In una scena molto nota di Lost Highway – che costituisce forse l’indizio più evidente della maniera con cui dovrebbe, o perlomeno potrebbe, essere interpretata l’intera pellicola – David Lynch allestisce un dialogo tra il protagonista, il sassofonista Fred Madison, e due agenti di polizia. Poche battute. «I like to remember things my own way» – dichiara Madison. «What do you mean by that?» – domandano gli agenti. «How I remember them. Not necessarily the way they happened». Come me le ricordo. Non necessariamente nel modo in cui sono accadute.
Accantonando, anche se non del tutto, la lettura più probabile di quest’affermazione, nonché la più coerente con lo sfondo teorico dell’intera produzione cinematografica lynchiana, vale a dire quella di ascendenza psicoanalitica (focalizzata sull’altalena immaginaria contenuto latente-contenuto manifesto sulla quale Freud ci ha mostrato consistere l’attività del lavoro onirico), è possibile, a nostro avviso, estrarre da essa, alla maniera dell’epoché fenomenologica, una sorta di metodo autenticamente speculativo tramite cui interrogare filosoficamente la storia di qualcosa (o qualcuno). Che cosa può voler dire, infatti, ricordare le cosecome ce le si ricorda e non necessariamente nel modo in cui sono accadute? Può volere dire, innanzitutto, ricordare le “cose” e non i “fatti” o, meglio, ricordare i fatti nella loro “cosalità” e non nella loro “fatticità”. E poi, può voler dire, soprattutto, collocare queste cose/fatti non all’interno di una rimemorazione fine a se stessa e, in un certo senso – che chiariremo immediatamente – nemmeno oggettiva, bensì radicalmente interessata dal problema che costituisce la ragione della sua scaturigine; l’atto traumatico che ci costringe a “ricordare”, in una maniera che, tuttavia, non ha più molto a che fare con il registro passivo della rimemorazione, ma abbraccia, piuttosto, il registro attivo – inventivo, creativo – dell’immaginazione, nel suo senso più alto.
Assumiamo, pertanto, che ricordare le cose come ce le si ricorda, non necessariamente nel modo in cui sono accadute significhi, innanzitutto, ricordare l’accadere di un accaduto, piuttosto che l’accaduto ritagliato dalla sostanza del suo accadere; il «senso del problema»[1] – per dirla con Bachelard – da cui è scaturita una specifica e provvisoria soluzione, piuttosto che quella soluzione in quanto tale; la congiuntura che l’ha resa possibile e che rimane attiva e questionabile al di là dell’itinerario di cui è stata oggetto questa o quella specifica soluzione a essa connessa. Si tratta di un’operazione che «disegna un processo piuttosto che indagare un oggetto»[2]. Deduciamo, poi, da tutto ciò, che tale ricordare non consiste in una tanto lineare, quanto oggettiva e neutrale registrazione, ma piuttosto in un «potere di selezione delle forme, di schematizzazione dell’esperienza»[3]. Un’operazione tutt’altro che neutrale, tutt’altro che oggettiva – dicevamo. È a causa di un’interpellazione specifica – un sentimento superficiale e visibile del problema – che cominciamo a ricordare; a ricavare da questo sentimento un senso più profondo ed opaco; a ricercare la presenza di questo senso nel suo continuo riaffioramento sotto una coltre di soluzioni più o meno luminose; infine, a ri-vivificarlo – rendendo disponibili le sue virtualità per ulteriori e differenti forme di attualizzazione.
Interrogare filosoficamente la storia di qualcosa (o qualcuno), di conseguenza, vorrà dire scrivere una storia ratificante, normativa, giudicata, per dirla ancora una volta con Bachelard; radicalmente orientata al presente, «illuminata dalla finalità del presente»[4]. Significherà fare riaffiorare faticosamente il senso di un problema non immediatamente visibile, poiché spesso rimosso, quando non del tutto forcluso, dallo spazio del pensiero.
È in una direzione siffatta – per quanto, in questo contesto, solamente abbozzata – che potrebbe, a nostro avviso, apparire produttivo interrogare filosoficamente la stessa storia della filosofia, insieme o accanto – perché no? – alle vite dei filosofi stessi. Ed è con i medesimi propositi che vorremmo provare a dialogare con i due ultimi libri di Giovanni Carrozzini, pubblicati entrambi per Castelvecchi e intitolati, rispettivamente, Variazioni su Simondon (2020)e Gilbert Simondon. Del modo di esistenza di un individuo (2021).
A Carrozzini dev’essere riconosciuto, innanzitutto, il merito di essere stato tra i primi ad avere riservato un’attenzione rigorosa al pensiero di Simondon all’interno del dibattito italiano (e in italiano.) A una ricognizione della filosofia di Simondon nel suo complesso ha, infatti, dedicato un primo volume nel 2006, Gilbert Simondon: per un’assiomatica dei saperi. Dall’“ontologia dell’individuo” alla filosofia della tecnologia (Manni, San Cesario) e un secondo volume nel 2011, Gilbert Simondon filosofo della mentalité technique (Mimesis, Milano-Udine). Il tutto inframezzato dalla curatela di un importante numero monografico della rivista Il Protagora (Gilbert Simondon filosofo delle tecniche, 2008) e dalla traduzione della versione integrale della tesi di dottorato principale di Simondon (L’individuazione alla luce delle nozioni di forma e d’informazione, Mimesis, Milano-Udine 2011). Anche negli anni successivi, tanto il pensiero del filosofo francese, quanto il suo “modo di esistenza” in quanto “individuo” (o, meglio sarebbe dire, forse, in quanto “processo di individuazione”)[5] hanno continuato a rappresentare un polo di attrazione/attenzione preferenziale per Carrozzini – cosa che lo ha reso, a tutti gli effetti, uno dei maggiori studiosi del filosofo di Saint-Étienne.
Variazioni su Simondon [VS] e Gilbert Simondon. Del modo di esistenza di un individuo [GS]rappresentano, in questo senso, una sorta di crocevia all’interno della produzione dell’autore. Nel secondo – che anche una lettura superficiale consente di identificare come la prima biografia organica di Simondon, fatta eccezione per il breve, ma rilevante ritratto a firma di Nathalie Simondon a cui Carrozzini non manca di rinviare[6] – precipitano una serie di ricerche d’archivio che hanno accompagnato sin dall’inizio lo studio del filosofo francese da parte di Carrozzini. Una «biografia intellettuale» che, lungi dall’esaurirsi in una «raccolta di dati relativi alla vita e al pensiero del soggetto prescelto» (GS, 5), costituisce piuttosto uno strumento utile a cominciare quantomeno a collocare Simondon nella storia della filosofia. Tanto quella a lui contemporanea, rispetto alla quale conservò sempre una – per molti versi – produttiva distanza, nella misura in cui «non palesò mai una qualche condivisione e neppure un vero e proprio confronto delle/con le filosofie “alla moda” dell’epoca» (GS, 45), quanto quella più estesa e classica con la quale, al contrario, non cessò mai di confrontarsi in modo singolare. “Confronto singolare” che, invece, costituisce la sostanza del primo – e i cui modi trovano una concrezione nell’interrogazione del rapporto diretto tra Simondon e i fisiologi ionici, Lucrezio, Aristotele, Descartes, Spinoza e Pascal, da un lato, e di quello indiretto (o parzialmente tale) tra il filosofo francese e von Uexküll, Teilhard de Chardin e Santayana, dall’altro. Al suo interno precipitano, in questo caso, una serie di riflessioni e intuizioni più o meno elaborate che sembrano tracciare i confini di un lavoro in corso (è in termini di una serie di “ipotesi di ricerca” che si esprime, talvolta, l’autore stesso), teso a riflettere sul rapporto tra Simondon e la storia della filosofia. Un campo già parzialmente battuto, certamente, ma che contiene, a nostro avviso, un ventaglio di potenziali inespressi – tanto in relazione alla sostanza qua talis, quanto ai suoi modi –, che Carrozzini ha il merito di cominciare ad attualizzare, fornendoci, al contempo, qualche indicazione utile circa le maniere di trattarli.
Ostentando un’ultima volta una certa dose di spregiudicatezza e assumendo che ricordare le cose come ce le si ricorda, non necessariamente nel modo in cui sono accadute possa essere anche un buon modo di fare storia della filosofia, cominciamo allora con il domandarci se anche Simondon – come il sassofonista Fred Madison – abbia questo tipo di rapporto con il passato; un passato che, confidando di essere riusciti almeno un po’ a chiarire in che senso, non è mai solamente “passato”, ma è sempre, al contempo e piuttosto, un «passato-nel-presente»[7], un «passato attuale»[8]. Allo stesso modo, potremmo cominciare col dire che, per Simondon, anche la “storia” della filosofia è sempre orientata al “presente” della filosofia. «In tal senso – scrive Carrozzini –, il lavoro sulla storia della filosofia non risulta disgiunto da quello autenticamente filosofico e lo sforzo reale risiede proprio nel coniugare in modo inventivo queste due dimensioni» (VS, 55). La storia della filosofia agisce, in questo senso, come carburante, sia nella misura in cui è causa – in almeno un senso, aristotelicamente parlando – del «lavorio alacre del pensare filosoficamente» (VS, 55-56), sia nella misura in cui «come energia in entrata nel sistema filosofico simondoniano appare, in uscita, profondamente trasformata dal contatto con questo sistema, alimentando un’autentica “invenzione”» (VS, 55). A tal proposito, è a nostro avviso opportunamente che Carrozzini propone, sulla scorta di Ludovic Duhem[9], di leggere tale “restituzione” nei termini di una trasduzione – «[u]na significativa restituzione “trasdotta”, ovvero amplificata e trasformata […]» (VS, 58). È quanto accade – come ci mostra sempre opportunamente l’autore – i) con le riflessioni dei fisiologi ionici (e in particolare di Talete e Anassimandro) sull’“archè quale principio ed elemento”, l’“entità pre-elementare” e “il divenire e il movimento” e di Lucrezio sulla natura, che, per stessa ammissione di Simondon, hanno occupato un ruolo di rilievo nei processi di elaborazione di alcune delle sue categorie più note: il preindividuale, la visione operatoria del reale che sarà a fondamento dell’allagmatica, il/i potenziale/i, etc. (VS, 56-68); ii) con le nozioni aristoteliche di forma/materia e atto/potenza, di cui, come noto, Simondon denuncia contraddizioni e limiti, preferendo loro una lettura radicalmente differente della “presa di forma” come processo di individuazione di una forma-materia alla luce della nozione di informazione e una categoria constatabile come quella di “potenziale”, appartenente al dominio della realtà piuttosto che a quello della virtualità (VS, 68-74); iii) con le “idee chiare e distinte” di Descartes, che assumono il carattere di «strutture dotate di potenziale informativo atte all’innesco di processi di amplificazione» (VS, 76); il suo tentativo di combinare res cogitans e res extensa, tramite cui avrebbe «esaminato lo sviluppo delle conversioni fra strutture e intuito la loro possibile commutabilità in operazioni» e così contribuito a «una prima, aurorale, elaborazione dell’allagmatica» (VS, 78); la maniera con cui ne Le passioni dell’anima declina la “vera Generosità” che influenza la categoria simondoniana di atto morale; iv) con la «stringente coincidenza fra la filosofia della Natura e l’etica» (VS, 81) in Spinoza, che trova una ripresa in Simondon attraverso la categoria di “assiontologia”; v) con, infine, «le strategie logiche attuate da Pascal nei suoi Pensées» (VS, 83) – descrizione di un ente a partire dagli estremi del dominio da cui emerge, attenzione per le differenze che specificano un ente e un dominio in rapporto a un altro, approccio analogico alle realtà esaminate – e l’influenza che, nel loro complesso, esse avrebbero esercitato sull’allagmatica simondoniana e, in particolare, sull’utilizzo singolare dell’analogia posto in essere dal filosofo francese. E, similmente, è anche quanto Carrozzini fa accadere, orchestrando una serie di incontri fra von Uexküll e il suo concetto di Umwelt e Simondon e la sua categoria di ambiente associato (VS, 109-128); Simondon e Teilhard de Chardin, alla luce dei loro sistemi (129-147); e, infine, Simondon e Santayana in relazione agli Stati Uniti d’America, come – potremmo dire, sulla scorta di Deleuze e Guattari – “luogo concettuale” o “soglia geofilosofica” (149-161).
E, tuttavia, è proprio sul carattere singolare di questi confronti che vorremmo provare a incalzare ulteriormente la riflessione di Carrozzini, non tanto – lo si comprenderà immediatamente – nei termini di una critica, quanto piuttosto in quelli di un’amplificazione prospettica.
Un’obiezione che potrebbe essere rivolta al carattere peculiare di fare storia della filosofia di Simondon è, infatti, quella di compiere un uso radicalmente personale, quando non del tutto relativistico, delle fonti. Si tratta di una critica che viene rivolta in modo ricorrente a molti filosofi francesi contemporanei e che, tuttavia, crediamo sia importante – per molti versi decisivo – rinviare al mittente, provando a spiegare il perché. Potrebbe essere sufficiente, a questo proposito, fornire due dati: uno biografico e uno bibliografico. Da un lato, infatti, tra i maestri, più o meno diretti, di Simondon figurano alcuni segnavia canonici della storia della filosofia francese, come Martial Guéroult, Jean Hyppolite e Henri Gouhier, il cui influsso sul filosofo di Saint-Étienne, malgrado sia ancora poco indagato, è facilmente constatabile (GS, 12-13). Dall’altro, tra i suoi lavori, troviamo, ad esempio, una Storia della nozione di individuo, che passa in rassegna l’intera storia della filosofia occidentale[10]. E, tuttavia, reputiamo importante non fermarsi a quanto è più superficialmente constatabile e, piuttosto, concentrare l’attenzione sulla differenza che corre tra un utilizzo relativistico degli archivi della storia della filosofia e una sua interrogazione – riqualifichiamola ancora una vola in questi termini – ratificante, normativa, giudicata. Il fatto che Simondon non si limiti a una ricostruzione del pensiero degli autori che prende in considerazione, ma ne proponga una restituzione, non apre le porte al relativismo, quanto piuttosto alla problematizzazione. Nell’ultima fase della sua riflessione, Foucault utilizzava questo termine proprio per identificare il modo di esistenza di un pensiero che fosse costitutivamente in rapporto con un impensato. In modo per certi versi simile, provando a pensare con Bachelard e Simondon, intendiamo la problematizzazione come la ri-vivificazione e la riattivazione del senso di un problema nella forma dei suoi potenziali, mai del tutto assorbiti nelle soluzioni che da esso sono scaturite[11]. In questo senso, potrebbe essere utile affinare ulteriormente gli estremi dell’analogia avanzata da Carrozzini tra il lavoro storico-filosofico di Simondon e la trasduzione, pensando il carattere amplificante e trasformativo di quest’ultima proprio nei termini di una problematizzazione. A nostro avviso, infatti, la riforma simondoniana della storia della filosofia potrebbe essere fatta procedere di pari passo con la sua riforma della nozione (cibernetica) di informazione. «[...] l’information n’est pas une chose – afferma Simondon –, mais l’operation d’une chose arrivant dans un système et y produisant une transformation»[12]. Un sistema – tale è ciò che qualifica secondo Simondon, qualsiasi realtà che potrebbe virtualmente costituire un recettore d’informazione – «qui ne possède pas entièrement en [lui]-même la détermination du cours de son devenir»[13]. È esattamente in questi termini – vale a dire come un sistema che si trova in uno stato di equilibrio metastabile – che Simondon considera la storia della filosofia o, meglio, la filosofia che si trasduce nella sua storia, la quale è sempre storia di un farsi, mai storia di un fatto. Filosofare, per Simondon – ci invita a considerare Carrozzini –, «significa creare e riflettere sul processo di creazione» (GS, 29). Ed è proprio nei termini di un’operazione che interessa un sistema e vi produce una trasformazione che agisce anche l’operare (storico-)filosofico di Simondon[14]. Dovrebbe essere chiaro, a questo punto, in che cosa un’operazione problematizzante differisce tanto da un uso relativistico della storia della filosofia, quanto da un suo uso canonico – nel senso più proprio del termine –, caratterizzato da una proiezione diplopica sul passato di un qualche senso dai contorni ben definiti, che riduce il primo a un processo continuo e coerente di inveramento della sua essenza, di esibizione delle prove della sua verità. Non è tanto sulle strutture locali di questo o quel sistema, sulle forme di questo o quel pensiero, che agisce l’operazione problematizzante, quanto piuttosto sulla serie dei loro potenziali: incompatibilità interne, indeterminazioni parziali, problematiche. Tutti sintomi del persistere, all’interno di ogni individuo, di quello che Simondon chiama preindividuale, che esiste sempre come «potenza del divenire risolutivo», «fonte di futuri stati metastabili dalla quale potranno sorgere nuove individuazioni»[15]. A interessare Simondon non sono tanto le soluzioni, quanto il senso del problema che brilla, più o meno sintomaticamente, sotto di esse – in una posizione di «sì-e-no», di «partecipazione departecipata» – e che, spesso, può valere la pena riattivare, tramite un’«azione risolutiva», per provare a ri-articolare in una direzione differente[16]. È quanto notoriamente accade con la nozione aristotelica di forma, che, una volta interessata dall’“informazione incidente”-Simondon, fa brillare il senso di tutti i problemi che essa, da secoli, porta con sé: rapporto potenza/atto, forma/materia, individuo/processo di individuazione, etc. Ma è anche quanto accade – meno notoriamente – con tutta un’altra serie di nozioni su cui Carrozzini ha il merito di porre l’attenzione proprio in questi termini. Si pensi all’unilateralità tanto di posizioni come quelle dei fisiologi ionici che enfatizzano il ruolo del movimento e del divenire a discapito delle strutture, quanto di posizioni come quelle dei filosofi atomisti (o anche di Platone) che difendono la rilevanza della stabilità a discapito del movimento. Un’opposizione – la stessa che, mutatis mutandis, ritroveremo anche qualche secolo più tardi, tra l’«oggettivismo fenomenista di Kant e di Auguste Comte» e l’«intuizionismo dinamico di Bergson» (o di Deleuze, VS, 66, n. 27) – che se interrogata da una certa prospettiva, mostra una tenuta precaria e, a partire da ciò, la necessità di essere riarticolata in una direzione altra, che per Simondon ha significato provare a pensare, contro il «monismo epistemologico della struttura o dell’operazione»[17], il problema della conversione della struttura in operazione e dell’operazione in struttura all’interno di un medesimo tempo logico. Ma si pensi anche a Descartes – a cui Carrozzini dedica un’intera appendice (VS, 88-107) segnalando, tra le altre cose, i contorni di un’indagine che, a opinione di chi scrive, sarebbe estremamente produttivo approfondire ulteriormente – la cui (pseudo-)“mentalità tecnica”, riscontrabile in molte delle nozioni che egli mette in campo e a cui si rivolge l’orecchio attento e ratificante di Simondon, rimane problematicamente attiva (e, pertanto, ri-attivabile) anche sotto la coltre dell’«impostazione sostanzialista e continuista del suo sistema» (VS, 78), che, rispetto ai potenziali di tale tecnologia generale o riflessiva, agisce come un vero e proprio ostacolo epistemologico. O allo stesso Pascal – «sorprendente filosofo della pratica scientifica, quasi un materialista»[18], come lo definisce Althusser – nei confronti del quale potrebbero essere fatte valere considerazioni simili. In questi termini, inoltre, anche gli altri tre autori convocati da Carrozzini – von Uexküll, Teilhard de Chardin e Santayana – potrebbero rappresentate un buon banco di prova della proficuità, anche al di là della lettera di Simondon, di una modalità specificamente simondoniana di fare storia della filosofia. La già ampia analisi di Carrozzini dei rapporti tra Umwelt e ambiente associato potrebbe essere ulteriormente arricchita, per esempio, da una problematizzazione simondoniana dello sconfinamento ideologico attuato da von Uexküll quando estende il concetto di Umwelt oltre i suoi confini specificamente biologici, ipotizzando l’esistenza di un Bauplan interspecifico, che, a opinione di chi scrive, appare – soprattutto quando si prendono in considerazione le Umwelten umane – come la soluzione ideologica a una questione – ancora una volta, un problema – tutt’altro che di poco conto e che potrebbe essere indentificato con la domanda riguardo alle fattezze e la singolarità dell’ambiente sociale o, più semplicemente, della società. Lo stesso si potrebbe dire di Teilhard – «palentologo in abito talare»[19], lo definiva, provocatoriamente, ancora una volta Althusser –, alla cui superfetazione teologica sopravvive il problema del sistema, rispetto al quale Simondon avrebbe, a nostro avviso, da dire molto più di quanto, fino ad ora, gli è stato fatto dire dai suoi commentatori. O di Santayana, la cui cartografia concettuale degli Stati Uniti sembra, per certi versi, prendere in carico il senso di un problema che fu di Tocqueville, riattivandolo in direzioni sicuramente discutibili, nei due sensi propri del termine, che riassumono bene quanto abbiamo provato a dire fino a questo momento: meritevoli di essere discusse, da un lato, e problematiche, dall’altro.
È all’interno di questi interstizi che il posto occupato da Simondon nella storia della filosofia assume una veste peculiare a partire dal rapporto che egli instaura – e ci consente di instaurare – con la storia della filosofia. Su un piano generale, infatti, il filosofo francese ci insegna a pensare l’indagine storico-filosofica (nonché, per certi versi, la stessa storia della filosofia) come una trasduzione; su un piano particolare, ci fornisce, direttamente o indirettamente, più di qualche strumento per mettere in atto tale trasduzione. Variazioni su Simondon ha senza dubbio il merito di fare luce, all’interno di un insieme discorsivo coerente, su entrambe queste serie convergenti: sui loro punti di connessione e sulle loro possibili linee di fuga. Gilbert Simondon. Del modo di esistenza di un individuo costituisce, in questo senso, un elemento di tale insieme, che, in quanto elemento – è sempre Simondon a insegnarcelo – possiede una sua forma singolare di concretezza e trasmissibilità. La vita stessa del filosofo di Saint-Étienne appare, in tal senso – questo è un grande merito di Carrozzini, la cui ricercatezza di dettaglio non cede quasi mai il passo all’agiografia, nemmeno nell’utilizzo delle numerose testimonianze dirette che è riuscito a reperire (GS, 49-62) –, essa stessa una continua trasduzione – professionale e teorica e professionale-e-teorica – e traccia, contemporaneamente, il piano materiale a partire da cui provare ad operare una problematizzazione più accorta anche dei limiti della riflessione dello stesso Simondon. In tale andirivieni continuo, questi due lavori inaugurano così – in maniera molto differente l’uno dall’altro – un cantiere certamente dotato di una propria autonomia, ma, che individua, al contempo, una serie di soglie metastabili, contribuendo a rendere possibili altre e nuove trasduzioni e collaborando, in questo modo, «alla faticosa impresa di costruzione del sapere» (GS, 5).
di Marco Ferrari
[1] G. Bachelard, La formazione dello spirito scientifico. Contributo a una psicoanalisi della conoscenza oggettiva, tr. it. a cura di E.C. Gattinara, Cortina, Milano 1995, p. 12.
[2] P. Macherey, La filosofia della scienza di Georges Canguilhem. Epistemologia e storia delle scienze, in Da Canguilhem a Foucault. La forza delle norme, tr. di P. Godani, introduzione di V. Fiorini e P. Savoia, Ets, Pisa 2011, pp. 35-69, qui p. 67.
[3] G. Simondon, Del modo di esistenza degli oggetti tecnici, tr. it. di A.S. Caridi, Orthotes, Napoli-Salerno 2020, p. 139.
[4] G. Bachelard, L’attività razionalista della fisica contemporanea, tr. it. a cura di F. Bonicalzi, tr. di C. Maggioni, rev. sc. di G. Mattace Raso, Jaca Book, Milano 2020, p. 56.
[5] Si vedano, a tal proposito, in particolare le sezioni monografiche da lui curate dei numeri 23-24 (2015) e 29-30 (2018) della rivista Il Protagora.
[7] S. Bachelard, Epistemologia e storia delle scienze, in F. Bonicalzi, La ragione cieca, Jaca Book, Milano 1982, pp. 117-131, qui p. 121.
[8] G. Bachelard, G. Bachelard, L’attività razionalista della fisica contemporanea, cit., p. 55.
[9] Cfr. L. Duhem, Apeiron et physis. Simondon transducteut des présocratiques, in «Cahiers Simondon», 4, 2012, pp. 33-66.
[10] Più in generale, non è superfluo sottolineare come una serie di riferimenti organici alla storia della filosofia siano presenti in molti dei corsi e degli scritti “minori” (conferenze, abbozzi e appunti non pubblicati, etc.) di Simondon. Si vedano, a titolo di esempio, Les grands courants de la philosophie française contemporaine [1962-1963], Sciences de la nature et sciences de l’homme, entrambi in G. Simondon, Sur la philosophie (1950-1980), Éditions établie par N. Simondon et I. Saurin, Préface de F. Worms, Puf, Paris 2016, pp. 131-150 e 219-321. Ma si tenga in considerazione anche il corso, tutt’oggi ancora inedito, intitolato Quelques éléments d’histoire de la pensée philosophique dans le mondo occidental, richiamato da Carrozzini sulla scorta di una testimonianza di Vincent Bontems (GS, 95, n. 229).
[11] La categoria di problema è, a nostro avviso, tanto centrale, quanto ancora poco discussa, in tutta la riflessione di Simondon. È particolarmente indicativo, a questo proposito, quanto il filosofo francese scrive nella conclusione de L’individuazione: «Il presente dell’essere consiste nella sua problematica in via di risoluzione, essendo, in quanto tale, bipolare secondo il tempo, proprio perché problematica. L’essere individuato non consiste nella sostanza, bensì nell’essere posto in questione, nell’essere attraversato da una problematica, diviso, riunito, portato all’interno di questa problematica che si pone per mezzo di lui e lo fa divenire nel modo in cui diviene» (G. Simondon, L’individuazione alla luce delle nozioni di forma e d’informazione, tr. it. a cura di G. Carrozzini, Mimesis, Milano-Udine 2011, pp. 436-437). Siamo convinti che una riflessione organica attorno a questa categoria potrebbe mostrare l’esistenza di un legame più solido di quanto fino a questo momento si è ammesso tra il filosofo di Saint-Étienne e non solo alcuni dei suoi maestri – come Canguilhem e, più indirettamente, Bachelard –, ma anche la “tradizione” a cui si è soliti ascrivere questi ultimi, ovverosia quella della cosiddetta epistemologia storica. In questo contesto ci limitiamo ad affermarlo, a nostra volta, come segnale di un lavoro in corso.
[12] G. Simondon, L’amplification dans les processus d’information [1962], in Communication et information. Cours et conferences, Édition établie par N. Simondon et présentée par J.-Y. Chateau, Les Éditions de la Transparence, Paris 2010, pp. 157-176, qui p. 159.
[14] Sull’attitudine riflessiva della filosofia, intesa, per certi versi, proprio come «un cas particulier de relation entre une problématique et les différentes opérations par lesquelles elle peut être résolue», si veda: G. Simondon, «Introduction» (Note sur l’attitude réflexive, autour de 1955), in Sur la philosophie…, cit., pp. 19-25, qui p. 23.
[15] G. Simondon, L’individuazione…, cit., p. 440 e 39.
[16] Id., Per una nozione di situazione dialettica, tr. it. a cura di G. Carrozzini, in «Il Protagora», 5/5 (2005), pp. 105-119, qui p. 113 e 115.
[17] Id., Allagmatica, in L’individuazione…, cit., pp. 769-779, qui p. 776.
[18] L. Althusser, Filosofia e filosofia spontanea degli scienziati e altri scritti, tr. it. di F. Fistetti, De Donato, Bari 1976, p. 80
Nel suo primo libro che non si presenta nella forma di studio monografico su un autore, ma come un’opera di carattere spiccatamente teorico, vale a dire Différence et répétition, Gilles Deleuze introduce un tema significativo: quello dell’incrinatura dell’Io. Egli fa risalire la presa di coscienza di tale fenomeno a Kant, richiamando in particolare una nota, nella Critica della ragione pura, in cui si legge: «L’io penso esprime l’atto del determinare la mia esistenza. Con ciò l’esistenza è quindi già data; tuttavia, con ciò non è ancora dato il modo in cui io debba determinare tale esistenza, cioè porre in me il molteplice che appartiene ad essa. Per questo si richiede l’auto-intuizione, che si fonda su una forma data a priori, cioè il tempo» (Kant 1997: 115) [1]. Da questa breve osservazione derivano, secondo Deleuze, conseguenze radicali. Infatti, se «la mia esistenza indeterminata può essere determinata solo nel tempo», allora «la spontaneità di cui ho coscienza nell’Io penso non può essere intesa come l’attributo di un essere sostanziale e spontaneo, ma soltanto come l’affezione di un io passivo il quale avverte che il proprio pensiero, la propria intelligenza, ciò attraverso cui egli dice io, si esercita in lui e su di lui […]. L’attività del pensiero si applica a un essere ricettivo, a un soggetto passivo, che si rappresenta dunque tale attività piuttosto che attuarla, ne sente l’effetto piuttosto di averne l’iniziativa, e che la vive come un Altro dentro di lui. […] Da parte a parte, l’io è come attraversato da un’incrinatura; è incrinato dalla forma pura e vuota del tempo» (Deleuze 1997: 116-117) [2].
Ma non basta: mentre ancora in Descartes «l’identità supposta dell’Io non ha altro garante che l’unità di Dio stesso», Kant annuncia «la simultanea scomparsa della teologia razionale e della psicologia razionale, il modo in cui la morte speculativa di Dio porta con sé un’incrinatura dell’Io» (Deleuze 1997: 116). Va precisato, però, che quest’audace avanzata teorica kantiana è seguita da un arretramento, per cui «il Dio e l’Io conoscono una resurrezione pratica. E anche nell’ambito speculativo, l’incrinatura è presto colmata da una nuova forma d’identità, l’identità sintetica attiva» (Deleuze 1997: 117). La prospettiva prima dischiusa e poi richiusa da Kant viene, a giudizio di Deleuze, riaperta da un poeta, Hölderlin, «che scopre il vuoto del tempo puro e, in tale vuoto, scopre nel contempo il continuo distogliersi del divino, l’incrinatura prolungata dell’Io e la passione costitutiva del Me. In questa forma del tempo, Hölderlin scorgeva l’essenza del tragico o l’avventura di Edipo, come un istinto di morte» Deleuze 1997: 117).
Il riferimento è ai commenti aggiunti dal poeta alle proprie traduzioni di due tragedie di Sofocle, e in particolare alle Note all’«Edipo» (Hölderlin 2019: 763-773). Qui Hölderlin sostiene che nella tragedia trova espressione il fatto che, «in un’epoca ristagnante, il dio e l’uomo, affinché non vi sia lacuna nel corso del mondo e non si spenga la memoria dei celesti, comunicano nella forma, dimentica di tutto, dell’infedeltà […]. In tale momento l’uomo dimentica sé e il dio, e gli si rivolta – seppur in modo sacro – come un traditore. Al limite estremo della sofferenza, infatti, non esiste più niente, tranne le condizioni del tempo e dello spazio» (Hölderlin 2019: 772-773). Deleuze allude anche a un’altra osservazione hölderliniana, quella secondo cui, essendo «il trasporto tragico […] in sé vuoto», ne consegue che, «nella sequenza ritmica delle figurazioni in cui il trasporto si manifesta, diventa necessaria la parola pura, l’interruzione antiritmica – ciò che nella metrica si chiama cesura» (Hölderlin 2019: 764). Quest’ultima nozione viene rapportata dal filosofo francese non soltanto al tempo, ma anche alla psiche, per cui «sono la cesura, e il prima e il dopo che essa ordina una volta per tutte, a costituire l’incrinatura dell’Io (la cesura è esattamente il punto d’insorgenza dell’incrinatura)» (Deleuze 1997: 119).
Già dai pochi passi citati (relativi a Kant e Hölderlin) emergono due tratti caratteristici: la propensione di Deleuze a proporre interpretazioni piuttosto libere dei testi, in funzione di una teoria che egli intende avanzare per interposta persona, e la tendenza ad utilizzare spesso esempi letterari, accanto a quelli filosofici. Questo secondo aspetto del suo modo di procedere trova conferma nel rinvio, nelle stesse pagine, a testi narrativi: «Sul tema di una “incrinatura” dell’Io, in rapporto essenziale con la forma del tempo intesa come istinto di morte, ci si riporterà a tre grandi opere letterarie, benché assai diverse fra loro: La bête humaine di Zola, Il crollo di F. S. Fitzgerald, Sotto il vulcano di M. Lowry» (Deleuze 1997: 117) [3].
Al primo di questi testi, Deleuze ha dedicato un saggio, incluso nel volume Logique du sens (Deleuze 1975: 281-291). Egli ricorda che è stato lo stesso Zola ad usare nel suo romanzo il termine «incrinatura», in riferimento a una specie di tara ereditaria di cui il protagonista, Jacques Lantier, subisce le conseguenze (Zola 2019: 63-64). In effetti è noto che lo scrittore prestava molto credito alle teorie, in voga a quell’epoca, relative all’ereditarietà. Ma Deleuze sostiene che, nel caso specifico di Lantier, le cose sono più complesse: «L’ereditarietà non è ciò che passa attraverso l’incrinatura, ma è l’incrinatura stessa: la frattura o il buco, impercettibili. […] Non trasmette nulla tranne se stessa» (Deleuze 1975: 282). Anche l’istinto (sessuale o omicida) a cui il protagonista cede, con esiti rovinosi per lui e per altri, «non si confonde mai con l’incrinatura, ma intrattiene con essa stretti rapporti variabili: ora la ricopre e rincolla alla meglio, e per un tempo più o meno lungo […]; ora l’allarga, le dà un diverso orientamento che fa esplodere i frammenti» (Deleuze 1975: 282-283). L’incrinatura non opera dunque alla maniera dell’ereditarietà, «non riproduce un “medesimo”, non riproduce nulla, si limita ad avanzare in silenzio, a seguire le linee di minor resistenza, sempre deviando, pronta a cambiare direzione» (Deleuze 1975: 284). Da ultimo, il filosofo ritiene di poter affermare che «l’essenziale di La bête humaine è l’istinto di morte nel personaggio principale, l’incrinatura cerebrale di Jacques Lantier, macchinista di locomotiva» (Deleuze 1975: 286).
Parlare di istinto di morte equivale senza dubbio a chiamare in causa la psicoanalisi. In Différence et répétition, Deleuze ricorda le tesi esposte (o, per meglio dire, prese in esame) da Freud in Al di là del principio del piacere (Freud 1989: 187-249), e tuttavia lo fa soprattutto al fine di contestarle. Così, se il fondatore della psicoanalisi giungeva a ipotizzare un contrasto di fondo tra pulsioni di vita, identificabili con l’eros, e pulsioni di morte, il filosofo nega l’indipendenza di queste ultime: «Non vediamo dunque alcuna ragione per supporre un istinto di morte che si distingua da Eros, sia per una differenza di natura tra due forze, sia per una differenza di ritmo o di ampiezza tra due movimenti. In entrambi i casi, la differenza sarebbe già data, e Thanatos indipendente. Secondo noi, al contrario, Thanatos si confonde interamente con la desessualizzazione di Eros» (Deleuze 1997: 148). Poiché la concezione di Deleuze è di tipo essenzialmente vitalistico, egli non può far altro che arretrare di fronte all’idea che esista un’autonomia delle pulsioni di morte.
Nel contempo, però, egli si rende conto che sarebbe poco corretto pensare all’incrinatura dell’io come se si trattasse unicamente di un fenomeno negativo, di una mera sottrazione di energia, sicché in altri punti del suo libro egli presenta la crepa che si produce nella psiche in maniera del tutto differente, ossia come generatrice di idee: «Per quanto il Cogito rinvii a un Io incrinato, spaccato da parte a parte dalla forma del tempo che lo attraversa, bisogna dire che le Idee formicolano in tale incrinatura, emergono costantemente sui bordi di essa, uscendo e rientrando senza posa, componendosi in mille modi diversi» (Deleuze 1997: 221). Può sembrare contraddittorio conferire all’incrinatura psichica caratteri nel contempo negativi e positivi, ma questa duplicità appartiene alla natura stessa del fenomeno in questione. Chi subisce gli effetti dell’incrinatura si trova suo malgrado a sperimentare qualcosa di eccessivo, che lo destabilizza fin nel profondo. A ciò può reagire in due maniere opposte, o lasciandosi scivolare sulla china della perdita, dell’istinto di morte, oppure trasformando l’incrinatura in uno stimolo, ad esempio per la creazione di concetti filosofici o di opere artistiche.
Infatti l’insorgenza del pensiero innovativo non dipende, secondo Deleuze, da una predisposizione innata o da uno sforzo volontaristico, bensì da uno choc iniziale che si è subito. Già nel suo libro su Proust egli avvertiva che «il torto della filosofia sta nel presupporre in noi una buona volontà di pensare, un desiderio, un amore naturale del vero. Perciò la filosofia arriva soltanto a verità astratte, che non compromettono nessuno e non sconvolgono nulla. […] Tali idee restano gratuite, perché sono nate dall’intelligenza, che conferisce loro una sola possibilità, e non da un incontro o da una violenza che potrebbero garantirne l’autenticità. […] La verità dipende da un incontro con qualcosa che ci costringe a pensare, e a cercare il vero» (Deleuze 1986: 16-17). Dato che Deleuze sta parlando di Proust, si può scorgere una corrispondenza tra la valorizzazione delle idee filosofiche subite rispetto a quelle elaborate razionalmente e il privilegio (conoscitivo, oltre che emotivo) concesso dall’autore della Recherche alla memoria involontaria in confronto a quella volontaria. Ma anche nel diverso contesto di Différence et répétition Deleuze ribadisce che le idee cui si perviene per semplice ragionamento logico hanno un valore limitato: «Manca ad esse una provocazione, che sarebbe quella della necessità assoluta, cioè di una violenza originaria fatta al pensiero, di un’estraneità, di un’inimicizia che sola lo farebbe uscire dal suo stupore naturale o dalla sua eterna possibilità: […] non c’è pensiero se non involontario, costrizione suscitata nel pensiero» (Deleuze 1997: 182).
Il fatto che la violenza subita dalla psiche non raggiunga necessariamente l’individuo quando si trova nel pieno possesso delle proprie forze fisiche e mentali, ma possa pure esercitarsi su persone in apparenza deboli verrà chiarito in opere successive, a cominciare da Dialogues. In quel libro leggiamo che, «attraverso ogni combinazione fragile, è una potenza di vita ad affermarsi, con una forza, un’ostinazione, una perseveranza nell’essere che sono impareggiabili. È curioso come i grandi pensatori abbiano una vita personale fragile, una salute molto incerta, e al tempo stesso innalzino la vita allo stato di potenza assoluta o di “grande Salute”» (Deleuze & Parnet 1998: 11-12) [4]. Così, parlando dei filosofi a cui si sente più legato, primi fra tutti Spinoza e Nietzsche, Deleuze osserva: «Tutti questi pensatori hanno una costituzione fragile, eppure sono attraversati da una vita insuperabile. Procedono solo per potenza positiva, e di affermazione. Hanno una sorta di culto della vita» (Deleuze & Parnet 1998: 21). È ammirevole la discrezione che induce il pensatore francese a non dire nulla riguardo al proprio stesso caso, che è quello di una persona afflitta, per gran parte dell’esistenza, da seri problemi di salute.
Il discorso non è valido solo per il filosofo, ma anche per l’artista. Quest’ultimo – si legge in un’altra opera – è qualcuno che «ha visto nella vita qualcosa di troppo grande, di troppo intollerabile anche», ed è proprio questa esperienza a renderlo «un veggente, un diveniente» (Deleuze & Guattari 1996: 176). Occorre dunque essersi trovati ad affrontare una dura prova: «Per aver raggiunto il percetto come “la fonte sacra”, per aver visto la Vita nel vivente o il Vivente nel vissuto, il romanziere o il pittore tornano con gli occhi rossi, col fiato corto» (Deleuze & Guattari 1996: 177) [5]. Sotto questo profilo, dunque, non c’è differenza tra il pensatore, che lavora con i concetti, e l’artista, che invece ha a che fare con i percetti. «In tal senso gli artisti sono come i filosofi, hanno spesso una salute troppo fragile; non a causa delle malattie o delle nevrosi, ma perché hanno visto nella vita qualcosa di troppo grande per chiunque, di troppo grande per loro, e che ha impresso su di essi il sigillo discreto della morte. Ma questo è anche la fonte o il respiro che consente loro di vivere, attraverso le malattie del vissuto (è ciò che Nietzsche chiamava salute)» (Deleuze & Guattari 1996: 178).
Anche nell’ultimo libro pubblicato in vita, Critique et clinique, il filosofo tornerà a ribadire la propria convinzione, parlando stavolta in maniera più specifica degli autori di opere letterarie: «Non si scrive con le proprie nevrosi. La nevrosi, la psicosi non sono passaggi di vita, ma stati in cui si cade quando il processo è interrotto, impedito, chiuso. […] Perciò lo scrittore in quanto tale non è malato, ma piuttosto medico, medico di se stesso e del mondo. Il mondo è l’insieme dei sintomi di una malattia che si confonde con l’uomo. La letteratura appare allora come un’impresa di salute: non che lo scrittore abbia necessariamente una salute vigorosa […], ma gode di un’irresistibile salute precaria che deriva dall’aver visto e sentito cose troppo grandi, troppo forti per lui, irrespirabili, il cui passaggio lo sfinisce, e tuttavia gli dischiude dei divenire che una buona salute dominante renderebbe impossibili» (Deleuze 1996: 16).
In queste stesse frasi non mancano gli echi letterari. Così la formula «cose troppo grandi, troppo forti per lui», presuppone forse, da parte di Deleuze, la reminiscenza di una lettura di Proust: infatti, nel romanzo giovanile incompiuto Jean Santeuil, il protagonista manifestava le proprie incertezze e paure pensando: «Il mondo è troppo complicato per me, la vita è troppo forte per me» (Proust 1976: 63). Quanto poi all’idea secondo cui lo scrittore non va considerato come malato bensì come terapeuta, era già stata formulata da un altro scrittore caro al filosofo, ossia Artaud, che parlando a nome degli alienati (categoria a cui sentiva di appartenere) dichiarava: «Noi che il dolore ha fatto viaggiare nella nostra anima alla ricerca di un luogo di calma a cui aggrapparci, alla ricerca della stabilità nel male come gli altri nel bene. Noi non siamo folli, siamo dei medici meravigliosi» (Artaud 2004: 128). Un terzo riferimento, stavolta reso esplicito da Deleuze, è al testo in cui Michaux, riferendosi alla propria raccolta di brani narrativi e poetici dal titolo Mes propriétés, dichiara di averla composta «per la mia salute. Senza dubbio non si scrive per un motivo diverso. Non si pensa in altro modo. […] Questo libro, quest’esperienza che pare dunque provenire tutta dall’egoismo, mi spingerei fino a dire che è sociale, a tal punto si tratta di un’operazione alla portata di tutti e che sembra dover essere così vantaggiosa per i deboli, i malati e malaticci, i bambini, gli oppressi e i disadattati di ogni genere. In tal modo, vorrei essere stato utile almeno a quei sofferenti immaginosi, involontari, perpetui» (Michaux 1998: 511-512) [6].
Si può dire pertanto che aver subito una certa incrinatura a livello psichico, o comunque l’aver fatto esperienza di qualcosa che destabilizza il soggetto percipiente, sottoponendolo a un eccesso di dolore (o magari di gioia), se può in certi casi indebolirne le difese, così da indurlo a cedere a pulsioni mortifere, in altri e più fortunati casi può conferirgli delle capacità di pensiero e di creazione che in precedenza erano per lui inaccessibili. Deleuze elogia ad esempio scrittori americani come Fitzgerald e Lowry perché, a suo dire, hanno colto appieno la potenza della vita e, per poterla sopportare, hanno fatto ricorso all’alcol. Questo ha consentito ad essi di trasmettere, nella scrittura letteraria, la loro particolare visione, ma evidentemente ha comportato anche dei rischi, poiché in effetti occorrerebbe sempre «fare in modo che la linea di fuga non si confonda con un puro e semplice movimento di autodistruzione» (Deleuze & Parnet 1998: 44). Infatti, quando la linea di fuga si volge in linea di morte, l’esistenza, e con essa la scrittura, divengono impraticabili. «Perché si scrive? Il fatto è che non si tratta di scrittura. Può darsi che lo scrittore abbia una salute fragile, una costituzione debole. Ciò non toglie che sia proprio l’opposto del nevrotico: una sorta di grande Vivente (alla maniera di Spinoza, di Nietzsche o di Lawrence), anche se è soltanto troppo debole per la vita che lo attraversa o gli affetti che passano in lui» (Deleuze & Parnet 1998: 55). Occorre dunque saper trasformare l’incrinatura iniziale in una creativa linea di fuga, ma occorre anche, mentre si è impegnati a tracciare tale linea, imparare a conoscere «i pericoli che vi si corrono, la pazienza e le precauzioni che bisogna impiegare, le correzioni che bisogna apportare di continuo» (Deleuze & Parnet 1998: 44). Solo così, secondo Deleuze, l’atto di creazione giungerà a buon fine, e il pensatore o lo scrittore potranno dire di essere riusciti a esprimere la potenza, nel contempo terribile ed esaltante, della vita.
di Giuseppe Zuccarino
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Bibliografia
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Id. (1996). Che cos’è la filosofia? Torino, Einaudi, 1996.
Deleuze, G. & Parnet, C. (1998). Conversazioni. Verona: Ombre corte.
Deleuze, G. & Guattari, F. (2017). Mille piani. Capitalismo e schizofrenia, Napoli-Salerno : Orthotes.
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Deleuze G. (2004). L’abbecedario di Gilles Deleuze, Roma: DeriveApprodi.
Fitzgerald, F. S. (2010), Il crollo. Adelphi: 2010.
Freud, S. (1989). Al di là del principio del piacere. in Opere, vol. 9. Torino: Bollati Boringhieri, 187-249.
Hölderlin, F. (2019). Note all’«Edipo». In Prose, teatro e lettere, Milano: Mondadori, 763-773.
James, H. (1984). La fonte sacra. Torino: Einaudi.
Kant, I. (1995),.Critica della ragione pura. Milano: Adelphi.
Lowry, M. (1961). Sotto il vulcano. Milano: Feltrinelli.
Michaux, H. (1998), Postface a Mes propriétés. In La nuit remue, in Œuvres complètes, vol. I. Paris: Gallimard, 511-512.
Nietzsche, F. (1991), La gaia scienza. in Opere, vol. V, tomo II. Milano : Adelphi, 13-323.
Proust, M. (1976), Jean Santeuil, Torino : Einaudi.
Zola, É (2019). La bestia umana, Milano: Rizzoli.
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[1] Al passo si rimanda in Deleuze 1997: 115.
[2] Si avverte che i passi delle traduzioni italiane cui si rimanda vengono spesso citati con modifiche.
[3] Cfr. Zola 2019; Scott Fitzgerald 1961. Sul racconto di Fitzgerald, si veda anche Deleuze & Guattari 2017: 287-289.
[4] L’espressione citata da ultimo fra virgolette rimanda a un concetto nietzschiano: cfr. l’aforisma La grande salute, in Nietzsche 1991: 307-309.
[5] La fonte sacra è il titolo di un romanzo di Henry James del 1901 (1984).
[6] Deleuze rimanda a queste pagine in Deleuze & Guattari 1997: 163 e in Deleuze 1996: 16.
Un commento al seminario "La vita la morte" di Jacques Derrida
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“È importante, per me, nel filosofare, mutar sempre posizione, non stare troppo a lungo su una gamba sola, per non irrigidirmi.”
Wittgenstein (1980, p. 61)
Il titolo di questo seminario di Derrida (2019) del 1975-6 dice perspicuamente più che il suo oggetto, il nodo attorno a cui si avvolge (difficile dire se per scioglierlo o al contrario per annodarlo): la vita la morte.
Non “la vita, la morte” né “la vita e la morte” dunque, dove la virgola o l’et sancirebbero una separazione tra le due, premessa e promessa di una loro prevedibile opposizione. E nemmeno “la vita è la morte” né “la morte è la vita”, che avrebbe il valore di un’eguaglianza, come risultato della soluzione di un’equazione: questa identità tra la vita e la morte non è qualcosa che Derrida trova, come risultato di un processo argomentativo, ma qualcosa che pone sin dall’inizio, sfida e scommessa di tutto questo seminario.
Notiamo però che Derrida scrive sempre “la vita la morte” (o lavitalamorte) mettendo in precedenza la vita. Il precedere cronologico della vita sulla morte appare ovvio, ma per Derrida l’anteriorità empirica non implica assolutamente una precedenza logica. Perché allora questa antecedenza sintagmatica della vita sulla morte?
Per un filosofo tradizionale questa scelta grafica di Derrida non avrebbe alcuna importanza. Ma sappiamo che invece per Derrida le scelte di scrittura – anche mettere una parola prima di un’altra – sono importanti tracce filosofiche, hanno la densità di una concettualità inconscia. È proprio sulla traccia del pensiero di Derrida che quindi poniamo questa questione di traccia: ‘vita morte’ e ‘morte vita’ non sono equivalenti.
Ora, il perno attorno a cui sembra girare il seminario è una sentenza di Nietzsche:
“Evitiamo di dire che la morte sarebbe opposta alla vita. Il vivente è solo un genere di ciò che è morto, un genere molto raro[1].”
Cosa voleva dire Nietzsche?
Da un punto di vista razionale, si tratta di un assurdo. Perché diamo per scontata una gerarchia logica tra vita e morte: non ci sarebbe morte se non ci fosse vita. D’altro canto, sappiamo dalla biologia (anche se qui Derrida contesta questo sapere, come vedremo) che ci sono vite senza morte, quelle che si riproducono agameticamente. Insomma, la morte implica la vita, non viceversa. E invece Nietzsche rovescia la gerarchia, facendo della vita un sotto-genere della morte.
Chiama egli “morto” semplicemente ciò che non è vivente? Ma dare a morto il senso di non-vivente significa proprio far prevaricare la dimensione della vita sull’ente in generale. Nello stesso momento in cui Nietzsche dice che la vita è un sotto-insieme della morte, ipso facto mette la vita, il vitale di cui la morte è fattore, in una posizione direi egemonica: apparendo come morto, il non-vivente viene riportato così alla logica della vita, alle opposizioni vitali. Dire che ciò che non è mai vissuto è morto, è dare in realtà alla nozione di vita una portata che va ben al di là della vita biologica – insomma, Nietzsche enuncerebbe qui il suo vitalismo (quindi, lo sforzo di Derrida, nel corso di questo stesso seminario, di contestare l’etichetta di “vitalista” attribuita solitamente a Nietzsche non è del tutto convincente).
Abbiamo detto prevaricazione: è un punto essenziale su cui torneremo. In effetti, qui Nietzsche, proprio dicendo che la vita è un genere del morto, fa prevaricare la categoria della vita sull’ente in generale.
Eppure, malgrado il rovesciamento di Nietzsche, Derrida dà la precedenza grafica alla vita. Nell’identificazione vita-morte, resta la traccia di una non-identificazione, su cui – derridianamente – dovremmo interrogarci.
Potremmo dire che in questo seminario Derrida si interroga sul “biologico”, nella misura in cui questo è anche interrogarsi sul “tanatologico”.
Derrida slitta da una lettura all’altra. Grosso modo, in questo seminario abbiamo quattro “stasimi” del suo confronto con testi che tematizzano questo bio-tanatologico: un primo in cui si confronta con Ecce Homo di Nietzsche; un secondo in cui articola un confronto serrato con il libro di François Jacob (1970) La logica del vivente, pubblicato cinque anni prima; un terzo sulla lettura heideggeriana del cosiddetto “vitalismo” di Nietzsche; e un quarto in cui si confronta con Al di là del principio di piacere di Freud. Qui mi limiterò a commentare il commento di Derrida al libro di Jacob.
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1.
In questa parte del seminario Derrida si confronta con il testo, in senso lato divulgativo, di Jacob. Con un testo più storico, di storia della biologia, che biologico, come enuncia il suo sottotitolo: Storia dell’ereditarietà. Derrida lo prende però come fosse un testo filosofico, lo analizza come tale, e ovviamente da questa lettura emergono cedimenti metafisici nel testo del biologo o storico della biologia. Wittgenstein, che disprezzava la divulgazione scientifica, disse “Le opere di divulgazione scientifica non sono l’espressione del duro lavoro dei nostri uomini di scienza, bensì del loro riposarsi sugli allori” (Wittgenstein 1980, p. 86). Derrida in Jacob vede insomma gli allori, anche se, tengo a dirlo, il riposarsi di Jacob è a tutt’oggi esemplare.
In certi punti, Derrida sembra promuoversi miglior biologo di Jacob (il quale vinse il premio Nobel in medicina). Ad esempio, quando confuta l’idea (di Jacob? della biologia moderna? del modo che ha la biologia di raccontarsi?) secondo cui la riproduzione dei batteri è asessuata. Jacob fa notare che la sessualità e la morte sono un’”invenzione” (così scrive) che la vita fa a un certo punto della propria storia, sottolineando che la sessualità e la morte si implicano: è veramente mortale solo il vivente sessuato. (Evidentemente questo guasta de facto l’assunto di partenza di tutto il seminario derridiano: il sovrapporsi logico della vita e della morte.) Ora Derrida, rifacendosi ad altri biologi, cerca di mostrare che avvengono inserimenti di materiale genetico da un batterio all’altro, il che può considerarsi una forma di riproduzione sessuata. Inoltre, solleva un’obiezione di buon senso all’idea che un batterio non muoia, dato che alcuni batteri certamente si dissolvono. Se un batterio produce dieci copie di sé e poi ne restano solo sette, come possiamo non dire che quattro batteri sono morti?
La domanda da porsi è perché Derrida ci tenga tanto a contestare l’idea che la sessualità e la morte siano prodotti successivi della vita, fino al punto da usare argomenti biologici contro un biologo nobélier. Perché tiene tanto a fare della morte qualcosa di coestensivo alla vita, e non un’”invenzione” succedanea della vita stessa? Ma prima di rispondere a questa domanda, vorrei mostrare come l’obiezione di Derrida mostra che egli non abbia colto l’essenziale dell’argomento di Jacob.
Derrida non sembra cogliere il fatto che, per la biologia, solo con la sessualità e la morte diventa pertinente il concetto di individuo – di indivisibile, che è la traduzione del greco ατομος. L’individuo o atomo è tale perché il suo genoma è del tutto diverso da quello di ciascun genitore (sessuato), ed è completamente diverso da quello di ogni altro essere vivente della stessa specie (a parte il caso dei gemelli veri). La genetica insomma ha modificato il nostro concetto originario, comune, di individuo: che non è più, prima di tutto, l’indivisibile, ma è il portatore di un assetto genetico unico. La morte quindi equivale alla scomparsa di questo unicum. Mentre la riproduzione non sessuata è produzione di cloni – all’epoca il termine “clone” non era entrato nel linguaggio comune, e difatti Derrida non lo usa mai. I cloni sono individui diversi dal punto di vista del linguaggio comune, ma non dal punto di vista biologico, perché hanno identico genoma.
Questo taglia corto alle obiezioni che Derrida solleva all’idea che un batterio, ad esempio, non muoia. Se per individuo intendiamo chi porta genomi diversi, il batterio non muore nel senso che copie di sé comunque sopravvivono. Un libro non muore se restano alcune copie di esso, anche se il manoscritto originale fosse andato perduto.
(Si dirà che uno dei due gemelli omozigoti umani può morire, mentre l’altro può sopravvivere. Se fossero lo stesso individuo, dovrebbero morire assieme. Ma consideriamo due gemelli due individui distinti perché oltre al senso genetico di “individuo” abbiamo un altro senso che ci deriva dal linguaggio comune: l’avere due cervelli e quindi due coscienze diverse. Le due coscienze diverse individualizzano, per noi, ciascun gemello. Due sensi diversi di “individuo” si sovrappongono nel nostro linguaggio. Si dà però il caso che il batterio non abbia alcun cervello né alcuna coscienza, nel caso suo, quindi, il senso genetico di individuo può prevalere.)
Inoltre, le eccezioni alla riproduzione asessuata nei batteri che Derrida evoca non inficiano la distinzione categoriale di Jacob tra vita asessuata-immortale da una parte, e vita sessuata-mortale dall’altra. Il problema vero non è stabilire quali specie rientrino nella prima categoria e se non ci siano eccezioni, ma stabilire questa distinzione, che resta valida malgrado i distinguo di Derrida.
Derrida non apprezza insomma l’interesse del senso nuovo dato al termine “individuo” (ovvero, sessuato e mortale) come impossibilità di replicarsi integralmente. Eppure questo nuovo senso dato a individuo – e quindi anche alla sua morte – è filosoficamente importante perché rompe con l’idea che Homo sapiens, ad esempio, abbia un’”essenza”, che ci sia un’essenza della specie umana. Siccome non esistono due individui geneticamente eguali, ogni individuo è portatore di una variabilità che potrebbe avere successo storico, cioè riprodursi e quindi mutare, a poco a poco, certe caratteristiche che consideriamo umane. Per la genetica, ogni individuo è un mutante. Non c’è quindi veramente un tratto comune a tutti gli esseri umani, ogni umano è un potenziale punto di fuga da un’umanità “media”. Questo è il senso della rivoluzione darwiniana: il disgregarsi del concetto di specie. Species è versione latina diείδος, la forma essenziale (termine che tradurrei oggi con struttura). Non c’è unastruttura umana. Per la biologia pre-darwiniana le specie animali erano essenze, mentre con Darwin abbiamo solo esistenze animali. Strano quindi che la vocazione anti-metafisica di Derrida non lo porti a valorizzare questo anti-essenzialismo della moderna biologia.
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2.
Certamente Derrida ha spesso ragione nel mettere in rilievo certe ingenuità concettuali di Jacob. Per esempio, Jacob dice che la biologia non si interessa alla vita – non pone il problema dell’essenzadella vita – ma ai viventi. “Oggi nei laboratori non si interroga più la vita … Ci si sforza solo di analizzare i sistemi viventi, la loro struttura, la loro funzione, la loro storia” (p. 116[2]) Qui Derrida ha buon gioco nel dire che sostituire alla vita il vivente non dispensa dalla domanda non solo filosofica, direi, ma anche biologica: che cosa fa di un vivente un vivente?
E in effetti, Jacob si contraddice de facto perché dice spesso e forte l’essenza del vivente: è qualcosa che ha la capacità di riprodursi. La riproducibilità – l’avere eredi - è ciò che fa del vivente un vivente.
La riproducibilità evoca il concetto di disegno, di progetto. Concetti che Jacob non disdegna, ma avvertendo:
“L’essere vivente rappresenta certo l’esecuzione di un disegno, ma che nessuna intelligenza ha concepito.”
Dice Derrida: se c’è un’omogeneità tra le produzioni del vivente umano (testi, calcolatrici, programmatrici, ecc.) e il funzionamento della riproduzione genetica, l’opposizione tra scienze della natura e le altre scienze perde pertinenza e rigore. È quello che lui nel fondo desidera? Questo sarà il punto essenziale – ma non detto - del commento di Derrida.
Intanto però Derrida si dedica a criticare i filosofemi, direi, del biologo. Ad esempio, scova dell’hegelismo in Jacob, e per lui Hegel “è il più metafisico di tutti i metafisici”. Jacob, facendo del vivente un impulso a riprodursi, nella vita “ritrova l’essenzialità dell’essenza, l’origine e la fine dell’essenza come dinamica ed energia d’essere” (p. 121) “La vita è l’essenza… la vita è più essenziale del non-vivente che essa integra in sé”.
“Mi applico a render chiaro il rapporto che il discorso del genetista, dello scienziato biologo moderno mantiene con la tradizione filosofica: debito e dipendenza sconosciute, diniego, semplificazione, caricatura, sottomissione ai vincoli di un codice, di un programma, appunto, di macchine calcolatrici da cui egli si crede liberato mentre invece ne riproduce i funzionamenti, ecc.” (p. 123)
Insomma, per Derrida non c’è rottura (e non è chiaro se se ne rammarichi o se ne compiaccia) tra filosofia metafisica e scienza, il che è in continuità con un certo atteggiamento del filosofo detto “continentale”, quello di una sorta di rivalsa professionale contro l’egemonia politica della scienza: “credete di esservi liberati della filosofia, e invece fate voi stessi un sacco di filosofemi!”
È vero che Jacob talvolta arrischia enunciati che è facile qualificare di rodomontate, come: “La biologia non cerca la verità. Essa costruisce la propria”. Anche qui Derrida ha buon gioco nel mostrare come in realtà la biologia, proprio nella misura in cui cerca la propria verità, presuppone una nozione generale di verità, senza la quale non sarebbe nemmeno possibile dire che cerca una propria verità. Ma qui Derrida non usa il “principio di carità” che la filosofia stessa ha promosso[3]: che occorre sforzarsi di trovare una logica ad affermazioni che a prima vista appaiono illogiche o paradossali.
L’enunciato di Jacob che Derrida deride può essere interpretato caritatevolmente come un modo di dire: “il biologo non ha bisogno, come i filosofi, di interrogarsi prima su cosa significhi verità in biologia: ne ha una nozione intuitiva che gli basta per operare”. E questo è vero per ogni scienza. Non è il mestiere dello scienziato interrogarsi sul concetto di verità, il suo lavoro consiste nell’usare questo concetto per poter dire il vero sul vivente.
L’enunciato di Jacob può essere anche inteso in senso feyerabendiano[4]: la biologia, come ogni scienza, cambia il proprio metodo scientifico a seconda delle opportunità e dei problemi che le si pongono. La biologia è opportunista, come ogni scienza. Nella sua storia essa ha cambiato spesso metodo, dandosi cioè fini e funzioni diverse. Così con Linneo e Buffon la biologia si auto-interpretava come descrizione accurata delle diverse specie animali, sulla base di una teoria preformista. Con Lamarck e Darwin, invece, si è posta il problema dell’origine delle specie, ovvero sulle ragioni della storia del prodursi e del distruggersi delle forme animali. Cambiamento che si può ravvisare nella storia di ogni scienza. È il senso stesso di “fare biologia” che è cambiato. Ma talvolta nemmeno Derrida se ne rende conto.
Per esempio, Derrida critica il concetto di “riproduzione” in Jacob:
“Il discorso di Jacob – come quello di una certa modernità – maneggia il concetto di produzione o ri-produzione come se fosse trasparente, univoco, che vada da sé, come se ci fosse anche una distinzione o un’opposizione chiara tra produrre e riprodurre, riprodurre e riprodursi. In nessun momento Jacob si chiede quel che ciò vuol dire, mai sottopone questo concetto o parole di produzione/riproduzione (di sé) alla pur minima domanda critica” (p. 135).
Anche qui, la critica di Derrida ripercorre la critica che da molto tempo – da quando la filosofia speculativa ha divorziato dalla concettualizzazione scientifica, diciamo da Kant in poi – la filosofia rivolge alla scienza: che quest’ultima è incapace di pensare i concetti che essa usa, che non si interroga sull’’essenza’ dei propri concetti. (È il rimprovero che già Socrate rivolgeva sistematicamente a qualunque “esperto” ateniese che non si ponesse interrogativi filosofici sul proprio campo di sapere.) Si rimprovera insomma alla scienza di non essere filosofica, il che implica un assunto metafisico forte, nel senso che la riflessione filosofica in qualche modo fonderebbe il discorso della scienza e delle scienze particolari. (E questo a dispetto del fatto che Derrida si sia posto sempre come filosofo non-fondazionalista.) Se la filosofia è in grado di criticare la concettualizzazione scientifica, questo vuol dire in effetti che questa concettualizzazione manca di qualcosa per essere valida, per reggersi da sé, e che questo reggersi è fornito da un altrove dalla scienza, dalla riflessione filosofica appunto. E in effetti, per molti secoli si è pensato che per fare scienza si dovesse prima capire filosoficamente quale fosse il suo oggetto e il modo corretto di procedere per renderne conto. Così Descartes, per esempio, pensava che non potesse essere un buon fisico se prima non avesse stabilito un criterio di certezza. Ma da secoli sappiamo che questo non è vero: possiamo dire che anzi il filosofo di solito arriva dopo lo scienziato, dopo che questi ha scoperto qualcosa che tutti accettiamo. Il filosofo, si dice, giunge sempre al tramonto.
È un peccato che Derrida non tenga in alcun conto l’”altra filosofia”, che poi è anch’essa per lo più continentale, nel senso che è sorta in Austria e in Germania: la filosofia della scienza moderna, il filone cha va da Mach al Circolo di Vienna, a Popper, a Kuhn, a Lakatos, a Feyerabend… Il confronto con questo filone avrebbe aiutato certamente Derrida a distinguere più perspicuamente il discorso dello scienziato da ciò che la scienza di fatto fa. Una distinzione ripresa da Feyerabend, il quale diceva: “Spesso si crede che la scienza fatta da uno scienziato non sia quella pubblicata nelle riviste specialistiche, ma quello che lo scienziato dice quando pontifica”.
Ora, per limitarci al tanto bistrattato (dalla filosofia “continentale”) Popper, bisogna convenire che due o tre cose importanti sulla scienza le ha dette. Una è che la grande scienza – quella che fornisce le visioni del mondo che poi diventano le nostre, anche di Derrida – non nasce dall’osservazione dei fatti, ma da teorie. E che queste teorie sono all’inizio delle metafisiche o dei miti. La separazione netta tra fisica (scienza) e metafisica su cui si basa il positivismo logico è storicamente fallace: le teorie scientifiche sorgono sempre da qualche metafisica. Ciò che separa man mano – col tempo, in un processo mai del tutto concluso, secondo una separazione che chiamerei asintotica – la scienza dalla metafisica è il modo in cui la scienza seleziona via via i suoi asserti (secondo Popper, attraverso tentativi ripetuti di falsificazione, ma questa è un’idea sua, confutata dai post-popperiani). Ora, quando giustamente Derrida vede il discorso di Jacob – ma di qualsiasi biologo, in fondo – intriso di presupposti metafisici (fino a vedervi un hegelismo di fondo) non fa che ri-scoprire l’ombrello: che tutti i concetti della scienza hanno un’origine metafisica, e ne portano le tracce, anche se sono stati rimodellati dal procedere corroborativo (è questo il termine di Popper, che non significa verificativo) della scienza. E questo anche in fisica. Tanti concetti fondamentali della fisica tradiscono la loro origine filosofica o metafisica: per esempio energia, che viene dall’energheia aristotelica. O i concetti di materia, potenza, atomo, forza, vuoto, continuo e discontinuo…
La moderna filosofia della scienza ha detto un’altra cosa importante: che qualche secolo fa il pensiero scientifico si separa da quello filosofico quando cessa di pensare che esso debba partire da una definizione delle cose che esso studia. La scienza non è matematica, non nasce da definizioni precise e rigorose dei propri oggetti, insomma, la scienza non si interroga sulle essenze di ciò che vuole studiare. È in questo senso, credo, che Jacob può dire “la biologia costruisce la propria verità”. La scienza nasce sempre dal linguaggio comune, che essa non interroga come invece è opportuno che faccia la filosofia. La chimica non ha scoperto la composizione dell’acqua (cosa che qualcuno potrebbe chiamare l’“essenza dell’acqua”), l’essere una certa combinazione di idrogeno e ossigeno, partendo da una definizione esaustiva e non-ambigua di acqua. I chimici si sono occupati di quello che la gente comune chiamava acqua. Perciò tutti i fondamentali concetti scientifici fanno risuonare l’eco di concetti ed esperienze comuni: la gravitazione evoca subito la mela di Newton, la forza e l’energia evocano le attività umane, la causa efficiente il tirare e spingere, azione e reazione sono atti animali, gli astri sono quelli che gli umani hanno chiamato tali guardandoli a occhio nudo, ecc.
Questo confuta o limita ciò che avevamo prima detto, che le teorie nascono sempre da ipotesi metafisiche o mitiche? No, perché gli oggetti di cui la scienza si occupa all’inizio (poi essa scopre oggetti non comuni, nuovi, come i buchi neri o i quark) sono oggetti comuni, ma il modo di spiegarne il comportamento è preso da metafisiche. La scienza coniuga linguaggio comune e concetti metafisici, e quindi bypassa l’onere di riflettere filosoficamente sul senso dei concetti.
Certamente poi il sapere scientifico rimbalza sul linguaggio comune e lo modifica. La chimica ha studiato l’acqua senza definirla prima, ma quando ha scoperto la sua struttura chimica, allora essa ha avuto un effetto di rinculo sul linguaggio comune stesso: sappiamo che possiamo chiamare legittimamente acqua solo ciò che è H2O. L’astronomia ha descritto la luna come pianeta perché così la considerava il sapere comune, poi, con la rivoluzione copernicana, ci ha detto che la luna è invece un satellite, e come tale oggi il linguaggio comune la considera. Ciò che chiamiamo sapere della nostra epoca è effetto di una lunga storia di doppio scambio a zig zag tra linguaggio comune e linguaggio scientifico.
Quindi, non so se Derrida, quando critica Jacob perché – come ogni biologo – non si interroga sull’essenza del vivente (pur fornendo a sua volta una definizione dell’essenza del vivente come ereditarietà), si renda conto di criticare in generale la scienza in quanto scienza. Tutto il ragionare di Jacob sul vivente parte dal concetto comune di vivente. Ancor prima che la biologia si sviluppasse come scienza, i nostri antenati, i greci, i romani…, hanno sempre considerato un albero o una mosca come esseri viventi, pur senza disporre di una definizione precisa (filosofi a parte). Ne avevano una definizione implicita, e il compito dei filosofi è stato di esplicitarla. Il biologo non si interroga sull’essenza del vivente se non après coup, quando scopre certe caratteristiche non evidenti (che il linguaggio comune non riconosce) del vivente (ad esempio, il suo essere espressione di un genoma). La scienza fa bene insomma a non interrogarsi sul concetto di vivente, perché è il suo operare in un certo modo sul vivente che gli fornirà poi un concetto di vivente, che sarà comunque sempre provvisorio, rivedibile.
Scrive ancora Derrida:
“[Criticare] i discorsi degli scienziati – per esempio dei biologi – i quali, quando assumono una portata filosofica o epistemologica generale, non sono abbastanza vigilanti quanto alla filosofia o all’ideologia implicita in quel che dicono, non interrogano abbastanza il sistema e la storia dei concetti operativi di cui si servono…” (p. 139)
È una critica agli scienziati solo quando fanno discorsi con “una portata filosofica o epistemologica generale” (quando “pontificano”)? O una critica agli scienziati in generale, in quanto sono scienziati? In questo secondo caso, direi che è impossibile, per chiunque faccia scienza, non usare concetti filosofici, come abbiamo visto, dato che impregnano le loro teorie sin dall’inizio. Derrida vorrebbe allora che gli scienziati facessero solo il loro lavoro?… ma dove comincia e finisce questo loro lavoro? Consiste nel descrivere dei semplici meccanismi? Ma anche quando diciamo che lo scienziato di oggi ricostruisce i meccanismi che operano nella natura, già nel dire “meccanismo” implichiamo tutta una filosofia che è fusa nel concetto stesso. È la metafisica su cui si basa tutta la scienza moderna: che gli enti si relazionano gli uni con gli altri come gli ingranaggi in un meccanismo, in una macchina. Di questa metafisica non possiamo dire che sia vera o falsa, possiamo dire solo che finora ha funzionato, perché la scienza in questi secoli ha avuto un grande sviluppo. Una macchina non funziona perché è vera, funziona perché funziona.
In effetti, la mechané di cui parlavano i greci erano solo le macchine costruite dagli umani per svolgere una certa funzione. Ai greci non sarebbe mai passato per la mente di pensare che la physis – la natura – fosse mechané! Solo in seguito, con la rivoluzione galileiana, si è sviluppata una “meccanica”, la natura viene studiata come se fosse una macchina. Ma una macchina che non serve a nulla, e che nessuno ha creato (l’ipotesi creazionista non è mai scientifica perché segna lo scacco della spiegazione scientifica). È l’atto istitutivo della scienza moderna: la natura è una immensa macchina, ma che non serve a nulla. La biologia moderna è meccanicista – su questo ha ragione il tanto spregiato (dai filosofi) Jacques Monod (1970). Ma già quando il biologo afferma di essere meccanicista emana del filosofico, perché gli si può ricordare che il modello della macchina per pensare la natura è di per sé una scelta metafisica. O meglio, una scommessa: la scienza moderna si impegna a spiegare tutto (non il Tutto) come meccanismo. Abbiamo anche qui una prevaricazione che in sostanza caratterizza ogni metafisica: la macchina, inizialmente solo una parte dell’ente, diventa l’essenziale di tutti gli enti.
Tutta la scienza moderna si basa anche su un altro assioma: la conservazione dell’energia. Non si tratta di una scoperta empirica, ma di una scommessa che identifica la ricerca in quanto scientifica. La scienza esclude a priori che ci possa essere creazione o annullamento di energia, perché sarebbero “miracoli”. Conservazione di energia perché, dopo Einstein, l’energia è equivalente della materia. La forma tradizionale di questo assioma è: “nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma”. Questo all’interno di un tutto (universo) che viene ipso facto concepito come chiuso. Fin quando un tutto è aperto, non è mai “tutto”. Può darsi che il nostro universo sia uno di altri innumerevoli universi di cui nulla sappiamo, ma anche senza saperne nulla la scienza già sa che questo tutti-gli-universi non diminuisce né si accresce. Potremmo anche dire che la materia-energia non muore mai. Si tratta evidentemente di una visione metafisica, ma sarebbe assurdo criticare le moderne teorie scientifiche – che tutte tengono conto di questo assioma – perché esse si basano su una metafisica sbagliata! Che sia sbagliata o meno nessuna filosofia ce lo può dire, ce lo potrebbe dire solo il fallimento della scienza. Se la moderna scienza fallisse, se dovesse ammettere che certe cose emergono dal nulla, allora dovremmo considerare fallace anche la metafisica su cui si regge.
Proprio perché la scienza riusa il linguaggio filosofico, può dispensarsi dal pensarlo filosoficamente.
Qualcuno potrà dire che qui Derrida non critica i filosofemi di Jacob in quanto disapprova la contaminazione di filosofia e scienza, ma li critica perché ritiene che Jacob non si renda conto di essere anche filosofo. Ma, come abbiamo visto, è inevitabile che lo scienziato debba essere anche “filosofo”, perché ogni scienza ha basi metafisiche. È essenziale allora che lo scienziato se ne renda conto, che ammetta di essere filosofo senza saperlo? Non credo che questo sia il punto.
Il filosofo ha un compito che allo scienziato viene risparmiato: quello di mettere filosoficamente in discussione i filosofemi che sono alla base di ogni paradigma scientifico, ma direi anche della maggior parte delle nostre credenze, politiche religiose artistiche, ecc. Quella che chiamiamo filosofia è la riflessione, non sempre critica, su ciò che chiamerei filosofie popolari, le visioni del mondo che ispirano le nostre vite e le nostre credenze. E la scienza ha alla base una sua “filosofia popolare”. Ma mettere in discussione questi filosofemi popolari – qui è il punto – non deve portarci (è questa la tentazione a cui molti filosofi cedono) a criticare la concettualizzazione scientifica in quanto tale! Non si critica una teoria scientifica criticandone i presupposti filosofici. Sarebbe come voler criticare un ottimo cuoco cinese perché ispira la sua arte all’opposizione taoista tra yin e yang…
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3.
Derrida critica insomma i “filosofemi” di Jacob perché non si rende conto che quel che il secondo dice ha una semplice funzione euristica (termine che Derrida usa due volte in questo seminario). Ovvero, la scienza non si fa solo con delle equazioni, o con delle previsioni calcolabili, ma elaborando anche modelli che chiamerei immaginari, una certa immagine di che cosa accada in un oggetto che serve a guidare l’immaginazione scientifica. Per esempio, il darwinismo non è in grado di prevedere assolutamente nulla sul futuro della vita (che sempre più dipende da decisioni politiche umane, ormai), ma ci offre un modello preciso grazie a cui pensare la storia della vita. È falso credere che le scienze siano sempre predittive: spesso prevedono poco o nulla, ma ci offrono una descrizione virtuale della macchina supposta.
Così, per esempio, la fisica parla di informazione. In cosmologia si dice comunemente che la luce delle stelle che giunge fino a noi “ci informa” del loro esserci. Ovviamente qui informazione ha un valore metaforico, se consideriamo essenziale in ogni informazione la volontà consapevole, animale o umana, di informare un altro animale o essere umano. Eppure usare la metafora informativa può essere euristicamente utile nella misura in cui essa piega la ricerca scientifica in un senso piuttosto che in un altro. Comunque, l’uso di figure antropomorfiche – come segnale, informazione, messaggio, codice, programma, ecc. – è la spia di qualcosa di più profondo nella scienza. Ovvero, l’uso di queste metafore è una traccia della scienza come elaborazione soggettiva. La scienza non è lo specchio della natura: è prodotto di un dialogo continuo con la natura. Una teoria scientifica è regolare un certo giococon la natura (la natura può essere considerata il partner dello scienziato nel gioco della scienza; un partner coatto, ma un partner[5]).
Si pensi ad esempio a concetti come ordine e disordine, fondamentali nella termodinamica. È evidente che ordine e disordine sono valutazioni soggettive, non oggettive. Se guardiamo una stanza, possiamo percepirla come ordinata o disordinata, ma che c’è di “oggettivo” in questo? Chiamiamo un sistema di cose più disordinato di un altro quando il primo esige una descrizione più complessa (e più lunga) del secondo. Una stanza molto disordinata ha un suo ordine, anche se molto complesso. Ma la complessità è pur sempre una valutazione soggettiva: è una reazione umana a qualcosa che deve essere capito. “Disordine” dice semplicemente il supplemento di sforzo che dobbiamo impiegare per trovarvi un suo ordine, che comunque esiste (a qualsiasi cosa possiamo trovare un ordine, una “legge” che la regoli[6]). L’entropia è la tendenza del mondo ad assumere degli ordini sempre più complessi, fino al punto che qualunque essere umano rinuncerà a trovarne uno. Quando la termodinamica dice che in un sistema chiuso ogni energia tende irreversibilmente al calore, ovvero all’energia più disordinata (ovvero più porobabile), dice che il calore è un’energia la cui descrizione è troppo complicata. Il mondo è una corsa verso la complessità, verso il caos – il quale non sarebbe all’origine del mondo, ma punto di arrivo del mondo. Come si vede, una valutazione soggettiva è incastrata nei concetti stessi, oggettivi, di “calore” e di “energia” in generale. Anche la scienza più sofisticata tradisce le proprie umili origini, il suo derivare da valutazioni umane, molto terra terra: se qualcosa è disordinata o meno, se è complicato capirla o meno, quanto tempo e quanta energia dobbiamo impiegare per descriverla, ecc.
Si prenda il concetto, tuttora controverso, di probabilità. A lungo si è discusso che cosa essa sia, se abbia una base oggettiva (è più probabile ciò che è più frequente) o sia squisitamente soggettiva (ovvero, si basa sulle nostre attese). Oggi, dopo Ramsey e de Finetti, è la teoria soggettivista della probabilità a prevalere in matematica e in logica. Eppure la probabilità è nel cuore delle cose stesse, dato che per la fisica quantistica fenomeni che consideriamo oggettivi sono di fatto uno spettro di probabilità[7]. Sono quei punti critici della scienza in cui oggettivo e soggettivo si intersecano, dove la scienza deve convenire che certi fenomeni oggettivi possono essere descritti solo in relazione al nostro sapere e alle nostre attese. Da qui i paradossi ben noti, come l’indeterminazione di Heisenberg o il gatto di Schrödinger. Probabilmente questi paradossi sono una nemesi, il venir fuori di qualcosa di rimosso, il fatto cioè che la scienza inizia come un modo di valutare soggettivamente il mondo, e che tale, anche al culmine della maturità, essa resta. Che le cose sono, fondamentalmente, indistricabili dalle nostre reazioni soggettive a esse. È come se la scienza, divenuta principessa del reame del sapere, dovesse sempre re-incontrare la Cenerentola che essa era.
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4.
Ora, l’importante è che la critica, anche dura, al testo di Jacob da parte di Derrida si rovesci poi in un’accoglienza piena del modello proposto da Jacob – la riproduzione biologica come un processo testuale. Lungi dal vedere i riferimenti linguistici e testuali di Jacob come metafore pedagogiche, Derrida li prende alla lettera e conclude che il vivente ci dà l’esempio di una testualità senza messaggio e senza comprensione.
Jacob si pone il problema di fino a che punto la moderna scienza del vivente possa fare a meno di concetti “teleologici”, ovvero di concetti appartenenti all’ordine del linguaggio e della scrittura, e quindi all’ordine dei fini, dei programmi… Abbiamo detto dell’ampio uso che le scienze di oggi fanno di concetti come “informazione”, “messaggio”, “codice (genetico)”, “istruzioni”, che sembrano tutti implicare una soggettività, un Io, uno “spirito”… Jacob afferma che la descrizione dell’eredità come un programma cifrato in una sequenza di radicali chimici fa scomparire la contraddizione tra teleologia e meccanismo (diremmo: tra soggettività e oggettività). La riproduzione – per Jacob, la struttura essenziale del vivente – funziona come un testo. Come scrive in modo pungente:
“A lungo il biologo si è ritrovato davanti alla teleologia come essere accanto a una donna di cui non può fare a meno, ma con cui non vuole farsi vedere in compagnia in pubblico. Il concetto di programma dà ora uno statuto legale a questa relazione segreta.” (p. 17)
Ora, mi pare che Derrida accolga completamente questa “legalizzazione”. Assistiamo a una doppia strategia di Derrida nel suo confronto col pensiero biologico via Jacob: da una parte, abbiamo visto, critica le concettualizzazioni di Jacob, dall’altra invece ne fa uso per insinuare ciò che la sua filosofia insinua (direi anzi che la filosofia di Derrida è tutta un’insinuazione), come se cercasse nel modo in cui il biologo dice il proprio sapere dei supporti al proprio discorso. Da una parte certi concetti sono criticati, come abbiamo visto, dall’altra però essi sono utilizzati per giustificare il suo ”la vita la morte”. Può fare questo però solo forzando il senso di certi concetti biologici, piegandoli al proprio uso per così dire.
Per esempio, Derrida pensa di leggere in Jacob l’idea che la sessualità e la morte, queste “invenzioni”, siano supplementi. Che si tratti di qualcosa che si aggiunge alla vita, che la supplisce. Ma si ha allora il sospetto che Derrida non abbia capito quello che Jacob e la biologia dicono della sessualità e della morte. La sessualità non è qualcosa che supplisce o si aggiunge alla vita, non più di quanto l’”invenzione” dei mammiferi sia un supplemento dei vertebrati… La sessualità è semplicemente un modo di replicazione (modo nuovo in una certa fase di evoluzione della vita), di cui la morte dell’individuo è una conseguenza intrinseca. È un’innovazione nel modo di riproduzione, non un supplemento. Ma l’idea che la sessualità e la morte siano supplementi faceva gioco a Derrida, che ha sempre insistito sulla posizione del supplemento nei vari campi. Direi che si tratta qui di un’appropriazione indebita.
Derrida insiste d’altro canto sull’ambiguità del concetto di produzione e ri-produzione in biologia perché quel che gli interessa nel fondo è mostrare come ogni riproduzione di sé sia riproduzione di una riproduzione. Che non c’è un prodotto primo che dia inizio a un processo di riproduzione. Ogni prodotto è riprodotto. Questo è uno dei temi fondamentali del pensiero derridiano: le copie, le tracce, le rappresentazioni, non hanno un originale, un’origine da cui derivano. Derrida si gioca tutto nel rinvio all’infinito, come nella mise en abyme.
È difficile capire non il pensiero così enunciato di Derrida – lo si può leggere nei manuali di filosofia, ormai – ma la sua enunciazione, cioè, che cosa Derrida voglia in fondo dire (o meglio, cosa voglia mostrarci) con questa insistenza. Dato che non si tratta nemmeno di una teoria, quanto di una critica di ogni teoria che voglia dire l’origine di qualcosa. Dopo tutto, non ci è ancora possibile capire Derrida, perché non siamo ancora riusciti a decostruirlo. (Questo per dire che, malgrado le mie critiche qui a Derrida, in fondo sono derridiano).
Derrida riprende il paradosso ben noto “è nato prima l’uovo o la gallina?” (a cui fa riferimento anche Jacob). Questa domanda è già derridiana, in quanto si dà per scontato che a questa domanda non ci sia risposta, che gireremo in tondo sempre tra un’origine e l’altra… Ora, si dà il caso che la teoria genetica moderna ci dia invece la risposta: all’origine c’è l’uovo. L’uovo in effetti è il contenitore del genoma del pollo, e il pollo ne è il fenotipo. Il pollo di oggi esiste perché l’uovo del pre-pollo o proto-pollo ha subito una mutazione, che ha dato nascita al pollo; l’origine del mutamento può essere solo nel genoma, cioè nell’uovo, non nel fenotipo del pre-pollo o proto-pollo. Da qui il noto apoftegma: “la gallina è un taxi usato da un uovo per produrre un altro uovo”. Certo si potrebbe sempre dire: ma ci voleva comunque un proto-pollo con un proprio uovo, l’uovo del pollo non nasce spontaneamente. Certo, e così si potrebbe retrocedere, man mano, fino all’origine del vivente sulla terra. Ammesso che ogni forma vivente venga da un unico ceppo. Allora, c’è un’origine della vita, anche se non c’è un’origine delle specie, come ci ha detto Darwin?[8]
Per le scienze dell’evoluzione la vita certamente è un evento, appare a un certo punto della storia del pianeta. La geologia ci dice che la vita lascia tracce solo a partire da un certo momento della storia della terra. Ma la biologia non è in grado di dire cosa abbia prodotto questo evento, e come si è prodotto. La biologia esclude che ci sia stata creazione ex nihilo, perché questo è escluso dal gioco stesso della scienza. Perciò per la biologia ci deve essere un’origine, dobbiamo supporre un primo prodotto che non fu a sua volta un ri-prodotto. L’assunto filosofico di Derrida non può quindi essere accettato dal biologo. Per cui ci si chiede: perché comunque per Derrida è così importante affermare che comunque, della produzione e riproduzione, non c’è origine?
La verità, secondo me, è che nel fondo Derrida diffida delle scienze perché queste sono sempre ricerca di un’origine, insomma di una causa prima in senso aristotelico. Certamente la scienza rimanda sempre più all’indietro la causa prima, sia nel più antico, sia nel più elementare. Sia verso un evento da cui verrebbe fuori anche il tempo (oggi, teoria del Big Bang), sia verso qualcosa di irriducibile, di non riducibile ad altro, verso un semplice che non sia a sua volta composto (le particelle non a caso dette elementari, i quark, ecc.). Ma il filosofo sa che questo rinvio – al più arcaico e al più elementare – è un processo infinito, ovvero, sa che ogni spiegazione scientifica, ogni Erklärung, sarà sempre provvisoria e regionale. Mentre la filosofia tende (anche quando non lo sa) all’assoluto, ovvero al non-regionale, alla totalità dell’ente, a un tutto non relativo, ovvero non in relazione con altre parti… Ma dell’assoluto non si può dire nulla, perché ogni predicazione lo relativizza, ne differisce, per così dire, l’assolutezza.
Allora, la manovra di Derrida per salvare “l’assoluto” è consistita nel fare di questo differimento, di questa différance, dell’assoluto… l’assoluto stesso. Nella figura della “traccia” si inscrive, si incide, questo scacco della filosofia nel dire l’assoluto, ma facendo di questo scacco l’assoluto stesso, facendo prevaricare lo scacco dell’assoluto sull’assoluto. Altrimenti il filosofo – teme Derrida – dovrebbe rassegnarsi a dipendere dalle spiegazioni (sempre regionali e provvisorie, sempre storiche) delle scienze, insomma a costruire una metafisica realista che faccia da sgabello al confort filosofico degli scienziati (questa è la funzione di molto epistemologi oggi, e del “nuovo realismo”). La filosofia come ancilla scientiarum. Che non sia mai! Da qui la sfida “barocca” di Derrida (che citava appunto i quadri barocchi, di differimento, di David Teniers il Giovane): tutto è ri-produzione, non c’è produzione originaria.
E perché non può (o non deve?) esserci produzione originaria? Perché la produzione originaria – del cosmo ad esempio, o della vita su questo pianeta – stabilisce un inizio del gioco, ma Derrida vuole che il gioco non abbia mai inizio. In ogni caso, ci sarà sempre e comunque già gioco. La catena degli effetti lascerà béant l’ultimo o il primo degli effetti, insomma, la causa prima è sempre differita. Ma allora questo differimento della causa prima verrà eletto a “causa prima”, ad archi-traccia, a traccia che viene prima di ogni traccia e che comanda la produzione di tutte le tracce. In questo modo Derrida pensa di salvare la capra e il cavolo: salvare la sempre recidiva vocazione della filosofia all’assoluto, e allo stesso tempo denunciare l’eterna relatività di questo assoluto, rinunciare all’assoluto come a qualcosa di sempre effimero, dato che rimanda sempre… a qualche altro assoluto.
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5.
Quindi, Derrida mette tanto impegno nel criticare la filosofia implicita, “ingenua”, di Jacob, perché ci tiene a impossessarsi del concetto essenziale che, secondo lui, Jacob avanza: che la vita è una forma di scrittura. In effetti nozioni come codice, produzione e riproduzione, trascrizione, programma, ecc., sono tutte nozioni legate al concetto di scrittura. Ma, come è noto, Derrida non pensa alla scrittura come a un succedaneo della parola orale, ma come a qualcosa che precede (filosoficamente, non cronologicamente) il linguaggio orale propriamente detto. Egli vuole proporre una nozione di scrittura che non la riduca a trascrizione successiva di un pensiero, che non la faccia provenire da un’intenzione soggettiva cosciente. In questo senso, gli sembra che la genetica moderna conforti, avalli direi, la sua proposta filosofica.
Derrida vorrebbe insomma estendere il concetto di testualità fino a renderlo co-estensivo al vivente.
“Questa situazione – un testo senza riferimento esterno, tutto al di fuori perché senz’altro riferimento che un testo rimarcante [remarquant[10]] un testo -, questa situazione non è in fondo quella del testo della biogenetica che si scrive su un testo di cui essa fa parte o di cui essa è il prodotto, che si scrive su un oggetto o un referente che non solo è a sua volta già un testo, ma un testo senza il quale il testo scientifico – esso stesso prodotto del vivente – non potrebbe scriversi?” (p. 159)
Ciò gli permette di avanzare una metafisica che escluda ogni forma di realismo: non solo la vita è testualità, ma possiamo rigettare ogni riferimento all’autorità, direi, di un reale, di cui la scrittura sarebbe semplice riproduzione o rappresentazione.
“Riferendo il vivente alla struttura di un testo, si compie visibilmente un progresso concettuale nella bio-genetica, un progresso nella conoscenza, se volete, del vivente, se intendiamo questo progresso della conoscenza come allo stesso tempo una trasformazione dello statuto della conoscenza che non ha più nulla a che fare […] con un reale meta-testuale, ma con del testo, e che consiste quindi a scrivere testo su testo.” (p. 160)
Non siamo in pieno idealismo, ma in qualcosa che gli rassomiglia: in pieno testualismo. Le sue obiezioni a una visione realista possono essere nel fondo alquanto simili a quelle che già a suo tempo furono articolate dall’idealismo tedesco a partire da Fichte – ovvero, che anche quando diciamo che c’è una realtà fuori del testo, possiamo dire questa realtà solo grazie a un testo, per cui “la realtà” è pur sempre un testo a cui rimanda un altro testo. Così, il suo rigetto di un originario, di un evento che sia origine di tutti gli altri, è il corollario filosofico dell’idea che non c’è un reale all’origine dei testi, che non c’è un reale prima del testo che questo testo inizialmente rappresenterebbe. Il mondo diventa una fenomenologia della testualità così come per l’idealismo il mondo era fenomenologia dello Spirito.
Hegel (“il più metafisico dei metafisici”, come dice Derrida) disse che ogni vera filosofia è idealista anche se non lo sa o lo nega. “Accusare” anche Derrida di idealismo, quindi, potrebbe essere un modo di confermare l’enunciato di Hegel. E in effetti possiamo dire che Hegel ha ragione, a suo modo. Il punto – ed è qui la divaricazione – è se il filosofo di questo proprio idealismo se ne rammarichi o meno. In questo senso ogni vera filosofia (con buona pace di Badiou) è anti-filosofica: denunciando il proprio incorreggibile idealismo, cerca di andare oltre… la filosofia.
Ma anche qui, dietro l’enunciato testualista di Derrida, quale enunciazione dobbiamo leggervi? Ovvero, in quale contesto, in quale con-testo – in che cosa intorno al testo – dobbiamo leggere il testo di Derrida? Certamente il suo testualismo, preso alla lettera, è un avatar dell’idealismo, e quindi un approccio metafisico a dispetto del fatto che Derrida voglia chiudere con la metafisica. Ma è questo ciò che egli ci mostra? L’enunciato è ciò che si dice, l’enunciazione è ciò che si mostra.
La differenza tra enunciato ed enunciazione è colta da una famosa barzelletta ebraica. Due ebrei si incontrano in treno e uno chiede all’altro dove vada, e l’altro risponde “vado a Cracovia”. Risposta che irrita il primo, il quale protesta: “Ma perché dici di andare a Cracovia per farmi credere che vai a Varsavia, mentre in realtà vai proprio a Cracovia?”
Possiamo dire che Derrida dice di andare filosoficamente a Cracovia – andare contro la metafisica della tradizione filosofica - per farci credere che vada a Varsavia, ovvero verso una metafisica testualista. Questo ci fa pensare, come pensa l’ebreo della barzelletta, che lui vada davveroa Cracovia, cioè che intenda veramente disfarsi della metafisica, compresa della propria, quella testualista. Mi pare che questa sia la lettura che fanno di lui molti derridiani. Ma se prendere Derrida au pied de la lettre fosse a sua volta un malinteso, un modo di cadere nel suo tranello? Se invece Derrida andasse davvero dove non dice di andare, ovvero verso una nuova metafisica? Perché il secondo ebreo pensa di essere ancor più acuto e scafato del primo nella misura in cui prende il primo alla lettera – e se invece questo suo essere non-dupe, il suo non lasciarsi ingannare, come dice Lacan, fosse il suo errore? Les non-dupes errent. Perché in effetti la barzelletta dei due ebrei resta aperta, non conosciamo la verità, per cui possiamo rovesciare l’enunciazione potenzialmente all’infinito. Più si cerca di essere non-dupe, più si rischia di errare.
Questa nuova (non detta) metafisica verso cui di fatto Derrida va è certamente legata a qualcosa di personale, di idiosincratico. E mi chiedo se in ogni filosofia, anche in quelle che si vogliono le più razionali, le più puramente argomentative, le più anonime, non si esprima questa opacità soggettiva del filosofo. È il tema che Derrida stesso affronterà in questo seminario parlando della biografia del filosofo, a proposito dell’uomo Nietzsche. Ovvero, al centro di ogni filosofia, per quanto rigorosamente impersonale, si annida un ombelico biografico, direi un’ossessione privata, qualcosa che gli altri non condividono originariamente, ma che finiscono con l’assumere quando entrano nel gioco di quella filosofia. Non ereditiamo solo le argomentazioni dei grandi filosofi, anche le loro ossessioni. Ora, sappiamo che Derrida era ossessionato dalla scrittura, varie testimonianze ce ne parlano. Scrivere per lui era molto più che esprimersi, era, direi, un tracciare delle forme indelebili nel marmo, o forse nella carne.
Ma questa sua ossessione personale ha avuto molto successo, soprattutto nel campo della critica e della storia letterarie, ovvero in professioni di scrittura. Un po’ come i massoni –masons, muratori – hanno creato una visione metafisica e cosmologica fondata sulla costruzione architettonica, analogamente la metafisica derridiana della traccia e della scrittura fornisce una sorta di esaltazione filosofica di quegli artigiani della scrittura che sono gli accademici nelle Humanities. Derrida è diventato l’interprete più prestigioso della confraternita di coloro che scrivono. Come nella massoneria, gli strumenti del lavoro diventano l’essenza del lavoro stesso.
Ma, al di là di questa confraternita mondiale, gran parte del pensiero moderno ha pensato di trovare nel concetto derridiano di testo la soluzione che questo pensiero da tempo cerca: qualcosa che metta finalmente fine alla divisione di vecchia data tra mondo dei segni e mondo delle cose. È la stessa ragione per cui a un certo punto, nella seconda metà del XX° secolo, il pensiero è sembrato coagularsi attorno al significante linguaggio: il linguaggio andava a pennello nel superare la divisione che da secoli tormenta il pensiero occidentale, quello appunto tra segni e cose, o tra res cogitans e res extensa, quindi tra spirito e materia, mente e mondo, ecc. Perché il linguaggio sembra una moneta che ha una faccia materiale, sensibile (i suoni, le lettere, la struttura fonologica) e una faccia mentale, intelligibile (il versante semantico, l’espressione di idee). Ma il linguaggio, il logos, dirà Derrida, è ancora troppo poco materiale, troppo poco ‘cosa’, dato che solo gli esseri umani posseggono un linguaggio. Derrida vuole andare oltre, e pensa di trovare nella nozione di traccia – in qualcosa di non sempre intenzionale, in una semplice differenza inferta a qualcosa di omogeneo – il significante giusto per dire questo superamento. Il superamento della micidiale divisione all’origine delle metafisiche, che originariamente era tra un intellegibile e un sensibile, tra είδος ed ειδωλων, di cui sarà sempre problematico l’intreccio e la reciproca congruenza.
In sostanza, Derrida partecipa a un grande sogno della cultura, non solo parigina, dell’epoca: superare la divisione tra cultura umanistica e cultura scientifica, non accettare più la barriera diltheyana tra scienze dello spirito e scienze della natura. Abbiamo visto che la nozione di testo secondo Derrida poteva permettere questa congiunzione.
Poco dopo il seminario di Derrida, Ilya Prigogine e Isabelle Stengers pubblicheranno La nuova alleanza[11], che proseguirà lo stesso progetto, lo stesso sogno: la nuova auspicata alleanza sarà esplicitamente quella tra scienze umane e scienze della natura (solo che qui il riferimento filosofico sarà Bergson).
Molta acqua da allora è passata sotto i ponti, e possiamo dire oggi che questo sogno non è mai divenuto realtà. In seguito, le Humanities e le Natural sciences si sono sempre più separate, e da entrambi i lati. La cultura filosofica continentale è slittata da allora sempre più verso forme di spiritualismo, verso l’ermeneutica, verso una ripresa del bergsonismo o della fenomenologia; mentre le scienze hanno riaffermato spavaldamente il loro riduzionismo e hanno investito lo stesso “spirituale” attraverso le neuroscienze, di cui all’epoca del seminario di Derrida non si parlava. Le neuroscienze tematizzeranno la vita mentale degli esseri umani a partire dalla struttura del cervello, a partire da un organo materiale.
Tengo a dire che anche io lavoro da tempo a un superamento delle metafisiche che oppongono spirito e mondo, scienza dello spirito e scienze della natura, nature e nurture, ecc.[12] In questo senso lo sforzo di Derrida è anche il mio. Il punto, secondo me, è il modo in cui Derrida rigetta questa opposizione. Egli fa prevalere - direi prevaricare - un concetto profondamente antropologico come quello di scrittura facendone il modello di processi naturali. Anche il concetto di traccia, se non antropocentrico, è zoocentrico: una traccia è tale solo per qualcuno che la consideri tale. La forma di un piede sulla sabbia è traccia solo per qualcuno che cerchi chi vi è passato.
Come per Nietzsche, abbiamo visto, la nozione di vita prevarica su quella di ente in generale – anche se nella forma negativa della morte - analogamente in Derrida la nozione di scrittura o di traccia prevarica sull’ente in generale.
È come se Derrida dicesse: "Non c'è divisione tra pensieri e cose, perché tutte le cose sono forme di pensieri..." Non si supera veramente un'opposizione facendo prevaricare uno dei termini di un'opposizione sull'altro. È un superamento illusorio.
La testualità è una prevaricazione metafisica nel senso che tutte le metafisiche sono sempre l’atto di una prevaricazione categoriale: una parte dell’ente prevarica la totalità dell’ente, ponendosi come essenza dell’ente in generale. E così la scrittura – o meglio la traccia – questo ente in particolare, differenziale e in differita, diventa qualcosa di essenziale della totalità dell’ente.
Malgrado tutte le sue critiche a Jacob, qui Derrida esprime la speranza che la biologia moderna possa abbandonare i presupposti meccanicisti da cui essa è partita, e da cui è partita ogni scienza moderna. Ma così non si rende conto che tutte le nozioni illustrate da Jacob, e che richiamano l’ordine dei segni e della scrittura, sono concetti, appunto, euristici - la biologia era allora, e lo sarà sempre più, meccanicista. Quando il biologo dice “codice genetico” sta usando una metafora: sa che si tratta in fin dei conti solo di processi chimici. Derrida prende metafore didattiche per la struttura stessa della cosa biologica.
Questo non significa che il mondo dello spirito e quello delle cose naturali siano necessariamente separati. Ma un punto di vista che vada oltre questa divaricazione non può essere quello della prevaricazione dei concetti di un mondo su quelli dell’altro.
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Storicamente, direi che la concettualizzazione della filosofia della scienza è andata in una direzione per certi versi opposta alla proposta di Derrida, di prendere la scrittura (quindi anche la scrittura dei biologi, i testi che essi scrivono) come modello per rappresentare il vivente. Si è affermata invece sempre più – e non dico che me ne rallegri, ma è un fatto - una visione delle teorie scientifiche, dei modelli scientifici – inclusa quindi la teoria biologica – come essi stessi organismi il cui modello è l’organismo biologico secondo il darwinismo. Ovvero, una teoria non è solo né essenzialmente un’immagine del mondo, dell’oggetto che essa vuole descrivere e spiegare, è essa stessa una sorta di organismo simil-vivente, soggetta a processi fondamentali molto simili a quelli della vita biologica.
Il darwinismo afferma che la vita ha una storia per mutazione e selezione: la mutazione è casuale, stocastica, e poi ogni mutazione è messa al vaglio dell’ambiente dell’organismo, che la premia o la elimina. Ogni organismo ha un doppio ambiente: da una parte i congeneri (per esempio, vincere contro altri maschi la competizione per accaparrarmi le femmine, ecc.), dall’altra l’ambiente extra-specifico (assicurarmi le prede, sfuggire ai predatori, far fronte a cambiamenti climatici, ecc.). L’equivalente della selezione delle teorie è anch’essa duplice: una teoria deve competere con le altre teorie rivali, e allo stesso tempo fornire spiegazioni migliori del proprio oggetto di ricerca. Conta la capacità che ha una teoria di prevedere certe cose del mondo, e anche di offrire un modello migliore, che appaia verosimile, di ciò che accade nel mondo che descrive, rispetto ad altri modelli. Ma le teorie scientifiche sono a loro volta frutto del caso, del fatto cioè che a un certo punto compaiono degli esseri umani – Galileo, Newton, Darwin, Mendel, Einstein, ecc. – che concepiscono, non importa come e non importa perché, delle idee nuove. Dawkins (1976) chiama queste idee memi, da mimesis, e i memi sono il corrispettivo culturale dei geni. Questi memi nuovi sono mutanti intellettuali – i quali vengono poi sottoposti all’esame dei fatti, ovvero della porzione di realtà che intendono descrivere, e alle critiche dei memi (teorie) rivali. Nessuna teoria spiega tutto, ma può spiegare più di un’altra, per cui finisce col prevalere nella lotta per l’esistenza memetica. Una teoria scientifica è vista sempre meno come una riproduzione fotografica del mondo, sempre più come un organismo composito che sopravvive nel mare del reale. Una teoria ci appare più vera di un’altra perché sopravvive meglio dell’altra.
Una critica puramente filosofica delle teorie nuove lascia quindi il tempo che trova: quel che conta è la capacità di ogni teoria di sopravvivere e trasmettersi (riprodursi) nelle comunità scientifiche. Per una teoria scientifica accettata le critiche filosofiche sono per lo più come le punture di zanzare per un elefante. Una teoria biologica, quindi, prodotto del vivente, tende spontaneamente a comportarsi essa stessa come una sorta di organismo vivente in relazione a quel mondo vivente che vuole descrivere.
Possiamo dire quindi che l’idea peregrina di Charles Darwin – che le specie mutano non perché trasmettono caratteri acquisiti dal fenotipo, ma per una mutazione puramente casuale del genotipo – fu essa stessa una mutazione memetica che è stata positivamente selezionata dalla ricerca successiva, nel senso che essa si è dimostrata adatta a sopravvivere nella massa di dati che le scienze dell’evoluzione hanno prodotto da allora in poi. Certo anche il darwinismo ha i suoi contro-fatti, molti tratti della vita non possono essere spiegati darwinianamente[13], eppure il darwinismo sopravvive come idea dominante perché si adatta abbastanza bene (non perfettamente) ai fatti biologici.
In questa ottica, non è più la testualità il modello della biologia moderna, ma i testi che gli umani producono trovano il loro modello nel vivente stesso.
[5] Riprendo qui la brillante descrizione di Hintikka della scienza come un gioco, assimilabile quindi a una teoria generale dei giochi. Hintikka, 1975, capp. II-III-V.
[6] È questo un presupposto fondamentale della matematica moderna: a qualsiasi insieme, per quanto in apparenza caotico, possiamo trovare un ordine, una “legge” che ne descriva la composizione.
[7] La meccanica quantistica considera il flusso o corrente di probabilità come un fluido eterogeneo (la corrente di probabilità è il tasso di flusso di questo fluido). È un vettore reale, come in una corrente elettrica. Un fluido (ente oggettivo) può essere descritto in termini probabilistici (di attese soggettive), e un calcolo probabilistico può essere descritto come un ente oggettivo.
[8] Più volte è stato notato che il titolo di “L’origine delle specie” è fuorviante, perché di fatto non dice nulla delle origini delle specie, e di fatto dissolve anche il concetto di specie.
[9] Se fosse per Derrida, fra i quadri dell’arciduca ci dovrebbe essere anche il quadro di Teniers “L’arciduca Leopold Wilhelm nella sua galleria a Bruxelles”… Avremmo quella che i francesi chiamano myse an abyme.
[10]Remarquer quindi nel doppio senso: come un testo che marca un altro testo una seconda volta, che lo ri-marca, ma anche che lo nota, lo rende rimarchevole, lo fa essere testo mentre prima, non notato, non lo era.
[12] Rimando qui a: S. Benvenuto, "Natura/ Cultura. Critica ad un paradigma culturale" in Giorgio de Finis & Riccardo Scartezzini, a cura di, Universalità & Differenza. Cosmopolitismo e relativismo nelle relazioni tra identità sociali e culture, FrancoAngeli, Milano 1996, pp. 116-142.
[13] Del resto, nemmeno Darwin era “darwiniano” fino in fondo, per fortuna. Cfr. Pievani (2013, 2015).
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Bibliografia
R. Dawkins (1976) The Selfish Gene, Oxford Univ. Press, Oxford. Tr.it. Il gene egoista. La parte immortale di ogni essere vivente, Mondadori, Milano 1992.
J. Derrida (2019) La vie la mort, Seuil, Paris.
P. Feyerabend (1975) Against Method. Tr.it. Contro il metodo, Feltrinelli, Milano, 2013.
F. Jacob (1970) La logique du vivant : Une histoire de l’hérédité, Gallimard, Paris. Tr.it. La logica del vivente. Storia dell’ereditarietà, Einaudi, Torino 1971.
J. Monod (1970) Le hasard et la nécessité. Tr.it. Il caso e la necessità, Mondadori, Milano 2001.
F. Nietzsche, La gaia scienza (1882)
T. Pievani (2013) Anatomia di una rivoluzione. La logica della scoperta scientifica di Darwin, Mimesis, Milano.
T. Pievani (2015) Leggere l’Origine delle specie di Darwin, IBIS Edizioni, Como-Pavia.
I. Prigogine & I. Stengers (1979) La nouvelle alliance, Gallimard, Paris.
Quine, WVO (1975) ‘On Empirically Equivalent Systems of the World’, Erkenntnis, vol. 9, no. 3, pp. 313–328.
L. Wittgenstein (1980) Pensieri diversi, Adelphi, Milano.
N. L. Wilson (June 1959). "Substances without Substrata", The Review of Metaphysics, 12 (4): 521–539.
L’intento di questa raccolta, che prende il titolo di “Soggettivazioni”, è stato quello di aprire una riflessione attorno alla teoria della soggettivazione lacaniana, così per come ce l’ha lasciata in eredità Lacan, a singhiozzi, nei testi stabiliti a partire dai suoi trent’anni di insegnamento orale. Cosa può dirci una psicoanalisi asistematica, distante dalle istituzioni universitarie rispetto a problemi di una concretezza innervata di realtà? Chi frequenta i dipartimenti di Psicologia e assieme l’insegnamento lacaniano sa che è incommensurabile la distanza che intercorre tra la specificità e la settorializzazione degli strumenti istituzionali a confronto con l’universalità dei concetti larghi e volontariamente mai definiti dello psicoanalista parigino. Tra l’estremamente particolare (l’ad hoc della psicologia contemporanea) e l’estremamente universale (il concetto, unità sintetica della filosofia) si rischia di incorrere in un deragliamento del punto focale, causato da uno scontro di metodi epistemologici che si sono stabilizzati ai bordi opposti l’uno rispetto all’altro. Nella scelta di prendere in considerazione un tema vasto e generale come la teoria della soggettivazione c’era l’interesse, da parte nostra, di porlo in dialogo con il campo altrettanto vasto e generale del presente. Speriamo che questa prima ricerca possa costituirsi come un’indagine (sebbene parziale) sullo statuto del soggetto in quanto campo epistemologico aperto: attingendo dalla teoria psicoanalitica e dal dibattito che ne è scaturito, il presente volume segue molteplici sentieri analitici e sottolinea di contributo in contributo la difficoltà di giungere a un’idea organica di soggetto, per la varietà di ipotesi spesso contrastanti in merito alla sua rappresentazione, formalizzazione e interpretazione. In questa raccolta crediamo che i punti maggiormente messi in rilievo da chi ha collaborato riguardino il problema della genesi, lo statuto della trasformazione, e infine un’attenzione specifica è stata rivolta al registro del Reale e ai suoi effetti.
Sono molte e significative le vicende, personali e culturali, attraversate da Georges Bataille nel corso degli anni Trenta. La più singolare è forse quella legata a una rivista da lui fondata, «Acéphale», e alla società segreta che recava lo stesso nome. L’intento del duplice progetto era, in un certo senso, di tipo religioso, ma di una religiosità che prendeva atto fin da subito della morte di Dio annunciata da Nietzsche. La setta, che riuniva attorno a Bataille un ristretto numero di adepti, svolgeva un’attività di riflessione sulle opere del filosofo tedesco, ma praticava anche dei rituali di tipo cerimoniale. L’esperienza è stata importante per lo scrittore, anche se è durata solo pochi anni e se alla fine egli è sembrato giudicarla, per molti aspetti, mancata. Ha ricordato infatti, in una nota autobiografica, quanto segue: «Avevo passato gli anni precedenti [al 1940] con una preoccupazione insostenibile: ero deciso, se non a fondare una religione, almeno a dirigermi in tal senso. […] Per quanto una simile ubbia possa sembrare stupefacente, io la presi sul serio. È l’epoca in cui feci apparire con degli amici la rivista “Acéphale”. […] Voglio solo precisare che l’inizio della guerra rese decisamente avvertibile l’insignificanza di questo tentativo»
Giuseppe Zuccarino è critico e traduttore. Ha pubblicato vari saggi:La scrittura impossibile, Genova, Graphos, 1995; L’immagine e l’enigma, ivi, 1998; Critica e commento. Benjamin, Foucault, Derrida, ivi, 2000; Percorsi anomali, Udine, Campanotto, 2002; Il desiderio, la follia, la morte, ivi, 2005; Il dialogo e il silenzio, ivi, 2008; Da un’arte all’altra, Novi Ligure, Joker, 2009; Note al palinsesto, ivi, 2012; Il farsi della scrittura, Milano-Udine, Mimesis, 2012; Prospezioni. Foucault e Derrida, ivi, 2016. Tra i libri da lui tradotti figurano opere di Mallarmé, Bataille, Klossowski, Blanchot, Caillois e Barthes. Ha inoltre curato un fascicolo monografico della rivista «Riga» (n. 37, 2017) dedicato a Maurice Blanchot.
Nel 1739 l’inventore francese Jacques de Vaucanson progettò il suo automa più famoso, Le Canard Digérateur. Della celebre “anatra digeritrice”, che in realtà non digeriva affatto i chicchi di grano con cui veniva nutrita, è rimasta traccia materiale soltanto negli schizzi preparatori del suo costruttore e nelle riproduzioni di alcuni artisti contemporanei. Tuttavia, il modello meccanico di de Vaucanson rappresenta un ottimo esempio della rappresentazione (e della riproduzione) del fare animale che il nuovo libro di Roberto Marchesini, Etologia filosofica. Alla ricerca della soggettività animale (Mimesis, 2016), intende accantonare in modo definitivo. Freddo, automatizzato, determinato e in fin dei conti semplice nel suo funzionamento, Le Canard Digérateur è la realizzazione meccanica e antropica della res extensa cartesiana, principale bersaglio dell’analisi di Marchesini. Addentrandosi in territori inesplorati dal panorama filosofico contemporaneo, l’autore inaugura una nuova strada seguendo due coordinate principali: la critica del modello meccanicista e l’individuazione del principio meta-predicativo nell’animalità.
L’analisi prende piede, ancora una volta, dalla rivoluzione darwiniana di metà Ottocento. La straordinaria svolta imposta dalle conclusioni del naturalista inglese, già contenenti tutti gli elementi necessari a un approccio non meccanicistico al comportamento animale, venne arginata nei decenni successivi da una vera e propria controriforma sia culturale sia scientifica. Il mentalismo novecentesco compì l’errore di non comprendere appieno la teoria darwiniana, mascherando vecchie concezioni con nomi nuovi. L’animale fu relegato nell’Umwelt, incatenato nel suo mondo e obbligato a svolgere automaticamente le proprie funzioni, delle quali è schiavo più che libero padrone. L’uomo, al contrario, venne svincolato dagli alberi filogenetici del vivente perché soggetto e dunque diverso dalla fauna restante, pletora di forme di vita impossibilitate ad assurgere a tale rango.
Il rifiuto dell’animalità dell’uomo, la prigionia dell’animale nella sua monade e l’automatismo funzionale dell’agire animale sono i tre pilastri di matrice antropocentrica che resistono alle scoperte scientifiche nel campo della biologia e vengono ereditate di generazione in generazione sino ai tempi moderni. Il confine tra umano e non umano viene rimarcato, stabilendo ruoli e incasellamenti che perdurano tutt’oggi e che devono essere scardinati a forza dal pensiero popolare così come dai dibattiti cultural-scientifici.
Nel suo saggio, Marchesini rimarca l’importanza di discostarsi dal classico approccio con cui l’essere umano ha avvicinato, studiato, interagito e osservato gli animali non umani. L’antropomorfismo proiettivo genera due principali conseguenze negative: primo, alimenta la presunzione di poter descrivere un altro essere vivente, dotato di proprie filogenesi e ontogenesi, a partire dal modello umano; secondo, legittima la categorizzazione oppositiva che già sussume, rendendola di fatto ineliminabile. Inoltre, rigettare l’unicità filogenetica di ciascuna specie allontana, in modo solo all’apparenza paradossale, dall’orizzontalità del bios che la teoria darwiniana prima e le scoperte nel campo della genetica raggiunte nel corso del Novecento poi hanno messo in luce. Eppure, nonostante già Darwin avesse sottolineato che l’animalità è una condizione che riguarda anche l’Homo sapiens, una lunga serie di filosofie e movimenti culturali hanno rafforzato e blindato la fortezza-uomo, cercando in ogni modo di isolarla da tutte le altre entità animali. Per raggiungere questo obiettivo non c’è modo migliore che quello di reificare e de-soggettivare l’animale, identificandolo a partire da quei predicati epimeteici che lo inchiodano, rendendolo schiavo delle sue funzioni. Durante il “secolo breve” l’animalità dell’uomo è stata dunque rigettata (spesso facendo perno sulla dicotomia natura/cultura, laddove la seconda è la marcia in più, la dotazione umana per eccellenza), rifiutando qualsiasi accostamento all’altro animale (la sinfisia di Acampora, il comune sentire interspecifico, arriverà soltanto alle soglie del nuovo millennio) e, infine, imponendo l’automa, il costrutto meccanico, come modello per la descrizione del comportamento e della biologia animali.
La critica del meccanicismo utilizzato per spiegare il fare animale insito tanto nella filosofia quanto nell’etologia parte dal superamento del riduzionismo e della macchina come modello. Le domande da porsi in principio potrebbero essere le seguenti: l’animalità può essere matematizzabile? Il fare animale può essere ridotto a un mero esercizio delle funzioni, trasformando il comportamento in un’azione semplice e binaria come lo è azionare un interruttore? Non si deve, ovviamente, cadere nella risposta più ovvia, vale a dire l’esaltazione e la descrizione della complessità come antidoto a ogni tentativo di meccanizzazione. Non è nelle stupefacenti immagini di un documentario della BBC o nell’ultimo, affascinante e istruttivo articolo pubblicato da Nature che dobbiamo cercare l’essenza dell’animalità. Occorre invece comprendere che la formalizzazione cartesiana non può donare al fare animale quella soggettività in cui Marchesini identifica il vero e proprio meta-predicato che funge da fil rouge attraverso il dominio animale dove è di casa anche l’uomo. La titolarità espressiva è il raggiungimento finale: non sono le dotazioni a muovere l’individuo, non esiste alcun homunculus e non è ovviamente contemplato un piano trascendente; «l’esistenza è pertanto una titolarità che va oltre la coscienza» (Marchesini, 2016, p. 45). Superare la res extensa cartesiana è il punto di partenza necessario per poter mettere da parte ogni tentativo di meccanizzazione dell’animale, ridotto, come è stato fatto in passato, a mera macchina a incastro, interruttore pronto ad agire, totalmente privo di soggettività.
Ammettendo la soggettività come condizione meta-predicativa dell’animale, è possibile passare da un modello a innesco (il già citato interruttore) a un modello virtuale. Per giungere alla virtualità funzionale, è dunque necessario considerare la singolarità della presenza animale, una singolarità che è sia storica (filogenesi), sia di sviluppo (ontogenesi). Ogni individuo è unico, non è cristallizzato nel qui-e-ora ma fa parte del flusso diacronico-evolutivo. L’animale non è operativo al pari di una macchina, al contrario è aperto e instabile. Da questo punto di vista, il comportamento non può essere letto come un automatismo: ogni individuo animale è un soggetto che si muove lungo le coordinate del desiderio e della volontà, proprietà queste che lo svincolano da qualsiasi tentativo di modellizzazione macchinica in quanto non c’è alcun compito da portare a termine secondo una procedura, sia essa determinata o algoritmica, tipica dell’automa. In Etologia filosofica il concetto di soggettività viene espresso come «visione diacronico-relazionale dell’esistenza» (Marchesini, 2016, p. 86) e porta a un paio di paradossi: primo, la titolarità sulle funzioni è svincolata dalla responsabilità sulle stesse; secondo, l’animale esercita le sue eredità filogenetiche, pur non essendone da esse esclusivamente determinato. L’animale è quindi un flusso, un divenire, un essere sempre diverso da se stesso. L’ontogenesi è un dialogo aperto col mondo, che diventa il piano su cui l’animale si muove in modo aperto, libero e flessibile, assolutamente non determinato. Abbandonando il principio disgiuntivo e oppositivo che da sempre accompagna la relazione fra l’uomo e gli altri animali, Marchesini illustra la dimensione ontologica dell’animale, fondata sulla soggettività, la singolarità e la titolarità sulle funzioni: non conta ciò che un animale è in grado di fare, ma che cosa fa di lui un animale.
Al termine della sua ricerca, Marchesini trova la metafora perfetta per chiarire l’idea su cui si fonda Etologia filosofica. Se l’intero saggio si configura come una ricerca, un tentativo di inaugurare una nuova strada che porti al riconoscimento della soggettività animale, quale figura potrebbe funzionare meglio che quella di una mappa? La cartina, capace com’è di mostrare una struttura e al contempo di richiedere l’ideazione di un itinerario, può agire da “schema funzionale” meglio di altri modelli. Dotato di un impianto di base – eredità del suo percorso filogenetico e del suo sviluppo ontogenetico – e grazie alla titolarità sulle proprie funzioni, l’animale può agire in modo plurale, creativo, intenzionale e soprattutto flessibile: può imboccare questa o quella strada, allungare il percorso, compiere deviazioni o addirittura mancare l’obiettivo di proposito. Appare dunque chiaro, grazie alla metafora, come questo agire sia distante anni luce dal percorso, rigoroso e iterativo, delineato da un diagramma di flusso, o dalle scelte, limitate e obbligate, che costituiscono un algoritmo informatico.
Nei primi anni Trenta del Seicento, René Descartes scrive un trattato sull’uomo (è l’ultima parte di Le Monde ou Traité de la lumière), ma rinuncia a pubblicarlo; l’opera apparirà postuma assai più tardi, nel 1664. L’autore vi descrive il funzionamento del corpo umano come se fosse quello di una macchina. Il cervello gli appare composto da un reticolo di tubicini, che convergono verso una ghiandola, dotata di notevole mobilità: si tratta del conarium, ossia l’epifisi o ghiandola pineale. Essa, secondo il filosofo, costituisce «la sede dell’immaginazione e del senso comune» (Descartes, 2012e, p. 851; trad. it. 1986, p. 124). Dal conarium fuoriescono gli «spiriti animali», che trasmettono attraverso i nervi gli impulsi motori al corpo e nel contempo danno «all’anima l’occasione di sentire il movimento, la grandezza, la distanza, i colori, i suoni, gli odori, e altre simili qualità; e anche […] il solleticamento, il dolore, la fame, la sete, la gioia, la tristezza e altre simili passioni» (ibidem). Quindi tutto il complesso sistema di interazioni fra psiche e corpo è regolato da una minuscola ghiandola. Nel 1641, Descartes pubblica una delle sue opere principali, le Meditazioni metafisiche. Fra i vari temi in essa affrontati, c’è anche quello del modo in cui dev’essere concepito il rapporto fra l’anima e il corpo. Il filosofo li considera due entità essenzialmente differenti: il corpo, per sua natura, è sempre divisibile, mentre l’anima è indivisibile. Lo dimostra il fatto che se l’uomo viene mutilato, per esempio, di un braccio o di un piede, nessuna perdita ne risulta per l’anima. Questa, infatti, «non viene influenzata direttamente da tutte le parti del corpo, ma soltanto dal cervello, o forse anche solo da una sua parte molto piccola» (Descartes, 2012c, p. 331; trad. it. 2001, p. 285). Il riferimento allusivo è alla ghiandola pineale, cui Descartes attribuisce la funzione di trait d’union fra anima e corpo. Anzi, quando comunica in forma privata ed epistolare, egli si spinge fino a sostenere che «questa ghiandola è la principale sede dell’anima, e il luogo in cui si producono tutti i nostri pensieri» (Lettera a Lazare Meyssonnier del 29 gennaio 1940 in Descartes, 2012a, p. 1066; cfr. anche le missive a Marin Mersenne datate 1 aprile e 30 luglio 1640 in Descartes, 2012a, pp. 1070-1072 e 1077).
Giuseppe Zuccarino è critico e traduttore. Ha pubblicato vari saggi:La scrittura impossibile, Genova, Graphos, 1995; L’immagine e l’enigma, ivi, 1998; Critica e commento. Benjamin, Foucault, Derrida, ivi, 2000; Percorsi anomali, Udine, Campanotto, 2002; Il desiderio, la follia, la morte, ivi, 2005; Il dialogo e il silenzio, ivi, 2008; Da un’arte all’altra, Novi Ligure, Joker, 2009; Note al palinsesto, ivi, 2012; Il farsi della scrittura, Milano-Udine, Mimesis, 2012. Tra i libri da lui tradotti figurano opere di Mallarmé, Bataille, Klossowski, Blanchot, Caillois e Barthes.
La fenomenologia, secondo Lambert Wiesing (Il me della percezione. Un’autopsia, a cura di Tonino Griffero, Christian Marinotti edizioni, 2014), deve diventare – ritornare? - greca, in almeno quattro sensi differenti. Innanzitutto facendo proprio un adagio scettico: la natura delle cose è inesplicabile. Più che lanciarsi in ipotesi metafisiche – poco importa di quale natura – bisogna ritornare, con Husserl, a un più modesto ma efficace approccio descrittivo: “quale sia stata la sua genesi, è una cosa che non ci riguarda”. In secondo luogo, liberandosi da utopie di stampo scientista, la fenomenologia dovrebbe porsi alla stregua di un testo protrettico (p. 78). Descrivere fenomenologicamente una percezione non significa trasporre una serie di proposizioni analitiche dal carattere strettamente logico-scientifico, ma invitare e convincere il lettore a praticare quelle stesse esperienze trascritte dal fenomenologo. La fenomenologia si nutre - come già notava in senso critico Derrida - di un’intuizione, una presenza originaria, impossibile da comunicare per iscritto, ma, nonostante ciò, compiutamente universale in quanto esperibile. In terzo luogo il pensiero fenomenologico dovrebbe dirigersi senza indugi verso la percezione, evento umano primario e inestirpabile. Come già sosteneva Epicuro – e prima di lui i sofisti - le percezioni sono sempre vere. E questo – aggiunge Wiesing – perché non possono mai essere concepite in altro modo, non essendo passibili di alcuna falsificazione
Infine – e questo ci introduce al nodo centrale del libro - una sana fenomenologia deve seguire l’Aristotele della Politica: “il tutto viene prima delle parti”. Nel caso della percezione, a cui Wiesing dedica l’intero libro, si tratta allora di superare la parti – percipiente e percepito – per indirizzarsi primariamente al Tutto – la percezione, intesa come situazione che tiene assieme i due poli del soggetto e dell’oggetto.
E’ questo il nerbo centrale della prospettiva avanzata da Wiesing, che intende capovolgere così il criticismo kantiano: invece di individuare nel soggetto, come nell’Estetica trascendentale della Critica della ragion pura, le condizioni di possibilità della percezione, bisognerebbe piuttosto analizzarne le conseguenze della realtà. Se la situazione percettiva sembra una realtà a tutti gli effetti inemendabile e fenomenologicamente irriducibile, la domanda da porre deve allora essere la seguente: cosa mi accade nel momento in cui vengo a trovarmi in una situazione percettiva? Schivando così sia l’oggettivismo empiristico proprio degli approcci analitici sia il soggettivismo interpretante delle filosofie ermeneutiche, Wiesing riporta al centro un discorso squisitamente fenomenologico, volto a indagare la relazione intenzionale che inequivocabilmente la percezione pone in essere. Il soggetto, da costitutore del reale o specchio di un mondo di oggetti, diventa così a tutti gli effetti il prodotto di una situazione percettiva che gli si impone. Wiesing ripete più volte quanto la percezione sia in definitiva un’imposizione – anche tragica- per il percipiente, che non può fare a meno di prendere parte alla relazione percettiva. La percezione non produce comodi naufragi con spettatore, per dirla alla Blumenberg, quanto un’inevitabile partecipazione al mondo, nell’unica forma – intenzionale - in cui questo può darsi al soggetto.
Nella costellazione ridisegnata da Wiesing, il trittico soggetto/oggetto/percezione si riconfigura, portando in primo piano la percezione come suo centro propulsore, in maniera non dissimile da quanto portato avanti, in un altro contesto, da Gilbert Simondon prima e da Bernard Stiegler oggi: nel passaggio all’individuazione non bisogna concentrarsi né sull’origine né sul termine, ma sul processo trasduttivo e relazionale in grado di articolare i due momenti. Al di qua della sclerotizzazione tra un soggettivismo autoreferenziale e un oggettivismo semplicistico, Simondon, Stiegler e Wiesing, in modi ovviamente differenti, propongono uno sguardo “terzo”, bergsonianamente orientato sui movimenti che riconfigurano le essenze statiche in poli di un processo.
A partire dalla questione percettiva, così reinterpretata, Wiesing deduce, in maniera cartesiana, tutte le possibili conseguenze: il soggetto diventa, come si è detto, un partecipante attivo del mondo, dotato di un corpo-proprio (Leib) a cui la percezione si impone come una causa (pp. 136-140) capace di gettarlo in una dimensione sia pubblica – da qui la possibilità dell’intersoggettività (pp. 140-144) - sia continua – da qui la conferma dell’identità personale (pp.144-150).
Non siamo però sempre e soltanto condannati a percepire: secondo Wiesing lo schema dell’imposizione lascia spazio ad alcune particolari pause dalla partecipazione al mondo. Si tratta della percezione iconica, quando ci si trova di fronte a un’immagine che, presenza “diminuita”, possiede soltanto la caratteristica della visibilità. In questo caso, sebbene si possa provare empatia nei confronti, per esempio, di un film, il percipiente non si sente tuttavia “in gioco”, preso irrevocabilmente in una situazione percettiva. Il naufragio con spettatore, metafora di un a-storico mondo premoderno “a distanza di sicurezza”, ritrova allora per Wiesing pieno senso nell’esperienza compiutamente estetica, che non si impone più al percipiente. Difficile non vedere qui, come bene mostra Tonino Griffero nell’introduzione, una critica ai più entusiastici rappresentanti del cosiddetto visual o pictorial turn, convinti del potere fin troppo immersivo delle immagini estetiche.
A incorniciare la prospettiva di Wiesing corre per tutto il libro una sorta di pars destruens nei confronti delle molte e differenti prospettive filosofiche che hanno affrontato il problema della percezione. Al di là dell’ovvio tributo pagato a Descartes, Husserl e Merleau-Ponty, Wiesing si impegna a decostruire due grandi rami della ricerca filosofica sull’aisthesis: da un parte i sostenitori del “mito del dato”, dall’empirismo secentesco sino alle sue più attuali recrudescenze neuro-analitiche e dall’altra i sostenitori del “mito del mediato”, da Thomas Reid a Gadamer, passando per Nietzsche e Kant. Sia che si pensi alla datità di un oggetto accessibile immediatamente da parte di un soggetto recettivo, sia che si veda nell’attività interpretante del soggetto l’unico possibile aggancio alla percezione, si ha a che fare, per Wiesing solo e soltanto con ipostasi metafisiche, racconti mitici più o meno riusciti e più o meno efficaci, ma pur sempre costruiti sulla base di modelli ipotetici. Se la scienza non può che procedere per modelli o paradigmi, la filosofia non può che farne un uso soltanto funzionale o euristico; un modello non è altro che un metodo e non può mai, per uno sguardo filosofico serio, assumere un valore di verità. Dalla confusione di verità e metodo nascono allora due prospettive che, pur combattendosi alacremente, affondano in un pregiudizio comune.
Ecco allora che Wiesing ripropone una prospettiva strettamente fenomenologica, senza modelli, capace di ritornare a una descrizione genuina della realtà. Arrivati a questo punto non si può fare a meno di chiedersi se la costellazione percettiva configurata da Wiesing – situazione percettiva antecedente a percipiente e percepito – non finisca tuttavia per essere anch’essa un modello, soprattutto quando fa derivare dalla situazione percettiva una serie di deduzioni che potremmo definire contro-trascendentali. Probabilmente è impossibile praticare un pensiero filosofico senza modelli: ciò che si può tentare di fare è allora verificare ogni volta che il modello non si sganci dal reale, ingenerando una mitologia pericolosa soprattutto in quanto inconsapevole. Quando il modello fenomenologico è ampiamento dissezionato nei suoi fondamenti, come fa Wiesing, si schivano le possibilità di una ricaduta nel mito (pseudo)filosofico. E’ questo, in particolare, il caso dell’intenzionalità, che l’autore trasla su un piano unicamente percettivo e ridefinisce nella sua consistenza relazionale. Forse la stessa fenomenologia, come sta accadendo sempre più spesso, per riproporsi oggi efficacemente, ha bisogno di ridiscutere continuamente i propri presupposti.
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Come le recenti dichiarazioni del neuroscienziato Giacomo Rizzolatti sulla precisione del pensiero filosofico in ambito scientifico sembrano confermare, l’attenzione della scienza nei confronti della filosofia, e in particolare della fenomenologia, sembra oggi più vivo che mai. In questo contesto, la prospettiva promossa da Wiesing, umile nel richiamo alla protrettica e insieme ambiziosa nel suo universalismo fenomenologico, può allora, riportando intelligentemente al centro della riflessione filosofica l’auto-evidenza della percezione, aprire qualche nuova strada di indagine sull’uomo, vero e proprio animale percettivo.