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Im/Paziente. Un’esplorazione femminista del cancro al seno
Recensioni / Novembre 2023"Non voglio che la mia rabbia, il mio dolore e la mia paura per il cancro si fossilizzino in un altro silenzio, né che mi venga tolta tutta la forza che può esserci nel cuore di questa esperienza, se riconosciuta ed esaminata apertamente" (Audre Lorde, The Cancer Journal).
Im/Paziente. Un’esplorazione femminista del cancro al seno non è, semplicemente, la storia di Sigonneau (scomparsa nel 2019) e del suo cancro al seno: la co-autrice, pur essendo prepotentemente presente in queste pagine, si rende un ponte per una decifrazione collettiva della malattia. Come insegna il femminismo, non c’è nulla che non abbia tanto riverberi quanto radici politiche – pur con tutta la fatica che deriva dal farsi carico di una collettività, quando anche lo spazio intimo e individuale si fa così spossante e doloroso.
Le voci di Sigonneau e di El Kotni si intrecciano e si rispondono: la prima, paziente e – dopo la diagnosi – attivista femminista; la seconda, antropologa interessata alla salute delle donne. Insieme tracciano alcune traiettorie chiave nell’analisi del cancro, e del cancro al seno nello specifico: la comunicazione tra il mondo medico e le pazienti; il fenomeno delle violenze oncologiche; le dimensioni di genere coinvolte; il concetto di prevenzione; le dinamiche economiche; le differenze di privilegi e oppressione tra le pazienti e, infine, in quale senso «il cancro è politico». Pare scontato premetterlo, ma è importante specificare che in nessun modo il saggio invita alla sottrazione rispetto alla presa in carico medica del cancro. Si prefigge piuttosto di scoperchiare quali aspetti di questa esperienza possano essere fronteggiati attraverso strategie che migliorino la vita delle donne. Va da sé, inoltre, che le dinamiche di ingiustizia presentate nel saggio non debbano necessariamente riguardare tutte le donne che iniziano, loro malgrado, questo percorso.
Ciò da cui prende le mosse il saggio è la sperimentazione, dolorosa e per lei nuova, della marginalità: Sigonneau, in quanto giovane malata di cancro al seno metastatico, si trova a posizionarsi liminalmente rispetto ai coetanei e rispetto alla maggioranza delle donne malate di cancro. Impara con fatica ad ambientarsi in questa posizione di marginalità. Trova quindi lo spazio per esprimere rabbia rispetto a modalità stantìe di sussumere le esperienze (femminili) di cancro, con lo scopo di mobilitare tutte e tutti verso una migliore alleanza tra società, persona malata, medicina.
Sigonneau denuncia, in primo luogo, una comunicazione medica inadeguata, accompagnata da una pratica a tratti disumanizzante. In alcuni casi i sintomi vengono sottovalutati, e successivamente non sono chiari i passaggi diagnostici, il corpo viene toccato e manipolato in modi inaspettati, il sospetto e poi la diagnosi di cancro vengono annunciati con una certa noncuranza. Tutte queste esperienze, inizialmente parte del suo vissuto individuale, vengono modellate attraverso la raccolta di altre testimonianze, e attraverso gli scambi personali avuti con altre pazienti: diventano pertanto parte di un vissuto collettivo e quindi contestabile dal punto di vista politico e sociale. Registra l’importanza di accompagnare la dimensione della malattia con uno scambio che non sia escludente e traumatizzante per le pazienti. Le modalità in cui si effettuano queste comunicazioni possono apparire irrilevanti di fronte alla “nudità” della diagnosi, che non cambia a seconda dei metodi con cui viene spiegata e condivisa: è urgente invece evidenziare il peso che hanno queste comunicazioni, che possono rappresentare un’ulteriore forma di violenza in un momento di grande fragilità emotiva.
Le autrici propongono il termine “violenza oncologica”, analogamente a quello già diffuso nell’ambito dell’ostetricia. Attraverso questo concetto, analizzano alcuni episodi che possono trovarsi a vivere le persone malate di cancro, concentrandosi in particolare sulle donne e sulla specificità del cancro al seno. La violenza oncologica si manifesta, per esempio, nell’aggressione verbale, nella mancata richiesta di consenso nelle procedure cliniche, nella convinzione che le pazienti non riescano a capire le loro condizioni e i suggerimenti medici, nell’assenza di un supporto psicologico ed emotivo nei vari step, nella colpevolizzazione delle pazienti, negli standard di cura e igienici inadeguati nei contesti ospedalieri. Scrive Sigonneau:
Solitamente, le violenze – fisiche, psicologiche o verbali – si manifestano nei contatti passeggeri: biopsie, ecografie, prelievi… […] Noi pazienti non sappiamo neppure come si chiamano queste persone e quest’anonimato, più o meno consapevolmente, può dare un senso di impunità e favorire o mantenere la violenza (p. 62).
Il vissuto può drasticamente cambiare a seconda del posizionamento della paziente: per esempio, a seconda che abbia una rete (familiare, amicale) di supporto, o che possieda gli strumenti concettuali per interpretare la propria esperienza e la dimensione terapeutica in generale (anche nel caso in cui dovesse subire discriminazioni, forme di violenza, compromissione dei propri diritti in quanto paziente).
Il saggio tratteggia poi le dinamiche di genere insite, in generale, nello spazio terapeutico, per poi approfondire specificamente quelle agglutinate attorno al cancro al seno.
Dal punto di vista generale, le donne possono sperimentare episodi di discriminazione nelle relazioni terapeutiche: da un lato, aspetti della loro vita (specialmente riproduttiva) vengono frequentemente medicalizzati e farmacologizzati. Dall’altro lato, paradossalmente, le richieste di aiuto delle donne possono essere trascurate, fino ad una vera e propria riduzione al silenzio. Per esempio, è ormai nota la tendenza ad ignorare o minimizzare il dolore riportato dalle donne, in particolare dalle donne nere [1]. Ciò si innesta in una dinamica di genere che va ben oltre il campo clinico: il fatto che per le donne sia più difficile farsi ascoltare, essere prese sul serio, ed in generale essere considerate parlanti credibili [2]. Gli scambi terapeutici, inoltre, possono essere sessualizzati, riproducendo un binarismo – eccessivamente – asimmetrico tra l’uomo (l’esperto, l’autorità) e la donna (la paziente di cui esplorare i sintomi).
Per quanto riguarda il cancro al seno, il saggio delinea una serie di rappresentazioni e pressioni pervasive con cui le donne si trovano a fare i conti. «Il cancro», scrive El Kotni, diventa «solo un ambito ulteriore in cui si moltiplicano le ingiunzioni a rientrare nella norma» (p. 92). La prima è la sollecitazione a proseguire una performance adeguata della femminilità: ciò si invera, per esempio, nell’enfasi sull’utilizzo delle parrucche per le donne che perdono i capelli durante la chemioterapia o nelle soluzioni estetiche e cosmetiche più o meno invasive proposte alle pazienti (per esempio, l’uso del make-up, o la ricostruzione del seno post-mastectomia) [3], o che generano un senso di validazione (per esempio, la perdita dei peli o il dimagrimento durante la chemioterapia). Le donne malate di cancro vengono inoltre appiattite sull’ambito sessuale-riproduttivo e seduttivo, con una serie di ingiunzioni che ricordano loro di mantenere una vita sessuale adeguata e un’enfasi sproporzionata, rispetto agli uomini, sulla fertilità. A livello personale si trovano invece a dover rinegoziare questi ambiti della propria vita.
Questa posizione di liminalità permette a Sigonneau di esplorare il contenuto e la struttura della femminilità. «Avere capelli, seni, unghie ma non peli; è questo essere una donna?» (p. 96). Comincia quindi a sviluppare un approccio più contestatorio rispetto agli imperativi che subisce in quanto donna: per lei (e quindi, non necessariamente per tutte) la spinta ad aggrapparsi alla propria “femminilità” non è che un tentativo di mascheramento della malattia. Sigonneau verifica, addirittura, una dimensione positiva di questa “sospensione” della sua femminilità: il suo corpo nello spazio pubblico, finalmente, non è più “marcato”, ma quasi invisibile. Vivere in questo luogo ai margini del genere, tuttavia, dà anche una sensazione di spaesamento.
Questa forma di marginalità è però solo una delle tante sperimentate dalle donne col cancro al seno. Il saggio restituisce difatti un prisma sfaccettato e intersezionale. Naturalmente, alcuni aspetti vengono soltanto esacerbati dall’esperienza di malattia. Queste direttive si increspano e si scontrano con tutte le altre, tanto che analizzarle disgiuntamente non è che un artificio retorico, volto più che altro ad una maggiore chiarezza concettuale.
In primo luogo, si discute della precarietà economica. Il cancro può incrementare le spese, che possono includere gli spostamenti verso i centri oncologici, i dispositivi tecnologici e cosmetici che possono allievarne i sintomi, l’eventuale supporto psicologico. Il tempo e le energie spese nelle terapie e i loro effetti debilitanti (dal punto di vista fisico e psicologico) rendono poi difficile la ripresa regolare del lavoro, già particolarmente precario per le donne. Molte di queste energie sono focalizzate inoltre nelle questioni burocratiche, attorno alle quali Sigonneau denuncia una mancanza totale di supporto da parte dell’assistenza sociale.
Il cancro, quindi, non ha un costo elevato soltanto dal punto di vista economico (oltre a quello, naturalmente, della salute in senso stretto), ma riguarda anche più specificamente il tempo. Sigonneau insiste sulla difficoltà ad accettare che il proprio tempo, prezioso, in molti casi poco, si disperda tra moduli, telefonate, richieste di informazioni, lunghe attese ospedaliere.
La faticosa gestione del proprio tempo e delle proprie energie collide anche con numerosi imperativi di genere. Questa dimensione emerge in realtà sin dall’inizio, ancor prima della malattia conclamata. Il ritardo diagnostico può dipendere anche dal carico di lavoro, spesso invisibile, di cura: le donne si occupano della famiglia, della comunità, dello spazio domestico. La mancanza di tempo può spingere a minimizzare i sintomi e ad accantonare il dolore. Durante le terapie, la spossatezza e la sofferenza fisica e psicologica hanno poi un impatto profondo sulle donne, che faticano a mantenere una costanza nel lavoro domestico e genericamente di cura, oppure nell’attività sessuale. La difficoltà a mantenere questi standard non scritti può risolversi in uno sfaldamento delle relazioni di coppia, per esempio, oppure può generare un senso di colpa o inadeguatezza nelle donne. La loro richiesta di tempo e cura, inoltre, può destabilizzare il terreno familiare con – a volte – esiti produttivi: «il cancro può essere un’esperienza in cui le donne tornano a concentrarsi su se stesse e osano, magari per la prima volta nella vita, rendersi indisponibili al lavoro e alla cura dei cari» (p. 227). [4]
Dentro e fuori dagli imperativi di genere, il saggio insiste sull’urgenza di riappropriarsi del proprio tempo, scegliendo come usarlo, specialmente quando si è malate. Invita ad essere, in questo senso, profondamente impazienti: di quell’irrequietezza che ci spoglia del superfluo, del dovere imposto, e ci avvinghia alla vita. «Una volta che ci disfiamo di ciò che non ci corrisponde», scrive Sigonneau, «la vita diventa più semplice» (p. 127).
Le autrici, infine, affrontano il tema della prevenzione, da diverse prospettive. Si concentrano per esempio sulla promozione di prodotti e pratiche legata alla raccolta di fondi per la lotta al cancro al seno. Senza mai delegittimare l’utilità di queste pratiche – per esempio, la piacevolezza di essere toccate durante un trattamento di skincare, specialmente se non si sperimenta frequentemente un tocco gentile nello spazio terapeutico –, le autrici nondimeno presentano le ambivalenze di queste campagne di marketing. Di esse non sono sempre chiari gli effetti sulla ricerca, hanno un costo molto alto per le pazienti e enfatizzano, solo nel caso delle donne, una cura specificamente estetica nell’esperienza di malattia. [5]
Ho trovato però particolarmente acuto il taglio fortemente politico con cui si affronta il tema della prevenzione nell’ultimo capitolo. Che cosa può significare prevenire il cancro? Il saggio devia infatti l’attenzione che viene solitamente posta sulla prevenzione individuale – certamente legittima –, aggiungendo un tassello fondamentale: la trattazione del cancro come questione sociale e ambientale e quindi, in definitiva, politica.
Da questo punto di vista le autrici si allineano quindi con la riflessione sulla cosiddetta ingiustizia climatica, che sottolinea come gli effetti della crisi climatica colpiscano in modo sproporzionato seguendo gli assi del genere, della razza, della classe e della disabilità. Le minoranze sono difatti impattate in maniera maggiore dall’inquinamento e dai suoi effetti: anche quelli sulla salute individuale. Le soggettività ai margini subiscono quindi un’esposizione sproporzionata, per esempio, alla tossicità (del traffico stradale, dei rifiuti, delle industrie). Questi processi hanno quindi esiti disabilitanti: la crisi climatica prodotta dal sistema capitalista può esacerbare o produrre malattie o disabilità. È necessario pertanto ricordare quanto, nell’emersione di una condizione multi-fattoriale com’è il cancro, debbano essere considerati i contesti in cui sono posizionate le persone che si ammalano: la loro condizione economica, lo stile di vita che conducono (o che possono permettersi), e i fattori di inquinamento ambientale. Il cancro al seno diventa pertanto per Sigonneau, non senza fatica, territorio di lotta femminista, per cui le scelte individuali sono da vagliare congiuntamente alle cause sistemiche. [6]
Chiudo questa recensione con un’ammissione: mi sono ritrovata a percepire, in prima battuta leggendo e successivamente scrivendo, una certa resistenza. In quanto donna di trent’anni, quindi coetanea di Sigonneau, ho sperimentato in prima persona ciò che, tra i numerosi temi, viene veicolato nel saggio: la tendenza sociale e culturale a sottrarsi dalla narrazione dell’esperienza del cancro (in questo caso, al seno) [7]. El Kotni e Sigonneau riescono, prima di tutto, in questa funzione: vincere la forma di respingimento che vorremmo attuare di fronte alla sofferenza e all’ingiustizia della violenza oncologica, convincendoci che, anche nel caso in cui non sperimenteremo mai questa esperienza, anche questo può essere il nostro ruolo. Leggere, guardare, ascoltare, per poter «elaborare», insieme, «un discorso pubblico maturo sul cancro, sulla morte e sulle violenze mediche» (Prefazione, p. 16). Esplorare i fenomeni attraverso una lente femminista significa proprio questo: muoversi anche negli interstizi più in ombra, rintracciando la prevaricazione e le distorsioni sociali, e proponendo delle traiettorie più sostenibili per tutte e tutti [8].
Chiara Montalti
[1] Cfr. Joe Fassler, How Doctors Take Women’s Pain Less Seriously, https://www.theatlantic.com/health/archive/2015/10/emergency-room-wait-times-sexism/410515/; Kelly M. Hoffman et al., Racial bias in pain assessment and treatment recommendations, and false beliefs about biological differences between blacks and whites, Proceedings of the National Academy of Sciences, 113(2016)16: 4296-301; Leslie Jamison, Grand Unified Theory of Pain in The Empathy Exam, Graywolf, 2014.
[2] Cfr. Miranda Fricker, Epistemic Injustice. Power and the Ethics of Knowing, Oxford University Press, 2007.
[3] Cfr. Audre Lorde, The Cancer Journal, Penguin, 2020.
[4] Su questo punto cfr. anche Charmaz, The Self as Habit: The Reconstruction of Self in Chronic Illness, “Occupational Therapy Journal of Research”, 22(2002)1, 31S-41S.
[5] Cfr. Philippa Hetherington, More than Pink, 2023, https://aeon.co/essays/how-breast-cancer-rips-up-conventional-markers-of-gender, e il documentario di Samantha King Pink Ribbons Inc, 2006.
[6] Basti pensare al caso italiano dell’Ilva di Taranto, o alla cosiddetta Cancer Alley in Louisiana.
[7] Cfr. Susan Sontag, Malattia come metafora e L’Aids e le sue metafore, Nottetempo, 2020 e Audre Lorde, La trasformazione del silenzio in linguaggio e azione, in Sorella outsider. Scritti politici, Meltemi, 2022.
[8] Ringrazio M. P., che mi ha accordato la sua fiducia permettendomi di includere un suo ritratto in questa recensione, in virtù dell’affinità col tema trattato. Ringrazio inoltre la fotografa, Sharon Donati, che ascolta sempre con attenzione i corpi che parlano.
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“Comme toute époque d’expérimentation et d’innovation, la période actuelle de réflexion sur le langage a été marquée par des luttes serrées et des controverses tumultueuses” (Jakobson 1973, t. 2 pp. 10-11)
La citazione che abbiamo scelto di porre in esergo a questa recensione proviene da un saggio scritto da Jakobson nel 1970 (poi edito nel secondo volume di Essais de linguistique générale). Benché le lotte a cui lui faceva riferimento fossero diverse da quelle trattate nel recente lavoro della linguista Julie Abbou, le sue parole ci paiono pertinenti per presentare Tenir sa langue che tratta per l’appunto di controversie socio-linguistiche. Questo studio nasce infatti alla convergenza di due fenomeni: da una parte prende posizione rispetto alle polemiche istituzionali e a mezzo stampa sulla cosiddetta écriture inclusive sviluppatesi nel corso degli ultimi dieci anni in Francia (e non solo); d’altra parte, si situa in quel campo di studi su lingua, discorso e genere che aggiorna e sviluppa lavori pionieristici emersi già negli anni Ottanta-Novanta sul genere come fenomeno allo stesso tempo sociale e linguistico-discorsivo per opera di autrici con approcci talora anche molto divergenti tra loro come Luce Irigaray, Anne-Marie Houdebine-Gravaud, Claire Michard, Patrizia Violi, Marina Yaguello espressesi in monografie o in riviste tra cui vale la pena citare Questions Féministes e Nouvelles Questions Féministes che nel tempo ha edito almeno tre diversi dossier tematici: “Langage et oppression des femmes” (1998), “Langue et Sexisme” (1999), “Parité linguistique” (2007).
Ultimamente, l’emergere di una linguistica che, intersecando l’ottica anti-naturalista del materialismo storico o degli studi queer, interroga le radici ideologiche della semantica e osserva la nominazione di soggetti e fenomeni sociali come atto situato e non neutro ha favorito l’analisi delle forme di espressione verbale di sessismo e di altre discriminazioni connesse. Tenir sa langue è dunque un saggio femminista sulla vita sociale dei segni verbali che delinea un orizzonte ampio, nello spazio e nel tempo, di riflessioni sull’agentività linguistica dei soggetti. Scritto con una disinvoltura non accademica che consente incursioni in territori vari (letteratura, filosofia, cinema) senza cedere sul piano del rigore, il saggio ha per titolo un’amphibologie che fa collidere l’una contro l’altra le due interpretazioni possibili della stessa locuzione. Tenir sa langue può infatti indicare lo stare in silenzio, il mantenere un segreto, ma anche il trattenersi dal dire qualcosa che potrebbe risultare scomodo, un po’ come tenir sa place rinvia allo stare al proprio posto senza sconfinare in lidi imprevisti. Abbou si serve dell’espressione in modo antifrastico scegliendo del verbo tenir non tanto il rinvio alla stasi o al rispetto di un vincolo quanto piuttosto l’idea di resistenza (come nell’espressione tenir debout), di autonomia («tenir sa langue bien en main», p. 79) e di presa di potere su qualcosa, all’occorrenza, sulla lingua che parliamo:
Tenir sa langue, ce n’est pas se taire. Tenir sa langue, ce n’est pas non plus la garder intacte. Tenir sa langue c’est rester accroché·e quand le travail des catégories fait ruer le langage. Tenir sa langue, c’est tenir le choc du vacarme. C’est tenir debout quand les catégories vacillent. Tenir sa langue, c’est aussi tenir bon quand les conservateur·trices tonitruent devant l’irrégularité, quand l’institution se met à gronder et nous rappelle à l’ordre (p. 152).
La legittimità a prendere la parola è una questione con cui i femminismi nelle loro diverse declinazioni e inclinazioni si sono confrontati a più riprese al fine di espandere i margini di esistenza e di azione sulla lingua e sul mondo di quello che Beauvoir chiamò il “secondo sesso” e che oggi può indicare non solo le donne ma tutti quei soggetti che sono politici perché dissidenti rispetto a un ordine sociale e simbolico iniquo radicato nella confisca dell’universale da parte del genere maschile. Il nodo fondamentale e trasversale a più lingue da cui parte la riflessione di Abbou sta infatti nel progressivo consolidamento del maschile come metonimia dell’umano, fenomeno a cui oggi le nostre orecchie sono sempre più sensibili e che si tende, almeno in taluni contesti, a evitare quando si parla di collettività miste o quando il genere non è pertinente, con strategie di neutralizzazione della marcatura di genere (l’umanità invece che l’uomo) o di sdoppiamento (buongiorno a tutte e a tutti invece che buongiorno a tutti). Nella prima parte del testo, dedicata ai rapporti tra lingua e genere, Abbou riprende le analisi di Claire Michard sulla fondamentale dissimmetria che, nelle lingue a due generi, coinvolge il femminile e la sua messa in opera nel discorso dove diversi esempi illustri (in primis Levi-Strauss) mostrano come al genere marcato sia consentito unicamente di significare il sesso e non l’umano.
Nella seconda parte e nella terza, intitolate rispettivamente Pratiques féministes du langage e Écrire féministe, si mostra come nel corso del tempo si sia tentato di porre rimedio a tale dissimmetria attraverso pratiche volte a demaschilizzare la lingua e a renderla più equa. L’attivismo ha così proposto soluzioni per rendere visibile il femminile o rovesciarne la connotazione subalterna: l’arcigrafema (éluEs, étudiantEs…), tutte le strategie per includere i due generi in una stessa forma tramite punti, barre o trattini (agriculteur·trices, élu·es, savant/es) o indifferenziare pronomi e aggettivi attraverso diverse crasi (iel, celleux, ceuses…). Altre proposte si sono concentrate su un reale démarquage fondato su una simbolica non sessuale, non binaria e dunque radicalmente altra: Abbou cita le riflessioni sul sistema pronominale di Monique Wittig, che nel romanzo L’Opoponax sprimentò l’uso della terza persona senza genere on, nonché la critica delle opposizioni classificatrici binarie della filosofa cinese He-Yin Zhen. A ciò si potrebbero aggiungere le ipotesi della filosofa e scrittrice svizzera Michèle Causse il cui alphalecte è all’origine della grammatica neutra di Alpheraz che Abbou non cita ma che potrebbero essere ricondotte a quella che lei chiama “politique du cailloux dans la chaussure” difendendo con Elsa Dorlin più il tumulte che l’ordre, più la perturbation e la prolifération che l’hygiène o la pureté delle politiche linguistiche e della standardizzazione.
Il saggio spiega infatti che la posta in gioco del “langage comme lieu de lutte féministe” non è semplicemente la femminilizzazione dei nomi di professione cara alle commissioni governative come quella istituita da Yvette Roudy nel 1984, atto comunque non trascurabile se consideriamo le resistenze opposte nel tempo a sostanziare verbalmente la presenza delle donne in posizioni apicali e di potere. La questione che un approccio femminista materialista permette di sollevare è piuttosto il ruolo del genere nell’organizzazione semiotica: se, quando e come il genere è un’informazione pertinente. Conviene qui cogliere l’occasione per mettere in luce un’ambivalenza di fondo del femminismo contenuta nella radice stessa della parola e all’origine di due tendenze diverse e contrapposte che ingenerano quella confusione ben sintetizzata da Monique Wittig in un saggio fondamentale del 1980 intitolato On ne naît pas femme:
Que veut dire «féministe»? Féministe est formé avec le mot «femme» et veut dire «quelqu'un qui lutte pour les femmes». Pour beaucoup d'entre nous, cela veut dire «quelqu'un qui lutte pour les femmes en tant que classe et pour la disparition de cette classe». Pour de nombreuses autres, cela veut dire «quelqu'un qui lutte pour la femme et pour sa défense» pour le mythe, donc, et son renforcement.
Pourquoi a-t-on choisi le mot «féministe», s'il recèle la moindre ambigüité? Nous avons choisi de nous appeler «féministes», il y a dix ans, non pas pour défendre le mythe de la femme ou le renforcer ni pour nous identifier avec la définition que l'oppresseur fait de nous, mais pour affirmer que notre mouvement a une histoire et pour souligner le lien politique avec le premier mouvement féministe.
Wittig sottolinea che il femminismo è una lotta di classe volta dunque alla sparizione di tale classe e non già alla sua feticizzazione. Le pratiche linguistiche con cui la stessa teorica e scrittrice ha agito nei suoi romanzi si fondano su una filosofia del linguaggio, della soggettività e dei rapporti di potere risalente a Bachtin e a Volosinov, secondo cui la lotta di classe è anche una lotta per il senso delle parole e delle categorie. Di conseguenza anche la lotta di sesso è una lotta di senso per combattere la quale è necessario ripensare la visione della “natura” (ovvero della cultura e dei rapporti sociali) iscritta nel genere stesso come tecnologia sociale e semiotica. Abbou cita Volosinov per convocare il concetto di dialogismo ma è nel solco della sua visione dei rapporti tra linguaggio e potere che si è sviluppato anche il pensiero linguistico delle femministe materialiste. Guillaumin, Wittig o Michard hanno mostrato come le lingue a due generi classifichino gli esseri umani tendenzialmente in base alla forma del loro sesso in virtù di una concezione riproduttiva e normativa dell’anatomia umana che offre un supporto “naturale” alla discriminazione trasformando la cultura in natura. Ne consegue che la divisione è già gerarchia poiché, come nota Abbou citando Christine Delphy, non si dividono mai due entità uguali e «classer, c’est dominer» (p. 35). Inoltre, l’essenzialismo gerarchico che discende da tale categorizzazione presenta analogie con l’ideologia razzista: ragione per cui lo sguardo intersezionale di Abbou pone in luce il quadrante sesso-sessualità-classa-razza e dunque quello che chiama l’“attelage genre-langue-nation”.
Irrompere nel discorso e nella lingua stessa scompaginando l’ordine costituito significa pertanto ripensare il mondo e le strutture inique che lo reggono, nel tentativo di immaginare e dare forma a modi diversi di fare senso e relazione con tutta la spinta creativa che ciò comporta e che spesso viene mortificata dai richiami all’ordine verso cui Abbou esprime creativamente la sua rabbia:
Pour faire irruption dans la grammaire [il faut] certainement autant de joie que de rage, mais aussi une compréhension du langage bien particulière. Une amitié profonde pour la langue, une confiance en elle et en sa capacité transformatrice. Il faut quitter de manière définitive cette vision d’une langue qui ne serait qu’un film transparent à déployer sur le monde pour l’étiqueter comme un morceau de viande au congélateur. Il faut l’intime conviction que la langue n’est pas du cellophane, et que la réalité n’est pas un morceau de viande. Mais que la langue est une proposition de monde. Prendre la parole c’est toujours proposer un monde (p. 10)
Nella quarta e ultima parte del libro, però, Abbou riflette sulla confisca di pratiche linguistiche dissidenti e sullo svuotamento della loro potenza politica trasformatrice. In un primo momento si concentra sul concetto di “inclusione” e lo rimette in causa (chi ha il potere di includere chi? A quale scopo?). La sua ricostruzione della genesi dell’écriture inclusive rivela come l’espressione circoli in diversi ambiti linguistico-discorsivi e spazio-temporali. Alla fine degli anni Settanta è la teologia progressista statunitense a impiegare l’unità lessicale inclusive language per riferirsi alla necessità di rendere i vangeli meno androcentrici e più accoglienti nei confronti di donne e minoranze. Il cattolicesimo, al contrario, resiste con tutta una serie di politiche, anche linguistiche, ostili alla revisione dei rapporti gerarchici tra i generi e le sessualità. Negli anni di Papa Ratzinger, tale resistenza si legittima mediante una retorica della valorizzazione della “differenza femminile”, come dimostrano i lavori di Garbagnoli e Prearo citati da Abbou sul discorso vaticano in materia di “teoria-del-genere”. Nel campo politico francese, la nozione di inclusion appare innanzitutto in relazione all’handicap e alle politiche educative per poi giungere al genere sostituendo progressivamente lemmi più connotati come antiracisme, lutte contre l’oppression/l’exclusion. Inclusion viene dunque a connettersi con égalité des chances e promotion de la diversité, meglio percepiti nella congiuntura attuale che smorza il conflitto e l’esplicitazione delle sue ragioni: «les débats autour de l’écriture inclusive reflètent […] un moment paradoxal libéral-républicain, qui voit tout à la fois un raidissement du républicainisme et une libéralisation des questions de genre, expliquant la polémique tout comme la soudaine et très grande acceptation de ces pratiques» (p. 195).
L’esempio con cui si conclude la disamina è quello delle campagne pubblicitarie dell’Organisation internationale de la francophonie il cui “humanitarisme néolibéral” utilizza il ruolo sociale delle donne nei diversi paesi dell’OIF come strumento di valutazione e ingerenza della Francia nelle politiche interne dei paesi membri in nome di valori “repubblicani”. Abbou sottolinea tuttavia che République sta diventando quella che Krieg-Planque chiama una formule ovvero «une expression que tout le monde utilise alors qu’aucun consensus n’existe sur ce qu’elle nomme, car c’est innommable» (p. 206) con la conseguenza che «Il faudrait inclure les femmes au nom de la République, mais s’assurer que l’écriture inclusive ne soit pas trop excluante, il faudrait porter une vision libérale du genre au nom du progressisme mais ne pas céder au particularisme identitaire» (p. 206). Di fronte a un momento ideologico paradossale in cui la scrittura inclusiva è tanto avversata quanto capitalizzata in nome degli stessi valori qualificati come “repubblicani”, Abbou conclude auspicando che la critica femminista aggiri la nozione di inclusione tanto quanto quella di scrittura inclusiva preferendole l’emancipazione e l’“illeggibilità” del genere:
Face à un conservatisme républicain hostile à la modification de l’ordre de la langue comme de l’ordre du monde, et face à une libéralisation du genre qui investit les signes linguistiques du féminisme pour les vider de leur force émancipatrice, reste alors au féminisme, comme souvent, à défaire la vérité du genre et à en revenir à la perturbation, au désordre, au tumulte et à l’excentrique pour produire de l’illisible comme pratique politique de la grammaire (p. 212).
Silvia Nugara
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Filosofe di età moderna tra corpo e mente
Recensioni / Aprile 2023Nei libri di storia della filosofia è raro incontrare donne, con qualche sporadica eccezione confinata al Novecento (Hannah Arendt è forse l’esempio più emblematico); ciò non significa che non siano esistite filosofe nel corso della storia, ma piuttosto che esse non hanno trovato spazio nel canone storico-filosofico occidentale. Il pregiudizio secondo cui la filosofia non sarebbe fatta né per le donne né dalle donne trova un’efficace smentita nel volume Corpo Mente. Il dualismo e le filosofe di età moderna (enciclopediadelledonne.it 2022), che attraverso un’interessante rassegna di autrici e testi ha il merito di mettere in luce il contributo delle donne alla storia della filosofia in un periodo in cui tradizionalmente trovano spazio soltanto filosofi. Le quasi quattrocento pagine di quest’antologia, arricchita da puntuali presentazioni delle autrici e delle opere considerate, rappresentano un tassello importante di quel «lavoro di riscrittura della storia della filosofia sulla base di un canone più inclusivo rispetto a quello che ha prodotto le narrazioni tradizionali» (p. 11), iniziato alcuni decenni fa.
La scelta dei curatori è ricaduta su quattordici autrici vissute nel periodo compreso tra il XV e il XVIII secolo, di diversa provenienza, oltre che su un autore – François Poullain de la Barre – degno di attenzione in qualità di singolare precursore del femminismo. Molte di queste scrittrici sono oggi sostanzialmente dimenticate; eppure, i testi qui selezionati testimoniano una consapevole partecipazione ai dibattiti filosofici del tempo. Se la consueta esclusione delle donne dal canone storico-filosofico affonda senz’altro le sue radici in una questione culturale, per cui «alle donne per molti secoli è stato precluso l’accesso all’ampio strumentario di cui disponevano gli uomini, che avrebbe consentito loro di coltivare e affinare le doti intellettuali» (p. 13), tale innegabile svantaggio di partenza non ha impedito ad alcune di loro di sviluppare un proprio pensiero filosofico e di confrontarsi con i filosofi più autorevoli, come dimostrano le loro prese di posizione sul rapporto mente-corpo, cruciale nella filosofia di età moderna.
La prima parte del volume (Da Christine de Pizan a Camilla Erculiani), a cura di Sandra Plastina, si apre con Christine de Pizan, pioniera della scrittura femminile come professione, dell’irrompere del soggetto sulla scena letteraria e del protofemminismo francese. Nata a Venezia intorno al 1365 e trapiantata ben presto in Francia (dove il padre, medico e astrologo, era al servizio del re Carlo V), Christine de Pizan ha consacrato buona parte della sua ampia produzione letteraria, in prosa e in versi, alla questione dell’educazione femminile, interrogandosi anche sulle ragioni dell’esclusione delle donne dal campo della letteratura. Celebre per aver preso fermamente posizione nell’acceso dibattito sul Roman de la Rose, sfociato nella querelle des femmes che avrebbe continuato a infiammare gli animi per secoli, tra il 1404 e il 1405 scrisse il Livre de la cité des dames, incentrato sulla convinzione che nessun ambito dell’attività umana è per natura precluso alle donne.
L’opera è degna di attenzione per molte ragioni; in particolare, merita di essere sottolineato – sulla scia della curatrice – l’abbandono dell’espressione di ascendenza scolastica «nature de femme» a favore di «conditions de femme somme toute» («somma totale delle condizioni femminili», p. 26), che riconduce l’identità femminile all’esperienza e alla storia, lungi da ogni essenzialismo. Aiutata da Dama Ragione, la protagonista della Cité des dames prende coscienza dell’infondatezza dei giudizi di biasimo nei confronti delle donne che gli uomini disseminano copiosamente nei loro libri. Tali giudizi sono definiti contro ragione e contro natura; inoltre, Christine de Pizan non esita a fare appello alle Sacre Scritture per sostenere l’uguaglianza tra uomo e donna: «Dio fece addormentare Adamo e creò il corpo della donna da una delle sue costole, nel senso che gli doveva essere al fianco come compagna e non ai suoi piedi, come una serva, e che egli la doveva amare come la sua stessa carne» (p. 40).
I rapporti sociali generalmente conflittuali tra uomini e donne, con le loro inevitabili implicazioni sulla ricerca della propria identità da parte di queste ultime, sono centrali nell’opera dell’autrice patavina Giulia Bigolina (c. 1518 – c. 1569). Scritto intorno al 1556-1558, in prosa, Urania, nella quale si contiene l’amore d’una giovine di tal nome è «il primo romanzo scritto da una donna nella storia della letteratura italiana» (p. 45), ma è rimasto inedito fino ad anni recenti: una prima edizione, presto seguita da due traduzioni inglesi, è stata curata da Valeria Finucci nel 2002. Ben inserita nell’ambiente culturale del tempo, Giulia Bigolina mostra nel suo romanzo una notevole profondità psicologica e filosofica, nonché un’indubbia familiarità con la filosofia neoplatonica. Al di là dell’attenzione al tema amoroso, strettamente intrecciato a quello della bellezza dell’anima e del corpo, ampio spazio trova la riflessione sul posto delle donne nella cultura italiana rinascimentale, sulla necessità della loro educazione e sulle molte difficoltà che incontrano quando decidono di consacrarsi alla scrittura.
Un più spiccato interesse per questioni squisitamente filosofiche – e per il rapporto tra mente e corpo – si manifesta nell’opera di Luisa Oliva Sabuco de Nantes Barrera (1562 – c. 1622), autrice della Nueva filosofia della naturaleza de l’hombre (1587) in sette trattati. Mettendo abilmente a frutto gli studi di medicina, botanica e scienze naturali svolti con il padre, Sabuco ha elaborato una riflessione originale dal punto di vista sia della filosofia naturale sia della storia della medicina, senza esitare a prendere apertamente le distanze dal galenismo e dalla medicina a lei contemporanea, di cui critica l’inefficacia. Ai suoi occhi, l’essere umano è un’unica entità psico-fisica e l’alterazione della relazione armoniosa tra il corpo e la psiche – spesso frutto delle passioni – è causa della malattia, della follia e, nei casi più estremi, della morte. L’interpretazione della malattia in chiave psicosomatica – così come la proposta di servirsi della musica come terapia – sono particolarmente innovative. D’altronde l’autrice, nella lettera dedicatoria a Filippo II, non esitò a rivendicare con orgoglio il valore della propria opera, presentandola come necessaria perché «migliora il mondo in molti modi» (p. 98).
Lungi dall’assumere così apertamente la propria autorialità, molte scrittrici nel corso dei secoli hanno cercato di tenersi al riparo dall’esposizione pubblica ricorrendo all’anonimato o a uno pseudonimo. È questo il caso di Modesta Pozzo, vissuta a Venezia tra il 1555 e il 1592 e nota come Moderata Fonte, «una spiritosa trascrizione letteraria, nonché versione eufonica, del vero nome dell’autrice, che faceva pensare a un “modesto pozzo”» (p. 119). Autrice di diverse opere e ben inserita negli ambienti culturali veneziani, Moderata Fonte è oggi ricordata soprattutto per il dialogo Il merito delle donne, pubblicato postumo nel 1600, nel contesto della polemica suscitata dall’opera di Giuseppe Passi I donneschi diffetti. Nel dialogo, prima presa di posizione sulla questione femminile da parte di una donna nell’Italia di fine Cinquecento, l’autrice si avvale di argomentazioni paradossali per confutare la tesi della maggior eccellenza dell’uomo, insistendo sul ruolo fondamentale dell’educazione ai fini dell’emancipazione femminile.
Già da questi primi esempi emergono con forza alcune costanti: la difficoltà per le donne di prendere pubblicamente la parola, l’inadeguatezza della loro educazione, il tentativo di rivendicare la propria parità (talvolta anche la propria superiorità) rispetto agli uomini. Sulla sponda orientale dell’Adriatico, precisamente a Ragusa (odierna Dubrovnik) a farsene portavoce è Marija Ivan Gundulić, o Maria Ivan Gondola. Nella sua sola opera superstite, la lettera di dedica ai Discorsi (1584) scritti dal marito Nicolò Vito di Gozze, ella prese le difese della poetessa Cvijeta Zuzorić e, più in generale, delle donne e delle loro capacità intellettuali, attraverso un curioso rovesciamento del paradigma aristotelico. A suo avviso, infatti, proprio per la mollezza del loro temperamento (a cui solitamente si attribuiva la loro subalternità intellettuale), le donne avrebbero una maggior predisposizione a occuparsi di questioni filosofiche e scientifiche.
La stessa fiducia nelle doti intellettuali femminili si ritrova in Camilla Gregetta Erculiani, «l’unica donna italiana nel XVI secolo a pubblicare un libro di filosofia naturale» (p. 165). Questa speziale padovana, nelle Lettere di Philosophia naturale (1584), dichiarava espressamente di voler «far conoscere al mondo, che noi siamo atte a tutte le scientie, come gli huomini» (p. 166). Lei stessa scrisse di filosofia naturale in volgare, elaborando un’originale teoria sul diluvio universale (attribuito a cause naturali) e ipotizzando la possibilità della generazione spontanea degli uomini in seguito a catastrofi naturali. Sospettata di eresia e interrogata dall’Inquisizione, si difese sostenendo la piena legittimità della sua riflessione, che non riguardava il piano teologico, bensì si limitava a quello puramente filosofico.
L’attiva partecipazione delle donne al dibattito filosofico del loro tempo, anche attraverso il dialogo epistolare con i suoi principali esponenti, emerge ancora più nettamente nella seconda parte del volume (Da Lucrezia Marinella a Catharine Cockburn), a cura di Emilio Maria de Tommaso. In particolare, si rivela cruciale il sostegno di familiari di sesso maschile (si tratti del padre, di un fratello o del marito) per colmare lo svantaggio educativo legato alla condizione femminile e avere l’opportunità di assecondare le proprie aspirazioni. Proprio grazie a un ambiente familiare intellettualmente vivace, Lucrezia Marinella (1571 – 1653) poté dedicarsi alla scrittura e farsi apprezzare nella Venezia del tempo. Ella fu tra coloro che reagirono ai Donneschi diffetti di Passi, dimostrando, nel suo saggio Le nobiltà et eccellenze delle donne (1600), l’erroneità delle conclusioni dell’avversario fino a sostenere la superiorità ontologica, fisiologica e morale della donna, in cui ravvisa l’immagine più nobile della divinità. A tal fine riprende – come già Christine de Pizan – il racconto della Genesi, sulla base del quale «suggerisce che l’uomo sia funzionale alla generazione del corpo femminile, nella misura in cui fornisce la degna materia della produzione della donna» (p. 189).
Marie Le Jars de Gournay (1565 – 1645), nota per il suo stretto legame con Michel de Montaigne, che la considerava la propria figlia spirituale, riprese nei suoi scritti Egalité des hommes et des femmes e Grief des dames le tematiche tipiche della querelle des femmes, esprimendo la convinzione che la disuguaglianza tra uomini e donne non sia biologica ma culturale; «la sua idea filosoficamente più forte, che opera in filigrana negli scritti egualitari, è la neutralità della mente, ossia la sua mancanza di connotazione di genere» (p. 211). L’idea che la mente non abbia sesso è centrale anche nella riflessione di François Poullain (o Poulain) de la Barre (1647 – 1723), filosofo di impostazione cartesiana che in ben tre opere (De l’éducation des dames, De l’égalité des deux sexes, De l’excellence des hommes) denunciò con fermezza l’assurdità dei diffusi pregiudizi nei confronti delle donne. Proprio una donna, Elisabetta di Boemia, discusse alcuni degli aspetti più controversi della filosofia cartesiana – in particolare l’annosa questione dell’interazione tra anima e corpo – in un avvincente carteggio con il suo autore, inducendolo a precisare meglio la propria posizione nel saggio Le passioni dell’anima.
In ambito anglosassone, Anne Finch Conway (1631 – 1679) fu aiutata a coltivare le proprie ambizioni intellettuali prima dal fratello, poi dal marito. Fu allieva – inizialmente per via epistolare – di Henry More, esponente di spicco del platonismo di Cambridge, da cui prese tuttavia le distanze in merito al rapporto tra corpo e spirito. Fautrice di una tripartizione ontologica (Dio, Cristo, le creature, distinti perché diversamente esposti al cambiamento), elabora una nozione di corpo piuttosto originale, sia rispetto al maestro sia rispetto all’ontologia cartesiana, di cui rifiuta il dualismo. Il medico Franciscus Mercurius von Helmont, che la introdusse al cabalismo e al quaccherismo, alla sua morte fece stampare i Principia philosophiae antiquissimae et recentissimae de Deo, Christo et Creatura id est de materia et spiritu in genere (1690), redatti sulla base di un taccuino su cui Lady Conway aveva annotato a matita le proprie riflessioni filosofiche.
La familiarità con l’ambiente del platonismo di Cambridge, a cui il padre Ralph Cudworth apparteneva, si ritrova in Damaris Cudworth Masham (1659 – 1708). Ella intrattenne intensi scambi intellettuali con John Norris, ma anche con Leibniz (di cui criticò il sistema dell’armonia prestabilita) e Locke, con cui condivise una lunga e solida amicizia. Proprio a Locke alcuni attribuirono erroneamente la sua prima opera, pubblicata anonima nel 1696 e intitolata Discourse Concerning the Love of God. Nella sua seconda opera filosofica, Occasional Thoughts in Reference to a Vertuous or Christian Life (1705), Lady Masham prese posizione sulla condizione femminile, attribuendo alle donne un ruolo centrale in ambito educativo e mettendo in luce l’assurdità di non istruirle adeguatamente. La filosofia di Locke influenzò significativamente anche Mary Astell (1666 – 1731), considerata la prima femminista inglese. Non si tratta tuttavia di un’accettazione acritica, come dimostra The Christian Religion, as Profess’d by a Daughter of the Church of England (1705), in cui l’ipotesi lockiana della materia pensante è messa in discussione. Una sintesi dei fondamenti dell’epistemologia lockiana e di alcuni elementi del platonismo di Cambridge trova spazio, infine, nell’opera di Catharine Trotter Cockburn (1679 – 1749), che pubblicò vari scritti in forma anonima, tra cui Remarks upon the Principles and Reasonings of Dr. Rutherforth’s Essays on the Nature and Obligations of Virtue (1747).
La ricca panoramica di testi e autrici di cui si è cercato di dare un’idea in queste pagine (che vorrebbero essere soprattutto un invito a una più approfondita esplorazione) dimostra efficacemente che anche le donne si sono occupate di filosofia, malgrado circostanze poco favorevoli al loro fiorire intellettuale e contrariamente a quanto si tende a pensare sulla base della lettura dei manuali canonici di storia della filosofia. Il contributo delle donne alla storia delle idee europea merita perciò di essere riscoperto e rivalutato; in questa prospettiva, come ha sottolineato Nuria Sanchez nella sua Postfazione, il presente volume rappresenta una «pubblicazione di grandissima utilità per avvicinare studenti e studentesse a opere di donne intellettuali quasi sconosciute nei programmi didattici abituali» (p. 376). Ciò vale anche per un pubblico più ampio: Sandra Plastina ed Emilio Maria de Tommaso, curando questo libro nell’ambito del pregevole progetto enciclopediadelledonne.it, hanno reso accessibili a qualsiasi lettore interessato – non soltanto, dunque, a studenti o specialisti – testi a lungo trascurati. Disseppellirli dall’oblio a cui sono stati ingiustamente condannati, permettendo loro di essere conosciuti e apprezzati, sembra il modo migliore per iniziare a restituire alle donne quel posto nella storia della filosofia che per secoli è stato loro negato.
di Debora Sicco
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PK#16 \ Meditazioni sull’amore
Rivista / Maggio 2022Come l’essere, anche l’amore si dice in molti modi. Diverse sono le grammatiche dell’amore, e diverse sono le fenomenologie dell’esperienza amorosa. Complicati sono pure i fili che annodano le grammatiche dell’amore, che permettono cioè di raccontare le storie d’amore, con le esperienze amorose, le quali, anche quando si dicono nella parola non pronunciata dell’estasi erotica o nel silenzio che accompagna il lutto dovuto alla perdita dell’oggetto amato, sono sempre tese verso il loro dirsi, verso una narrazione possibile. Purificare, o emendare, tali grammatiche non è impresa facile, ma, riconoscendo che in molte di esse si cela la presenza – a volte nemmeno tanto nascosta – del dominio maschile o patriarcale, è per lo meno auspicabile fornirne una decostruzione.
Like being, love is said in many ways. There are different grammars of love, and different phenomenologies of love experience. The threads that bind the grammars of love are also complex, and even when they are said in the unspoken words of erotic ecstasy or in the silence that accompanies the mourning due to the loss of the beloved object, they are always stretched towards their own saying, towards a possible narration. Purifying or amending these grammars is not an easy task, but recognising that many of them conceal the presence - sometimes not even so hidden - of male or patriarchal domination, it is at least desirable to provide a deconstruction.
A cura di Veronica Cavedagna e Giovanni Leghissa
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DOI: https://doi.org/10.13135/2385-1945/16.2022
Pubblicato: marzo 2022
Indice
EDITORIALE
I. TEORIE D'AMORE
Nicoletta Cusano - Amor, ch’a nullo amante amar perdona… [PDF It]
Sergio Benvenuto - Una sfida per la filosofia [PDF It]
Mara Montanaro - Uno scambio di fantasmi [PDF It]
Andrea Zoppis - L’amore al vaglio della contingenza. Note sulla relazione amorosa a partire da Merleau- Ponty e Simondon [PDF It]
Prisca Amoroso - Custodire la distanza. Una riflessione sulla profondità come dimensione amorosa a partire da François Jullien [PDF It]
Benoît Monginot - Figures, désir, dérive. Eros et poétique dans « Sed non satiata » de Charles Baudelaire [PDF Fr]
II. GLI SPAZI DELL'AMORE
Chiara Piazzesi - Towards a Sociological Understanding of Love: Insights from Research [PDF En]
Francesca Caiazzo - La temporalité de l’expérience amoureuse moderne à partir des apports d’Eva Illouz [PDF Fr]
Carlo Deregibus - Gli spazi dimenticati dell’eros. Progettare occasioni di spontaneità [PDF It]
III. RESISTENZE
Manon Garcia - Dall’oppressione all’indipendenza. La filosofia dell’amore nel "Il Secondo sesso" di Simone de Beauvoir [PDF It]
Veronica Maio - Amore clitorideo. Esperienza amorosa e sovversione dell’identità sessuale nell’autocoscienza di Carla Lonzi [PDF It]
Floriana Ferro - Beauty and Possession. Reversible Eros [PDF En]
IV. MODI DI SIGNIFICARE
Gianni Pellegrini - Chiodo scaccia chiodi! Spigolature dalle tradizioni intellettuali sud-asiatiche sull’amore e/o desiderio (kāma) come antidoto ai desideri [PDF It]
V. LETTURE, RILETTURE E TESTIMONIANZE
Chiara Pignatti, Marco Xerra - Godere di dio. La posizione mistica tra devastazione e amore [PDF It]
Noemi Magerand - « Se faire la complice d’un ordre qui nous opprime » : comment Réinventer l’amour avec Mona Chollet [PDF Fr]
Emilia Marra - De gli erotici furori: amore e relazioni nel nuovo abitare [PDF It]
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bell hooks: il femminismo è per tutti!
Recensioni / Aprile 2022Era sera ed ero in coda da qualche parte. Poi, a un tratto, ho letto:
È il 15 dicembre 2022, ed è morta bell hooks.
Non immaginavo che la scomparsa di un’autrice, incontrata soltanto un anno prima, potesse lasciarmi addosso una sensazione analoga a quella che avevo già provato nel perdere dei punti di riferimento.
Mi sono allora chiesta perché e in che modo, senza accorgermene, avesse assunto un simile ruolo; per cui ho deciso di provare in parte a mettere nero su bianco ciò che bell hooks mi ha trasmesso.
Il femminismo è per tutti – scriveva nel 2015 all’interno dell’omonimo libretto che ho scelto di attraversare, tradotto in italiano da Maria Nadotti e pubblicato da Tamu Edizioni nel 2021 – evitando di nascondere il proprio io dietro a terze persone tanto impersonali quanto inesistenti, dietro a giri di parole tanto impeccabili quanto incomprensibili. Non è infatti – il femminismo – un mero stile di vita: non è possibile approcciarsi ad esso senza esporsi personalmente, dal momento che riguarda innanzitutto la capacità di fare i conti con il sessismo che ognuno trascina dentro di sé.
Del resto, «per capire il femminismo è necessario capire il sessismo» (p. 31), nelle cui insidie cadono tanto gli uomini quanto le donne: questo è il presupposto da cui parte bell hooks nel dire che, appunto, il femminismo dev’essere per tutti: deve assumersi la missione di includere. Il sessismo diventa allora l’elemento che le consente – nel primo capitolo – di stendere innanzitutto un itinerario degli sviluppi storici del movimento femminista e, poi, di distinguere tra femminismo riformista e rivoluzionario. Il primo (quello con maggiore risonanza mediatica), ponendosi come obiettivo principale il raggiungimento della parità di genere e della mobilità sociale, considera l’impegno verso la lotta al sessismo un elemento quasi accessorio; mentre il secondo, ponendosi come scopo la trasformazione radicale del sistema patriarcale (e quindi non la sua semplice modifica), vede nella lotta al sessismo una delle sue principali missioni.
Mettere fine all’oppressione sessista è infatti ciò a cui ci richiama con ostinazione la rivoluzionaria bell hooks. È possibile indirizzarsi verso questa meta attraverso numerose vie e quella teorica è sicuramente un buon punto di partenza. Del resto, come bell hooks, in tanti siamo approdati alla lotta femminista all’università, entrando in contatto soprattutto con la teoria femminista più che con la sua pratica; tuttavia, a differenza sua, molti di noi si sono fermati e continuano a fermarsi semplicemente alla teoria. Purtroppo, però, solo con questa non si può riuscire nell’impresa di mettere fine all’oppressione sessista: a un certo punto, occorre chiudersi alle spalle la porta del proprio studiolo comodo e confortante per calarsi nel mondo – correndo il rischio di sporcarsi –, incontrando la voce, i gesti, la carne e gli abissi degli altri.
A questo proposto, nelle sue opere, la femminista afroamericana evoca spesso la potenza liberatoria che hanno avuto, durante il secolo scorso, i gruppi di autocoscienza. Ce li descrive come veri e propri siti di conversione, in cui donne tra loro molto diverse per età ed estrazione sociale riuscivano a trovare a turno una “camera tutta per sé”, in cui rivelare e mostrare «apertamente la profondità delle loro ferite intime» (p. 41). In quelle camere, nessuna aveva più diritto delle altre di essere ascoltata, nessuna aveva il dovere di rimanere in silenzio, bensì tutte condividevano la possibilità di dire ciò che pensavano realmente, di discutere e far valere le proprie ragioni: in quelle camere, nessuna voce era strozzata, perché ognuna veniva così preparata a «sfidare le forze patriarcali sul posto di lavoro e in casa» (ibidem).
Con il tempo, purtroppo o per fortuna, le cose sono cambiate: i Women’s Studies hanno cominciato a configurarsi come una disciplina accademica riconosciuta e l’aula universitaria – che «era e rimane un luogo di privilegio di classe» (p. 44) – ha progressivamente spazzato via quelle camere, che invece consentivano una trasmissione ampia e orizzontale del pensiero femminista e delle strategie rivolte al cambiamento sociale, prescindendo da distinzioni di classa e di razza. Tale cambiamento oltre a depoliticizzare il movimento femminista e a renderlo, per certi versi, più elitario, ha soprattutto contribuito al graduale allentamento della solidarietà politica tra le donne – forza che precedentemente aveva saputo mettere in atto un cambiamento positivo. Tutto ciò ha prodotto delle stratificazioni all’interno del movimento femminista, che, talvolta, ha finito per perdere di vista il fatto che «finché le donne usano il loro potere di classe o di razza per dominare altre donne, la sorellanza femminista non può realizzarsi appieno» (p. 53).
A partire da tali rilievi, Il femminismo è per tutti. Una politica appassionata si fa promotore della necessità di ripercorre la storia del movimento femminista, di esplorarne criticamente tanto i punti deboli, quanto quelli forti. Attraverso uno stile schietto, semplice, asciutto, bell hooks reclama la creazione di «un movimento di massa che offra un’educazione femminista a tutti» (p. 65), in grado di spiegare, in forme iper-accessibili, alle donne e agli uomini come opera il pensiero sessista, in che modo è possibile metterlo in discussione e cambiarlo e come, nel corso del tempo, il femminismo abbia inciso sulle vite di tutti noi. Si tratta di una sorta di testamento intellettuale, in cui vengono affrontati acutamente, seppur in poche pagine, tanti temi essenziali. Uno di questi – quello su cui mi capita di arrovellarmi più spesso – è il corpo: perno introno al quale ruotano, in particolare, il quinto capitolo, il sesto e l’undicesimo.
Essere il proprio corpo per una donna è un gesto rivoluzionario, che comincia con la scoperta della propria sessualità, con la ricerca del proprio piacere (e in questo tutti gli strumenti di controllo delle nascite hanno aiutato un bel po’), che passa attraverso la possibilità di rimanere incinta. Misurarsi con tale eventualità ha prodotto innumerevoli discorsi nel corso del tempo, alcuni dei quali elogiano la maternità, restituendola come un ineluttabile destino; altri sottolineano invece come quest’esperienza possa finire per costituire un intralcio alla realizzazione personale di una donna. L’intrecciarsi e lo scontrarsi di questi innumerevoli discorsi hanno contribuito a generare quel rumore che da anni avvolge il dibattito intorno all’aborto.
La posizione di bell hooks al riguardo – che mi sento di sottoscrivere in pieno – è molto semplice e parte dal presupposto che «se noi donne non abbiamo il diritto di decidere che cosa succede al nostro corpo, rischiamo di rinunciare ai nostri diritti in ogni altra sfera della nostra vita» (p. 72): essere pro aborto significa essere pro scelta, cioè sostenere «il diritto delle donne che hanno bisogno di abortire, di scegliere se farlo o no» (p. 73); ecco perché occorre lottare affinché non si torni «a un mondo in cui gli aborti sono accessibili solo alle donne che hanno un sacco di soldi» (p. 70), essendo questo un primo passo verso il ritorno a una politica che mira a rendere illegale l’aborto. Essere pro scelta, dunque, vuol dire battersi tanto affinché donne sole e senza mezzi possano permettersi di scegliere di essere madri, tanto affinché donne che vogliano abortire possano farlo in sicurezza.
Il femminismo ha il merito di aver contribuito a puntare i riflettori sull’incapacità di molte donne di scoprire «che la nostra carne è degna d’amore e di adorazione al naturale» (p. 75), dal momento che «tutte le donne, indipendentemente dalla loro età, vengono consciamente o inconsciamente educate a essere assillate dal pensiero del proprio corpo, a considerare problematica la carne» (pp. 80-81). Tale assillo si fa sempre più incombente durante la pubertà, quando una giovane donna percepisce più che mai il suo corpo come sfuggente, arrivando talvolta a sentirlo a lei estraneo. Allo stesso tempo, gli occhi maschili, che seguono sempre più frequentemente il ritmo dei suoi fianchi per strada, comunicano giudizi sulla sua anatomia, inducendola a viversi come un oggetto per gli altri.
A tutto questo si può reagire in vari modi: mettendo più o meno radicalmente in mostra la propria carne, traendo piacere dal forte desiderio che suscita negli altri; oppure – provando per essa paura o disgusto – ricercando l’invisibilità. Oggi, in un numero sempre crescente di giovani, il disgusto per la propria carne degenera in maniera patologica. Disturbi del comportamento alimentare come l’anoressia nervosa sono infatti una vera e propria piaga per il mondo occidentalizzato: si tratta di una patologia estremamente fatale, che, nello specifico, colpisce prevalentemente le giovani donne e che ogni anno miete un numero sempre maggiore di morti. Uno dei tanti aspetti che la caratterizzano è dato dal fatto che – come ben nota bell hooks – «non c’è monito, per quanto terribile, che riesca a dissuadere le donne convinte che il loro valore, la loro bellezza, il loro merito intrinseco sono determinati dal fatto di essere magre o no» (p. 79). Un disturbo come l’anoressia nervosa porrebbe allora il mondo femminista di fronte a un’urgenza: «anche se oggi le donne sono più coscienti delle insidie e dei pericoli insiti nell’accettazione di una visione sessista della bellezza femminile, non stiamo facendo abbastanza per eliminare, per creare un’alternativa […]. Finché le femministe non torneranno a misurarsi con l’industria della bellezza e con la moda, provocando una rivoluzione costante e di lunga durata, non saremo libere. Non sapremo come fare ad amare il nostro corpo e noi stesse» (pp. 81-82).
Il corpo di una donna è sempre attraversato dalla possibilità di esser ferito, cioè di subire in esso la volontà di un altro; tuttavia, questo non deve trarci in inganno su quella che dovrebbe essere una delle missioni principali del femminismo. Secondo bell hooks, quest’ultimo deve puntare, non tanto a contrastare esclusivamente la violenza degli uomini verso le donne, bensì a far cessare ogni forma di violenza. Alla base di ogni forma di violenza, compresa quella patriarcale, c’è sempre l’idea secondo cui è accettabile che un individuo dotato di maggiore potere controlli gli altri tramite varie forme di forza coercitiva. Ecco perché, mirando in fondo a minare la libertà che ciascuno ha di disporre del proprio corpo, la violenza patriarcale, oltre a poter essere perpetuata tanto dagli uomini quanto dalle donne, si rivela come un fatto che riguarda l’umanità intera.
Per quanto breve, il libro di bell hooks è talmente pieno di spunti che sarebbe davvero difficile diffondersi qui su ognuno di essi. Ho scelto di ricordarla parlando proprio di questo volume, non solo perché, di recente, è comparsa la sua traduzione italiana, ma anche perché trovo che esso racchiuda perfettamente alcuni dei punti essenziali del pensiero che bell hooks ha sviluppato per una vita intera: nel leggere, mi è piaciuto pensare di star conservando il suo testamento tra le mani…
di Giulia Castagliuolo
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La politica sessuale della carne
Eventi / Aprile 2021The Sexual Politics of Meat: A Feminist-Vegetarian Critical Theory è stato pubblicato per la prima volta nel 1990 negli Stati Uniti, ma la connessione che opera tra etica vegetariana e femminismo germina nella mente di Carol J. Adams già dal 1974. La natura della relazione tra l’oppressione patriarcale e l’oppressione animale resta a lungo una consapevolezza sfuggente per l’autrice; più di una semplice analogia eppure non ancora definita, visibile solo in trasparenza nella sessualizzazione degli animali e nell’animalizzazione delle donne. La lettura del libro Bearing the word di Margaret Homans le suggerisce nel 1987 la connessione mancante, il referente assente: un concetto che si origina nella linguistica ad indicare la condizione di un segno il cui referente è vuoto, indefinito o mancante. Finalmente dopo oltre vent’anni di studi, confronti e raccolta di materiale questa intuizione prende forma in una complessa e ben documentata teoria che si svolge nelle tre parti fondamentali del libro.
In Italia una prima traduzione di alcuni capitoli è stata proposta dalla rivista di critica antispecista “Liberazioni”, infine il libro integrale e completo di diverse prefazioni è stato tradotto e pubblicato dalla casa editrice VandA col titolo Carne da macello. La politica sessuale della carne.
Carne da macello è soprattutto un libro che riflette sul linguaggio e sui discorsi che costituiscono le relazioni del potere dell’uomo sulla donna e dell’umano sull’animale, collocandosi a pieno titolo nell’area dell’ecofemminismo vegetariano.
Gli argomenti patriarcali della carne
Nella prima parte del testo l’autrice illustra i vari aspetti di quella che definisce “la politica sessuale della carne”, mostrando innanzitutto come il consumo di carne sia parte fondamentale della costruzione dell’identità di genere maschile eteronormata (e cis-normata, si potrebbe aggiungere) nel mondo occidentale, attraverso la creazione del mito della virilità che si nutre contemporaneamente dei corpi animali e dei corpi femminili. «Mangiare carne misura la virilità individuale e sociale» (p. 57). La carne è l’alimento del vero uomo, pertanto la donna ne è spesso esclusa. «Quest’abitudine patriarcale si risconta ovunque» (p. 58) sia nelle civiltà che l’autrice definisce tecnologiche sia in quelle che definisce non tecnologiche, dall’Indonesia passando per l’Africa Equatoriale fino all’Europa (pp. 58-59). L’esclusione delle donne dal banchetto di carne nell’Occidente bianco è anche stata una pratica patriarcale di controllo sul corpo e sulla sessualità femminile (si veda Fobia della carne?, p. 281). Se la carne è l’alimento virile che porta forza, vigore e capacità di agire violenza, allora i vegetali come cereali, verdure, legumi e frutta sono alimenti femminili, femminilizzanti e passivi. La carne diviene simbolo del patriarcato e «gli uomini che scelgono di non mangiare carne ripudiano uno dei loro privilegi maschili» (p. 76).
Nell’Occidente razzista e coloniale la carne è l’alimento del vero uomo, e dunque dell’uomo bianco. Nel capitolo La politica razziale della carne (p. 62) l’autrice riassume e mostra chiaramente l’intersezione tra discorso carneo e oppressione colonialista e razzista. Dal momento che «la gerarchia delle proteine della carne rinforza la gerarchia della razza, della classe e del sesso» (p. 63), l’idea che la carne sia la migliore e insostituibile fonte di proteine perpetra un discorso alimentare razzista, non solo misogino[1].
Lo stupro degli animali, la macellazione delle donne.
Il secondo fondamentale nesso tra cultura carnea e patriarcale viene esplicato nel secondo capitolo, ed è l’intuizione forse più importante nel lavoro di Carol J. Adams. Come sostiene l’autrice, «attraverso la macellazione gli animali diventano referenti assenti» (p. 81) in tre modi: vengono fisicamente uccisi, i pezzi del loro corpo vengono rinominati per poter essere consumati, e infine diventano metafore per descrivere esperienze umane di violenza estrema. Nel nostro orizzonte culturale il mangiar carne è possibile in quanto l’animale è linguisticamente celato dai termini che trasfigurano in pietanze le parti del suo corpo fatto a pezzi. Dispositivo certamente vero per i grandi mammiferi (ovini, bovini e suini) trasformati dal coltello del macellaio in filetti, pancetta, prosciutto, arrosto, bistecche e polpettoni, ma quasi inesistente per gli animali che suscitano minore empatia da parte dell’umano: insetti, pesci e uccelli. «La somiglianza tra un uccello morto e uno vivo sfida la struttura del referente assente, perché il corpo dell’uccello vivo continua ad essere un referente anche da morto. Non è assente neanche quando viene consumato» (p. 315).
Le stesse vittime di violenza e stupro, e così molti dei discorsi femministi, usano il referente assente animale come paragone per descrivere la propria esperienza di estrema vulnerabilità e violenza subita: «sentirsi come un pezzo di carne significa essere trattati come un oggetto inerte mentre si è (o si era) un essere vivente senziente» (p. 105). Adams decide di usare consapevolmente la donna come referente assente nel descrivere “lo stupro degli animali” proprio per suscitare una riflessione in quella parte del mondo femminista che si appropria del referente assente animale senza però riconoscere ed includere nella propria lotta l’oppressione animale. Per Adams il femminismo è necessariamente vegetariano[2].
Il corpo delle donne viene usato come referente assente metaforico anche nella sessualizzazione degli animali. La sessualizzazione degli animali – o dei loro pezzi smembrati – è profondamente radicata nell’immaginario comune e commerciale, ed è evidente soprattutto attraverso il linguaggio della pubblicità. La sessualizzazione dell’immagine femminile è una delle caratteristiche iconiche dell’oppressione patriarcale e viene sfruttata dall’industria del marketing in ogni contesto possibile, dalla vendita di vernici alla promozione di spazzolini da denti. Eppure nell’ambito del consumo di carne – sempre rivolto al pubblico maschile – il linguaggio simbolico cambia registro. A questo proposito Carol J. Adams ha raccolto nei decenni una mole impressionante di materiale da tutto il mondo, confluito nell’opera The Pornography of Meat. L’ormai iconica Ursula Hamdress è sconcertante nella sua esplicitezza: un maiale morto (o sedato?) vestito come una pin-up e messo in una grottesca posa seducente su una rivista che non a caso si chiama Play Boar. Tra le diverse immagini raccolte appare immediatamente come nella commercializzazione della carne la figura femminile non sia semplicemente seducente e sessualizzata, come in altri ambiti, ma rimandi chiaramente ad un immaginario di stupro e violenza, fino ad una vera e propria macellazione. Lo stesso immaginario che si appropria dei corpi animali senza consenso, anzi che li rappresenta disponibili e felici di essere consumati, rappresenta allo stesso modo anche la donna/animale che ne promuove i prodotti: un oggetto che non necessita di consenso e invita al possesso totale. La sovrapposizione dei due referenti assenti collega la violenza sulle donne e quella sugli animali, normalizzandole e legittimandole, rendendole a tutti gli effetti strutturali e invisibili. I corpi femminili e quelli animali vengono descritti come corpi passivi, disponibili, consumabili dall’appetito maschile.
Il testo evolve poi in un’analisi accurata del dominio patriarcale sul linguaggio utilizzato per mascherare la violenza e la reificazione del referente assente, intersecando intuizioni femministe e un’analisi linguistica che resta fruibile soprattutto nella critica all’antropocentrismo e al maschio-centrismo, ma che purtroppo è in parte lost in translation passando dall’inglese all’italiano. Sicuramente importante in questa sezione è la connessione tra la pratica femminista e la pratica vegetariana/antispecista, impegnate ad esplicitare la violenza linguistica per opporvi una descrizione letterale (ad esempio: mangiare cadaveri) spogliata dal significato simbolico del referente assente. «Così come le femministe dichiarano che “lo stupro è violenza, non sesso” i vegetariani desiderano nominare la violenza del mangiar carne» (p. 130).
Proprio in questa sezione viene affrontato un termine cruciale per contestualizzare l’opera di Carol J. Adams, ovvero le proteine femminilizzate (p. 146). Per quanto nel testo l’autrice parli di vegetarianesimo, è lei in primis a dirsi vegana e ad includere nella sua critica anche lo sfruttamento animale finalizzato a produrre latte e uova. Proprio questi prodotti vengono definiti come proteine femminilizzate, in quanto prodotti da corpi femminili. L’autrice rileva inoltre come anche nella produzione di carne «noi ci sosteniamo in larga misura con carne femminile» (p. 135) e «mangiamo continuamente le madri […] proclamiamo e rinforziamo il trionfo del dominio maschile mangiando pezzi di carne identificati al femminile» (p. 325).
In questa denominazione Adams rende esplicita una visione comune nel femminismo della seconda ondata da cui si origina il suo pensiero, ovvero la sovrapposizione del sesso e del genere. È un punto problematico perché rinforza una connessione che sta alle fondamenta stesse del sistema etero-cis-patriarcale, ovvero quella tra il corpo femminile e la capacità riproduttiva, tra la donna e l’utero. Connessione che non solo ci ingabbia – in quanto donne – in un destino riproduttivo, ma che esclude dal genere femminile le persone che non hanno una capacità riproduttiva di questo tipo, ad esempio tutte le persone trans e intersex che si identificano col genere femminile. Questo tema rappresenta uno dei fronti più caldi dell’attuale dibattito tra femminismo e transfemminismo, e risulta quindi di particolare interesse analizzare in prospettiva il libro di Adams. Sarebbe interessante anche interrogarsi sulla validità del costrutto culturale umano del genere applicato al mondo animale, un interrogativo che apre scenari che vanno ben oltre questa analisi.
Dal ventre di Zeus
La seconda parte del libro si concentra su un’antologia storico-letteraria che tratteggia una profonda connessione tra femminismo e vegetarianesimo in Gran Bretagna e negli Stati Uniti partendo dal 1790 ad oggi. Un’analisi storica e letteraria che si interroga sulle caratteristiche del linguaggio letterario vegetariano, la “parola vegetariana” che sfida sia la politica sessuale della carne sia il ruolo della donna. Adams parte dalla letteratura inglese dell’Ottocento, dai circoli del vegetarianesimo romantico e dal movimento inglese per il suffragio delle donne (da Mary Shelley con il suo Frankenstein, la cui creatura era vegetariana, alla mitopoiesi di un mondo arcaico, un’età dell’oro vegetariana e matriarcale), analizzando poi i testi prodotti dopo la Grande Guerra, dove appare fortemente centrato il tema del pacifismo e del rifiuto della guerra. Certamente un corpus di testi notevoli e tradizionalmente mai considerati nel loro complesso come parte di una letteratura di ribellione nei confronti dell’alimentazione carnea e dell’oppressione animale, oltre che femminile. Purtroppo resta assente da questa antologia una delle voci femministe più potenti, la comunarda e anarchica Louise Michel, il cui pensiero circa la comune origine dell’oppressione e della violenza su animali e umani – in particolar modo sulle donne – è pionieristico nell’Europa della seconda metà dell’Ottocento. [3]
Mangia riso e abbi fede nelle donne
Nella terza parte del libro Adams identifica quattro fasi storiche della storia umana: la prima è stata il vegetarianismo, seguita dalla caccia, poi dall’agricoltura di sussistenza e infine nell’Occidente industriale dall’agrobusiness zootecnico – esportato attraverso il colonialismo in tutto il mondo. Queste fasi coincidono con una sempre maggiore perdita di potere da parte delle donne e una crescita di intensità da parte del patriarcato ed inoltre con la perdita della salute, perché il nostro corpo sarebbe naturalmente vegetariano (pp. 261-264). Questo “corpo vegetariano” è anche un corpo che si riappropria del controllo e della libertà su sé stesso, un corpo autodeterminato: in questo contesto il vegetarianismo diventa necessariamente una pratica femminista, dal personale al politico. L’autodeterminazione del corpo vegetariano suscita naturalmente una violenta reazione da parte della norma carnea, che opera distorsioni notevoli per sminuire, ridicolizzare e silenziare l’esperienza vegetariana.
L’autrice si spinge oltre nella sua analisi storica, analizzando specificamente le teorie di Sylvester Graham, divulgatore vegetariano ed igienista del XIX secolo piuttosto controverso per le sue idee sull’astinenza sessuale e sulla masturbazione, che influenzarono anche i fratelli Kellogs (i famosi cereali nacquero come rimedio dietetico contro la masturbazione degli adolescenti). Proprio attraverso le teorie igieniste di Graham il vegetarianismo interessò alcuni discorsi femministi per una serie di ragioni: il rifiuto della carne come riappropriazione del proprio corpo e della propria autonomia, la liberazione dalla schiavitù dei fornelli per le lunghe preparazioni di pasti di carne per il marito, e infine persino come tentativo di controllo della sessualità maschile come mezzo di protezione della donna e di controllo delle nascite. Un interessante precedente storico che dimostra l’attrattiva vegetariana in termini di autonomia, anche se francamente poco auspicabile per i suoi risvolti moraleggianti e sessuofobici.
Nell’ultimo capitolo l’autrice ci invita infine a ricostruire la storia del femminismo in un’ottica vegetariana e a sviluppare una teoria e una pratica femminista-vegetariana intersezionale contro il mondo carnivoro e patriarcale. Rinunciando al privilegio di specie dell’alimentazione carnea e dando voce alle donne che ne parlano si sfida la politica sessuale della carne ad ogni pasto, ad ogni lettura. Una call to action che definisce Carne da macello non solo come un saggio femminista sul linguaggio patriarcale che sottende la violenza comune contro animali e donne, ma come un libro militante che invita ad un’azione personale e diretta i cui mezzi siano in accordo con i fini.
Nella prefazione all’edizione per il decimo anniversario, Carol J. Adams scrive:
«Non propongo nemmeno una visione essenzialista delle donne. Non credo affatto che le donne siano per natura più protettive degli uomini o abbiano un’indole pacifista, malgrado molte fonti femministe vegetariane ne siano convinte. Io credo che chi possiede meno potere, all’interno di una cultura dominante, sia più incline a cogliere altre forme di sottomissione. Le posizioni di privilegio resistono all’autocritica, quelle di sottomissione no» (p. 34).
Una puntualizzazione necessaria perché lungo tutto il libro, e soprattutto nella scelta e nell’analisi dei testi proposti, si ritrova continuamente l’archetipo patriarcale della madre protettiva, l’associazione tra natura e femminile, l’eterno ritorno delle dicotomie binarie di maschile e femminile, natura e cultura, animale e umano. Sicuramente in questo testo non si opera una sufficiente critica dell’adesione alle norme del genere e una convincente decostruzione dei binarismi che Adams stessa identifica come base fondante della gerarchia uomo bianco / non bianco / donna / animale. Nonostante questo, Carne da macello resta una pietra miliare di necessaria lettura all’interno del discorso eco-femminista e antispecista, insieme ad altre autrici come, per esempio, Greta Gaard. Inoltre, nei trent’anni trascorsi dalla prima pubblicazione del libro, in tutto il mondo si sono sviluppate teorie e pratiche antispeciste, transfemministe decoloniali e queer che ci mostrano come sia possibile attualizzare l’opera di Carol J. Adams e ripristinare il referente assente senza aderire a nessuna forma di essenzialismo sulla natura maschile e femminile e sulla definizione del genere binario legato al sesso biologico.
di CDL Felix
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Note
[1] Per un approfondimento sui temi di veganismo nero e decoloniale si veda delle sorelle Aph Ko e Syl Ko, AFRO-ISMO. Cultura pop, femminismo e veganismo nero, VandA, Milano 2020.
[2] «Il pensiero femminista radicale partecipa linguisticamente allo sfruttamento e alla negazione del referente assente. Macella lo scambio culturale animale/donna raffigurato nello schema del referente assente e rivolge il proprio interesse esclusivamente alle donne, capitolando così di fronte a quel referente assente che appartiene alla stessa struttura che vorrebbe modificare.» Carol J. Adams, Carne da macello, p. 117.
[3] «Nel fondo della mia rivolta contro i forti, il più remoto orrore che ricordo è per le torture inflitte alle bestie. […] È che tutto va insieme, dall’uccello di cui si distrugge la covata, fino ai nidi umani decimati dalla guerra. La bestia muore di fame nella sua tana di terra, l’uomo muore lontano dai confini. E il cuore della bestia è come quello umano, il suo cervello è come quello umano, suscettibile di sentire e di comprendere. Malgrado si calpestino i diritti e la vita degli animali, calore e scintilla si risvegliano sempre.Fino allo scolatoio del laboratorio, la bestia è sensibile alle carezze o alle brutalità. È soggetta più spesso alla brutalità. Quando una sua parte del corpo è sviscerata, si continua con l’altra, talvolta, malgrado le corde la immobilizzino, si torce per il dolore nel tessuto delicato delle sue carni in cui si lavora. Allora una minaccia o un colpo gli insegna che l’uomo è il re degli animali. […] Forse la nuova umanità, al posto delle carni putrefatte a cui siamo abituati, avrà degli impasti chimici contenenti più ferro e principi nutrienti privi di sangue e della carne che assorbiamo». Louise Michel, è che il potere è maledetto e per questo io sono anarchica, a cura di Anna Maria Farabbi, Il Ponte Editore, Firenze 2017, p. 145.
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Il contrario della solitudine. Un femminismo in comune
Recensioni / Febbraio 2021Originariamente pubblicato con il titolo Feminismo em comun. Para todas, todes e todos (2018), Il contrario della solitudine. Manifesto per un femminismo in comune (2020) scritto da Marcia Tiburi è ospitato da effequ nella collana Saggi Pop. La casa editrice ha il merito di introdurre Marcia Tiburi, filosofa e femminista brasiliana altrimenti inedita al panorama italiano, selezionando all’interno della sua vasta produzione (filosofica, letteraria, artistica) un testo esplicitamente posizionato nella lotta femminista. Nella traduzione italiana, a cura di Eloisa Del Giudice, la scelta del titolo abdica a un calco letterale dell’originale portoghese, tuttavia senza alterare la proposta di un femminismo radicalmente democratico, costruito attraverso la messa in comune del dissenso di tutte, tuttə e tutti (todas, todes e todos) all’indirizzo del dispositivo patriarcale.
Ispirandosi a Foucault, Tiburi definisce il patriarcato come una forma di potere e sapere che ordina i discorsi sul criterio predicativo della verità. In altre parole, le istituzioni patriarcali autorizzano come veri i discorsi dell’ʻuomo biancoʼ (p. 52, 92), mentre dispongono su una scala di gradi gerarchici discorsi altri, a ciascuno dei quali viene negato un contenuto veritativo e di conseguenza un’autonomia politica. In ultima istanza, l’ordine veritativo della politica e l’ordine politico della verità sono una e una medesima cosa nel regime di pensiero autoritario. A ben vedere, il tema dell’autoritarismo è il denominatore comune delle più recenti pubblicazioni di Tiburi: a partire da Como conversar com um fascista: reflexões sobre o cotidiano autoritário brasileiro (2015), dove l’autrice intraprende una decostruzione dei microfascismi quotidiani; venendo all’analisi portata avanti sul piano estetico in Ridículo político: uma investigação sobre o risível, a manipulação da imagem e o esteticamente correto (2017), testo nel quale il terrorismo istituzionale è osservato nel suo carattere farsesco entro la cornice storica del golpe di Michel Temer a seguito dell’impeachment ai danni di Dilma Rousseff; approdando infine a Il contrario della solitudine (2020), diciassette brevi capitoli in cui la lotta comune per una democrazia radicalmente femminista consiste nella critica dell’autoritarismo quale si declina nella struttura patriarcale e nella sua verità grottesca (talmente terrificante da risultare ridicola, talmente ridicola da suscitare terrore): l'ideologia di genere (p. 60). Quest’ultima viene criticamente discussa nel settimo e nel decimo capitolo dopo essere stata inquadrata nel quarto capitolo fra le verità assolute del patriarcato, così riassumibili: l’identità è naturale; la sessualità è binaria; la differenza di genere stabilisce i ruoli sociali; il polo maschile gode di superiorità; il polo femminile soffre di inferiorità (p. 38).
Finché l’ideologia patriarcale pretenderà di far corrispondere i ruoli sociali a una presupposta naturalità dei sessi, a loro volta bipartiti per via assiologica, il lavoro non smetterà di essere «un vero problema di genere» (p. 27). Se il sesso è alla base della divisione del lavoro, allora il genere è la versione compiutamente socializzata del lavoro sessuale e sessualizzato. Per tale ragione, sostiene Tiburi, «non possiamo pensare al femminismo senza pensare al lavoro» (ibidem). Il binomio donna e lavoro pone la riflessione non solo sul versante politico, ma anche su quello economico. Tuttavia, Tiburi prescinde da una contestualizzazione storica e da una ricostruzione genealogica di alcuni concetti chiave a partire dai quali svolge l'argomentazione. Concetti come ʻpatriarcatoʼ e ʻcapitalismoʼ, per esempio, rischiano di risultare frettolosamente sorvolati, impedendo una più profonda comprensione del posizionamento teorico dell’autrice. Il ritmo sincopato tipico del pamphlet certamente imprime al manifesto la forza dialettica del pensiero critico, giocando però a detrimento di una riflessione sulle condizioni di possibilità della presa di parola da parte di Tiburi. Solo raccogliendo le tracce disseminate nel testo possiamo tentare di risalire alle premesse storiche e filosofiche di ʻpatriarcatoʼ e ʻcapitalismoʼ dalle quali Tiburi muove. Vale la pena riportare estesamente un passaggio:
Se pensiamo in termini di segni usati per identificare i corpi, diremo che la donna è l’essere identificato per servire al mondo del privilegio patriarcale. Sotto il segno del capitalismo, il mondo è entrato in un divenire donna così com’è entrato in un divenire nero nel senso di identificazione con lo scopo dell’asservimento generale di tutti. Alcuni femminismi sono riusciti a trasformare il segno donna in qualcosa di positivo, ma sta di fatto che, nel patriarcato – che equivale al capitalismo –, le donne sono sempre state figure negative, un ʻaltroʼ creato per l'asservimento (pp. 77-78).
Da un punto di vista storico, l’equivalenza di patriarcato e capitalismo circoscrive il focus sul patriarcato in epoca moderna, sebbene la storia del patriarcato sia notoriamente più longeva. Da un punto di vista filosofico, notiamo come Tiburi ponga l’accento sulla trasformazione impressa nel patriarcato dall’emergere del capitalismo. Tiburi non sembra chiedersi, piuttosto, come il patriarcato si trasformi a partire da se stesso: né in senso diacronico rispetto a sistemi patriarcali che precedono la modernità né in senso sincronico rispetto a sistemi altri dal patriarcato. Il sistema capitalista è indubbiamente uno di quei sistemi altri che in epoca moderna entra in accoppiamento strutturale con il sistema patriarcale. Nonostante s’intersechino, i due sistemi sono comunque operativamente autonomi.
Non converrebbe risalire a quel contratto sociale grazie al quale gli uomini si sono associati, eguali detentori di diritti civili e politici? Seguendo la pista genealogica tracciata da Carole Pateman (2015; ed. or. 1998), filosofa e femminista critica nei confronti di una certa tradizione del pensiero liberale moderno, la negatività attribuita alle donne cui si riferisce Tiburi potrebbe riconfigurarsi come diritto originario degli uomini di negare la politicità degli spazi femminili – siano essi i corpi stessi delle donne o i territori assegnati alle loro cure. Il contratto lavorativo è solo un volto del contratto sociale, quel volto che è stato negato con maggiori difficoltà dal momento che ha chiamato in causa fin da subito una classe di uomini a servizio di un’altra classe di uomini. L’altro volto del contratto sociale è il contratto sessuale, il quale ha sancito l’eguaglianza degli uomini – ognuno essendo proprietario di se stesso – al costo dell’asservimento delle donne. Dunque, potrebbe essere ricondotta alle premesse storiche e filosofiche di cui sopra la dialettica serva-signore che Tiburi ravvisa nella condizione orizzontale occupata positivamente dagli uomini in relazione alla condizione verticale che vede le donne occupare il polo negativo (Tiburi 2020, p. 45). A questo proposito, Tiburi afferma:
Il patriarcato si costituisce attraverso un’equazione: da un lato stanno gli uomini e il potere, dall’altro le donne e la violenza. Il potere che ratifica la violenza contro l’altro sta al sadismo come la sottomissione sta al masochismo. Le donne non possono esercitare il potere politico, economico e di conoscenza, e sono vittime della violenza. Gli uomini esercitano il potere e la violenza contro le donne. Per questo il movimento femminista è anche una lotta contro la violenza esercitata nell’intento di distruggere le donne quando non servono sessualmente, maternamente o sensualmente, quando non producono, non consumano e anche quando criticano questo stato ingiusto. Questo stato di cose verrà trasformato solo dirigendoci verso la produzione di una coscienza femminista veramente radicale (pp. 104-105).
Una prima questione riguarda il valore d’uso per il quale «i corpi sono stati misurati» (p. 23). Il titolo del terzo capitolo, Siamo tutte lavoratrici, rimanda infatti a «la più ampia sfera del lavoro, nella quale è in gioco ciò che si fa per l’altro per necessità di sopravvivenza» (ibidem). Questi pochi indizi ci permettono quantomeno di leggere fra le righe una concezione estesa del lavoro che, se portata alle sue estreme conseguenze, agevolerebbe una teoria generale dello sfruttamento. Le implicazioni di uno sfruttamento generale non vengono approfondite da Tiburi, mentre sono state sviscerate da Christine Delphy, sociologa e femminista francese. Nonostante si riallacci a una scuola di pensiero e a un contesto storico differente, la riflessione di Tiburi potrebbe trovare un'alleata nella definizione primaria di sfruttamento offerta da Delphy: «appropriazione del lavoro altrui» (Delphy 2020, p. 89). Alla distinzione di due economie – il modo di produzione patriarcale (o domestico) e il modo di produzione capitalista – corrisponde il vantaggio di individuare altrettanti beneficiari del profitto: da una parte, nella casa, il capofamiglia che estorce gratuitamente lavoro domestico; dall’altra parte, nella fabbrica, il capitalista che estorce plusvalore a fronte della forza-lavoro salariata. Se, al contrario, si cede all’insidiosa equivalenza di capitalismo e patriarcato – sulla quale Tiburi non fa dovuta chiarezza – si rischia di sovrapporre l’economia capitalista all’economia patriarcale. In sintesi, se il mercato viene naturalizzato come il modello privilegiato delle relazioni domestiche, la donna diventa automaticamente riproduttrice di forza-lavoro, ossia di quella merce (il lavoratore) che produce plusvalore (profitto capitalista), perdendo così per strada la violenza dello sfruttamento specificamente domestico. Riconoscendo autonomia sistemica ai diversi modi di sfruttamento non s’incorre, a nostro avviso, nella depoliticizzazione della sfera domestica: semmai, si fa luce sulla gestione politica dello sfruttamento domestico. In base alle nostre ultime considerazioni, il seguente stralcio di Tiburi può essere letto dirimendo il più possibile gli equivoci, a condizione di dare rilievo alla similitudine introdotta dalla particella ʻcomeʼ – a condizione, cioè, di cogliere il peso metaforico implicito nell’equivalenza:
Ora, il lavoratore è il servo del capitalismo, il che equivale a dire che è come la donna del capitalismo. La donna del lavoratore, dal canto suo, è come la sua serva. Questo significa che, di fronte a una donna, sia essa nella condizione di sposa o puttana, il suo sfruttatore – sia esso a sua volta sfruttato, come nel caso del lavoratore – è in un modo o nell'altro un capitalista (Tiburi 2020, p. 78).
Una seconda questione, che torna a più riprese nel testo, riguarda i marcatori di oppressione (p. 33), ovvero tutti i segni identitari che vengono eterodiretti dal patriarcato. Nella misura in cui quest’ultimo è «caratterizzato dall'associazione intersezionale di genere-razza-classe-sessualità e – aggiungiamo – età e plasticità» (p. 54), il femminismo sarà chiamato a cambiare di segno la rete di intersezioni. Le insidie della investitura dialettica sono inevitabilmente tenute in conto, pertanto un’autocritica interna al femminismo sarà una condizione necessaria (sebbene, da sola, non sufficiente) affinché la lotta non si configuri né come un'ʻutopia matriarcaleʼ né come un “femminismo di moda” (ivi p. 40). In primo luogo, allora, il femminismo è una teoria e una pratica etico-politica della coscienza di sé: mettendo in discussione una possibile deriva autoritaria del femminismo stesso, la lotta potrà resistere non solo a un'inversione della marcatura per mera sostituzione di servi e padrone, vittime e carnefici (p. 103), ma anche a una femminilizzazione del patriarcato. Con l’ultima espressione alludiamo a un femminismo di Stato, ovvero a una cattura del femminismo da parte dello Stato patriarcale, tale da sancire il passaggio dal femminismo (bistrattato) al femminile (elogiato) (p. 62).
In secondo luogo, il femminismo è una teoria e una pratica poetico-politica indirizzata al «riscatto delle parole» (p. 96), vale a dire a una risignificazione della marchiatura. Come possono le donne riscattarsi dalla sottomissione masochistica nella quale sono state collocate (anche da alcune tendenze femministe)? Come reinventare, dunque, le parole? Attraverso il dialogo, suggerisce Tiburi. Tutto l’opposto di una via pacificata al consenso, «il dialogo è un movimento tra presenze che differiscono tra loro» (p. 55). Sgravato dal bagaglio rappresentazionale della svolta linguistica, il dialogo non è medium simbolico di resoconti più o meno fallaci, più o meno devianti di una realtà patriarcale presupposta come unica e vera. Al contrario, il dialogo è il processo con cui territori di senso prima sommersi emergono per collisione.
«In quanto riconoscimento del nostro spazio nella natura e motto della costruzione politica» (p. 135), l’ecofemminismo indicato da Tiburi come «il futuro che dobbiamo conquistare» (ibidem) è un esempio emblematico della molteplicità di voci interne al femminismo. Dal lato ecologico, l’ecofemminismo pone l’accento sulla natura che è stata resa invisibile dal contratto sociale (Serres 2019); dal lato femminista, l’ecofemminismo denuncia la mossa essenzialista con la quale il naturalismo ha assimilato il polo femminile al polo naturale, concepiti entrambi come risorse infinitamente sfruttabili. Il fatto che all’interno di numerosi collettivi indigeni dell’Amazzonia, brasiliana e non, decisamente non tutte siano disposte a dichiararsi ʽecofemministeʼ la dice lunga sulla pluralità di prospettive che difficilmente si lasciano riassumere in un’unica espressione. In breve, quante sono le voci a prendere parola altrettanti sono i femminismi, quanti sono i concetti di ʻnaturaʼ e ʻcorpoʼ espressi altrettante sono le lotte ecologiche e femministe mobilitate.
Affinché lo spazio di parola dell'altra (Tiburi 2020, p. 66) non sia trasformato dall’egemonia concettuale dell’occidente in uno spazio di morte filosofica, il dialogo non potrà che far emergere, anziché negare, le differenze con le quali, agendo di concerto, pensare concetti talmente singolari da avere in comune almeno la lotta: la convergente dissonanza di molteplici istanze anti-patriarcali.
di Giulia Gottardo
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Bibliografia
C. Delphy, Per una teoria generale dello sfruttamento. Forme contemporanee di estorsione del lavoro, trad. it. di D. Ardilli, ombre corte, Verona 2020.
C. Pateman, Il contratto sessuale. I fondamenti nascosti della società moderna, Moretti & Vitali, Bergamo, 2015.
M. Serres, Il contratto naturale, trad. it. di A. Serra, Feltrinelli, Milano 2019.
M. Tiburi, Como conversar com um fascista: reflexões sobre o cotidiano autoritário brasileiro, Record, Rio de Janeiro 2015.
M. Tiburi, Ridículo político: uma investigação sobre o risível, a manipulação da imagem e o esteticamente correto, Record, Rio de Janeiro 2017.
M. Tiburi, Il contrario della solitudine. Manifesto per un femminismo in comune, trad. it. di E. Del Giudice, effequ, Firenze 2020.
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Che la teoria sia sede di conflitti, anche aspri, esiziali e ultimativi, tanto da trascinare con sé e pregiudicare in profondità l’obiettività (presunta) dei contendenti, è cosa nota da almeno duecento anni a questa parte (da Hegel in poi). Che il sapere, allo stesso modo, configuri un’occasione per la riproduzione di sistemi di dominio di varia natura, facendosi spesso occasione di esclusione, marginalizzazione e oppressione, anche questo è diventato ormai un truismo della teoria critica contemporanea, informata come è, persino quando non lo dichiara apertamente, da marxismo, freudismo e nietzschianesimo (i quali hanno fatto nello scorso secolo il loro lavoro di decisiva persuasione). Che questa consapevolezza diffusa e diversamente articolata vada poi trasformata in una pratica pedagogica alternativa, incentrata sulla funzione guaritrice della teoria, è invece cosa ben meno scontata e largamente disattesa, nei fatti, da coloro che coltivano e insegnano discipline teoriche in ambito umanistico. Ora, è di questa esigenza, elevata a principio euristico cardinale, che si fa portatore Insegnare a trasgredire. L’educazione come pratica della libertà di bell hooks, recentemente pubblicato in italiano da Meltemi (2020, 18 euro). Il volume, tradotto da feminoska, nota attivista transfemminista nostrana, prefato da Rahel Sereke e Mackda Ghebremariam Tesfaù, anche loro attiviste della blackness italiana, e seguito da un breve intervento del Gruppo Ippolita, che dirige la collana di Culture radicali in cui è apparso, si segnala innanzitutto per il tono, caratteristico della scrittura saggistica dell’autrice, lontano anni luce dagli stilemi e dai tic della ricerca accademica standard. Al secolo Gloria Jean Watkins, l’autrice, femminista africano-americana, è infatti la rappresentante forse più esemplare di un orientamento della ricerca contemporanea che incentra la propria operatività sull’«enfasi sulla voce» (p. 183) personale e che concepisce, di conseguenza, la «teoria come pratica sociale dal valore libertario» (p. 99). Partendo dalla constatazione di una discrasia fondamentale tra pratica e teoria che affligge il pensiero occidentale, riflessa oggigiorno nell’introduzione nei programmi educativi di argomenti progressisti a cui non fa seguito tuttavia un adeguato mutamento del processo pedagogico, bell hooks discute infatti in maniera dettagliata il modo in cui ogni soggetto, e anzi, meglio: ogni corpo, è sempre implicato in un vissuto che lo colloca necessariamente da una certa parte della barricata, con buona pace di quell’universalità del sapere che è spesso null’altro che il nome attribuito al posizionamento dell’uomo bianco occidentale eterosessuale.
Il libro è articolato in saggi, i quali procedono in maniera concentrica intorno a uno stesso perno: dare spazio, letteralmente e metaforicamente, a coloro che un certo regime di verità – quello, appunto, dei saperi accademici – ha espulso con certosina meticolosità dal novero dei soggetti autorizzati a far risuonare la propria esperienza, i soggetti supposti non sapere. Il piano autobiografico diventa così terreno di verifica sperimentale della proposta di bell hooks, fondata come è sulla rivendicazione di un «accesso significativo alla verità» (p. 61) per tutti/e coloro ai quali e alle quali esso è stato in qualche modo negato. Il racconto della propria formazione prima nelle scuole nere degli anni Sessanta, dove «l’apprendimento e la vita della mente» erano «un atto contro-egemonico, un gesto fondamentale di resistenza alle strategie di colonizzazione razzista bianca» (p. 32), poi nelle scuole desegregate, dove al contrario «improvvisamente, la conoscenza riguardava solo l’informazione» (p. 33), così come la sua esperienza diretta di insegnante, dapprima nelle università private e poi in quelle statali, diventa perciò il filo conduttore di un’inchiesta sulla necessità di abbandonare la concezione «depositaria dell’educazione» in favore di una pratica dell’istruzione in cui «la volontà di sapere» va sempre a braccetto con «la volontà di diventare» (p. 51). Di diventare che cosa? La risposta è netta: capaci di vivere più intensamente la propria esistenza perché, infine, più liberi/e. Il nome di questa pratica, «pedagogia impegnata», va allora inteso nel suo duplice senso: impegnata nei temi e nelle forme, sul piano dell’enunciato ma anche, ancora più significativamente, sul piano dell’enunciazione, dell’insieme dei presupposti pragmatici grazie ai quali parlare non è mai un atto neutro, un semplice comunicare contenuti cognitivi resecati dal resto della vita delle persone, ma sempre anche un atteggiarsi concretamente rispetto alle costellazioni di poteri che informano ogni società. La «narrativa confessionale» e la «discussione digressiva» diventano allora, nel concreto della scrittura come dell’insegnamento, lo strumento principale di tematizzazione della propria condizione, ciò mediante cui «rivendicare una forma di conoscenza» (p. 183) di cui tutti e tutte, studenti e studentesse compresi, possono parlare, sentendosi autorizzati a farlo. D’altronde, ne va di una messa in mora della stessa logica dicotomica che organizza le nostre società, in cui sembra si debba sempre sacrificare qualcosa per accedere al potere che le diverse istituzioni (educative, economiche, politiche ecc.) consentono di beneficiare a chi ne fa parte: «questo processo [l’essere partecipanti attivi nel percorso pedagogico] non è semplice: ci vuole coraggio per abbracciare una visione di completezza dell’essere che non rafforza la narrazione capitalista che suggerisce, invece, che sia sempre necessario rinunciare a qualcosa per ottenerne un’altra» (p. 217).
Ecco allora che uno dei meriti di bell hooks consiste nella capacità di mettere sistematicamente in tensione due aspetti, la razza e il genere, i quali si intersecano spesso, anche all’interno degli ambienti femministi, secondo geometrie tutt’altro che invariabili. Come racconta ampiamente la studiosa, questa linea di frattura interna al campo femminista ha determinato in passato una esclusione programmatica dell’esperienza femminile nera, che, con le sue peculiarità, di razza e di classe, non risponde al tipo della femminista bianca, spesso proveniente da contesti economici e culturali privilegiati. «Eravamo prima donne o nere?» (p. 158), si chiede allora sintomaticamente bell hooks, dando un contributo imprescindibile anche alla «decostruzione della donna come categoria analitica», alla critica dell’«esperienza della donna universalizzata» (p. 124). Il suo invito è dunque a parlare di genere in modo più complesso, tenendo conto della doppia emarginazione, da parte delle femministe bianche e del patriarcato nero, di cui sono state vittime le donne nere (e di colore in generale) nel momento in cui hanno, anche a livello accademico, rivendicato il proprio punto di vista. Scritto in una forma quasi diaristica, Insegnare a trasgredire conduce perciò il lettore in una sorta di progressiva coscientizzazione – termine che la scrittrice riprende dalla pedagogia libertaria di Paulo Freire, vero e proprio punto di riferimento della sua riflessione – concernente il proprio posizionamento nei riguardi del sapere, costringendo chi scrive a chiedersi in che misura possa essere titolato a esprimersi su un libro simile, senza arrogarsi al contempo un diritto di parola che non muove, almeno di primo acchito, da un’esperienza in prima persona analoga a quella evocata dall’Autrice.
Il percorso, pacato e graduale, verso l’acquisizione di un’evidenza che, nel suo carattere meta-teorico, sembra sospendere la vigenza delle prerogative e dei privilegi del discorso universitario, richiede dunque di essere attentamente valutato e meditato, a scanso degli equivoci che potrebbe in prima istanza ingenerare. Nella misura in cui enuncia che ogni teoria risponde sempre anche a un’esigenza singolare, calata nel vivo di un’esistenza materiata, e che non c’è punto di vista universale che non sia comunque anche particolare – che il soggetto del sapere, in altre parole, è sempre un soggetto orientato, incapace di ergersi una volta per tutte al di là di se stesso, per valutare in modo neutrale il punto di vista dell’altro – sembrerebbe, banalmente, autorizzare una forma di relativismo generale sub specie subalternitatis. Al rischio di auto-confutazione che una simile enunciazione comporta, in quanto essa stessa teorica, l’Autrice oppone però un punto fermo invalicabile, che sembra riecheggiare, senza citarlo (almeno in queste pagine), il celebre motto foucaltiano sul sapere – il quale non sarebbe fatto per comprendere, ma per prendere posizione. Con un fondamentale distinguo, però, che anche il “comprendere” – pratica pedagogica se mai ce n’è stata una – è una delle forme del prendere posizione e, per certi versi, la forma per eccellenza con cui ci si atteggia praticamente nel reale, per modificarlo, modificando la propria stessa esistenza (aspetto sul quale, ipotizziamo, il Foucault più tardo, quello dell’estetica dell’esistenza, avrebbe convenuto). Contro quindi chi ritiene che l’alternativa tra pratica e teoria sia inaggirabile, come quella tra verità ed esperienza, e che si tratti, riprendendo la tesi marxiana, di interpretare o di trasformare il mondo, disgiuntivamente, la teoria è presentata da bell hooks come un «luogo di guarigione» (p. 95) a tutti gli effetti: come, in breve, «forma di azione» (p. 99), innanzitutto su se stessi e poi, inevitabilmente, anche sul circostante. Solo un teorico privilegiato, rappresentante del patriarcato capitalista e colonialista bianco, può credere infatti che la teoria sia senza effetti immediati e che vada dunque coltivata a riparo da perturbazioni pragmatiche ed esperienziali d’ogni sorta, con l’esclusione, naturalmente, di quelle che contribuiscono inavvertite alla riproduzione del sistema di dominio vigente. «Penso che uno dei disagi inespressi relativi al modo in cui il discorso su razza e genere, classe e pratica sessuale ha portato scompiglio nell’accademia è proprio la sfida a quella divisione tra mente e corpo. Chi è potente ha il privilegio di negare il proprio corpo» (p. 172). Senza nulla togliere, perciò, al valore più-che-personale del sapere (al suo portato, appunto, in senso proprio scientifico: vale a dire, intersoggettivo e transculturale), dato anzi esattamente dal suo sprofondare nelle proprie condizioni ‘carnali’ di possibilità, bell hooks ci invita a tenere sempre conto della situazionalità in cui ogni atto teorico è fattivamente inserito, senza far finta che se ne possa fare tranquillamente a meno, come si trattasse di scorie da eliminare il prima possibile, perché per il resto non fanno che inquinare (inquietare) la trasparenza cristallina della ragione. La ragione militante – e ogni ragione in un certo senso lo è, anche senza saperlo – è tanto più lucida quanto più si fonda consapevolmente sulle proprie radici auto-biografiche, quanto più espone, nel corpo della sua articolazione logico-concettuale, i segni dell’oppressione che tenta proprio per ciò di scardinare, facendoli diventare il punto di partenza di una vera e propria «comunità di apprendimento». È qui che, credo, anche l’esperienza di un o una non marginalizzato/a, almeno a prima vista, può trovare non solo di che imparare, il che è ovvio e auspicabile, ma anche di che entrare in risonanza, per reperirsi sul limite della propria esperienza di soggetto di sapere che è spesso, nondimeno, soggetto alsapere altrui. Se ci si incunea negli interstizi della propria esistenza in cui si è sperimentato (e chi, in qualche modo, non l’ha fatto?) una qualche forma di esclusione dettata dalla propria appartenenza, anche temporanea, a una categoria non egemonica, la necessità di partire dal sé, per raggiungere il prossimo, diventa inaggirabile. Come discenti, d’altro canto, abbiamo tutti attraversato quella situazione specifica in cui il sapere sembra provenire immancabilmente dall’Alt(r)o, da una fonte esterna sulla quale non si ha il minimo controllo e dalla quale, in ultima istanza, ci si sente sempre giudicati/e. È come operatori di conoscenza che, in primis, si è costretti a riconoscere che il sapere non è un’operazione priva di attriti concreti, a cui ciascuno/a accede sempre da una posizione di relativa marginalizzazione e la cui costruzione avviene però davvero soltanto nello spazio tra le persone, tra i corpi, tra le esperienze, anche le più negative.
L’evidenza al cospetto della quale ci conduce hooks è dunque la seguente: non c’è teoria in ambito umanistico che non si radichi in un vissuto singolare, senza con ciò erodere tutta la sua eventuale portata veritativa; non c’è concetto che non abbia la sua scaturigine in un affetto situato, che non sia enunciato dalla bocca o esca dalla penna di una persona in carne e ossa, promanando così da un io concreto, incistandosi sempre in una materia viva, senziente, desiderante e, quando è il caso, persino dolente, senza per questo diventare l’incarnazione di una prospettiva solamente idiosincratica, privata, collettivamente inaccessibile. Anzi, è il dolore – quel dolore che un ‘malato’ come Ottiero Ottieri definiva «il problema filosofico più serio» – a essere l’elemento che articola il pensiero all’esistenza, che congiunge il logos al pathos e viceversa: che lega insomma la Ragione, con la maiuscola a capolettera, al corpo (alle ragioni, al plurale, dei corpi), rendendola appunto frequentabile anche dal prossimo e al suo bagaglio di esperienze singolarizzate. Rendendola vera, in un senso al contempo epistemico ed etico. Ecco la consapevolezza di cui una pratica del sapere informata a criteri di unilaterale ‘scientificità’ vorrebbe fare piazza pulita, in quanto ritenuta incompatibile con il ‘rigore’ altrimenti esigito dalla teoria, e della quale sono innanzitutto i cosiddetti “subalterni” a essere i depositari. È nei comportamenti degli ‘anormali’, per usare una categoria di vaga eco foucaultiana, che fa capolino, in modo senz’altro urticante ma indiscutibile, l’implicatura necessaria che ogni atteggiamento epistemico intrattiene con quanto, faute de mieux, si può chiamare la prospettiva in prima persona. Sono loro i tenutari del sapere di secondo livello, e invero di ultimo livello, concernente il radicamento storico e carnale del sapere, l’unico in grado di estrapolarsi dalle proprie condizioni di emersione e di additare se stesso, restando vero. Come scrive bell hooks: «Sono giunta alla teoria attraverso la sofferenza: il dolore dentro di me era così intenso che non potevo più sopportarlo. Sono arrivata alla teoria disperata, bisognosa di comprendere – comprendere cosa stesse accadendo intorno a me e nel mio intimo. Più di ogni altra cosa, desideravo che il dolore sparisse. La teoria ha rappresentato per me un luogo di guarigione» (p. 93). Esiste insomma un sapere, minoritario per definizione, che concerne la centralità inaggirabile del dolore, un sapere che riguarda la necessaria implicatura (uso un termine della pragmatica non a caso) soggettiva della conoscenza, quale che sia la sua forma, per quanto possa essa presentarsi in una veste intenzionalmente avalutativa, neutrale: in una parola, “scientifica”. E questo per un motivo molto semplice: donne, soggetti razzializzati, persone neuro-atipiche, trasgressori della norma eterosessuale, sfruttati d’ogni tipo, malati in generale, coloro che, in un modo o nell’altro, sono considerati innanzitutto come oggetti, prima ancora che come soggetti, e il cui corpo o comportamento non sono mai del tutto invisibili, non possono mai, in forza di quello che subiscono, prescindere dalla loro situazione concreta, segnata invariabilmente da un certo coefficiente di sofferenza. L’invisibilità – come il silenzio degli organi per la salute – è infatti un privilegio dei ‘normali’: l’incorporeo è il prodotto di un modo di esistenza che non conosce (troppi) limiti. «La cancellazione del corpo incoraggia a pensare che stiamo ascoltando fatti neutrali e oggettivi, fatti che non sono legati a chi condivide le informazioni. Siamo invitati a insegnare come se le nozioni non emergessero dai nostri corpi. È significativo che quelli di noi che cercano di criticare i pregiudizi in classe sono stati costretti a tornare al corpo per parlare di noi stessi come soggetti nella storia. Siamo tutti soggetti nella storia. Dobbiamo tornare allo stato di esseri incarnati per decostruire il modo in cui il potere viene tradizionalmente utilizzato in classe, negando la soggettività ad alcuni gruppi ed accordandola ad altri. Riconoscendo la soggettività e i limiti dell’identità, interrompiamo quell’oggettivazione che è così necessaria in una cultura del dominio» (p. 174).
All’alternativa secca di verità ed esperienza, e alla «svalutazione paternalistica» (p. 122) della seconda, bisogna opporre dunque, seguendo bell hooks, la consapevolezza che la verità ultima dell’esperienza (personale) consiste in un'esperienza (interminata e collettiva) di verità: in un apprendimento «senza limiti» (p. 235) in cui pratica e teoria convergono senza mai arrivare a suturarsi definitivamente l’una all’altra, restando aperte a nuovi contributi, sempre. In cui il limite – incontrato ed esperito proprio malgrado – gioca insomma la funzione di ostacolo e di rilancio, al contempo: «anche desiderare è un modo di conoscere» (p. 126). Non si tratta quindi di cedere a forme autoconsolatorie di whisful thinking, ma, si potrebbe dire, di rintracciare nel desiderio stesso una forma di sapere imperniata sulla sua capacità di eccedersi di continuo, nel confronto con la diversità e la difficoltà. Di superare insomma ogni status quo, anche epistemologico, in vista della sua riformulazione condivisa, grazie al pungolo del dolore, di cui una teoria estranea alla vita vorrebbe rimuovere toto cælo la presenza, rinchiudendo ciascuno e ciascuna in se stesso/a, e del quale invece una pratica libertaria dell’educazione non può non tenere conto, per farne il proprio atout fondamentale, risolvendolo nell’esperienza comune dell’imparare. Qui habet aures audiendi, audiat…
di Daniele Poccia
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L’universo di bell hooks
Recensioni / Gennaio 2021Recensione a bell hooks, Elogio al margine. Scrivere al buio, a cura di Maria Nadotti, TAMU, Napoli 2020, pp. 258.
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Un corpo unico fatto di margine e centro
Per molto tempo, il pensiero è stato orfano di madri. In balia di padri autoritari, molte figlie hanno imparato a costruire concetti mettendo da parte il proprio particolare sentire. Nel far ciò hanno aspirato, più o meno consapevolmente, a una falsa uguaglianza, che altro non era che un’omologazione del femminile al maschile. È necessario, pertanto, «pensare attraverso le madri» (Woolf 2013, p. 67) oltre che attraverso i padri. Tale bisogno è stato intercettato ed espresso da Gloria Jean Watkins, che, giovanissima, ha scelto di lasciare impressa la firma di bell hooks sui propri scritti. Questo nome è infatti un richiamo alle due donne – la madre e la nonna – che più di ogni altro hanno saputo insegnarle il prezioso valore della resistenza, tema su cui si concentra il primo saggio di Elogio al margine. Scrivere al buio, a cura di Maria Nadotti, TAMU, Napoli 2020, pp. 258. In esso, la casa viene individuata come un sito di resistenza sorretto dalle donne, in cui imparare «a stare al mondo con dignità, con integrità» (p. 29) e, soprattutto, un luogo in cui imparare «ad avere fede» (ibidem). Pertanto, l’idea dell’interconnessione tra genere, classe e razza, che ha reso bell hooks un’«“intersezionalista” avant la lettre» (Bränström Öhman 2010, p. 285), emerge sin dalle prime pagine di questa raccolta di saggi, curata e tradotta da Maria Nadotti, pubblicata da Feltrinelli nel 1998 e riproposta ora – insieme a Scrivere al buio – da Tamu Edizioni. La scrittrice afroamericana sottolinea la rilevanza del ruolo delle donne nere, che si sono assunte il compito di «fare della casa una comunità di resistenza» (p. 31), necessaria per la formazione della solidarietà politica. Infatti, ultime tra gli ultimi, le donne nere hanno saputo trasmettere ai propri figli l’importanza di dare un valore alla propria vita, scegliendo quotidianamente di sacrificarsi per la famiglia. Pertanto, la graduale trasformazione del sovversivo focolare in un sito di dominio patriarcale, con la conseguente svalutazione dell’esperienza delle donne, avrebbe avuto, secondo hooks, un impatto negativo sulla lotta di liberazione dei neri.
Sesso e razza convergono in un punto: il corpo delle donne. Quest’ultimo è l’elemento che consente al dominatore di esercitare ed esibire il proprio potere: i «maschi dominati vengono deprivati del loro potere (vale a dire ridotti all’impotenza) ogni volta che le donne che essi avrebbero il diritto di possedere […] vengono fottute e sottomesse dal gruppo maschile dominante e vittorioso» (p. 43). Allo stesso tempo, il corpo delle bianche diviene l’oggetto del desiderio incontenibile e vendicativo del cosiddetto stupratore nero («una storia» che, oggi, viene spesso calcata da chi sostiene, più o meno esplicitamente, che certa gente è meglio non accoglierla).
bell hooks è stata una delle prime a cogliere che «razzismo e sessismo sono sistemi interconnessi che si rafforzano e si sostengono a vicenda» (p. 46). A ben vedere, infatti, maschi bianchi e neri, grazie al sessismo, identificano entrambi la libertà con la virilità. In una società sessista fondata sulla supremazia bianca, bisogna tuttavia riconoscere che il corpo delle donne bianche ha un valore superiore rispetto a quello delle donne di colore. Questi temi, ben sviscerati all’interno del secondo saggio, Riflessioni su razza e sesso, sono ripresi all’interno del quarto. Qui, vengono connessi alla questione dello sguardo oppositivo delle spettatrici nere, le invisibili, che sarebbero riuscite a «valutare criticamente il fatto che il cinema abbia costruito la femminilità bianca come oggetto dello sguardo fallocentrico e a scegliere di non identificarsi né con la vittima né con il persecutore» (p. 89). Il discorso sul cinema e sui limiti della critica cinematografica femminista, fondata su un’astorica struttura psicoanalitica, che privilegia la differenza sessuale senza considerare le politiche di razza e il razzismo (si veda Valdivia 2002, p. 439), rientra in un discorso più ampio sul valore dell’estetica. Tema questo che viene sviluppato nel terzo saggio, in cui l’estetica è innanzitutto inquadrata come «un modo di abitare lo spazio, una posizione particolare, un modo di guardare e trasformarsi» (pp. 58-59). Anche questa volta, hooks parte dalla propria esperienza, situando cioè il suo punto di vista e la sua pretesa di conoscenza. Con ciò conferma i propri scritti come «un corpo di lavoro», in cui «l’arazzo delle parole è davvero la vita in crescita e mutevole del testo» (Bränström Öhman 2010, p. 286).
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L’ideologia suprematista bianca – ricorda bell hooks – non ammetteva che i neri avessero le capacità per misurarsi con l’arte. Per reazione, questi hanno enfatizzato l’importanza dell’arte e incentivato la produzione culturale, considerandole addirittura «il modo più efficace per opporsi» (p. 60). Tutto ciò ha condotto all’articolazione cosciente di un’estetica nera, messa a punto da critici e artisti afroamericani e rispondente all’esigenza di stabilire un nesso tra produzione artistica e politica rivoluzionaria. Tale tentativo è tuttavia sfociato in una sorta di “nazionalismo culturale”, che ha avuto l’effetto di ridurre «a zero quasi in tutti i campi, tranne che nella musica, la produzione artistica degli afroamericani» (p. 68). Il discorso sull’arte nera viene ulteriormente ampliato all’interno di Nerezza postmoderna, in cui è affrontata la questione del valore della critica all’essenzialismo per il riconoscimento delle molteplici esperienze da cui l’identità nera dipende. Inoltre, viene avanzata la proposta di concepire la cultura popolare come il vero luogo della lotta di resistenza per il futuro.
L’ultimo saggio, che dà il titolo all’intera raccolta, è il ponte attraverso cui siamo immessi nella seconda parte del volume, Scrivere al buio: l’intervista di Maria Nadotti a bell hooks. Il margine è il luogo da cui riflette la scrittrice afroamericana, uno «spazio di apertura radicale» dove «la profondità è assoluta», un luogo in cui si «è costantemente in pericolo» (pp. 126-127), perché favorisce prospettive diverse e in continuo cambiamento. Si tratta di uno spazio strategico «a cui restare attaccati e fedeli» (p. 128), che offre la possibilità di una prospettiva radicale e innovativa da cui guardare, creare e immaginare. È dal margine che bell hooks ci parla, e lo fa sempre in forma dialogica: l’indagine più strettamente teorica e la riflessione sull’esperienza personale sono tenute insieme, non aderendo perciò ai principi della cosiddetta prosa accademica convenzionale. Questo atteggiamento ha contribuito a farle assumere una posizione piuttosto ambivalente all’interno della teoria femminista contemporanea: malgrado il suo lavoro sia conosciuto e menzionato con rispetto a livello internazionale, è comunque considerato poco “teorico”, soprattutto se paragonato a quello di altre pensatrici femministe (Butler, Spivak, Haraway). Entriamo così in una questione che risulta ancora spinosa e che riguarda il femminismo, i suoi obiettivi e le sue articolazioni.
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Fuori dal nostro studiolo comodo e confortante, attraversando le strade o sostando nelle piazze (virtuali e non), potremmo essere costretti a vivere le conseguenze pratiche delle opinioni di certe persone, che, alla parola femminismo, si raffigurano un fenomeno unitario, opposto al maschilismo. Esse immaginano le femministe come una cricca di fanatiche, le cui azioni esprimono la volontà di fare a meno degli uomini e di prendere il loro posto nel mondo. Eppure, il femminismo, con le sue “ondate” e le sue “correnti”, è tutt’altro che un fenomeno unitario (si veda Missana 2014 e Ghigi 2018). C’è però chi, come Julia Kristeva, sostiene che le varie correnti, ambendo a «realizzare su questa terra la teologia paradisiaca» (Kristeva 2018, p. 20), si sono irrigidite in un militantismo senza futuro, che ignora la singolarità dei soggetti e che avrebbe reso la lotta delle donne «più individuale e solitaria» (p. 176). Di conseguenza, spesso si crede di essere delle femministe per il semplice fatto che si lotti per la parità sul posto di lavoro, o in favore dell’aborto o contro le molestie sessuali. Ma basta davvero questo? Secondo hooks, il «vero femminismo» sta nella capacità di misurare noi stesse nel rapporto con gli altri; nella capacità di fare i conti con il sessismo che ci trasciniamo dentro, trasformando continuamente la nostra prospettiva sul mondo. Ponendo al centro l’interazione con gli altri, hooks promuove la validità dei gruppi di autocoscienza femminile, ed esprime la necessità di spazi – le cosiddette cliniche femministe – dove fare rete per individuare strategie concrete che, associate all’analisi della propria particolare situazione, portino a un cambiamento radicale.
Occorre contrastare il fatto che, oggi, con l’istituzionalizzazione del pensiero femminista nell’accademia, molte femministe abbiano «smesso di uscire di casa e di cercare altre donne che la pensino come loro, donne con cui parlare, con cui discutere per ore» (p. 184). Il conservatorismo a cui spinge l’accademia spegne – secondo hooks – la forza radicale e rivoluzionaria del pensiero femminista.
In un Paese come l’Italia, in cui il movimento politico delle donne sembra tanto debole quanto la voce degli women’s studies, potremmo fare davvero tesoro delle riflessioni di bell hooks per costruire nuove prospettive e nuovi errori.
di Giulia Castagliuolo
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Bibliografia
A. Bränström Öhman, bell hooks and the Sustainability of Style, “NORA – Nordic Journal of Feminist and Gender Research”, vol. 18, n. 4, 2010, pp. 284-289.
R. Ghigi, Ritorno al corpo: epistemologie femministe e realtà sociali, in S. Besoli e L. Caronia (a cura di), Il senso della realtà. L’orizzonte della fenomenologia nello studio del mondo sociale, Quodlibet, Macerata 2018.
E. Missana, Donne si diventa. Antologia del pensiero femminista, Feltrinelli, Milano 2014.
J. Kristeva, Simone de Beauvoir. La rivoluzione del femminile, Donzelli, Roma 2018.
V. Woolf, Una stanza tutta per sé, Newton Compton, Roma 2013.
A.N. Valdivia, bell hooks: Ethics From the Margins, “Qualitative Inquiry”, vol. 8, n. 4, 2002, pp. 429-447.
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Micoland: l’ordine nascosto dei funghi
Recensioni / Settembre 2020Secondo la filosofa e storica della scienza Donna Haraway, la lotta per un mondo più vivibile si combatte anche sul terreno della natura e dei suoi significati. Se tradizionalmente il pensiero femminista si è impegnato attivamente nel condannare i resoconti scientifici del mondo come sostanzialmente ideologici, impegnandosi in un lavoro di decostruzione che ne smascherasse i presupposti storico-culturali impliciti ad essi inestricabilmente connessi, per Haraway il campo della scienza è tuttavia soprattutto un campo di significati contestati e contestabili, aperti e dinamici. In esso alcune storie e metafore, lungi dal legittimare sistemi di oppressione, di sfruttamento e ordinamenti gerarchici del mondo, possono invece ampliare il nostro modo di pensare e immaginare, fungendo così da alleate nella lotta per la costruzione di un mondo più vivibile e giusto. L’ordine nascosto. La vita segreta dei funghi (Marsilio, 2020) di Merlin Sheldrake è un serbatoio di storie e metafore potenti, da questo punto di vista.
I funghi di cui ci parla Sheldrake sono, dal punto di vista concettuale, importanti strumenti in grado di mettere in crisi alcune categorie normalmente considerate auto evidenti. In particolare l’importanza teoretica e filosofica di questo saggio sta nel rimettere radicalmente in discussione la nozione classica di individuo-soggetto-uno prendendo le mosse direttamente dall’analisi delle caratteristiche costitutive di una particolare gamma di viventi. Un’operazione già sviluppata nell’ambito della microbiologia dove la nozione di individuo è stata, in vari contesti, potentemente trasfigurata fino a espandersi e trasformarsi a tal punto da divenire irriconoscibile: con essa alla biologia degli organismi viventi si è sostituita l’ecologia delle loro relazioni e interdipendenze. «Siamo ecosistemi composti – e decomposti da un’ecologia di microbi il cui significato solo da poco tempo ha cominciato a venire alla luce» (p. 28) scrive l’autore a proposito. In tal senso i funghi di Sheldrake emergono come esseri intrinsecamente relazionali, portando alla ribalta il concetto di simbiosicome categoria biologica centrale. Un ruolo importante, nel portare al centro del discorso biologico questa categoria, va attribuito alla biologa americana Lynn Margulis e alla sua teoria endosimbiotica, secondo cui la simbiosi avrebbe avuto un ruolo cruciale nell’evoluzione delle prime forme di vita: in particolare, le cellule eucariote sarebbero il risultato di un’unione poi stabilizzatasi tra organismi diversi. Se i funghi emergono dal testo di Sheldrake come organismi in grado di confondere confini netti, proprio per la natura del suo oggetto, il testo di Sheldrake deve uscire dallo specialismo e tracciare un “discorso più ampio”, che porta necessariamente l’autore a costruire relazioni di mutuo scambio accademico, a interfacciarsi con studiosi appartenenti ad altri campi disciplinari, a praticare incursioni in altri ambiti dando vita a un «movimento bidirezionale di informazioni e risorse» (p. 269) che traccia una rete complessa.
Al centro di testo di Sheldrake non ci sono soltanto i funghi in quanto specie: ma anche e soprattutto le simbiosi, le connessioni imprevedibili, gli intrecci e le reti complesse che questi possono generare. Vengono prese in considerazione le articolate reti di relazioni che il tartufo instaura con la sua comunità di microbi, con il terreno e con il clima in cui vive, da cui emerge il suo aroma caratteristico, risultato inoltre di un processo evolutivo che l’ha portato a rispecchiare i gusti animali, a farsi ritratto odoroso delle loro passioni perché questi potessero essere veicolo alla dispersione delle spore (p. 38). Un altro esempio è costituito dai licheni, secondo alcune ipotesi scientifiche risultato della simbiosi tra un’alga e un fungo, relazione frutto di un processo evolutivo che ha consentito a entrambi di adattarsi e popolare ambienti altrimenti inospitali e proibitivi. In tutti questi casi i funghi emergono soprattutto come organismi in grado di destrutturare categorie prestabilite e confini netti, come reti dinamiche di relazioni trasformative.
Ciò che viene messo fortemente in evidenza, infatti, è la complessità irriducibile delle relazioni e degli intrecci che i funghi instaurano e nei quali sono coinvolti. La stessa “dual hypotesis”, secondo cui i licheni sarebbero il risultato di una simbiosi tra un fungo e un’alga, è già stata ampiamente problematizzata da alcuni studi che hanno mostrato come gli attori coinvolti siano di più, le relazioni contestuali e fondamentalmente irriducibili a uno schema fisso (p. 114): da questo punto di vista l’identità dei licheni emerge più come una domanda che una risposta già nota, e questi si configurano come «sistemi dinamici più che un elenco di componenti che interagiscono tra loro» (p. 115). I licheni sono relazioni aperte in quanto il reticolo miceliare, ossia ciò che costituisce il “corpo” del fungo, si configura come processo più che cosa. I funghi emergono quindi come organismi viventi e dinamici, al punto che per Sheldrake si potrebbe parlare del reticolo miceliare, il corpo metamorfico e sempre provvisorio del fungo, come traccia della sua storia, del suo sviluppo continuo, sempre imprevedibile e contestuale. L’“indeterminismo comportamentale” che caratterizza il reticolo miceliare fa si che non si possano dare due reticoli identici e porta ad adottare metafore per descrivere i funghi che ci consentono di evitarne la reificazione, preservandone l’identità aperta e provvisoria. A questo proposito Sheldrake parla del micelio come di una “melodia” polifonica, irriducibilmente molteplice e plurale e delle ife, le cellule che lo costituiscono, come di flussid’incarnazione, processi in divenire senza pianificazione centralizzata da cui però emergono forme.
La stessa nozione di simbiosi viene ulteriormente trasfigurata e ampliata nel testo di Sheldrake, connessa al concetto di trasmutazione e metamorfosi. La capacità dei funghi di rendere ambigui i confini tra individui emerge in questo caso come potere di confondere i confini tra specie: Sheldrake riporta l’esempio del fungo Ophiocordyceps, capace di prendere “possesso” del corpo e della mente di una specie di formica, al fine di riprodursi diffondendo le spore. Quest’esempio particolare di simbiosi assomiglia per Sheldrake a un vero e proprio caso di possessione, in cui la formica diventa fungo, uscendo dai binari della propria storia evolutiva e cominciando a percorrere quelli dell’Ophiocordiceps (p. 134). Facendo riferimento al concetto di fenotipo esteso, coniato dal biologo Richard Dawakins, è possibile dare conto scientificamente di questa trasformazione e di questo mescolamento: con esso si fa riferimento al fatto che il genotipo non fornisce soltanto le istruzioni per costruire un organismo biologico, ma regola anche il comportamento. Attraverso quest’ultimo, proprio come un uccello costruendo il proprio nido esprime “esteriormente” i propri geni, il fungo si “travasa” nel mondo esterno, rendendo ambigui e confondendo profondamente il confine tra sé e altro. Richiedendo senza dubbio un certo sforzo immaginativo al lettore, Sheldrake propone un’analogia coraggiosa: così come la formica è manipolata dal fungo al punto da diventare fungo, da deviare dalla propria storia evolutiva per incrociare quella di quest’ultimo, è possibile considerare le esperienze stranianti e di ampliamento della coscienza prodotte sulla nostra mente dalla psilocibina, principio attivo dei funghi psichedelici, come incursioni del fungo nell’umano. È possibile pensare, con le parole dell’autore, che i funghi psilocibinici «indossino la nostra mente come l’Ophiocordiceps e la Massospora indossano il corpo degli insetti» (p. 141). Il punto di vista che ci offre l’autore pone l’accento sulla lunga storia delle relazioni tra esseri umani e funghi psilocibinici: più che considerare le loro storie evolutive come nettamente separate, l’operazione del testo consiste nell’invitarci a considerare l’intrecciarsi della storia evolutiva dei funghi con la storia culturale umana e il loro reciproco influenzarsi. Considerando la storia e la cultura legata alla psichedelia, e il modo in cui questa ha influito sulla storia evolutiva dei funghi, sul modo in cui si sono diffusi e sono stati coltivati, su come certe specie sono state preferite ad altre, siamo invitati a leggere questa come un rapporto di reciproco addomesticamento, piuttosto che una relazione a senso unico. Il ribaltamento di prospettiva che offre il testo è potente: non solo gli esseri umani hanno interferito con la storia dei funghi, coltivandoli, ma questi ultimi hanno “preso in prestito”, indossato e modificato la coscienza e la storia umana.
Non soltanto sulla storia umana i funghi hanno lasciato un’impronta e hanno interferito di più di quanto siamo soliti considerare, ma hanno avuto un ruolo importante anche nella storia evolutiva delle piante e dell’ambiente terrestre in generale. Se le piante sono riuscite a popolare la terraferma, dandole la configurazione che oggi conosciamo, ciò è avvenuto perché le loro antenate acquatiche, prive di radici, hanno stretto un’alleanza poi stabilizzatasi con i funghi. Questi ultimi hanno quindi funto da “radici” primitive, consentendo alle antenate delle piante terrestri di procurarsi acqua e nutrienti dal terreno, instaurando con queste relazioni di reciproco scambio. Una traccia di queste antiche associazioni è offerta dalle relazioni micorriziche, che ancora oggi i funghi stabiliscono con diverse specie di piante. L’importanza di queste relazioni è tutt’altro che secondaria: oggi più del novanta per cento delle specie di piante dipende dai funghi micorrizici. Le relazioni micorriziche hanno stimolato fortemente l’immaginazione di biologi e botanici, dando luogo a una vera e propria fioritura di metafore. Per descriverle, si parla di «mutualismo», ma anche di «relazione conflittuale e parassitaria mascherata» (p. 162). Altri biologi parlano di un equilibrio di potere che mantengono il fungo e la pianta all’interno della relazione, sottolineando come questa possa essere considerata alla stregua di un commercio, in cui nessuno degli attori coinvolti ha il controllo totale della relazione, ma ciascuno deve stringere compromessi e accordi. Secondo quest’ultima prospettiva, ci troviamo di nuovo di fronte a una relazione aperta: funghi e piante ereditano la capacità e la tendenza ad associarsi, ma la mettono in pratica in forme sempre nuove e rinegoziate, strategiche, imprevedibili e irriducibili a uno schema fisso. A questo proposito può essere trasferito ai funghi il termine inglese entangle, utilizzato per descrivere il nostro coinvolgimento in situazioni sociali mutevoli e complesse. Al di là delle diverse metafore con cui si è cercato di cogliere le relazioni micorriziche, risulta indubbia la centralità che i funghi hanno avuto nell’influenzare la storia passata e nel fare quella presente e futura del nostro ambiente. Secondo una logica che potremmo definire ecologica, le relazioni micorriziche hanno avuto un ruolo fondamentale nell’evoluzione di gran parte delle forme di vita terrestri (p. 166). Per descrivere queste forme di coinvolgimento profondo, alcuni biologi hanno proposto di utilizzare, al posto del termine evoluzione, che letteralmente significa “svolgere”, l’uso di involution, nel senso di coinvolgimento e partecipazione: con questa parola si riesce forse a rendere meglio il complesso intreccio di attrazione e repulsione che caratterizza le varie forme di convivenza che costruiscono gli organismi.
Se le relazioni micorriziche hanno dato un forte impulso alla produzione di metafore in biologia, ancora più potente da questo punto di vista è stata la scoperta del wood wide web: la rete sotterranea che attraverso i reticoli micorrizici crea un sistema di scambi, relazioni e condivisione tra gli alberi di una foresta. Le reti e i reticoli micorrizici condivisi hanno tutt’altro che una funzione accessoria: si possono invece paragonare a «sistemi circolatori condivisi» (p. 191) da un certo gruppo di alberi, secondo una prospettiva che invita a ripensare radicalmente gli ecosistemi forestali. Al paradigma del conflitto e della competizione come meccanismi chiave dell’evoluzione, la scoperta dei reticoli sotterranei condivisi ha consentito di sostituire metafore che enfatizzano la collaborazione e la distribuzione delle risorse all’interno di una comunità. Se l’immaginazione è stata stimolata al punto da portare a parlare, per quanto riguarda queste reti, della scoperta di “luoghi di cura”, di altruismo e cooperazione disinteressata in natura, Sheldrake ci invita a considerare invece le ambiguità che la nozione di rete porta con sé: così come internet ai suoi esordi è stata potentemente investita di fantasie romantiche e libertarie, come luogo a-gerarchico e orizzontale, per poi mostrarsi invece veicolo di relazioni di potere e di controllo, così le wood wide webs andrebbero considerate nella loro complessità e ambivalenza, come «amplificatori di interazioni»(p. 203). Ancora una volta il concetto su cui si insiste è quello di complessità: le reti di alberi costituiscono sistemi complessi adattativi, dinamici, caratterizzati da un ricambio costante e cangiante.
Se i funghi hanno avuto un ruolo centrale nel determinare il passato e il presente di numerosi ecosistemi, il loro protagonismo potrebbe addirittura crescere in futuro, soprattutto in relazione alla minaccia che i cambiamenti climatici rappresentano per la sopravvivenza di numerosi ecosistemi. Già in passato, i funghi hanno dimostrato grande capacità di sopravvivere e anzi di prosperare di fronte a mutamenti ambientali di grande portata: i funghi che decompongono il legno ebbero un ruolo importante nella transizione da un’epoca chiamata Carbonifero, in cui a causa dell’assenza di decompositori di lignina, il grande accumulo dei resti di alberi nel sottosuolo era stato causa di un importante cambiamento climatico. Proprio grazie alla loro capacità “decostruttiva” questi organismi hanno dimostrato capacità di sopravvivere alle devastazioni ambientali. Non soltanto la lignina, ma numerosi altri inquinanti possono essere digeriti e usati come fonte di sostentamento dai funghi: dai mozziconi di sigaretta ai pesticidi, a vari tipi di rifiuti agricoli, i funghi sanno trasformare vari inquinanti pericolosi per la vita umana e ripristinare ecosistemi gravemente danneggiati. Come sottolinea Sheldrake, i limiti relativi a queste pratiche di micorisanamento dipendono in larga parte dalla complessità di questi organismi: i funghi proliferano in modo irriducibilmente imprevedibile, così come il loro comportamento rispetto agli inquinanti rimane complesso. Il micorisanamento si configura come una forma di “digestione esterna”, o un’esternalizzazione di processi digestivi: un’associazione in cui organismi diversi intonano insieme una canzone metabolica che da soli non saprebbero cantare. In questa relazione, i funghi si configurano sia come tecnologie, che come partner degli esseri umani (p. 246).
Citando Donna Haraway, è importante capire «quali storie raccontano altre storie, quali pensieri pensano altri pensieri, quali sistemi sistemizzano sistemi» (fonte). Ciò che Haraway ci aiuta a mettere in evidenza, è come sia possibile rintracciare al di sotto delle diverse storie gli intrecci che le costituiscono. L’operazione al centro del testo di Sheldrake è soprattutto questa: mostrare, utilizzando resoconti scientifici del mondo, come storie che sembrano percorrere binari paralleli, come la storia evolutiva dei funghi, degli esseri umani e delle piante, siano invece un intreccio. Scavare nelle storie per disseppellire gli intrecci e le associazioni stravaganti che le hanno prodotte, fare emergere con forza, al di sotto della patina universalizzante e antropocentrica che predilige l’attore unico (l’essere umano, unico soggetto propriamente detto, e quindi unico attore e costruttore della propria storia, in un mondo di cose fondamentalmente inanimato e a sua disposizione) la pluralità degli attori coinvolti: queste sono le operazioni principali al centro del testo di Sheldrake. Molte importanti storie umane sono in realtà storie di associazioni e relazioni con i funghi, storie che portano alla ribalta attori non umani, attivi e coinvolti in una relazione bidirezionale quanto i loro partner umani. L’invenzione dell’agricoltura e i connessi processi di sedentarizzazione, potrebbero essere il frutto di una delle relazioni più intime che l’umano ha stretto con i suoi partner fungini: quella con i lieviti. È stato per i processi di fermentazione, per la produzione del pane e della birra che gli esseri umani hanno abbandonato il nomadismo: la svolta neolitica, e le trasformazioni legate all’agricoltura, possono essere considerate da questo punto di vista una risposta culturale ai lieviti, al punto che, secondo Sheldrake, in un certo senso, «siano stati i lieviti ad addomesticare noi» (p. 255). Così, come le storie umane rimandano necessariamente ad altro, le storie sui funghi ci portano altrove, a sconfinare in altri campi disciplinari per incontrare piante, alghe, ecosistemi forestali. L’effetto della narrazione del L’ordine nascosto è proprio questo: quello di farci deviare, mostrando come ogni storia rimandi in fondo a un’altra.
di Ambra Lulli
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Tra le più originali e acclamate filosofe della scienza degli ultimi anni, Susan Haack, è ben nota nel mondo anglosassone. Nonostante tale ambiente culturale sia solitamente rappresentato come dominato egemonicamente da approcci analitici, la Haack ha fondato il nucleo concettuale del suo pensiero su basi diverse, operando una rielaborazione critica del Pragmatismo originario di Peirce, James e Dewey. Inglese per nascita e per formazione, avendo studiato ad Oxford con maestri della filosofia oxoniense quali Dummet e Ryle, ha in seguito abbracciato questa americanissima corrente di pensiero, sviluppandola e applicandola estensivamente in campi quali l’epistemologia e la filosofia della scienza.
Purtroppo, ben poche opere dell’autrice sono disponibili in italiano, lingua in cui sono reperibili solo le opere dedicate alla logica, altro settore a cui essa ha contribuito significativamente. Nonostante il grande apporto dato ad altri settori della filosofia, riteniamo che l’aspetto più interessante dell’opera dell’autrice sia quello legato alla filosofia della scienza.
Il testo che rappresenta la summa di tali riflessioni è il suo Defending Science - Within Reason, pubblicato nel 2003 per Prometheus Book. L’anno di pubblicazione non è irrilevante: il testo arriva a conclusione di un lungo periodo di dibattito e di fermento culturale, passato alle cronache americane come il tempo delle science wars.
Il dibattito aveva visto contrapposti i fautori di un realismo scientifico intransigente, nutrito della filosofia della scienza neoempirista, e il nascente studio storico-sociale della pratica scientifica, incarnato dalle teorie costruzioniste e sfociato a volte in un relativismo culturale anti-scientifico.
Largamente esauritosi con l’inizio degli anni ‘2000, il dibattito riecheggia tuttavia in ogni pagina del libro della Haack, a cominciare dal sottotitolo, “between scientism and cynicism”, descrizione piuttosto fedele degli orientamenti polarizzati che erano emersi dalla discussione degli anni precedenti.
Sul tema l’autrice, che nel titolo di un altro suo lavoro si definirà «a passionate moderate», è incredibilmente misurata, attenta e, appunto, moderata. Il testo si propone infatti di difendere la pratica scientifica dagli attacchi dei suoi critici e al contempo di esaminarne i limiti e le specifiche. Come in una Critica kantiana, l’autrice osserva fino a che punto può spingersi la scienza, come può funzionare così bene e come può incontrare ostacoli nel processo conoscitivo, la sua metodologia e la sua specificità, nonché il suo rapporto con altre sfere di attività umana come il diritto, la religione e l’etica. Compito della riflessione è offrire un quadro il più accurato possibile di ciò che la scienza è, al di là di posizioni troppo deferenti nei confronti di essa oppure troppo critiche. I deferentialists sono identificati come i rappresentanti della filosofia della scienza classica, empiristi logici o popperiani, caratterizzati da un acritico entusiasmo per la scienza, mentre tra i cynics troviamo sociologi della scienza reduci dall’esperienza del “programma forte” e alcune filosofe femministe, a cui l’autrice imputa un immotivato astio verso la scienza. Ad entrambi Susan Haack oppone la sua specifica concezione della scienza, a partire dall’analisi metodologica e dalla definizione di cosa essa sia.
Nei primi capitoli troviamo infatti una disamina delle peculiarità del metodo scientifico: esso non è inerentemente migliore di altre forme di indagine umana né radicalmente diverso da altre forme di indagine di senso comune. Riprendendo il critical common-sensism di Peirce, la filosofa pone in continuità i meccanismi che attiviamo per rispondere a questioni nella vita comune e ciò che facciamo nella scienza. Non c’è nessuna forma logica della scoperta scientifica, nessuna metodologia rigida e univoca, ma tutto si basa sulla qualità delle prove addotte a supporto di una teoria e sulla forza che esse ricevono da altre credenze che consideriamo solide.
Come analogia la Haack porta un cruciverba, in cui ogni entrata è fortemente interrelata con quelle già presenti, che fuor di metafora possono essere rappresentate da altre teorie, ulteriori dati o conoscenze di senso comune. La teoria trae la sua forza da due fonti: la fondatezza che essa trae dai dati e la sua coerenza con altre buone teorie, in un approccio che l’autrice chiama foundherentism, rifacendosi alla distinzione epistemologica tra fondazionalismo (foundationalism) e coerentismo (coherentism).
Solo ponendo ogni forma di indagine in un continuum è possibile spiegare veramente la concreta natura della ricerca scientifica, oltre formalizzazioni logiche astratta e impratiche nell’applicazione, come quelle dei “deferenzialisti”. Chiaramente ciò concede qualche punto ai “cinici”, ma la Haack ribadisce l’oggettività della scienza, il cui essere storicamente e socialmente situata nulla toglie alla potenza esplicativa delle buone teorie.
Non potendo qui soffermarci a lungo su queste questioni, basterà ricordare alcune delle conseguenze più rilevanti che sono tratte da questa osservazione.
Prima di tutto, il problema della demarcazione appare ora triviale: non c’è limite definito tra ciò che è scienza strictu senso e ciò che non lo è, bensì una distinzione pragmatica tra buone teorie, sostenute da dati e inferenze convincenti, e cattive teorie, che mancano di quella rete di sostegno sopra accennata. Secondariamente, notiamo come la scienza non abbia nessuno “statuto onorifico”, ma solo una particolarità epistemologica. Velata ma non tanto è la critica all’uso onorifico si scienza, per dare legittimità a campi che in termini strettamente epistemologici scientifici non sono. Molte forme di ricerca sono valevoli ma non scientifiche, molte pratiche umane non sono neanche forme di indagine in senso stretto, ma sono comunque apprezzabili, pur non avendo metodologie scientifiche. Equiparare “scientifico” a “buono” vuol dire misconoscere che la scienza è senz’altro diversa da altre forme di conoscenza, ma non inerentemente migliore. Per terza cosa, le scienze naturali e quelle sociali risultano accomunate da una natura condivisa, che le lascia libere di perseguire il loro oggetto di studio senza imporre o adottare acriticamente metodologie di ricerca inappropriate. Esse sono forme di indagine che si avvalgono di specifici strumenti, come le scienze naturali, ma non allo stesso modo, vista la diversa natura dell’oggetto di studio.
Nella parte centrale del volume, l’autrice inizia a osservare criticamente i legami tra scienza e altre branche di riflessione umana. Particolarmente tranchant è la parte sui rapporti tra scienza e religione, a cui la Haack imputa una radicale inconciliabilità. Tutt’altro che irenica, la filosofa nota come la religione non sia in continuità con la vita comune, a differenza della scienza, ma si fondi su esperienze religiose, credenze di fede e riflessioni speculative. Essa ha anche lati positivi, ma il suo impatto sulla vita umana non è esente da contraddizioni e contrasti.
Detto ciò, la religione, come visione del mondo, non può essere relegata a “magistero non sovrapponibile” e innocuo, con autorevolezza solo nella sfera dei valori: essa accampa pretese su come è fatto il mondo, come la ricerca scientifica, ma in modo decisamente diverso. Il conflitto esplicativo che ne consegue vede la scienza come alternativa migliore, per una maggiore affidabilità epistemologica rispetto alle credenze religiose. Forse un po' eccentrico rispetto al resto delle discussioni sul tema, delle critiche humeane alla religione, questo capitolo offre senz’altro un originale punto di vista sull’argomento.
Ben diverso è invece il rapporto tra la scienza e il diritto, a cui la essa presta le sue scoperte. Esso presuppone nella scienza un’affidabilità che non può però fondarsi su riflessioni metodologiche troppo stringenti: così, ciò che entra in tribunale come “prova” scientifica è oggetto di riflessioni giuridiche confuse e poco accurate epistemologicamente, principalmente basate su assunti della filosofia della scienza classica riarrangiati in sintesi contraddittorie.
Distanziandosi dai miscugli popperiani-hempeliani proposti (che l’autrice scherzosamente chiama Hopper-Pempel) l’autrice mostra come le conseguenze della nuova concezione della scienza da lei proposta si offrono a nuove applicazioni in campo giuridico. Analizzando alcuni casi giudiziari in cui è emersa la questione della testimonianza scientifica, la Haack supera alcune pedanterie metodologiche per proporre nuovi approcci all’uso di evidenze scientifiche in tribunale.
Il tema del rapporto tra etica, inclusività e scienza è un altro punto forte della difesa della scienza operata dalla Haack, in questa parte del libro. Senza nulla togliere alla peculiare natura storica della scienza, caratterizzata da fattori storici e culturali, essa nega che la ricerca scientifica sia un’impresa occidentale o colonialista, difendendone la natura inclusiva, oggettiva e aperta al contributo di tutti. La scienza è sempre più globalizzata, come il resto della vita umana, e sarà in futuro sempre più aperta a contributi non occidentali. Essa non è neanche maschilista, perché per quando per secoli dominata da scienziati maschi la scienza non è inerentemente biased: ben venga l’apporto dello specifico punto di vista femminile, escluso dalla pratica scientifica per secoli, ma distinguendo tra la maggiore inclusività e l’idea che ci sia una “scienza al femminile” e una maschile. Chiaro è il distacco da epistemologhe femministe come Sandra Harding, che invece hanno un approccio critico nei confronti della scienza “patriarcale”.
Il capitolo si chiude con una riflessione sulle conseguenze delle scoperte scientifiche e delle loro implicazioni morali, che per la Haack non sono imputabili alla ricerca scientifica in sé ma alla moralità di chi la sfrutta. Strizzando l’occhio all’etica delle virtù, pur non citando specificamente alcuna posizione etica, la filosofa sottolinea l’intersezione significativa tra virtù epistemiche, necessarie alla ricerca scientifica, e virtù morali, necessarie alla vita etica. Tali virtù non combaciano e non sono sempre necessarie in ogni contesto, ma come detto c’è un positivo overlapping tra di esse.
L’ultima parte del libro è la più speculativa, trattando del futuro della scienza e della sua eventuale conclusione come processo conoscitivo. A tale proposito, l’autrice non esclude che in futuro la scienza raggiungerà qualche “teoria generale” onnicomprensiva, ponendo effettivamente fine al processo di ricerca scientifica, ma ci ricorda comunque come molte volte in passato la “fine della scienza” sia stata annunciata per essere seguita da grandi rivoluzioni concettuali, che hanno aperto nuovi campi e rilanciato grandemente la pratica scientifica. Facendo sua l’immagine di Popper, per cui la scienza sarebbe come una montagna nebbiosa, durante l’ascesa della quale ogni volta che si pensa di essere arrivati si scopre che la strada continua, l’autrice chiude il libro con uno sguardo ottimista al futuro della scienza, ben lungi dall’essere priva di limiti, ma capace di auto-correggersi e di varcare ogni volta nuove frontiere.
Il libro di Susan Haack raggiunge decisamente lo scopo che si prefigge, cioè trattare la scienza “nei limiti della ragionevolezza” (within reason nel titolo), senza esaltazioni o critiche ma con grande chiarezza e accuratezza. Per quanto scritto in un periodo storico e culturale ben preciso, quello dopo le sopra ricordate science wars, il libro mantiene ancora oggi la sua attualità e la sua freschezza, offrendo una delle più sistematiche e complete trattazioni del fenomeno-scienza nella sua multiforme e sfaccettata natura. Ciò che traspare è una difesa appassionata ma coerente della bellezza della pratica scientifica, inserita però nell’umanissimo contesto in cui essa è nata e si è sviluppata, retta dalla consapevolezza che la scienza non è un sapere perfetto e infallibile, ma è forse uno dei migliori che abbiamo a disposizione.
di Riccardo Cravero
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Manifesto Cyborg. Ieri e oggi
Recensioni / Dicembre 2018La nuova edizione di Manifesto cyborg. Donne, tecnologie e biopolitiche del corpo (Feltrinelli, 2018) raccoglie tre saggi di Donna Haraway, teorica femminista e storica della scienza allieva di Georges Canguilhem. I saggi in questione sono stati pubblicati la prima volta nel 1991, in Italia nel 1994, all’interno di una raccolta dal titolo Simians, Cyborgs and Women. The Reinvention of Nature (Routledge). L’importanza della riedizione di un testo considerato ormai un classico può ricercarsi nella necessità di rivalutare la portata teorica e filosofica della riflessione di Haraway, portata che fino ad ora sembra essere stata scarsamente considerata. Ciò che andrebbe messo in discussione è un inquadramento “specialistico” del testo, che lo vorrebbe di interesse unicamente per chi si occupa di “questioni legate al genere” e, ancora più nello specifico, per chi nella cornice degli studi di genere riflette sui problemi della scienza e della tecnologia. Nella rivalutazione delle implicazioni teoretiche di Manifesto Cyborg è in gioco, più in generale, la riconsiderazione dell’importanza filosofica dei cosiddetti studi di genere e postcoloniali, che normalmente trovano legittimazione solo se inseriti nella cornice dei cultural studies. Il testo di Haraway eccede queste cornici disciplinari, e con le sue incursioni “spregiudicate” nel terreno delle scienze biologiche, biomediche e delle teorie dei sistemi, può essere considerato un’argomentazione a favore della contaminazione come importante strumento di produzione e creatività teorica.
Fin dalle prime pagine di Manifesto Cyborg è chiara l’urgenza teorica e politica che muove la riflessione dell’autrice: la necessità per il femminismo socialista e in generale per gli allora nuovi movimenti di sinistra di ripensarsi, alla luce del confronto con le profonde trasformazioni globali che segnavano il contesto dell’elezione di Reagan alla presidenza degli Stati Uniti negli anni ’80. Il cyborg, protagonista dell’opera, rappresentava provocatoriamente quella peculiare “creatura” contraddistinta da un’intrinseca necessità di evadere ogni forma di pensiero dicotomico, ogni forma di razionalità strutturata intorno a stringenti dualismi, in favore di un nuovo punto di vista in grado di rendere conto di una realtà infinitamente complessa ed eccedente che il suo stesso apparire metteva prepotentemente alla ribalta. A quasi trent’anni di distanza, in cui la modalità dominante di gestione della complessità (sociale, psichica, politica, scientifica) sembra ancora rimanere il riduzionismo, in cui lo scenario pare ancora caratterizzato dal riproporsi di un pensiero dicotomico e dall’intensificarsi delle logiche di dominazione patriarcale, razzista e capitalista connaturate a esso, provare a immaginare un modello di razionalità che non evade la complessità ma che se ne fa carico non si rivela meno urgente. La posta in gioco è l’elaborazione di modalità alternative e sfaccettate di gestione della complessità, rifiutando quindi anche quel pensiero che vedrebbe nella postmodernità il terreno in cui si consuma la crisi della razionalità dominante che non lascia spazio a null’altro se non alla contingenza e alla “differenza” irriducibile, intese come negazione dell’elaborazione teorica e della prassi. Manifesto Cyborg riapre invece con forza l’elaborazione teorica, etica e politica, al cuore della postmodernità e lo fa oggi non meno di ieri.
Lo sguardo attraverso cui Haraway analizza le trasformazioni che segnano il suo tempo è quello che deriva dalla sua storia in quanto biologa: in particolare, l’autrice mette in luce la profonda rielaborazione e ripensamento della biologia in relazione all’emergere di nuovi saperi, quali la cibernetica, le teorie dei sistemi, le scienze della comunicazione e dell’informazione. Il ripensamento della biologia in seguito alla contaminazione con nozioni, teorie e concetti provenienti da queste scienze è stato profondo al punto che, secondo Haraway, si può sostenere che l’“organismo” biologico, come oggetto della scienza, abbia cessato di esistere, e sia stato sostituito da sistemi di comunicazione completamente denaturalizzati. Gli organismi sono quindi diventati artefatti, sempre contingenti, le cui modalità di costruzione non sono vincolate da nessun’architettura naturale. Contemporaneamente, le macchine hanno preso vita: se quelle pre-cibernetiche potevano essere ancora distinte dagli organismi in quanto pensate e costruite dall’uomo, le macchine cibernetiche rendono completamente ambigua la distinzione tra autosviluppo e progettazione esterna (p.43).
Le ondate di denaturalizzazione e de-essenzializzazione che secondo N. Katherine Hayles definiscono il postmodernismo hanno quindi investito anche i corpi biologici: se le prime teorizzazioni degli organismi come sistemi cibernetici riposavano ancora su una concezione olistica e mantenevano intorno a questi un certo involucro, le teorie sociobiologiche di uno scienziato dalla sensibilità postmoderna come Richard Dawkins hanno radicalizzato questa tendenza, rompendo definitivamente con i paradigmi olistici e ripensando l’individualità biologica come costrutto contingente ad ogni livello. Come mettono in luce le escursioni di Haraway nel territorio delle moderne biologie della comunicazione, i processi di decostruzione e ricostruzione dei corpi occupano il centro del discorso, non solamente dal punto di vista del critico culturale o dell’archeologo delle scienze umane, ma anche dello scienziato postmoderno: le biologie moderne si occupano di tecnologie d’inscrizione e codici, di processi di disassemblaggio e riassemblaggio, di sistemi di controllo altamente tecnologizzati. La centralità delle tecnologie di scrittura emerge in modo evidente se si considerano i lauti investimenti direzionati a progetti come quello di mappatura e ricostruzione del genoma umano. Questo progetto emblematizza un “umanesimo postmoderno” in cui la ricerca biologica segnata dalla rilevanza sempre maggiore delle tecnologie d’inscrizione è messa al servizio della tradizionale ideologia umanista e del sogno ad essa associato di poter finalmente definire l’umano, di poter finalmente tracciare un confine netto e chiaro, privo di ambiguità e porosità tra il sé e il non-sé.
Il cyborg, segnalando importanti cedimenti di confine come quello tra macchina e organismo e tra umano e animale, si presenta come figurazione non dicotomica della nostra realtà sociale e corporea, che consente quindi di rompere con i dualismi che hanno strutturato la razionalità occidentale: naturale/artificiale, natura/cultura, uomo/donna, mente/corpo, materia/forma, umano/animale, soggetto/oggetto. Come ci ricorda Haraway, queste non sono mai solo opposizioni dicotomiche: attraverso questi dualismi, la razionalità occidentale ha intrecciato il suo destino a pratiche di dominio e di oppressione legate al genere, alla razza e alla specie.
D’altra parte, il cyborg in occidente è anche espressione di una cultura maschilista e guerrafondaia, che concepisce la vulnerabilità che contraddistingue la dimensione corporea come segno di una “mancanza” costitutiva, a cui far fronte attraverso un progressivo miglioramento delle strategie di difesa. Se le individualità cyborg sono per definizione contingenti e instabili, l’immagine della corsa agli armamenti e della guerra perenne lascia trasparire in filigrana il “telos apocalittico” (p. 41) di un sé finalmente libero da ogni forma di dipendenza. La realizzazione di un sé autonomo e integro, che ha “disassemblato” e digerito ogni forma di eterogeneità e alterità si accompagna al dispiegamento di un apparato di controllo diffuso e capillare, che Haraway indica come “informatica del dominio” (p. 55). Con questa figurazione si vogliono mappare i nuovi inquietanti meccanismi di controllo che attraversano il nostro tempo: alle gerarchie che contraddistinguono il “patriarcato capitalista bianco” (p. 57) si sostituisce un sistema polimorfo e reticolare, che agisce attraverso l’allacciamento di connessioni multiple. Ai vecchi sistemi di controllo centralizzato si sostituisce la delocalizzazione, la decentralizzazione, la diffusione e la moltiplicazione dei centri.
Ma il cyborg è anche un costrutto femminista, e in questo senso elicita possibilità oppositive e liberatorie. Cyborg è quel particolare oggetto di conoscenza e pratica femminista, l’esperienza delle donne, che proprio in quanto fatta oggetto di sapere, è ricostruita come aperta, non finita, contestata, vulnerabile, presa in un gioco di perenne decostruzione e riscrittura. Haraway a questo proposito da particolare importanza ai processi di decostruzione e di de-naturalizzazione che hanno interessato il femminismo in seguito al prendere voce di quelle soggettività, come le donne nere, che sfuggono al sistema di categorie attraverso cui i teorici e le teoriche occidentali hanno tentato di rappresentare il mondo degli oppressi. Questi processi hanno consentito al soggetto femminista di riarticolarsi lungo assi inediti, di immaginare e di praticare nuove forme di unità e di identità al di fuori dell’impianto dicotomico e oppositivo che ha strutturato i miti politici occidentali. La critica post-coloniale ha ricostruito le identità femministe come identità sempre parziali, contraddittorie e problematiche, definite dal non poter essere naturalizzate o essenzializzate. Haraway legge in questo senso la Sister outsider della poetessa nera Audre Lorde (p. 74), ovvero come ricostruzione letteraria dell’identità attraverso l’esclusione, la non appartenenza in quanto eccedenza rispetto a categorie prestabilite. Le identità ricostruite nelle pratiche di scrittura delle donne di colore sono identità sempre contraddittorie e frantumate, prive del privilegio dell’identità a sé, prerogativa dei corpi non marcati come quelli maschili e bianchi. Se i processi decostruttivi e de-essenzializzanti impediscono di radicare la politica nelle identità “naturali”, questo non significa che sia stata minata radicalmente la possibilità di legami: la loro ricostruzione implica politiche dell’affinità, che non ripristinano unità naturali, ma non per questo impediscono legami (parziali ma potenti) e comunità per soggetti postmoderni.
Con l’elaborazione della nozione di “saperi situati” Haraway si inserisce in un altro dibattito che attraversa il femminismo: il rapporto con l’epistemologia e la scienza e, strettamente connesso a questo, il dibattito circa lo statuto dell’oggetto di conoscenza. Proponendo “saperi situati” Haraway intende pensare una versione femminista di oggettività scientifica, che consenta di uscire dalla polarizzazione del dibattito attuale, caratterizzato dal contrapporsi di posizioni radicalmente costruzioniste ed empiriste. La rielaborazione della nozione di oggettività che Haraway propone si appoggia a un ripensamento della metafora della visione. Se quest’ultima ha significato, nella storia della razionalità occidentale, la capacità di alcuni corpi (quelli maschili, benestanti e occidentali) di “smaterializzarsi” in uno sguardo venuto dal nulla mentre si inscrivevano i corpi marcati nel mito, con la nozione di saperi situati assume un significato opposto. L’oggettività e la visione non significano più neutralità e distanza, ma corporeità, parzialità, localizzabilità, impegno e coinvolgimento. (p. 115) L’oggettività ha a che fare non con la scoperta distaccata, ma con la strutturazione reciproca e di solito ineguale; solo saperi parziali, vulnerabili e impegnati garantiscono una conoscenza oggettiva, ovvero che non sia un’illusione. Oggettività e visione non segnalano più un “trucco da dio”, che consente di scomparire arrogandosi il potere di rappresentare senza essere rappresentati, ma diventano modi per stare nel corpo, pratiche di assunzione corporea.
In How we became posthuman, Katherine Hayles sostiene che l’affermarsi di quell’entità chiamata informazione si sia accompagnata a processi di “smaterializzazione” dei corpi, di progressivo abbandono e trascendimento dei vincoli della materialità. L’approccio di Haraway ai mondi alto-tecnologici mostra una realtà più complessa: i corpi radicalmente decostruiti e ricostruiti dalle moderne biotecnologie e dalle scienze informatiche non comportano tanto la smaterializzazione di questi in puri flussi informativi, problemi di codifica e di ricerca di un linguaggio comune che permetta la perfetta comunicazione. Anche l’informazione per Haraway ha una specifica dimensione materiale, così come i testi e i codici, che dovrebbero venire ripensati attraverso la nozione di embodiment. Facendo riferimento alla dimensione corporea, Haraway non si riferisce quindi a una dimensione prettamente biologica: le tecnologie di visualizzazione sono ripensate come sistemi di percezione attivi, nelle quali siamo immersi e con le quali siamo inestricabilmente intrecciati nella costruzione di specifiche forme di vita: un aspetto del nostro embodiment.
Il ripensamento della nozione di corporeità consente ad Haraway di riprendere e al tempo stesso di andare oltre l’analisi biopolitica inaugurata da Michael Foucault, ovvero dell’analisi che fa del corpo l’entità bioculturale per eccellenza e che consente di indagare i rapporti di potere che si concentrano direttamente sul soggetto in quanto entità corporea. La decostruzione della corporeità come sistema di comunicazione tecnologico consente di indagare gli effetti del biopotere oltre la sfera organismica: oggetto delle relazioni di potere non è più un corpo organico e organizzato gerarchicamente, ma sistemi cibernetici completamente decostruiti, assemblaggi ricomposti in modo sempre parziale, costrutti contingenti. Le biopolitiche che interessano corpi ricostruiti come sistemi di comunicazione non sono quelle del sesso e della riproduzione, ma dell’immunità, legate ai processi di replicazione di un sé estremamente vulnerabile e contingente (p.159). Quali tipi di sé vengono costruiti dal discorso sul sistema immunitario? L’intento di Haraway è di risignificare il paradigma immunitario: da dispiegamento di una guerra diffusa e capillare, in cui la replicazione del sé è funzione delle sue strategie di difesa e di attacco di fronte a una minaccia costante di “invasione”, a sistema che “apre” il sé e lo mantiene aperto. In quanto dispiegamento di una rete capillare di blackout e crolli delle comunicazioni, di confusione di confini, il sistema immunitario continuamente “disfa” il sé, mantenendolo contraddittorio ed eterogeneo, impedendone la chiusura e l’autonomizzazione. In questa dimensione riposa la “promessa illegittima” (p. 42) del cyborg: la sua natura artefatta, saltando il gradino dell’unità originaria, impedisce la realizzazione del suo telos apocalittico. In quest’ottica, inoltre, la differenza irriducibile con cui obbligano a fare i conti la postmodernità e i processi a essa inestricabilmente connessi, come quelli di decolonizzazione, non segnala tanto la “morte del soggetto”, come vorrebbero alcuni, ma piuttosto ci costringe a ripensare il soggetto come non isomorfico, auto-contraddittorio e multidimensionale.
di Ambra Lulli
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Incontro con Lea Melandri
Media / Giugno 2015Lea Melandri affronta i temi che nel corso della sua carriera di pensatrice hanno segnato i momenti più significativi della sua vita e della ricerca, dall’infanzia fino alla scoperta del femminismo, passando per l’incontro con il movimento non autoritario nella scuola. Una narrazione che, partendo dai vissuti personali, mette a fuoco gli snodi culturali, e storici, della società, come la dinamica di potere tra i sessi, la lotta per il riconoscimento, il sogno d’amore e la violenza, l’educazione e, più in generale, il rapporto tra individuo e collettivo, un intreccio sempre presente anche nel privato delle stanze. Vita e pensiero che hanno fatto del fuori tema, inteso come il rimosso e l’escluso, la cifra specifica di una ricerca che ha attraversato la cultura degli ultimi cinquant’anni, restando fedele a quel movimento di pensiero oltre che di liberazione che è stato il femminismo, oggi ancora attuale.
Lea Melandri (Fusignano, 1941) – L' infamia originaria. Facciamola finita col cuore e la politica (L’erba voglio 1977), Come nasce il sogno d’amore (Rizzoli 1987, Bollati Boringhieri 2002), Una visceralità indicibile. La pratica dell'inconscio nel movimento delle donne degli anni Settanta (FrancoAngeli 2000), Le passioni del corpo. La vicenda dei sessi tra origine e storia (Bollati Boringhieri 2001), Preistorie. Di cronaca e d'altro (Filema 2004), La perdita (Bollati Boringhieri 2008), Amore e violenza. Il fattore molesto della civiltà (Bollati Boringhieri 2011).