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Ogni epoca è stata ignorante – anche la nostra. Questa è l’idea di partenza del libro Ignoranza. Una storia globale (2023) di Peter Burke, professore emerito di storia culturale all’Università di Cambridge. La tesi principale di Burke è che nel corso della storia, le nuove conoscenze portarono, inevitabilmente, anche nuova ignoranza.

Il libro di Burke si inserisce nel campo degli “studi sull’ignoranza” (ignorance studies), che sono fioriti negli ultimi trent’anni. È vero però che lo studio dell’ignoranza è molto più antico. Sebbene la conoscenza sia stata una delle principali preoccupazioni della filosofia, anche l’ignoranza è stata, seppur tangenzialmente, oggetto di interesse per lungo tempo. Basti pensare al socratico “so di non sapere” o alla tradizione dello scetticismo (cap.2). Tuttavia, a partire dagli anni Novanta, si è tentato di andare oltre la definizione tradizionale di ignoranza come semplice assenza di conoscenza. E l’ignoranza ha acquisito importanza come oggetto di studio indipendente con la sua struttura e le sue dinamiche, che sono ora analizzate da una prospettiva multidisciplinare che include la filosofia, l’antropologia, la psicologia, la sociologia e l’economia (cfr. Gross e McCoy, 2023 per una panoramica recente).

Questo campo ha prodotto una varietà di distinzioni concettuali che Burke illustra nel primo capitolo. Ad esempio, potremmo distinguere non sapere qualcosa perché ci siamo sempre concentrati su altro (ignoranza passiva) da non voler sapere qualcosa (ignoranza intenzionale) o non volere che altre persone sappiano quello che noi sappiamo (ignoranza strategica). Un esempio di ignoranza intenzionale è l’“ignoranza bianca”, teorizzata da Charles Mills (2007), cioè l’ignoranza delle persone bianche nei confronti dei loro privilegi, dell’oppressione delle persone non bianche e dei sistemi di credenze e potere che la permettono. Un esempio di ignoranza strategica è la sistematica messa in dubbio della ricerca scientifica sui danni del fumo da parte dell’industria del tabacco, i cui esponenti hanno dichiarato segretamente “Il dubbio è il nostro prodotto” (p.271).

Tra tutte le discipline che si sono occupate di ignoranza, la storia ha avuto un ruolo minore. Come scrive Burke (p.69ss.), nel XVIII e XIX secolo, gli storici generalisti hanno trattato il progresso scientifico in modo trionfalistico, caratterizzandolo come un passaggio dall’ignoranza (il Medioevo era l’età dell’ignoranza per eccellenza) alla conoscenza. Alla fine del Novecento, storiche e storici della scienza (come Robert Proctor e Londa Schiebinger) si sono occupati principalmente dello studio della produzione e del mantenimento dell’ignoranza della scienza, spesso per scopi politici ed economici. Recentemente, alla storia della scienza si è affiancata la storia della conoscenza. La relazione tra le due è controversa: la storia della conoscenza è autonoma rispetto a quella della scienza? Oppure è semplicemente una sua espansione? Un recente articolo metodologico di Lukas Verburgt (2020) sostiene che la storia della conoscenza si può emancipare dalla storia della scienza incorporando una storia dell’ignoranza. Verburgt argomenta che un focus sulla storia dell’ignoranza aumenterebbe la rilevanza sociale della disciplina storica nel XXI secolo. Infatti, nella nostra contemporaneità e nel futuro prossimo, dalla società della conoscenza si starebbe passando a un’epoca in cui l’ignoto ha un ruolo prevalente. Perciò, una storia dell’ignoranza contribuirebbe alle competenze necessarie per il XXI secolo, fornendo profondità storica alle strategie per affrontare tutto ciò che non sappiamo.

In questo contesto intellettuale, il libro di Burke si propone come un primo abbozzo di una storia dell’ignoranza. Burke afferma nella prefazione che il libro è dedicato sia al grande pubblico, sia a studiose e studiosi del settore. Il volume si presenta come una mappa del territorio finora inesplorato della storia dell’ignoranza: dunque, è organizzato tematicamente e, per ogni tema affrontato, illustra una panoramica generale piuttosto che delle indagini approfondite.

Nella prima parte, i primi cinque capitoli sono dedicati a questioni introduttive e metodologiche che affronteremo a breve. I successivi tre capitoli sono dedicati all’ignoranza della religione, della scienza e della geografia. Nella seconda parte, Burke discute le conseguenze sociali dell’ignoranza, in ambiti e contesti specifici, cioè in guerra, negli affari, in politica, nelle situazioni di emergenza e nella sfera pubblica. Infine, Burke discute le conseguenze dell’ignoranza del futuro e del passato. Per restringere il campo spaziale e temporale, Burke si limita - ammettendo anche la propria ignoranza – ad esempi tratti dal mondo occidentale (con occasionali riferimenti all’Asia e all’Africa) negli ultimi cinquecento anni.

In questa recensione, non sarà possibile discutere ogni tema affrontato nel libro. Per questo, dopo una sintesi delle questioni metodologiche, ci concentreremo su due temi rilevanti per il dibattito pubblico contemporaneo: l’ignoranza della scienza e l’ignoranza in politica.

Iniziamo con le questioni metodologiche. Il primo punto sostanziale su cui Burke si sofferma – che è il punto di partenza di ogni storia dell’ignoranza – è l’idea che, nonostante si tenda spesso a vedere il passato come età dell’ignoranza, “ogni epoca è un’età dell’ignoranza” (p.59), per tre ragioni. In primis, nonostante collettivamente l’umanità negli ultimi due secoli sappia di più rispetto al passato, individualmente le persone sanno solo poco di più rispetto ai predecessori. In secondo luogo, l’arrivo di nuove conoscenze comporta spesso l’eclissarsi di altre. Infine, l’aumento di informazioni non significa un aumento di conoscenza, in quanto le informazioni vanno elaborate e analizzate prima di diventare conoscenza.

Una volta stabilita la pervasività dell’ignoranza, arriviamo (cap.5) alla domanda metodologica principale: com’è possibile studiare un’assenza, soprattutto un’assenza nel passato? Burke individua tre metodi. Il primo, il metodo retrospettivo, “sposta il focus dall’aumento di conoscenza alla diminuzione graduale di ignoranza” (p.72): la scoperta di qualcosa di nuovo in un’epoca ci illumina sull’ignoranza dell’epoca precedente. Il secondo metodo è lo studio delle “assenze eloquenti” (ibid.) tramite una strategia comparativa. Ad esempio, si può notare l’assenza di documenti significativi in un archivio. Oppure, confrontando diverse cronache di viaggio, si può notare quello che è sfuggito a un autore o autrice. Il terzo metodo studia l’aumento dell’ignoranza, dovuto ad esempio alla distruzione di una biblioteca, mostrando la parzialità di una narrazione trionfalistica della storia. In breve, Burke afferma, citando C.S. Lewis, che molto probabilmente ogni nuovo apprendimento porta a una nuova ignoranza (p.73) – e questo punto sarà uno dei fili conduttori del libro.

Un altro filo conduttore fondamentale del volume è l’aspetto sociale della storia dell’ignoranza. Secondo Burke, le storiche e gli storici sociali dell’ignoranza si dovrebbero chiedere: “Chi è ignorante di che cosa” (p.74)? E quali sono gli usi dell’ignoranza? Come contribuisce al dominio di un gruppo (classe, razza, genere ecc.) su un altro? Queste domande invitano, ad esempio, a distinguere l’ignoranza dell’élite da quella delle persone comuni. In quest’ottica, dunque, Burke afferma che “ignoranza è un termine ombrello che è importante studiare al plurale” (p.76): ogni gruppo e ogni epoca ha le sue ignoranze specifiche. È importante, quindi, studiare l’ignoranza dai diversi punti di vista (coloni e indigeni, uomini e donne, soldati e ufficiali), costruendo una storia “polifonica” (ibid.).

Alla luce dell’enfasi sulla storia sociale dell’ignoranza, Burke dedica uno dei capitoli iniziali (cap.3) all’ignoranza collettiva, all’interno di diversi gruppi sociali (organizzazioni, classi, razze, generi). In questo contesto, Burke riconosce l’importanza del femminismo e di una prospettiva di genere per la storia dell’ignoranza. Tratteggia dunque la storia dell’ignoranza delle donne nella prima modernità, mostrando come le donne fossero attivamente incoraggiate all’ignoranza, costrette a imparare solamente le arti femminili relative alla gestione della casa e a tenere a bada la loro “indiscreta e insaziabile” curiosità (p.48). Nel XVII e XVIII secolo, molte donne colte accusarono gli uomini di tenerle nell’ignoranza per dominarle e pretesero riforme nell’accesso all’educazione.

Questo schizzo di storia dell’ignoranza femminile nella prima modernità ci dà un primo esempio dei contenuti tematici del volume. Illustreremo ora un altro tema della storia di ignoranza: l’ignoranza della scienza (cap.7). Burke mostra come l’ignoranza ha molteplici ruoli all’interno della storia della scienza. In primo luogo, l’ignoranza potrebbe essere vista come una risorsa per la scienza: già nel XIX secolo, intellettuali come Herbert Spencer erano consapevoli che più si fanno scoperte, più aumenta l’ignoranza. Inoltre, nella prima fase del processo di ricerca, una scienziata deve praticare l’ignoranza selettiva, studiando un particolare oggetto di ricerca e contemporaneamente ignorandone altri. Nella storia della scienza l’ignoranza si manifesta spesso come perdita di saperi. Ad esempio, nel primo Medioevo si perse gran parte della scienza e matematica greca: Burke riporta la testimonianza di due studiosi dell’XI secolo che ignoravano il concetto di angoli interni di un triangolo. L’ignoranza nella scienza si manifesta anche intenzionalmente (o attivamente) come resistenza a nuove idee. Notoriamente, teorie rivoluzionarie nella storia della scienza non sono state accettate dalla generazione a cui erano indirizzate, perché mettevano in dubbio quanto le scienziate e gli scienziati erano stati “addestrati ad accettare” (p.103). Un esempio è la teoria di Wegener della deriva dei continenti. Negli anni Venti e Trenta del Novecento, la comunità scientifica ha fatto difficoltà ad accettarla sia perché ciò avrebbe significato la perdita di conoscenze accumulate nei settant’anni precedenti, ma anche per un conflitto disciplinare: infatti, si era da poco passati dalle osservazioni sul campo della geologia agli esperimenti della geofisica. L’ignoranza intenzionale non è necessariamente dovuta a motivi metodologici: negli anni Ottanta e Novanta, un gruppo di scienziati negò, nonostante le evidenze schiaccianti, il cambiamento climatico, per ragioni politiche ed economiche. Infine, Burke discute l’ignoranza della scienza da parte delle persone comuni. Nel XVI e XVII secolo, la maggior parte dei testi di filosofia naturale venivano pubblicati solo in latino. Nella prima modernità, però, circolarono dei testi di medicina in volgare, indirizzati a un pubblico più vasto. Tra il XVIII e XIX secolo, nacque il gruppo dei divulgatori di professione. Uno dei principali mezzi di divulgazione era la lezione popolare, che mostrava esperimenti condotti in pubblico. Tuttavia, nel corso del XX secolo, la conoscenza scientifica della gente comune diminuì progressivamente, nonostante le numerose iniziative dedicate alla divulgazione. La scienza, oggi, a causa della crescente specializzazione e della distanza degli esperimenti dall’esperienza comune, è diventata sempre più inaccessibile al pubblico.

Il secondo tema che discuteremo è l’ignoranza in politica (cap.11). Burke analizza tre aspetti: l’ignoranza del popolo, l’ignoranza di chi governa e l’ignoranza organizzativa (cioè tra i diversi livelli e sezioni di un’organizzazione). L’ignoranza delle persone comuni è stata coltivata dalle autocrazie. Ad esempio, nella Francia del XVII secolo, Richelieu ha sostenuto che l’istruzione popolare avrebbe provocato troppe critiche al governo e alla Chiesa. Al contrario, nelle democrazie, l’ignoranza della massa è motivo di ansia. La discussione sull’estensione del diritto di voto in Gran Bretagna nel XIX secolo fu influenzata dalla preoccupazione dell’ignoranza delle classi popolari. Perciò, la scuola divenne obbligatoria per i bambini (1870) subito dopo l’estensione del diritto di voto agli uomini qualificati della classe operaia (1867). Per quanto riguarda l’ignoranza di chi governa, Burke distingue la prima modernità dalla tarda modernità. I governanti della prima modernità spesso non riuscivano a racimolare abbastanza informazioni: l’imperatore Carlo V, pur viaggiando nei territori dell’impero per vedere la situazione con i suoi occhi, non aveva tempo per gestire tutte le carte. Al contrario, suo figlio, Filippo II, passava moltissimo tempo alla scrivania, vivendo però distaccato dalla società che governava. Inoltre, il suo punto debole era la finanza, che non voleva comprendere, condividendo con la nobilità del suo tempo l’idea che fosse vile pensare ai soldi. Nella tarda modernità, invece, presidenti e primi ministri si sono specializzati come professionisti in un settore. Eppure il loro ruolo necessiterebbe di uno sguardo d’ampio respiro. Dunque, “le lacune sono inevitabili” (p.211). Il presidente statunitense Woodrow Wilson, nonostante il suo ruolo fondamentale nella conferenza di pace di Parigi del 1919, era ignorante della geografia dell’Europa continentale. Spostandosi poi sull’ignoranza organizzativa, Burke si sofferma sul governo delle colonie. Ad esempio, l’ignoranza e il disinteresse volontario (una forma di razzismo istituzionale) dei britannici nei confronti della cultura indiana fu uno dei fattori scatenanti di ammutinamenti e rivolte, come quella del 1857.

Muovendosi attraverso molti contesti ed epoche, Ignoranza di Burke offre un vivace tour de force tra le storie delle ignoranze e i loro effetti sull’umanità. Il messaggio conclusivo del libro è che chi decide spesso non ha la conoscenza di cui avrebbe bisogno, mentre chi ha la conoscenza non ha il potere di decidere.

Leggendo Burke, il punto di vista della storia si dimostra fondamentale per capire il funzionamento dell’ignoranza. Sarebbe però anche interessante capire che cosa si potrebbe fare per affrontare l’ignoranza dilagante nella società del XXI secolo. Una delle morali del libro è l’importanza dell’educazione. Tuttavia, basterà un invito all’educazione ad abbattere lo scarto inevitabile tra chi possiede le informazioni e chi prende decisioni? Oppure saranno necessarie altre teorie normative? Quando si arriva alla dimensione normativa, la prospettiva della filosofia diventa cruciale. Ignoranza di Burke è un ottimo alleato per questo compito: la storia dell’ignoranza diventa un’utilissima miniera di esempi e casi di studio reali di cui la filosofia può servirsi per le sue teorie.

Filippo Vasone

Bibliografia
Burke, P. (2023). Ignoranza. Una storia globale. Milano: Raffaello Cortina Editore.
Gross, M., & McGoey, L. (Eds.). Routledge handbook of ignorance studies (Second
Edition). Routledge/Taylor & Francis Group.
Mills, C. W. (2007). White Ignorance. In Sullivan, S. and Tuana, N. (eds.). Race and Epistemologies of Ignorance. (pp. 11-38) Albany, N.Y.: SUNY Press.
Proctor, R. (2008). Agnotology: A Missing Term to Describe the Cultural Production of
Ignorance (And Its Study)
. In Proctor, R. & Schiebinger, L. ( E ds.). Agnotology: The Making and Unmaking of Ignorance (pp. 1-36). Stanford, CA: Stanford University Press.
Verburgt, L. M. (2020). The History of Knowledge and the Future History of
Ignorance.
KNOW: A Journal on the Formation of Knowledge 4 (1), pp. 1-24 https://doi.org/10.1086/708341

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