davvero sviluppare un'etica, proporre una disciplina del linguaggio e dell'azione, interpretare la condizione umana e fornire strumenti per affrontare l'esistenza. Se tuttavia possiamo dunque notare una essenziale concordanza nello scopo fra La filosofia, quella che si studia nelle università, e le filosofie di cui ciascuno si fa portatore, dobbiamo anche rilevare un diverso statuto e soprattutto un diverso modo di giustificazione. Se infatti del carattere essenziale della filosofia fa parte, come abbiamo ricordato, quella caratteristica secondo la quale essa deve giustificare secondo la sua propria razionalità sia i suoi scopi che i suoi procedimenti, i succedanei filosofici che si disseminano come un'eco nella semiosfera che ci circonda non hanno alcuna pretesa del genere. Ciò che gli manca, ciò che soprattutto li distingue dalla filosofia propriamente detta, è non solo e non tanto una mancanza di precisione e di consapevolezza storica, una maggiore ingenuità, ma soprattutto il fatto che esse non devono legittimare se stesse razionalmente. La questione delle condizioni di possibilità e dell'origine dei valori e dei principi che propongono non si pone: agli annosi interrogativi filosofici sulla verità e la vita si fa fronte con uno stile che è quantomai antifilosofico.
Che cosa legittima dunque i filosofemi che riempiono l'aria e l'etere, se li si esime dal dovere filosofico essenziale di giustificare se stessi? Cosa rimane di una filosofia dalla quale è stata completamente espunta la critica e il discorso sul fondamento? Benché formulare una risposta definitiva a questa domanda sia ancora azzardato, possiamo tuttavia proporre un'ipotesi plausibile: per occupare oggi, in questo tempo dominato dal mito dell'efficacia e della prestazione, il posto del filosofo, bisogna essere dotati non della capacità di fondare razionalmente il corso della propria azione, ma del sacro segno del successo. È a coloro che si distinguono – non importa se nello sport o negli affari, nella carriera politica o nell'invenzione di un prodotto di successo – che la coscienza contemporanea chiede lumi sul suo posto nel mondo, ponendo sempre le solite domande, le stesse alle quali Kant cercava risposta: “Cosa debbo fare? Cosa mi è lecito sperare?”
In definitiva, se tale ipotesi ha qualche plausibilità, il filosofo di professione ha ben ragione di temere, né può trovare conforto nella sciatteria filosofica dei contenuti proposti sotto il nome variamente declinato di filosofia. Tali contenuti rispondono essenzialmente alle stesse questioni che spettano alla filosofia, né devono prendersi la briga di essere giustificati: a giustificarli basterà la posizione – di potere, fama o successo – dalla quale sono pronunciati.
di Lorenzo Palombini
http://difaul.blogspot.it/