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La traduzione di un testo filosofico è indubbiamente un atto non neutrale né irrilevante, soprattutto se, come nel caso della recentissima pubblicazione di La natura delle culture. Bozza di una teoria genetica della cultura (Mimesis 2023), consente a un pubblico di specialisti e non un più agevole accesso alla prosa ostica e rigorosa di un autore – Heiner Mühlmann – generalmente poco tradotto e ancor meno recepito, senza doversi necessariamente scontrare con lo scoglio della conoscenza della lingua originale. In questo senso, si tratta di un’operazione che costituisce lo spunto per un effettivo ampliamento della conoscenza e per un auspicabile estensione del dibattito, a partire dalle tesi che l’autore ha avanzato. E lo è ancor di più se, come nel caso in questione, la traduzione – opera congiunta di Matteo Caparrini e Silvia Rodeschini, con la curatela di Gianluca Bonaiuti – è accompagnata da una preziosa postfazione, realizzata da Antonio Lucci e dallo stesso Bonaiuti, che consente di contestualizzare il collocamento di un autore – come è stato sottolineato – volutamente schivo, deliberatamente lontano dal suscitare polemiche e scandali intellettuali, ma sempre tagliente e netto nell’esporre le proprie ragionate posizioni, stando a quanto è possibile evincere dalle sue rare apparizioni pubbliche e mediatiche (pp. 216-223). 

Una postfazione che, oltretutto, non si arresta davanti al compito di sollevare una questione cruciale: quali sono le potenzialità, i limiti e persino gli eventuali pericoli che possono derivare da una lettura della kulturgenetische Theorie proposta da Mühlmann? Domanda ineludibile che viene affrontata a partire dalla contrapposizione tra due letture antitetiche: l’appropriazione in salsa identitaria operata da Marc Jongen, ideologo del partito di estrema destra di Alternative für Deutschland (nonché ex assistente, ripudiato, di Peter Sloterdijk), e la rilettura espansiva e in chiave timotica proposta dallo stesso Sloterdijk in testi come Ira e tempo e Stress e libertà. Il primo, infatti, interpretando in modo puramente difensivo la dinamica di formazione delle culture come reazione ad eventi di stress massimale e ignorando il ruolo del decorum prodotto dalla fase di assestamento post-stressale, presenta una versione caricaturale del modello descrittivo sviluppato da Mühlmann che riduce tanto le culture a «gruppi di mammiferi della specie-sapiens uniti per far fronte ad aggressioni esterne», quanto lo stesso autore a una sorta di «Carl Schmitt 2.0 senza fronzoli teologici» (p. 230), con il solo intento di giustificare teoreticamente la legittimità di una politica xenofoba. Il secondo, al contrario, facendo proprie le tesi di Mühlmann sul ruolo fondamentale dello stress nella formazione dei gruppi umani, senza però trascurare il peso fondamentale del decorum, della formazione di set di regole ereditabili che costituiscono l’orizzonte di fitness e di sopravvivenza di una cultura, effettua, attraverso il loro inserimento nel rilancio dell’antico concetto greco di thymos, una vera e propria pulsionalizzazione di una dinamica che in Mühlmann è meramente fisiologica. Gesto che permette a Sloterdijk di ritagliare «uno spazio di possibilità per non pensare il thymos come unicamente votato all’esplosione polemogena», sottolineando gli effetti civilizzatori del differimento delle energie timotiche e lo stesso carattere generativo e non necessariamente distruttivo del thymos (desiderio di riconoscimento, di rivalsa, di affermazione, odio, invidia, ambizione, ira ecc.), rimanendo, come suggeriscono Lucci e Bonaiuti, «più fedele alle idee originali di Mühlmann di Mühlmann stesso» (p. 230).

Ora, sembra opportuno chiedersi, a fronte della presente traduzione – perché leggere Mühlmann? Perché tradurlo? E perché proprio oggi, in un momento storico caratterizzato dall’insorgenza di conflitti sempre più intensi e ravvicinati che, come mostrato dall'invasione russa dell’Ucraina e dalla ancor più recente recrudescenza del conflitto israeliano-palestinese, nonché dal profilarsi all’orizzonte di un possibile scontro Stati Uniti-Cina sulla questione territoriale di Taiwan, giungono a lambire sempre di più i confini dello spazio europeo e a infrangere la falsa sicurezza, l’illusione che il mondo occidentale non sia più destinato a fare i conti con guerre guerreggiate di ampia portata?

Il saggio di Mühlmann, innanzitutto, forte del suo approccio radicalmente antiumanista, costituisce per il lettore ben disposto una vaccinazione contro qualsiasi forma di naïveté. Davanti a ogni stupore nei confronti della guerra, davanti a ogni appello al presunto influsso benefico e al potere civilizzante di ciò che nei ministeri della cultura, nelle accademie, nelle redazioni dei giornali e dei periodici culturali viene definito «cultura», davanti alla cecità sistematica dell’«umanesimo filosofico» (p. 23) circa l’essenza fondamentalmente bellica della propria cultura e alla sua connivenza con essa, Mühlmann invita a pensare che quell’insieme di pratiche, di regole, di processi a cui ci riferiamo più o meno confusamente con il termine «cultura» sia non tanto un sistema contemplativo, un corpus stabile di valori eterni, autonomi e indipendenti tramandato di generazione in generazione, quanto piuttosto un sistema attivo «che genera guerra ed è generato attraverso la guerra» (p. 7). E in cui, di conseguenza, gli «artefatti mediali», come la retorica, il teatro, l’architettura, la musica, la pittura…non possono essere concepiti soltanto come oggetti di pura contemplazione estetica, rappresentando invece interconnesse «unità comunicative […] del sistema bellico “cultura”» (ibidem).

Il grande merito del modello elaborato da Mühlmann, infatti, consiste nell’invito a pensare la cultura non tanto come uno stato, quanto piuttosto come una dinamica iterativa, come un «oggetto dinamico collocato in un campo di iterazioni energetiche e iterazioni ereditarie» (p. 165): le culture sono pensabili, in questi termini, come esseri viventi, animali selvaggi «il cui comportamento è sottratto all’influenza diretta degli esseri umani» (p. 20), macrorganismi e sistemi autopoietici sottoposti alle condizioni della teoria termodinamica dell’auto-organizzazione messa a punto da Ilya Prigogine. In altri termini: sistemi che creano spontaneamente ordine, contrastando così la generale tendenza all’entropia descritta dalla seconda legge della termodinamica, attraverso un costante afflusso di energia dall’esterno e uno scarico di entropia sull’ambiente.

Le culture sono allora, nell’ottica di Mühlmann, quei sistemi in cui si è prodotto con successo un adeguamento globale di regole locali, stimolato da un adeguato flusso di energia – gli eventi di Maximal Stress Cooperation (leggi: situazioni di stress «per la vita e per la morte») –, e trasmesso non soltanto a livello orizzontale, infragenerazionale, ma soprattutto ereditato in verticale, nel passaggio da una generazione all’altra. Come si esprime altrove Mühlmann: «cultura altro non è che stabilità della memoria transgenerazionale» (2005, p. 6). 

In questo senso si spiega la dinamica di evoluzione ed ereditarietà culturale, suddivisa in cinque fasi, che Die Natur der Kulturen si impegna ad analizzare. Alla prima fase, quella delle «regole locali», nella quale si assiste alla comparsa spontanea e individuale di caratteri tecnici e tratti culturali e alla loro preliminare selezione e trasmissione mediante i fenomeni aggreganti della cooperazione e dell’allelopatia, segue, posta la legittimità dell’estensione della neurofisiologia dello stress individuale alla dimensione dei soggetti collettivi, una fase di intensificazione della cooperazione indotta da quell’interruttore di energia biologica che è lo stress massimale. Si dà infatti un rapporto circolare e retroattivo tra la sensibilità di una popolazione allo stress e le dinamiche in-group/out-group che l’autore descrive in termini di «potenziale discriminante», assimilabili alla «differenza di pressione» tra il lato interno e il lato esterno di una membrana, dalla quale sorge – che sia reale o frutto di una proiezione paranoica – lo stressore esterno. 

A seguito dell’evento MSC, di cui la guerra è massima espressione, si dà poi una fase di «rilassamento e adeguamento post-stressale», nella quale le regole precedentemente invalse vengono riclassificate e gerarchizzate alla luce della valutazione dell’evento stressante: emerge così un sistema polarizzato di valori, nel quale ciò che ha a che fare con il successo in interazioni MSC assurge al rango più elevato. Ne è un esempio quel sistema di regole che ha avuto corso nella cultura occidentale, grossomodo dall’età greco-romana al XVIII secolo, sotto il nome di decorum, e che Mühlmann indaga con dovizia di particolari attraverso gli strumenti della genetica culturale e degli algoritmi genetici. 

Fin qui la formazione di una cultura, cioè l’adeguamento globale di regole locali; ma come si trasmette tutto ciò? È quanto Mühlmann si propone di spiegare nella fase dedicata all’«iterazione»: utilizzando gli strumenti della matematica delle popolazioni, mostra la potenziale tensione che può sorgere tra modalità verticale e orizzontale di trasmissione. Mentre la prima è generalmente vettore di invarianza, fondandosi sui tempi lunghi della riproduzione biologica, la seconda, veicolata soprattutto dall’apprendimento sociale, può costituirsi sia come elemento di stabilità, sia come elemento di instabilità. A partire dal modello di trasmissione culturale proposto da Boyd e Richerson, Mühlmann mostra quanto sia facile il passaggio da un’imitazione di comportamenti legati adattivamente al contesto – l’evento MSC – a un’imitazione decontestualizzata e posta su basi non adattive o addirittura contro-adattive (l’acquisizione e la trasmissione di comportamenti legata, ad esempio, alla moda o al prestigio). Se in ciò si dà in nuce la potenzialità catastrofica a cui è dedicata la quinta fase, quella della «degenerazione» indotta dall’effetto Baldwin e visibile nella progressiva sovrapposizione di una cultura puramente estetica alla precedente cultura del decorum, non bisogna tuttavia dimenticare l’esistenza della possibilità di trasmissione di un carattere «in un unico atto di comunicazione a un individuo ingenuo» grazie a una «scena di elevata intensità comunicativa» (2023, p. 161), vale a dire attraverso la partecipazione a una situazione di cooperazione da stress massimale. Come non comprendere, allora, in tutta la sua sgradevole durezza, l’affermazione: «per creare stabilità in culture di questo tipo, le guerre si devono ripetere»? (p. 164).

Il modello delineato da Mühlmann conduce dunque all’affermazione di un determinismo radicale? Il suo antiumanismo di fondo, nonché il suo tentativo – corroborato da prove sperimentali – di mostrare come buona parte delle funzioni cruciali dell’auto-organizzazione culturale (gli oggetti di studio delle Geisteswissenschaften) sia in un rapporto di dipendenza funzionale con regolarità naturali, sembrano deporre a favore di questa supposizione. Il progetto di una teoria genetica della cultura, tuttavia, pur traducendosi in un «guscio predittivo vuoto» (p. 205) fondato sull’ipotesi dell’iterazione, contiene in sé un nucleo propositivo, una domanda fondamentale: è possibile addomesticare quegli animali selvaggi che sono le culture tramite la costituzione di una civiltà globale? Detto altrimenti: è possibile, facendo leva sul sapere sperimentale accumulato nella kulturgenetische Theorie, manipolare e ottimizzare le culture, ridurre il loro carattere polemogeno, progettare «culture a risparmio energetico» (p. 210), elaborando una sorta di cultural engineering? A questo proposito l’autore si dimostra piuttosto cauto, limitandosi a porre il seguente caveat: se mai si darà una civiltà globale addomesticatrice, dovrà prima sincerarsi di essere una «metacultura» e non la semplice e violenta universalizzazione dei tratti idiosincratici di una cultura particolare. Altrettanto cauto sembra essere anche Sloterdijk, nella conferenza Von der Domestikation des Menschen zur Zivilisierung der Kulturen: l’autoaddomesticamento dell’umanità è una prospettiva plausibile soltanto sul lungo, lunghissimo, termine – presumibilmente «la prima metà del XXI secolo ricorderà gli eccessi del XX» (2016, p. 50).

Ciò detto – perché, allora, leggere Mühlmann oggi? Certo, fare i conti con il carattere intimamente bellico di ogni cultura, riconoscere in esso il grande rimosso di ogni dinamica culturale, non può che essere il primo passo per una sua ipotetica e futura gestione, quale che sia poi la sua effettiva fattibilità. Tuttavia la lettura del testo di Mühlmann, prendendo alla larga la questione del suo tradursi in possibili programmi utopico-politici, contiene in sé il nucleo di una possibile linea di ricerca teorica, messa bene in luce dai curatori nella postfazione (pp. 228-231), che vede nel momento della Regeleinstellung la chiave di volta di un possibile disinnesco della dinamica polemofila delle culture. Le possibilità, in tal senso, sono molte. Non si percorrerebbe forse una strada feconda provando a sviluppare ulteriormente la ricezione sloterdijkiana della teoria della cultura di Mühlmann? Perché che cosa sono, in effetti, le regole locali, i caratteri tecnici globalmente adattati e polarizzati nel confronto con interazioni da stress, se non ciò che Sloterdijk chiama esercizi e antropotecniche? E non riconosce lo stesso Mühlmann, in base ai più recenti esperimenti neuroscientifici, il ruolo cruciale che artefatti e tecniche mediali di generazione delle emozioni, nel loro legame con le tre dimensioni della memoria (procedurale, dichiarativa, emotiva), svolgono nel processo di acculturamento (pp. 209-210)? Del resto è proprio in questo punto, nell’inscrizione psicofisica di routines e automatisimi, che giace, per Sloterdijk (2010, pp. 15-16), la condizione di possibilità del continuum tra natura e cultura, assicurato da una «vasta zona mediana di pratiche installate nel corpo». Se la cultura è un sistema di trasmissione di caratteri culturali, e il processo di acculturamento coincide con il «trasferimento di caratteri culturali nei sistemi biologici di memoria degli individui di una popolazione» (2023, p. 31) – perché dunque non ripartire da qui? 

Luca Valsecchi

Bibliografia

Mühlmann, H. (2005). Maximal Stress Cooperation. The driving force of cultures. Wien: Springer-Verlag.

Mühlmann, H. (2023). La natura delle culture. Bozza di una teoria genetica della cultura. Milano: Mimesis.

Sloterdijk, P. (2010) Devi cambiare la tua vita. Sull’antropotecnica. Milano: Raffaello Cortina.

Sloterdijk, P. (2012). Stress e libertà. Milano: Raffaello Cortina.

Sloterdijk, P. (2016). Che cosa è successo nel XX secolo?. Torino: Bollati-Boringhieri.

Sloterdijk, P. (2019). Ira e tempo. Saggio politico-psicologico. Venezia: Marsilio.

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