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Josiah Royce non ha la fama di altri idealisti anglosassoni quali Francis Bradley, né quella di altri pragmatisti come William James, Charles Peirce o John Dewey. Il suo porsi a metà tra quelle che potrebbero apparire come due correnti contrapposte lo rende di difficile classificazione: certo lo stesso Peirce combinava il suo “pragmaticismo” con una forma di idealismo oggettivo, e anche il pensiero di Dewey deriva in sostanza da una rilettura in chiave naturalistica dell’idealismo hegeliano. Resta però una tensione tra i due poli, che forse non si rende mai evidente come nel “pragmatismo assoluto” di Royce, ben consapevole del carattere quasi ossimorico dell’espressione. Forse anche per questo il suo nome resta poco noto e gli sforzi di rimediare rimangono contenuti: negli ultimi anni, in Italia si contava la sola traduzione della Filosofia della fedeltà.[i] La pubblicazione con il titolo di Il pragmatismo assoluto delle Harrison Lectures tenute da Royce tra il 1910 e il 1911, ottimamente curate, tradotte e introdotte da Rocco Monti con prefazione di Giovanni Maddalena, dovrebbe costituire un primo passo perché finalmente si faccia spazio nel canone maggiore della filosofia a uno dei grandi pensatori del suo tempo.

Con l’amico e collega William James, morto pochi mesi prima di queste lezioni, Royce aveva ingaggiato un’autentica “battaglia per l’assoluto”. James e Royce si erano posti quali rispettivi campioni statunitensi di pluralismo e monismo, posizioni rivali che si spartivano gran parte del panorama filosofico tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento. Anche per questo viene naturale chiedersi quanto pragmatismo – postura filosofica che, in James come in gran parte della sua ricezione successiva, è legata strettamente a una cosmologia pluralista – possa sopravvivere in un monismo assolutista. Ma gran parte del genio di Royce sta proprio nella sua capacità di portare a coincidenza gli opposti, e anzi di trovare in un polo dell’opposizione il germe che si sviluppa necessariamente nell’altro. Come ricorda Monti (p. 23), per ogni accusa a Royce di eccessivo idealismo si trova una parallela accusa di eccessivo pragmatismo, e non perché egli cerchi qualche compromesso tra i due, ma perché il suo pensiero si inabissa nel pragmatismo quanto più si sforza di essere idealista, e viceversa. È un po’ come se Royce operasse una biforcazione che conduce a identità i due poli proprio nella misura in cui fa aumentare la distanza tra di essi, mentre viene eliso tutto quanto sta nel mezzo – il pragmatismo realistico di James come l’idealismo contemplativo di Bradley.

Maddalena descrive bene il dispositivo alla base di gran parte del pensiero di Royce: egli “ripercorre un legame paradossale che lega logicamente il relativo all’assolto, il temporale al sovratemporale, il fisico al metafisico. La peculiarità di tale meccanismo è il rovesciamento logico e necessario che esso comporta. Secondo Royce, sono proprio le strutture logiche ed epistemologiche del relativo, del temporale, del fisico che portano all’assoluto in tutte le sue forme” (p. 12). Questo dispositivo è già all’opera nel suo primo libro, The religious aspect of philosophy (1885), dove Royce sviluppa un argomento destinato a diventare classico.[ii] Ogni idea, considerata per sé, si trova in una relazione intenzionale adeguata col suo oggetto, poiché ogni asserzione ha il potere di porre da sé il proprio oggetto nonché il tipo di corrispondenza che esso comporta. Dato questo presupposto, la possibilità dell’errore diventa intelligibile solo assumendo che l’idea sia inclusa in un intero di ordine superiore che può definire l’errore entro una rete più ampia di relazioni intenzionali che complica la corrispondenza immediata. Royce arriva a sostenere che la reiterazione di questo argomento obblighi a postulare una “verità assoluta” quale interpretante finale della possibilità dell’errore. Solo se esiste una verità assoluta l’errore si spiega. Se la premessa dell’adeguatezza di ogni atto intenzionale suggerisce una visione “democratica” della verità (p. 74), l’esperienza del possibile fallimento la rovescia nel suo opposto. Nelle Harrison Lectures, Royce arriva a sostenere che il concetto di verità assoluta sia tautologico, poiché “vero” e “assolutamente vero” sono sinonimi. Non c’è verità che quella assoluta. La “probabilità” e la “certezza” che attribuiamo alle idee sono segni psicologici che non riguardano la verità in sé, motivo per il quale l’assolutista non deve mascherare la fallibilità delle proprie idee (p. 59-60). Ciò che James diceva delle verità, cioè che “accadono”, va in realtà detto della probabilità e della certezza. La verità invece non è il predicato di qualcosa: la verità è, è un “insieme significativo di oggetti, eventi, idee, consigli e azioni che si uniscono per assumere un significato ideale, situandosi in una dimensione che non è temporale né atemporale ma sovratemporale, la dimensione del “per sempre” (p. 103), la più concreta che Royce dichiari di conoscere. La possibilità dell’errore, impiegata solitamente per confutare l’idealismo domandando come una realtà posta dal soggetto possa contenere una contraddizione tra realtà e soggetto stesso, è capovolta da Royce in una dimostrazione dell’idealismo assoluto.

Versioni di questo argomento diverranno ricorrenti nei dibattiti del tempo tra ideal-monisti e real-pluralisti.[iii] Royce ne offre una variazione su base etica ne La filosofia della fedeltà (1908), dove la fedeltà che sentiamo di dovere a un intero più ampio funge da base per il salto nell’assoluto eticamente inteso.[iv] Le stesse Harrison Lectures conferiscono una nuova forma logica alla medesima strategia argomentativa: il loro scopo dichiarato è “definire e difendere il concetto di Verità assoluta” (p. 53). Eppure, Royce mette in chiaro che la sua è “una visione volontaristica della natura e del significato della verità” (p. 67). In linea coi pragmatisti, Royce crede che “il nostro pensiero faccia parte della nostra condotta, che la vita del nostro intelletto sia sempre un processo costruttivo, un’attività… in breve, credo che la nostra vita intellettuale sia parte dell’espressione della nostra volontà” (p. 67). La verità assoluta si manifesta solo in termini volitivi (un’idea che è forse resa al meglio dalla “volontà di interpretazione”, quasi una variazione sulla nicciana volontà di potenza, intorno alla quale vertono diverse opere del tardo Royce). Dando quasi una lettura metafisica ante litteram della teoria degli atti linguistici, Royce afferma che “le nostre asserzioni sono frammenti della nostra condotta”, poiché “si articolano come approvazioni o negazioni di una qualche interpretazione della nostra esperienza” (p. 70), e che “ciò che ci mette in relazione con la verità è una situazione problematica e una decisione che voglia risolverla” (p. 95). È così che l’argomento dell’errore rivela la sua ispirazione pragmatista, ed è da qui che, nelle Harrison Lectures, Royce parte per darne una versione fondata sulla più pragmatica delle idee, la concezione jamesiana dell’azione come emerge in particolare in The will to believe (1896).

Anche la “volontà di credere” di James, spesso letta come una legittimazione indiscriminata del wishful thinking, contiene un germe inestirpabile di assoluto. Come scrive Monti, “sembra quasi che Royce voglia fare di James un assolutista” (p. 37), insistendo sulla nozione di “decisione” come quel particolare che contiene già una colorazione d’assoluto. La decisione è irrevocabile, non può più essere annullata, e proprio per questo la sua contingenza cortocircuita con l’assoluto: “Quale sarebbe il valore dell’agire se un’azione compiuta potesse essere improvvisamente annullata a piacere?” (p. 76). Questo “postulato dell’irrevocabilità degli atti compiuti” (p. 81), lo stesso che Nietzsche chiedeva di trasformare in amor fati attraverso la prova dell’eterno ritorno, diventa in Royce il punto di contatto tra pragmatismo e assolutismo: “Si dice spesso che l’assoluto non sia altro che una vuota astrazione; ma c’è qualcosa di più concreto e di più assoluto di un’azione consapevole e determinata?” (p. 83). L’assoluto è sempre agito; l’assoluto è, potremmo dire, in atto nell’atto. Per questo, osservato attraverso la “lente della risolutezza”, il valore della condotta “aumenta quando si tratta di persone decise che si impongono degli scopi determinati e che si fanno guidare da scelte volontarie” (p. 86). Ora, poiché l’atto è sempre guidato da un’asserzione in cui dimora una verità, dall’assolutezza dell’atto si passa direttamente a quella della verità: “la distinzione tra vero e falso è quindi assoluta per chi decide di compiere un’azione” (p. 89); il tratto del giudizio che ha carattere di verità assoluta è anzi proprio quello che consiglia la nostra condotta (p. 87). Sebbene la forma logica dell’argomento sia cambiata (stavolta Royce non cerca la prova dell’assoluto nella fallibilità quanto nella positività stessa dell’atto), la strategia resta quella di far apparire l’infinito nella lente del finito.

Non è difficile scovare la fallacia logica che sottende tutte le varianti dell’argomento: Royce passa dalla necessità di un riferimento più ampio rispetto al singolo atto intenzionale, che fondi la distinzione tra verità ed errore, alla postulazione di un assoluto quale unico possibile garante finale di tale distinzione. Se la prima parte dell’argomento è plausibile, l’inferenza che porta direttamente all’assoluto non pare giustificata. Era lo stesso James a notare, confrontandosi con l’argomento dell’errore in The meaning of truth, che “any definitely experienceable workings would serve as intermediaries quite as well as the absolute mind’s intentions would”.[v] Tutto ciò che serve per garantire l’intelligibilità dell’errore è qualche intero più ampio e inclusivo rispetto al singolo atto intenzionale, che complichi la relazione intenzionale introducendo un contesto più complesso che renda conto della mancata corrispondenza. Non sembra possibile, tuttavia, pronunciarsi sull’estensione di tale intero, né provare che si possa pervenire per questa via a un intero “assoluto” che non lasci niente fuori da sé. L’assolutezza dell’intero sarebbe dimostrabile solo provando che una volta postisi al suo livello non ci sia più la possibilità di ridistribuire i valori di verità dei nostri enunciati: se, raggiunta una certa estensione dell’intero, errare non fosse più possibile, allora davvero dovremmo credere di dimorare nella verità assoluta. Ma si tratta di una richiesta che va oltre la più dogmatica delle epistemologie: proprio il pragmatismo, specie con Peirce, ha sempre fatto del fallibilismo un suo cavallo di battaglia. Nel cercare una dimostrazione epistemologica della propria dottrina, Royce reitera l’identificazione, del tutto contingente, tra assolutismo e dogmatismo, disattendendo il proprio invito a “non confondere la tendenza a definire la verità in termini assoluti con l’evidenza e la certezza con cui alcune verità sembrano ingannarci” (p. 65). Un “assolutismo fallibilista”, in cui lo stesso carattere dell’assoluto è di volta in volta messo alla prova, avrebbe forse servito meglio il nucleo del suo pensiero. Non si può escludere che un assoluto esista, ma dimostrarlo su base epistemologica partendo dalla possibilità dell’errore significa fondare un sistema metafisico su una fallacia logica. Lo stesso sembra valere per l’irrevocabilità dell’atto, che certo lo sottrae alla contingenza assoluta di un volontarismo spicciolo, ma non sembra condurre di necessità all’assoluto. A spingere Royce all’assolutismo è il temperamento più che il ragionamento: egli stesso, in fondo, fa dipendere la validità dell’inferenza dalla decisione particolare all’assoluto dal “temperamento passionale”, che ha bisogno che “il peso che la volontà ha nella sua vita non sia immaginario e illusorio ma drammatico” (p. 78).

L’argomento dell’errore è insomma efficace contro le forme estreme di pluralismo (quelle atomistiche alla Russell, che escludono ogni forma di relazionalità interna e ogni intero rilevante), ma nulla potrebbe contro le varianti più sofisticate che si accontentano di sottolineare la presenza nel cosmo di interruzioni e interstizi, fratture che garantisco un margine di gioco tra le entità, senza pretendere tra di esse una disconnessione totale. Il pluralismo di James, basato su “the legitimacy of the notion of some”,[vi] è di questo tipo: qualche connessione esiste tra le cose, qualche disconnessione pure, così che l’esistenza e la consistenza delle relazioni possono essere provate solo empiricamente, caso per caso. Si potrebbe aggiungere che il tipo di “assoluto” che Royce pretende di fondare passa presto di moda tra i suoi stessi colleghi: idealisti come Bernard Bosanquet, Harold Joachim o Brand Blanshard sembrano intenzionati a mantenere idealismo e monismo rinunciando però alla qualifica di “assoluto” per il loro mondo; tutte le cose sono legate per loro da una fitta rete di relazioni, alcune delle quali sono però tanto tenui che non ci si può pronunciare in anticipo circa l’assolutezza di questo groviglio di relazioni.

Sembra che tra finito e assoluto, tra pluralismo e monismo estremi, ci sia posto per tutto uno spettro di soluzioni intermedie che fanno della moderatezza e della capacità di compromesso la propria forza. Royce non rende giustizia a tutto ciò che sta “nel mezzo”, come si vede anche dal fatto che egli individui il valore metafisico della volontà nella perentorietà: “Le persone pigre e oziose hanno aspettative più o meno indeterminate che vengono soddisfatte o deluse con grande indecisione. Di contro la verità e la falsità emergono invece solo nel caso in cui le due dimensioni siano nettamente definite: sì o no” (p. 95). Tutto preso dal sottolineare il valore metafisico della risolutezza, Royce manca di cogliere il significato metafisico dell’indecisione e dell’irresolutezza, dell’esitazione, della titubanza, che consiste nel testimoniare come una singola dottrina sia incapace di rendere conto dell’eterogeneità e della ricchezza del reale. Non basta insistere, con Royce, sulla banalità che “anche non decidere è una decisione”, perché si tratta meno della decisione in sé che della possibilità che essa abbia solo due valori di verità, sì o no, cui applicarsi. Le tante antinomie attraverso le quali il pensiero coglie il reale sembrano richiedere una sorta di “dialettica affettiva” o “dialettica antinomica”, sulla quale pensatori come Jean Wahl o Enzo Paci hanno costruito gran parte del proprio pensiero, e nella quale il secondo, non a caso, vedeva il correlato filosofico della “incapacità alla naturalezza e alla spontaneità” che caratterizzò la sua vita.[vii] Una dialettica di questo tipo, senza risoluzione finale, è forse l’unica postura possibile di fronte al dibattito tra monismo e pluralismo, tra relazioni interne ed esterne, che costituisce una delle migliori prospettive dalle quali cogliere la rilevanza del pensiero di Royce.[viii]

Rilevanza che si deve anche alla scoperta di una strategia che permette a Royce di limitare le conseguenze di un assolutismo di cui il suo temperamento gli impedisce di sbarazzarsi. Questa strategia è basata sul concetto matematico di infinito, che Cantor e Dedekind sviluppano in quegli stessi anni. Ciò che attrae Royce verso l’infinito è il suo essere essenzialmente “obliquo” rispetto all’opposizione tra Uno e molti. Questo l’esempio da lui impiegato: la serie dei numeri interi e la serie delle potenze di due sono entrambe infinite, eppure contengono una quantità diversa di elementi, e la seconda è addirittura contenuta nella prima. Due collezioni possono essere ugualmente infinite pur differendo in termini di cardinalità: per questo, per una collezione infinita di oggetti, l’assioma che la parte non può eguagliare l’intero non vale. L’applicazione di questo principio in ambito metafisico ha conseguenze radicali nel capolavoro The world and the individual (1900-1901), dove l’Assoluto è considerato precisamente come una collezione infinita, le cui parti (individui, comunità, nazioni…) sono infinite tanto quanto l’assoluto stesso.[ix] Tutte queste entità, differenti in termini di “completezza”, sono individui nello stesso identico senso dell’assoluto e possono vantare la sua stessa dignità ontologica. Royce potrebbe essere il primo assolutista in cui le relazioni mereologiche e le differenze di scala tra l’Assoluto e gli individui che esso contiene non comportano differenze “ontologiche” né “assiologiche”.[x] Un individuo, scrive Royce, è eguale a Dio se considerato dal punto di vista dell’infinito. Ne risulta una reviviscenza di elementi pluralistici in un sistema che sembrava pronto a tutto per escluderli, al punto che Gilles Deleuze, in Critica e clinica, arriva a leggere la “comunità di interpretazione” teorizzata sulla base di questa intuizione negli ultimi libri di Royce come la miglior esemplificazione della comunità pluralistica tipicamente americana.[xi]

L’infinito attrae Royce perché permette di “appiattire” la differenza tra i due estremi del finito e dell’assoluto in cui il suo dispositivo filosofico biforca tutto ciò che tocca. L’assoluto diventa quasi inoffensivo una volta negata la differenza assiologica rispetto agli individui; può darsi che l’etichetta di “pragmatismo infinito” avrebbe servito la causa del pensiero di Royce meglio di quanto abbia fatto quella di “pragmatismo assoluto”. Per quanto la sua fondazione vada cercata altrove che negli argomenti a sfondo epistemologico tentati dal suo autore, quella di Royce resta una delle costruzioni metafisiche più suggestive e stimolanti prodotte tra Ottocento e Novecento. La traduzione delle Harrison Lectures può essere l’occasione per una sua riscoperta e non deve rimanere un evento isolato.

Christian Frigerio


[i] Josiah Royce, La filosofia della fedeltà, tr. E. Buzzi, Nino Aragno, Roma 2014.

[ii] Josiah Royce, The religious aspect of philosophy, Houghton & Mifflin, Boston 1885, pp. 424-5.

[iii] Si veda Timothy Sprigge, James and Bradley: American truth and British reality, Open Court, Chicago 1994.

[iv] Un argomento simile potrebbe anche essere estratto dalla concettualizzazione dell’esperienza di Royce che, come ricorda Monti, lo avvicina per molti aspetti alla fenomenologia se non all’empirismo radicale di James: Rocco Monti, “‘Yet a new phase, wherein the abstract become concrete’: Josiah Royce’s theory of experience between philosophy and psychology”, Contemporary Pragmatism 20, 2023, pp. 271-92.

[v] William James, The meaning of truth, Longmans, New York 1909, p. 23n.

[vi] William James, A pluralistic universe, Arc Manor, Rockville 2009, p. 36.

[vii] Enzo Paci, Il nulla e il problema dell’uomo, Bompiani, Milano 1988, p. 51.

[viii] Christian Frigerio, Ricomporre un cosmo in frammenti: il dibattito sulle relazioni interne ed esterne, Mimesis, Milano 2023.

[ix] Josiah Royce, The world and the individual, vol. 1, Macmillan, New York 1900.

[x] Christian Frigerio, “Josiah Royce’s ‘flat absolutism’: Real individuals through the relations regress”, Cosmos & History 28(2), 2022, pp. 228-250.

[xi] Gilles Deleuze, Critica e clinica, tr. A. Panaro, Cortina, Milano 1996, p. 115n.

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