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Exploiter les vivants. Une écologie politique du travail.
Recensioni / Febbraio 2024L’idea che la soluzione ecologica al cambiamento climatico possa essere attuata attraverso la raccolta differenziata o un minor consumo di acqua viene fortemente criticata da Paul Guillibert, autore di Exploiter les vivants. Une écologie politique du travail (La Découverte, 2023), che pone al centro della sua riflessione la declinazione dell’ecologia politica in chiave marxista, a partire dai rapporti di produzione e sfruttamento. Infatti, nonostante l’importanza di un’educazione e consapevolezza ambientale, non sarà sicuramente il gesto individuale a salvare il pianeta. Non è un caso che l’enfasi mediatica e la politica istituzionale propongano il gesto individuale come soluzione al cambiamento climatico, allontanando lo sguardo dagli scempi ambientali ed ecologici di cui si macchia il capitalismo. Guillibert critica l’imperativo etico che ci interpella in quanto consumatori e consumatrici a diventare bravi cittadini responsabili (adempiendo dunque all’obbligo morale di cambiare i nostri modi di consumo, acquistare prodotti biologici, ridurre i rifiuti e la dipendenza energetica), poiché tale imperativo tralascia la definizione di un soggetto incarnato, identificando la serie di comportamenti sopra elencati come scelta possibile per qualsiasi individuo (senza considerare, ad esempio, il posizionamento socio-economico del soggetto cui si rivolge). L’astrazione e l’universalità del soggetto “eticamente responsabile nei confronti dell’ambiente” crea, in questo modo, una serie di pregiudizi nei confronti di coloro che non hanno la possibilità di mettere in atto tali comportamenti. Inoltre, è necessario porre l’attenzione sul consumo: consumare meglio, infatti, non significa smettere di consumare. È dunque possibile utilizzare l’espressione “consumatori responsabili” o è un ossimoro?
«Il n’est pas question de récuser l’importance pratique de ce geste mais plutôt de s’interroger sur l’effectivité politique d’une individualisation et d’une moralisation de la transition écologique». [1]
A chi tocca, dunque, la giustizia ambientale? Non a caso la domanda è soggetta ad una duplice interpretazione: se da un lato si riferisce a coloro che vivono direttamente i problemi ecologici (ad esempio chi migra per condizioni ambientali insostenibili o chi vive in banlieu o bidonville dove vengono costruite discariche), dall’altro interpella coloro che hanno la responsabilità di farsi voce e corpo di atti di ribellione per la giustizia climatica. Comprendere da chi sia costituito il movimento ambientalista odierno (in riferimento ai Paesi occidentali), e per quale motivo i componenti del movimento abbiamo difficoltà a portare avanti la causa ambientalista (i cui catastrofici rischi non escludono nessuno) [2], è uno degli obiettivi che si pone Guillibert. Se da una parte, però, Guillibert si sofferma ampiamente sulle categorie sociali che vengono escluse dalla retorica ambientalista borghese, dall’altra non è altrettanto esplicativo rispetto all’utilizzo del capitalismo come condizione di oppressione. Nonostante infatti nel testo ci siano riferimenti ad alcuni elementi dell’analisi marxista (ciclo merce-denaro-merce, surplus, forza-lavoro, lavoro salariato), le condizioni delle categorie socio-identitarie coinvolte (operai, non-bianchi, animali, natura) vengono attribuite ad una forza capitalista quasi astratta, trascurando altri elementi di oppressione che hanno determinato la loro subordinazione.
La proposta di congiungere le istanze del movimento ambientalista con la lotta di classe risulta, per tale motivo, un po’ semplicistica. Secondo Guillibert non è possibile immaginare di risolvere problematiche ecologiche se non si ripensa anche ad una differente organizzazione economica (in questo senso l’appello alla coscienza verde individuale stride, ad esempio, con il sistema di logistica e di infrastrutture verso cui si sta attualmente orientando il capitalismo). Compito della filosofia è fare ordine concettuale per potere ideare nuove strategie di produzione e distribuzione: per questo motivo è necessario partire dal lessico utilizzato dal movimento ambientalista. L’«ambientalismo della classe operaia», che si deve dunque appropriare di un ruolo protagonista nella lotta ambientale, non può che fondarsi sul sabotaggio della produzione e della distribuzione attuale, sullo sciopero come strumento di prassi e sull’organizzazione di contro-poteri per sviluppare beni comuni non fondati sulla moneta come mezzo di scambio, pianificando un’economia della decrescita. Non a caso Guillibert ripropone un lessico familiare al linguaggio marxista, soffermandosi sulle nozioni di proletariato, sfruttamento, surplus e salario, e all’operaismo italiano, in modo particolare al pensiero di Toni Negri, in vista di una trasformazione sociale: se da una parte il contropotere non rappresenta solamente una posizione di antagonismo destituente e di rottura nei confronti del capitale (ad esempio attraverso la pratica del sabotaggio e dello sciopero), dall’altra si propone come prassi per costruire un altro modo di vivere e produrre.
Se ad ora il corpo del movimento ambientalista è costituito da comunità scientifica, giornalisti, studenti e intellettuali, e non da operai, non è possibile definirlo come classe, nel senso inteso da Marx nel Manifesto o nel Capitale, poiché è formato da individui che non partecipano direttamente al processo produttivo (e distributivo) delle merci, ma che condividono solamente la condizione di precarietà lavorativa; la popolazione urbana, cittadina, rimane per questi motivi frammentata rispetto alla frangia radicale degli antagonisti ecologici e coloro che, lavorando, alimentano la crisi ambientale stessa.
La questione climatica dal punto di vista della classe operaia, ossia l’ecologia della classe operaia, non rivendica solamente un lavoro in fabbrica che garantisca delle condizioni di vita decenti, ma anche pratiche di lavoro più rispettose dei corpi stessi degli operai, delle persone che vivono vicino allo stabilimento e all’ambiente circostante. A tal proposito Guillibert propone come esempio la condizione degli operai e dei cittadini di Taranto: l’ILVA rappresenta un’esperienza specifica di ecologia operaia, ossia un lavoro che nel corso degli anni ha contaminato il corpo della classe operaia e della cittadinanza circostante. L’importante mobilitazione operaia, organizzata in sindacati, collettivi di donne, e non solo, ha rivendicato una sanità ambientale e un’organizzazione ecologista locale contro l’inquinamento industriale, fino alla condanna per l’ILVA nel 2012. [3]
Unire le lotte della classe operaia, protagonista della produzione, per creare un’identità più allargata che difenda i diritti dei lavoratori in una prospettiva di transizione ecologica, senza distinguere l’attivismo politico dalla fabbrica è ciò che accade all’ILVA e a GKN. Alla luce della centralità della logistica nel modo di distribuzione attuale delle merci, sono allora anche altri operai che devono guidare il movimento ecologista. Camionisti indipendenti (esempio con cui Guillibert apre la narrazione), operai del settore logistico, che faticano a trovare una propria identità nel luogo di lavoro per la continua precarietà e flessibilità cui sono sottoposti i contratti odierni, trasportatori e caricatori che fanno muovere le merci, possono aggiungersi a coloro che le producono. Non solo movimento di merci, ma anche movimento di lavoratori: flessibilità e precarietà sono infatti due condizioni che costituiscono uno dei nuovi strumenti dell’organizzazione capitalista, rendendo più difficile la creazione di un’identità legata ad un luogo di lavoro e la conseguente possibilità di formazione di una coscienza di classe, che si faccia promotrice di lotte operaie.
I nuovi protagonisti che Guillibert vede in prima linea non sono solamente gli operai, ma anche le donne. Integrando la prospettiva di classe con quella femminista, l’autore non considera solamente il lavoro produttivo, ma anche quello riproduttivo. L’assegnazione del compito riproduttivo alle donne fonda la divisione sessuale del lavoro e, nel momento in cui l’uomo si sedentarizza, la naturalizzazione della procreazione diventa per l’uomo cacciatore un atto di appropriazione gratuita della forza delle donne. Sotto l’egida della tesi naturalista, gli atti di riproduzione e cura vengono privati del riconoscimento lavorativo, in quanto considerati, per natura, propri delle donne, e di conseguenza non vengono retribuiti. [4] Non prendendo un salario per il lavoro riproduttivo, le donne non producono valore di scambio, ma riproducono la forza-lavoro futura (che assicura la produzione di valore). L’appropriazione del lavoro delle donne da parte del capitalismo patriarcale è anche il fulcro dell’ecofemminismo (o femminismo della riproduzione eco-sociale). Non è un caso che per Silvia Federici la svalorizzazione del lavoro riproduttivo femminile sia stata la condizione di possibilità di sviluppo del lavoro salariato. L’appropriazione del corpo della donna come bene comune avviene attraverso il disciplinamento e il controllo del corpo stesso messo in atto dagli uomini (Guillibert si sofferma sulla transizione del potere di controllo delle nascite dalle sages-femmes ai dottori), e la priva di ogni possibilità di rivendicazione, trasformando il corpo in merce all’interno del mercato.
Lo sguardo dell’autore va oltre: non solo gli operai, non solo le donne, ma è necessario includere nella categoria di lavoratori anche gli animali non-umani, sia addomesticati sia selvaggi. Per comprendere il motivo per cui Guillbert include queste categorie nella prospettiva ecologica è necessario definire le condizioni che hanno reso il lavoro tale a come lo identifichiamo oggi.
L’attività lavorativa non ha sempre avuto la stessa definizione nel corso dei secoli: nell’Antica Grecia, ad esempio, l’agricoltura e la politica (entrambi corrispondenti, oggi, alla categoria di lavoro), erano considerate attività di natura differente. Ad un certo punto, per dirla con Guillibert, gli esseri umani, la natura e i suoi viventi sono stati messi al lavoro («mise au travail»). Con il capitalismo il lavoro è diventato un’attività essenziale, di valore superiore rispetto ad altre attività, a tal punto da definire l’identità stessa di una persona. Al lavoro l’umanità (occidentale) consacra molto tempo, dato che esso costituisce un mezzo di sussistenza, dà un riconoscimento simbolico o una condizione di accesso a posti di potere e permette la riproduzione individuale e sociale. Per potere essere così bene identificato, è stato separato dal tempo libero (ossia da momenti non consacrati all’attività lavorativa), e rappresenta un momento in cui l’individuo esercita una forza coercitiva su se stesso (atto che non accade, al contrario, durante la spontaneità del momento del gioco). Il lavoro si caratterizza attraverso sette elementi essenziali: è un’attività tecnica effettuata secondo momenti ordinati, che producono nuove realtà per soddisfare bisogni sociali, implica sforzo e disciplina ed è separato da momenti in cui si svolgono altre attività; richiede inoltre un impiego di abilità cognitive, fisiche e corporali.
È quest’ultimo elemento a costituire la chiave per includere anche un ragionamento antispecista nella categoria dei lavoratori. Ciò che distingue il lavoro da ogni altra attività è l’atto di sapere di stare lavorando: il cane-guida per persone non vedenti sa che il suo lavoro inizia nel momento in cui gli viene infilata la pettorina (e finisce quando viene sfilata); i cani-pastore sanno che il loro lavoro comincia quando vedono e si avvicinano al gregge; il cane da ricerca per persone scomparse sa che il lavoro inizia nel momento in cui sente un determinato odore e riceve un comando dall’addestratore. [5] La coscienza del lavoro implica lo sviluppo di determinate abilità, ad esempio la concentrazione, l’interazione con persone umane, la comprensione di dinamiche generalizzate nell’ambiente circostante, l’autodisciplina e il rispetto di una gerarchia di comando (ulteriore prova di coscienza di lavoro e costrizione sono al contempo le fughe e le rivolte degli animali). [6] Al contrario, Donna Haraway sostiene che gli animali siano strumenti di lavoro e non lavoratori, ossia che siano inseriti nel lavoro umano come strumenti:«Les chiens de travail sont des instruments qui font partie intégrant du stock du capital d’une ferme». [7]
Ma cosa dire di una vacca da latte che produce più latte di quanto servirebbe al suo vitello per crescere? Il latte in più non è forse surplus? Si può quindi dire che la vacca detiene una forza-lavoro? Il pensiero antispecista non è più confinato al contesto accademico (ad esempio nell’indagine filosofica sull’appropriazione dei corpi e delle vite degli animali) [8], ma si sta diffondendo anche nella società civile (l’incremento di scelte alimentari vegane dimostra che l’oppressione animale sta diventando ben visibile).
Il ragionamento di Guillibert viene, infine, esteso alla natura: le forze di produzione del capitale non si fondano solamente sulla riproduzione sociale, ma anche sull’appropriazione del corpo naturale, producendo un ecocidio globale. L’atto di appropriazione gratuita della natura affonda le sue origini nelle prime conquiste coloniali, momento storico in cui si afferma la presa di potere su corpi umani e non-umani. La forza-lavoro umana non retribuita e l’appropriazione delle risorse naturali crescono di pari passo, fino ad impostare un’economia potenzialmente universale e fondare un sistema-mondo, basato sulla divisione razziale del lavoro e sulla semplificazione e strumentalizzazione della natura. [9] Si mettono al lavoro tutti i viventi, umani e non-umani, in un sistema di dominio globale sotto l’egida del capitalismo (trasformando la natura in un’immensa monocoltura su scala globale, atta, nella maggior parte dei casi, ad alimentare l’immensa filiera industriale della carne).
Lo sguardo globale di Guillibert, pur rimanendo vago sulle conclusioni e sulla proposta di pratiche economiche alternative, ha la capacità di creare interconnessioni tra differenti ambiti di critica e studio, comprendendo varie categorie nei rapporti di condizioni lavorative alienanti e saccheggi ambientali. L’idea di una transizione giusta non può che passare attraverso la redistribuzione della ricchezza sociale, mettendo in atto una decrescita economica che deve avere come attori protagonisti proprio i soggetti più alienati e sfruttati (ed ora parcellizzati) dal sistema capitalista. La decrescita della produzione e la trasformazione radicale dell’organizzazione del lavoro sono i pilastri per intraprendere un progetto di comunismo della decrescita e politica della vita (passando dall’eliminazione del profitto alla riduzione dei tempi di lavoro, dalla soppressione della divisione del lavoro all’abolizione della competitività dei mercati). Partire dalla teoria marxista dello sfruttamento come denominatore comune per ripoliticizzare il lavoro in una chiave di ecologia politica: in tutto il mondo, infatti, le lotte ecologiste si oppongono alla logica del capitale, ma mancano di alleanze per diventare una lotta emancipatrice reale.
«Les vivants, les prolétaires, les indigènes, les minorités de genre ne formeront pas une classe au sens marxien parce qu’ils n’affrontent pas les mêmes rapports de domination. Mais une partie d’entre eux pourraient composer une subjectivité politique protéiforme et multispécifique. Car toutes et tous font aussi face à la logique culturelle du capitalisme, une modernité qui fait de la nouveaté technique l’indicateur d’un avenir nécessaire». [10]
Solo l’unione di tutti gli alienati e gli oppressi, nella comprensione dell’universalità della dipendenza al mercato e nelle logiche di sfruttamento, potrà creare un’opposizione unica e ferma alla separazione dei lavoratori e delle lavoratrici messa in atto finora, dando inizio alla lotta dei viventi «messi al lavoro».
Ingrid Alloni
Bibliografia
Adams, C., (1990), Carne da macello. La politica sessuale della carne, tr. it. M. Andreozzi, A. Zabonati, VandA Edizioni, Milano (2020);
Balibar, É., Wallerstein, I., (1988), Razza, nazione, classe. Le identità ambigue, Roma, Edizioni associate, 1991;
Deplhy, C., (1970), L'Ennemi principal 1, Économie politique du patriarcat, Editions Syllapse, Paris;
Federici, S., (2004), Calibano e la strega. Le donne, il corpo e l’accumulazione originaria, Mimesis Edizioni, Milano;
Filippi, M., Crimini in tempo di pace. La questione animale e l’ideologia del dominio, Mimesis Edizioni, Milano, 2013;
Foucault, M., (1978-1979), Naissance de la biopolitique: Cours au collège de France, Gallimard, Paris;
Haraway, D., Chthulucene. Sopravvivere su un pianeta infetto, tr. it. C. Durastanti, C. Ciccioni, NERO, 2019.
Latour, B., Politiche della natura. Per una democrazia delle scienze, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2000;
Marx, K., (1867), Il capitale, vol. 1, a cura di Aiello, A., Editori Riuniti, Roma, 2017;
Marx, K., Engels, F., (1848), Manifesto del partito comunista, a cura di Donaggio E., Kammerer, P., Feltrinelli, Milano, 2017;
Negri, T., Dominio e sabotaggio, Feltrinelli, Milano, 1974;
Rifkin, J., (2001), Ecocidio. Ascesa e caduta della cultura della carne, tr. it. P. Canton, Mondadori, Milano, 2022;
Wittig, M., (1992), Il pensiero eterosessuale, tr. it. F. Zappino, Ombre corte, Verona 2019.
Note
[1] «Non si tratta di negare l'importanza pratica di questo gesto, ma piuttosto di mettere in dubbio l'efficacia politica dell'individualizzazione e della moralizzazione della transizione ecologica» (la traduzione di ogni citazione di questa recensione è mia).
[2] Ad eccezione di coloro che possono immaginare di migrare sulla Luna o di colonizzare un altro pianeta; non a caso l’autore cita il film Don’t look up di Adam McKay, 2021.
[3] Un altro esempio, rispetto alla riconversione in chiave ecologica, è rappresentato dagli operai della GKN, stabilimento presso Campi Bisenzio (FI), che, a seguito della decisione di delocalizzare e di un licenziamento di massa degli operai nel 2021, si mobilitano attraverso l’occupazione dello stabilimento e intraprendono una battaglia giuridica. GKN diventa una questione sociale collettiva: gli operai coinvolgono infatti ricercatori universitari, giornalisti, studenti, esperti solidali, e insieme a loro portano avanti un’istanza rivendicativa che pone al centro anche la questione ambientale, proponendosi come prima fabbrica socialmente integrata e sostenibile d’Italia.
[4] La rivendicazione del lavoro di gestazione, procreazione e cura viene intrapresa costituisce un dibattito centrale negli anni Settanta, in modo particolare in Francia nelle correnti femministe materialista e marxista.
[5] Guillibert estende l’analisi anche ad altri animali, ad esempio alle vacche da latte.
[6] A tal proposito, una delle ultime notizie in Italia riguarda la fuga di un leone dal circo a Ladispoli (RO): https://www.rainews.it/video/2023/11/il-video-del-leone-libero-per-le-strade-di-ladispoli-sindaco-state-a-casa-520dc2a7-8247-4e40-a0c0-c9914717ccb3.html.
[7] I cani da lavoro sono strumenti che fanno parte integrante del capitale sociale di un'azienda agricola.
[8] Rispetto a ciò, oltre alla categoria di forza-lavoro, il pensiero antispecista si serve della nozione di biopoliticaproposta da Michel Foucault (rispetto al disciplinamento dei corpi e all’imposizione di potere che emerge dalla loro proprietà).
[9] La nozione stessa di “natura” ne denota il suo costrutto sociale, ossia l’incapacità di riconoscimento della particolarità, la perdita di conoscenza dei nomi, e l’atto di uniformità che si dà all’intero corpo naturale. Per la nozione di sistema-mondo si rimanda all’analisi di Étienne Balibar e Immanuel Wallerstein.
[10] Gli esseri viventi, i proletari, gli indigeni, le minoranze di genere non formeranno una classe in senso marxista perché non affrontano le stesse relazioni di dominio. Ma alcuni di loro potrebbero formare una soggettività politica polimorfa e multispecifica. Perché tutti loro si confrontano anche con la logica culturale del capitalismo, una modernità che fa dell'innovazione tecnica l'indicatore di un futuro necessario.
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La natura delle culture: perché Mühlmann oggi?
Recensioni / Novembre 2023La traduzione di un testo filosofico è indubbiamente un atto non neutrale né irrilevante, soprattutto se, come nel caso della recentissima pubblicazione di La natura delle culture. Bozza di una teoria genetica della cultura (Mimesis 2023), consente a un pubblico di specialisti e non un più agevole accesso alla prosa ostica e rigorosa di un autore – Heiner Mühlmann – generalmente poco tradotto e ancor meno recepito, senza doversi necessariamente scontrare con lo scoglio della conoscenza della lingua originale. In questo senso, si tratta di un’operazione che costituisce lo spunto per un effettivo ampliamento della conoscenza e per un auspicabile estensione del dibattito, a partire dalle tesi che l’autore ha avanzato. E lo è ancor di più se, come nel caso in questione, la traduzione – opera congiunta di Matteo Caparrini e Silvia Rodeschini, con la curatela di Gianluca Bonaiuti – è accompagnata da una preziosa postfazione, realizzata da Antonio Lucci e dallo stesso Bonaiuti, che consente di contestualizzare il collocamento di un autore – come è stato sottolineato – volutamente schivo, deliberatamente lontano dal suscitare polemiche e scandali intellettuali, ma sempre tagliente e netto nell’esporre le proprie ragionate posizioni, stando a quanto è possibile evincere dalle sue rare apparizioni pubbliche e mediatiche (pp. 216-223).
Una postfazione che, oltretutto, non si arresta davanti al compito di sollevare una questione cruciale: quali sono le potenzialità, i limiti e persino gli eventuali pericoli che possono derivare da una lettura della kulturgenetische Theorie proposta da Mühlmann? Domanda ineludibile che viene affrontata a partire dalla contrapposizione tra due letture antitetiche: l’appropriazione in salsa identitaria operata da Marc Jongen, ideologo del partito di estrema destra di Alternative für Deutschland (nonché ex assistente, ripudiato, di Peter Sloterdijk), e la rilettura espansiva e in chiave timotica proposta dallo stesso Sloterdijk in testi come Ira e tempo e Stress e libertà. Il primo, infatti, interpretando in modo puramente difensivo la dinamica di formazione delle culture come reazione ad eventi di stress massimale e ignorando il ruolo del decorum prodotto dalla fase di assestamento post-stressale, presenta una versione caricaturale del modello descrittivo sviluppato da Mühlmann che riduce tanto le culture a «gruppi di mammiferi della specie-sapiens uniti per far fronte ad aggressioni esterne», quanto lo stesso autore a una sorta di «Carl Schmitt 2.0 senza fronzoli teologici» (p. 230), con il solo intento di giustificare teoreticamente la legittimità di una politica xenofoba. Il secondo, al contrario, facendo proprie le tesi di Mühlmann sul ruolo fondamentale dello stress nella formazione dei gruppi umani, senza però trascurare il peso fondamentale del decorum, della formazione di set di regole ereditabili che costituiscono l’orizzonte di fitness e di sopravvivenza di una cultura, effettua, attraverso il loro inserimento nel rilancio dell’antico concetto greco di thymos, una vera e propria pulsionalizzazione di una dinamica che in Mühlmann è meramente fisiologica. Gesto che permette a Sloterdijk di ritagliare «uno spazio di possibilità per non pensare il thymos come unicamente votato all’esplosione polemogena», sottolineando gli effetti civilizzatori del differimento delle energie timotiche e lo stesso carattere generativo e non necessariamente distruttivo del thymos (desiderio di riconoscimento, di rivalsa, di affermazione, odio, invidia, ambizione, ira ecc.), rimanendo, come suggeriscono Lucci e Bonaiuti, «più fedele alle idee originali di Mühlmann di Mühlmann stesso» (p. 230).
Ora, sembra opportuno chiedersi, a fronte della presente traduzione – perché leggere Mühlmann? Perché tradurlo? E perché proprio oggi, in un momento storico caratterizzato dall’insorgenza di conflitti sempre più intensi e ravvicinati che, come mostrato dall'invasione russa dell’Ucraina e dalla ancor più recente recrudescenza del conflitto israeliano-palestinese, nonché dal profilarsi all’orizzonte di un possibile scontro Stati Uniti-Cina sulla questione territoriale di Taiwan, giungono a lambire sempre di più i confini dello spazio europeo e a infrangere la falsa sicurezza, l’illusione che il mondo occidentale non sia più destinato a fare i conti con guerre guerreggiate di ampia portata?
Il saggio di Mühlmann, innanzitutto, forte del suo approccio radicalmente antiumanista, costituisce per il lettore ben disposto una vaccinazione contro qualsiasi forma di naïveté. Davanti a ogni stupore nei confronti della guerra, davanti a ogni appello al presunto influsso benefico e al potere civilizzante di ciò che nei ministeri della cultura, nelle accademie, nelle redazioni dei giornali e dei periodici culturali viene definito «cultura», davanti alla cecità sistematica dell’«umanesimo filosofico» (p. 23) circa l’essenza fondamentalmente bellica della propria cultura e alla sua connivenza con essa, Mühlmann invita a pensare che quell’insieme di pratiche, di regole, di processi a cui ci riferiamo più o meno confusamente con il termine «cultura» sia non tanto un sistema contemplativo, un corpus stabile di valori eterni, autonomi e indipendenti tramandato di generazione in generazione, quanto piuttosto un sistema attivo «che genera guerra ed è generato attraverso la guerra» (p. 7). E in cui, di conseguenza, gli «artefatti mediali», come la retorica, il teatro, l’architettura, la musica, la pittura…non possono essere concepiti soltanto come oggetti di pura contemplazione estetica, rappresentando invece interconnesse «unità comunicative […] del sistema bellico “cultura”» (ibidem).
Il grande merito del modello elaborato da Mühlmann, infatti, consiste nell’invito a pensare la cultura non tanto come uno stato, quanto piuttosto come una dinamica iterativa, come un «oggetto dinamico collocato in un campo di iterazioni energetiche e iterazioni ereditarie» (p. 165): le culture sono pensabili, in questi termini, come esseri viventi, animali selvaggi «il cui comportamento è sottratto all’influenza diretta degli esseri umani» (p. 20), macrorganismi e sistemi autopoietici sottoposti alle condizioni della teoria termodinamica dell’auto-organizzazione messa a punto da Ilya Prigogine. In altri termini: sistemi che creano spontaneamente ordine, contrastando così la generale tendenza all’entropia descritta dalla seconda legge della termodinamica, attraverso un costante afflusso di energia dall’esterno e uno scarico di entropia sull’ambiente.
Le culture sono allora, nell’ottica di Mühlmann, quei sistemi in cui si è prodotto con successo un adeguamento globale di regole locali, stimolato da un adeguato flusso di energia – gli eventi di Maximal Stress Cooperation (leggi: situazioni di stress «per la vita e per la morte») –, e trasmesso non soltanto a livello orizzontale, infragenerazionale, ma soprattutto ereditato in verticale, nel passaggio da una generazione all’altra. Come si esprime altrove Mühlmann: «cultura altro non è che stabilità della memoria transgenerazionale» (2005, p. 6).
In questo senso si spiega la dinamica di evoluzione ed ereditarietà culturale, suddivisa in cinque fasi, che Die Natur der Kulturen si impegna ad analizzare. Alla prima fase, quella delle «regole locali», nella quale si assiste alla comparsa spontanea e individuale di caratteri tecnici e tratti culturali e alla loro preliminare selezione e trasmissione mediante i fenomeni aggreganti della cooperazione e dell’allelopatia, segue, posta la legittimità dell’estensione della neurofisiologia dello stress individuale alla dimensione dei soggetti collettivi, una fase di intensificazione della cooperazione indotta da quell’interruttore di energia biologica che è lo stress massimale. Si dà infatti un rapporto circolare e retroattivo tra la sensibilità di una popolazione allo stress e le dinamiche in-group/out-group che l’autore descrive in termini di «potenziale discriminante», assimilabili alla «differenza di pressione» tra il lato interno e il lato esterno di una membrana, dalla quale sorge – che sia reale o frutto di una proiezione paranoica – lo stressore esterno.
A seguito dell’evento MSC, di cui la guerra è massima espressione, si dà poi una fase di «rilassamento e adeguamento post-stressale», nella quale le regole precedentemente invalse vengono riclassificate e gerarchizzate alla luce della valutazione dell’evento stressante: emerge così un sistema polarizzato di valori, nel quale ciò che ha a che fare con il successo in interazioni MSC assurge al rango più elevato. Ne è un esempio quel sistema di regole che ha avuto corso nella cultura occidentale, grossomodo dall’età greco-romana al XVIII secolo, sotto il nome di decorum, e che Mühlmann indaga con dovizia di particolari attraverso gli strumenti della genetica culturale e degli algoritmi genetici.
Fin qui la formazione di una cultura, cioè l’adeguamento globale di regole locali; ma come si trasmette tutto ciò? È quanto Mühlmann si propone di spiegare nella fase dedicata all’«iterazione»: utilizzando gli strumenti della matematica delle popolazioni, mostra la potenziale tensione che può sorgere tra modalità verticale e orizzontale di trasmissione. Mentre la prima è generalmente vettore di invarianza, fondandosi sui tempi lunghi della riproduzione biologica, la seconda, veicolata soprattutto dall’apprendimento sociale, può costituirsi sia come elemento di stabilità, sia come elemento di instabilità. A partire dal modello di trasmissione culturale proposto da Boyd e Richerson, Mühlmann mostra quanto sia facile il passaggio da un’imitazione di comportamenti legati adattivamente al contesto – l’evento MSC – a un’imitazione decontestualizzata e posta su basi non adattive o addirittura contro-adattive (l’acquisizione e la trasmissione di comportamenti legata, ad esempio, alla moda o al prestigio). Se in ciò si dà in nuce la potenzialità catastrofica a cui è dedicata la quinta fase, quella della «degenerazione» indotta dall’effetto Baldwin e visibile nella progressiva sovrapposizione di una cultura puramente estetica alla precedente cultura del decorum, non bisogna tuttavia dimenticare l’esistenza della possibilità di trasmissione di un carattere «in un unico atto di comunicazione a un individuo ingenuo» grazie a una «scena di elevata intensità comunicativa» (2023, p. 161), vale a dire attraverso la partecipazione a una situazione di cooperazione da stress massimale. Come non comprendere, allora, in tutta la sua sgradevole durezza, l’affermazione: «per creare stabilità in culture di questo tipo, le guerre si devono ripetere»? (p. 164).
Il modello delineato da Mühlmann conduce dunque all’affermazione di un determinismo radicale? Il suo antiumanismo di fondo, nonché il suo tentativo – corroborato da prove sperimentali – di mostrare come buona parte delle funzioni cruciali dell’auto-organizzazione culturale (gli oggetti di studio delle Geisteswissenschaften) sia in un rapporto di dipendenza funzionale con regolarità naturali, sembrano deporre a favore di questa supposizione. Il progetto di una teoria genetica della cultura, tuttavia, pur traducendosi in un «guscio predittivo vuoto» (p. 205) fondato sull’ipotesi dell’iterazione, contiene in sé un nucleo propositivo, una domanda fondamentale: è possibile addomesticare quegli animali selvaggi che sono le culture tramite la costituzione di una civiltà globale? Detto altrimenti: è possibile, facendo leva sul sapere sperimentale accumulato nella kulturgenetische Theorie, manipolare e ottimizzare le culture, ridurre il loro carattere polemogeno, progettare «culture a risparmio energetico» (p. 210), elaborando una sorta di cultural engineering? A questo proposito l’autore si dimostra piuttosto cauto, limitandosi a porre il seguente caveat: se mai si darà una civiltà globale addomesticatrice, dovrà prima sincerarsi di essere una «metacultura» e non la semplice e violenta universalizzazione dei tratti idiosincratici di una cultura particolare. Altrettanto cauto sembra essere anche Sloterdijk, nella conferenza Von der Domestikation des Menschen zur Zivilisierung der Kulturen: l’autoaddomesticamento dell’umanità è una prospettiva plausibile soltanto sul lungo, lunghissimo, termine – presumibilmente «la prima metà del XXI secolo ricorderà gli eccessi del XX» (2016, p. 50).
Ciò detto – perché, allora, leggere Mühlmann oggi? Certo, fare i conti con il carattere intimamente bellico di ogni cultura, riconoscere in esso il grande rimosso di ogni dinamica culturale, non può che essere il primo passo per una sua ipotetica e futura gestione, quale che sia poi la sua effettiva fattibilità. Tuttavia la lettura del testo di Mühlmann, prendendo alla larga la questione del suo tradursi in possibili programmi utopico-politici, contiene in sé il nucleo di una possibile linea di ricerca teorica, messa bene in luce dai curatori nella postfazione (pp. 228-231), che vede nel momento della Regeleinstellung la chiave di volta di un possibile disinnesco della dinamica polemofila delle culture. Le possibilità, in tal senso, sono molte. Non si percorrerebbe forse una strada feconda provando a sviluppare ulteriormente la ricezione sloterdijkiana della teoria della cultura di Mühlmann? Perché che cosa sono, in effetti, le regole locali, i caratteri tecnici globalmente adattati e polarizzati nel confronto con interazioni da stress, se non ciò che Sloterdijk chiama esercizi e antropotecniche? E non riconosce lo stesso Mühlmann, in base ai più recenti esperimenti neuroscientifici, il ruolo cruciale che artefatti e tecniche mediali di generazione delle emozioni, nel loro legame con le tre dimensioni della memoria (procedurale, dichiarativa, emotiva), svolgono nel processo di acculturamento (pp. 209-210)? Del resto è proprio in questo punto, nell’inscrizione psicofisica di routines e automatisimi, che giace, per Sloterdijk (2010, pp. 15-16), la condizione di possibilità del continuum tra natura e cultura, assicurato da una «vasta zona mediana di pratiche installate nel corpo». Se la cultura è un sistema di trasmissione di caratteri culturali, e il processo di acculturamento coincide con il «trasferimento di caratteri culturali nei sistemi biologici di memoria degli individui di una popolazione» (2023, p. 31) – perché dunque non ripartire da qui?
Luca Valsecchi
Bibliografia
Mühlmann, H. (2005). Maximal Stress Cooperation. The driving force of cultures. Wien: Springer-Verlag.
Mühlmann, H. (2023). La natura delle culture. Bozza di una teoria genetica della cultura. Milano: Mimesis.
Sloterdijk, P. (2010) Devi cambiare la tua vita. Sull’antropotecnica. Milano: Raffaello Cortina.
Sloterdijk, P. (2012). Stress e libertà. Milano: Raffaello Cortina.
Sloterdijk, P. (2016). Che cosa è successo nel XX secolo?. Torino: Bollati-Boringhieri.
Sloterdijk, P. (2019). Ira e tempo. Saggio politico-psicologico. Venezia: Marsilio.
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Con Pensiero istituente. Tre paradigmi di ontologia politica (2020) Roberto Esposito porta avanti la riflessione per una filosofia politica affermativa che da tempo muove le sue pubblicazioni. La presa di distanza dalle filosofie che pensano le proprie categorie a partire dal loro rovescio negativo (l’amico a partire dal nemico, la vita a partire dalla morte) è esplicito in Politica e negazione (2018) ma rintracciabile fin da Communitas (1998). D’altra parte in Pensiero istituente si chiarisce anche il distacco dell’autore dalla parte della biopolitica e da quella filosofia affermativa che dimentichi di articolare in maniera produttiva la negatività e il conflitto come caratteristiche imprescindibili del politico. La novità del saggio è proprio la definizione di una terza posizione all’interno della quale Esposito stesso si colloca: egli la delinea tornando a Machiavelli ma soprattutto attraverso l’opera di un autore di cui fin qui poco si era occupato e che, almeno per quel che riguarda la recezione italiana, rientra ancora tra i minori, Claude Lefort. È alla sua posizione, definita appunto istituente, che si riferisce il titolo del nostro testo e che costituisce la proposta positiva di Esposito.
L’articolazione del libro in tre capitoli restituisce la partizione proposta dall’autore tra un paradigma destituente che fa capo alla tradizione heideggeriana, un paradigma costituente fatto risalire all’opera di Deleuze, e infine un pensiero istituente, neo-machiavelliano o conflittualista, lefortiano. Se l’ultimo paradigma è la pars costruens del discorso di Esposito, Heidegger e Deleuze rappresentano invece due tendenze, tra loro opposte ma ugualmente degenerative, che caratterizzano la crisi del pensiero politico contemporaneo. Ripercorrerne le elaborazioni è così un modo per prendere posizione rispetto al dibattito, italiano e non, che ad essi è debitore, si pensi per esempio ad Agamben o a Nancy per il primo ed a Negri e Hardt per il secondo.
Le tre posizioni si collocano all’interno di un orizzonte che Esposito definisce «ontologico politico post-fondazionale» e corrispondono ad altrettante declinazioni possibili del rapporto tra essere, politica e differenza. A caratterizzare questa impostazione sarebbe secondo l’autore la particolare consapevolezza della dipendenza reciproca di ontologia e politica: da una parte la presupposizione di concezioni sull’essere (sullo spazio, sul tempo, sull’uomo) implicita in ogni azione politica, dall’altra il fatto che l’elaborazione di posizioni ontologiche, a partire dalla decisione su ciò che deve o meno essere considerato politico, dipende a sua volta da opzioni politiche. È su questo piano comune che riposa la possibilità di un confronto tra autori che si sono occupati in maniera quanto mai difforme di politica, sia per quel che riguarda la teorizzazione che la sua pratica concreta. L’impressione però è che ad emergere in Pensiero istituente, anche rispetto ad altri interventi dello stesso Esposito più situati rispetto a questioni di politica contemporanea, sia piuttosto l’ontologia della politica che non la concreta esigenza politica di un’ontologia.
Il primo capitolo del saggio è dedicato al paradigma destituente cui fanno capo le filosofie che, pensando la politica a partire dal suo fondamento negativo, hanno come esito una delegittimazione dell’azione politica. In questa prospettiva che vede la politica rinchiusa all’interno dei propri confini mondani, e compromessa con la violenza e il potere che ne fanno parte, ogni tentativo di realizzazione storica di qualsivoglia idea di bene o di giustizia è destinato a fallire. La critica di Esposito al pensiero heideggeriano ed al paradigma che rappresenta è che, a fronte di affermazioni teoricamente rivoluzionarie, essi finiscano per essere praticamente inerti e spoliticizzanti (p. XIII).
Benché Esposito ne ripercorra quasi interamente l’opera, non è tanto l’Heidegger degli anni Trenta a rappresentare nella maniera più chiara questo paradigma. Qui, ancora, l’adesione al regime nazista si accompagna a un discorso positivo sulla messa in opera e quindi a una possibilità positiva di politica, benché Heidegger la immagini guidata dalla filosofia in un primo tempo (cfr. il Discorso del rettorato, 1933), e in seguito la concepisca in analogia alla creazione dell’opera d’arte, condotta da parte degli individui “più unici” in grado di dare unità simbolica e politica a un popolo (cfr. i corsi del 1934-35 su Hölderlin e L’origine dell’opera d’arte, 1935). È piuttosto dagli anni Quaranta che Heidegger comincia a maturare la sfiducia nei confronti dell’azione che andrà consolidando negli scritti del secondo dopoguerra. Già nel corso del ’42 su l’Ister di Hölderlin, Heidegger non pensa più la politica come un’opera da realizzare ma come un evento che emerge dalla polis (p. 46). Se però ancora nella polis una politica sembra possibile, in un mondo sempre più dominato dalla tecnica l’azione politica non è in grado di sottrarsi alla sua razionalità: il passaggio dall’idea greca di una realtà operante alla concezione romana del reale come creato e dell’agire come causa efficiente fa sì che l’azione politica venga a far parte della stessa logica della tecnica e della macchinazione che vorrebbe contrastare (cfr. Scienza e meditazione, 1953). In questo contesto l’unica azione possibile è un lasciar essere, una revoca dell’azione e della volontà che in Heidegger si tinge di tinte poetico meditative (cfr. Gelassenheit, 1983).
Come già accennato, Heidegger non è l’unico autore ascritto al paradigma destituente. In Categorie dell’impolitico (1988), che si può dire si muova all’interno di questa prospettiva, Esposito si era rivolto tra gli altri a Weil, Broch, Bataille che anche in Pensiero istituente non manca di citare. Se la lezione di altri autori «destituenti» non porta a esiti così smaccatamente spoliticizzanti come quelli di Heidegger egli è però portatore dell’opinione condivisa sulla limitatezza, sulla non fondatezza dell’agire umano e sulla sua implicazione nella necessità del mondo. Come commenta Esposito seguendo Schürmann: «A venir meno, con la distruzione metafisica praticata da Heidegger, non è l’agire, ma la possibilità che questo continui a essere legittimato da un principio esterno. Ormai la praxis non è più fondabile da parte della theoria» (p. 65).
Un discorso specularmente inverso vale per il paradigma costituente rappresentato da Deleuze. La filosofia di Deleuze è definita costituente nel senso che essa pensa l’essere come una realtà creativa e produttiva di molteplicità. La critica di Esposito a questa posizione è che, per quanto non pacifica nel percorso di Deleuze, la coincidenza sempre più stretta di essere e differenza tenda a obliterarne la dimensione conflittuale, e il politico, che in questa dimensione si colloca, finisce per confondersi con il flusso del divenire perdendo rilievo specifico e forza critica. «Ciò che manca, in un’ontologia dell’immanenza assoluta, non è la trascendenza del potere, ma una teoria del conflitto politicamente articolata» (p. 115).
Anche in questo secondo capitolo Esposito ripercorre puntualmente l’evoluzione del pensiero di Deleuze. Secondo l’autore, in buona parte in consonanza con Žižek, il pensiero di Deleuze oscilla tra due ontologie divise dalla posizione di fronte al negativo. Ancora in Nietzsche e la filosofia il negativo viene inteso come il risultato dell’aggressività dell’affermarsi della differenza, dotato di una forza propria, e in Marcel Proust e i segni emerge come il segno di ciò che non è più, di ciò che è passato. A partire dagli anni ’60, con l’avvicinamento alle posizioni di Bergson, Deleuze tende invece a mettere da parte il negativo come falso problema. Nonostante qualche eccezione (cfr. per esempio Logica del senso, 1969), la sua ontologia si sposta interamente sul piano di immanenza cosicché l’essere stesso viene a coincidere con la differenza, ovvero con una realtà plurale e articolata in una molteplicità di organizzazioni (p. 107). Proprio quando, nella collaborazione con Guattari, l’interesse e il linguaggio di Deleuze si fa espressamente politico, la politica stessa finisce per perdere i confini del proprio ambito e viene a coincidere con il dispiegarsi del desiderio inteso come azione rivoluzionaria produttiva di realtà (p. 120). In questo contesto la critica al capitalismo che innerva i due volumi di Capitalismo e schizofrenia vede come unica azione politica possibile l’accelerazione degli stessi flussi di desiderio di cui il capitalismo è composto. La schizofrenia, la decodificazione di tali flussi e la dissoluzione degli ultimi vincoli che ancora li trattengono costituiscono l’unica strada per immaginare il superamento del capitale.
Nello stesso ordine di riflessioni si inseriscono, come già notato da Benjamin Noys (cfr. The Persistence of the Negative, 2010), autori come Lyotard e Baudrillard, ma Esposito vi fa convergere anche Negri e Hardt e per altro verso Vattimo. Il tratto che, pur nelle differenze specifiche, li accomuna è il tentativo di contrapporsi al capitale dall’interno, assecondandone la razionalità invece di contrastarla (p. 79). L’esito del paradigma costituente risulta simmetricamente opposto a quello heideggeriano, ovvero un pensiero dalla veste al contempo iperpolitica e spoliticizzante. Una nota a parte meritano invece due testi, Istinti e istituzioni (1955) e Empirismo e soggettività (1973), perché ci portano nella direzione che sarà propria del paradigma istituente. In questi testi, a partire dalla lettura di Hume, Deleuze interpreta l’istituzione come la zona d’incontro tra natura e cultura, ovvero tra il desiderio e la necessità di darvi una forma. Diversamente dalla lettura che ne è stata data dai francofortesi fino a Foucault, in questa prospettiva l’istituzione è l’affermazione di un modello possibile di soddisfazione degli istinti piuttosto che un dispositivo volto a frenarli, com’è invece la legge. Vedremo come ciò sia consonante con alcune posizioni lefortiane.
A queste ultime si rivolge il terzo e ultimo capitolo di Pensiero istituente. Lefort (1924-2010) è noto per essere stato fondatore insieme a Cornelius Castoriadis di Socialismo o Barbarie. Allievo di Merleua-Ponty, ne è stato anche esecutore testamentario curando e introducendo le edizioni di molti dei suoi testi, come Il visibile e l’invisibile (1964); L’institution. La passivité (2003); e Œuvres (2010). Questa matrice fenomenologica caratterizza fortemente il terzo paradigma delineato da Esposito. Qui l’istituire viene inteso come un processo di stabilizzazione dell’esperienza che si compie su un piano intersoggettivo: se da una parte l’istituzione consiste nelle azioni dei soggetti istituenti, essa ha allo stesso tempo una validità indipendente da ognuno di essi. In questo modo i singoli la tengono in vita modificandola, ma senza per questo crearla ex nihilo né tantomeno trovandola prederminata, ricevendola da altri e restituendola ad altri.
Ad istituire per Lefort è in primo luogo la politica, dove essa consiste nella messa in forma simbolica dei conflitti che dividono il sociale. Questa prospettiva, che segna anche il distacco da Marx, deve molto all’incontro con la letteratura etnografica e con Machiavelli (cfr. Le Travail de l'œuvre Machiavel, 1972). In particolare dal confronto con quest’ultimo, in parte anticipato nel Merleau-Ponty delle Note su Machiavelli (1949) e de Le avventure della dialettica (1955), si delineano due punti centrali dell’ontologia politica di Lefort: il simbolico come luogo del politico e l’ineluttabilità del conflitto. Come ribadisce Esposito «il potere ha a che fare più col discorso – cioè con la sua costruzione rappresentativa – che con i rapporti economici all’interno dei quali s’istituisce» (p. 178), in quanto sua immagine simbolica il politico eccede dal sociale e retroagisce su di esso. Se da una parte non si dà politica al di fuori della società su cui si esercita, infatti, d’altro canto anche la società non esiste propriamente come insieme riconoscibile prima di essere resa visibile tramite la sua rappresentazione politica (p. 169). D’altra parte, la comprensione del conflitto come dato ineluttabile delle società intende affermare che l’ordine politico è sì possibile ma sempre provvisorio, ovverosia che l’operazione di simbolizzazione e di messa in forma della società non è garantita dal suo fallimento proprio perché, se il politico non coincide col sociale, neppure il sociale coincide con se stesso. Ciò che distingue le diverse società è il modo in cui in esse il potere politico rappresenta il conflitto (p. 191). Da una parte, nelle cosiddette “società senza storia” o “stagnanti” la tendenza è quella a escludere e neutralizzare per quanto possibile il conflitto, con lo scopo di mantenere intatto un certo ordine. Diversamente, secondo Lefort, la democrazia moderna è l’unico sistema politico in grado di riconoscere e rappresentare l’essenza conflittuale della società (cfr. Sur la démocratie: le politique et l’institution du social, 1971). Attraverso le sue istituzioni volte non tanto a mantenere un certo potere quanto a salvaguardare la possibilità del suo passaggio di mano tra le parti in gioco, la democrazia dà forma a un potere vuoto, cioè infinitamente contendibile. Contraddicendo una valutazione comune ai più grandi pensatori politici novecenteschi, che intendono la modernità come un’epoca di spoliticizzazione, per Lefort la democrazia moderna è al contrario politica per eccellenza. Nell’istituzione democratica, infine, viene riconosciuto il risultato del ribaltamento dell’articolazione di diritto e potere messa in atto dalle rivoluzioni moderne, dove adesso è il diritto a fondare e a limitare il potere.
Anche in questo caso Lefort non è né il primo né l’unico ad aver tematizzato l’istituzione, egli ne condivide anzi il discorso con autori come Castoriadis, Ricoeur, ma anche Hariou e Santi Romano. In particolare attraverso quest’ultimo, cui Esposito dedica l’ultimo paragrafo del saggio, il discorso istituente viene aperto a una prospettiva che superi la dimensione statale. Romano riconosce l’istituzione anche nelle collettività organizzate alternative o addirittura competitive nei confronti dello Stato, facendo dell’istituire un processo in grado di accogliere le istanze mutevoli della società. Così anche per Esposito «tutt’altro che a un ordine consolidato di regole e leggi, l’istituire rimanda piuttosto a un compito – coincidente con quello della politica – destinato a mutare continuamente il quadro normativo entro cui agisce» (p. XIX).
di Anna Draghi
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Luca Basile – Scienza politica e forme dell’egemonia
Recensioni / Novembre 2016Il volume Scienza Politica e forme dell’egemonia raccoglie tre studi di Luca Basile uniti da un tema comune, quello del rapporto fra governanti e governati e della teoria politica come sapere preposto all’interpretazione e gestione di tale rapporto. I tre saggi sono dedicati rispettivamente alla figura di Gaetano Mosca, al rapporto dialettico e polemico fra il pensiero di Gramsci e le posizioni di Mosca e al ruolo che il confronto con Robert Michaels ha avuto nel pensiero di Gramsci rispetto all’analisi del fascismo. Benché ogni saggio sia in sé compiuto e organizzato intorno a un tema centrale, essi costituiscono nel complesso un tentativo di fornire al lettore una prospettiva più ampia della rilevanza complessiva che il confronto con la tradizione dell’elitismo italiano ha rivestito per l’evoluzione e lo sviluppo del pensiero di Gramsci. Proprio a partire dai temi e dai contenuti di tale tradizione, diversamente interpretati da Mosca e Michaels, emergono influenze determinanti e obiettivi polemici nella riflessione gramsciana che coinvolgono sia il piano della riflessione epistemologica sullo statuto del sapere politico sia il tema specifico della classe dirigente, della sua composizione e trasformazione, che avrà un esito decisivo per il filosofo comunista nella teoria dell’egemonia.
Il primo dei tre testi raccolti esamina la riflessione di Mosca sulla classe politica. Attraverso la complessa intersezione fra la categoria di scienza politica e quella di teoria della storia, Mosca tenta di mettere a punto un repertorio di strumenti teorici capaci di rendere conto da un lato della produttività della democrazia rappresentativa e del ruolo cardine che al suo interno può essere svolto unicamente dalla classe media, dall’altro dei rischi che tale modo di organizzazione sociale dello Stato correva all’inizio del Novecento. La riflessione dunque si muove fra due strati: da una parte la concretezza della storia, a cui la politica non può che appartenere (Mosca a tal proposito rigetta esplicitamente la posizione di Taine relativa a un calcolo extrastorico delle forme politiche); dall’altra la necessità di una riflessione che identifichi i princìpi e le tensioni che, se possono ritrovarsi secondo diversi gradi di sviluppo e forme di congiunzione nella concretezza di situazioni storiche differenti, sono nondimeno abbastanza generali da garantirne una tipizzazione affidabile, utile anche a interpretarne gli sviluppi e a garantirne la stabilità nella pratica.
A questa ambiguità ineliminabile nello statuto della scienza politica Mosca fa fronte identificando due princìpi, quello autarchico e quello liberale, e due tensioni, democratica e autoritaria, che risultano variamente combinati nel prodursi storico delle forme statuali. La scienza politica proposta da Mosca assume come suo compito appunto quello di governare sapientemente l’incessante fluttuazione fra principio autarchico e liberale, fra tensione democratica e autoritaria, evitando le ossificazioni eccessive quanto le trasformazioni incontrollate, alla ricerca di un equilibrio dinamico in cui la capacità di trasformazione del sistema faccia da necessario contrappunto e sostegno alla sua stabilità. Il sapere della scienza della politica è dunque chiamato allo stesso tempo ad assicurare e precisare il proprio statuto epistemologico, assumendo una nuova organicità che sia capace di rilevare i temi e gli sviluppi storici della prudenza politica nella gestione dello Stato ma al tempo stesso a rispondere concretamente alla congerie storica. Se infatti da un lato Mosca vede negli sviluppi delle scienze sociali descrittive l’emergere di un sapere capace di produrre infine una “politica scientifica”, è alla situazione contingente della crisi dello Stato liberale che tale politica dovrà rispondere.
A partire dall’assunzione del suffragio universale, infatti, il politologo palermitano vede emergere una tendenza che, consentendo l’ingresso delle masse e dei loro rappresentanti eletti sulla scena politica, mette seriamente in pericolo la struttura statuale. Per caratterizzare tale pericolo bisogna ricordare in primo luogo il ruolo strategico che egli attribuisce alla classe media come classe politica e in secondo luogo l’importanza che egli assegna, nella composizione della classe dirigente, alla funzione di diversi modi di selezione in concorrenza fra loro (per esempio, la classe burocratica e i rappresentanti eletti) in rapporto al mantenimento dell’equilibrio giuridico. La classe media è per Mosca quello strato sufficientemente grande della popolazione che, dotato di strumenti intellettuali e morali adeguati e di una relativa indipendenza economica dal potere, può interpretare gli interessi della totalità dello Stato e farsene portatore, mentre di contro le masse, prive di tali caratteristiche, sono unicamente capaci di esprimere attraverso i propri rappresentanti punti di vista e interessi particolari.
Indagando il punto di vista di Mosca rispetto alla relazione governanti-governati, allo statuto della scienza politica da costruirsi e al suo soggetto preferenziale da individuarsi nella classe borghese, Basile prepara poi il terreno per il confronto con la posizione e la critica di Gramsci. Per questi infatti, se è necessario riconoscere la realtà della relazione governanti-governati come fondante, è altrettanto fondamentale preoccuparsi di sviluppare una riflessione critica, che non guardi alla crisi del parlamentarismo liberale come a una soglia catastrofica che lo scienziato politico deve evitare, ma come la possibilità di una radicale trasformazione del rapporto fra le classi. La divaricazione che ne risulta non è solo politico-ideologica, ma anche epistemologica: si può dire che la riflessione di Gramsci intende iniziare proprio laddove quella di Mosca pone il suo estremo limite, vale a dire l’ingresso delle masse nella storia.
La prospettiva gramsciana ribalta il piano di una scienza della politica capace di prevedere e sopratutto gestire gli andamenti politici della società con un gesto deciso, attraverso una “storicizzazione integrale” della lettura politica a partire dalla quale l’apparente neutralità scientifica – o quantomeno i tentativi di neutralizzazione – che costituisce il nerbo della proposta moschiana appare ormai come dipendente dalla ipostatizzazione dello Stato liberale classico e incapace di sopravvivere alla sua crisi, della quale non può dunque riconoscere le potenzialità emancipative.
Il terzo saggio, il più corposo dei tre, intitolato Direzione Charismatica e primitivismo politico è dedicato secondo quanto afferma l’autore ad «avanzare una ricostruzione dello specifico del confronto di Gramsci con Robert Michels, prestando peculiare attenzione a come esso si riveli intrecciato, nelle sue implicazioni, alla enucleazione di alcune categorie portanti del lessico del dirigente comunista (‘bonapartismo’, ‘cesarismo’, ‘rivoluzione passiva’ etc.) in ordine agli snodi fondamentali della comprensione del fenomeno del “leaderismo carismatico”, commisurata all’analisi di insieme dell’affermazione del fascismo» (p.62). Rispetto a tale progetto, condotto con precisione attraverso un confronto serrato con i testi, l’autore dispone una contestualizzazione fondamentale rispetto al pensiero di Gramsci che mette in luce sia l’attenzione di Gramsci per i temi e gli snodi principali della tradizione elitista sia le numerose divergenze e critiche che proprio attraverso la consapevolezza di tale tradizione il filosofo comunista ha modo di formulare.
Senza poter in questa sede ripercorrere l’argomentazione, dobbiamo però sottolineare che in esso l’attenzione per gli aspetti epistemologici e metodologici relativi allo statuto della riflessione politica è costantemente intrecciata con le osservazioni e i temi tratti dalla contingenza storica. In Michels, infatti, l’interpretazione della leadership carismatica dipende strettamente dalla legge dell’oligarchia, secondo la quale i governati, costitutivamente incapaci di governarsi da sé, si rivolgono a una personalità dotata di determinate caratteristiche nel momento in cui il sistema che disponeva della divisione e della relazione fra governanti e governati si incrina. Per Gramsci è da criticare sia lo statuto ipostatizzato e astorico delle leggi e delle tendenze sociologiche per come esse appaiono nella prospettiva michelsiana sia, su un piano più concreto, l’immutabilità della relazione fra governanti e governati, che porta secondo Michels all’inevitabile ineguaglianza e acquisizione progressiva di autorità degli uni sugli altri. Di contro Gramsci, che inserisce Michels nel suo programma di letture relative ai Quaderni in vista di una rilettura della storia italiana che si concentri in particolare sull’evoluzione delle classi dirigenti, è motivato proprio dalla ricerca di una possibile trasformazione del rapporto fra governanti e governati, che, se parte dal riconoscere come fatto storico la presenza e l’influenza delle élite, deve informare l’azione di queste in direzione di una organicità armonica e non di una burocatizzazione autoritaria nei rapporti con le masse.
Solo a partire dall’analisi degli strumenti concettuali e delle costruzioni teoriche che informano questo tentativo si potrà tuttavia rendere giustizia al tentativo gramsciano e per tale compito la linea interpretativa che Basile intraprende e annuncia si rivelerà forse fondamentale. Essa, tuttavia, è lungi dall’essere compiuta: la natura circoscritta dei tre saggi delinea sì una prospettiva generale di grande interesse ma ne sviluppa le conseguenze relativamente a luoghi circoscritti. Ci auguriamo che nel futuro tale progetto possa essere sviluppato con maggiore organicità e autonomia e che la necessaria precisione tecnica delle prime esposizioni lasci maggiore spazio a una fruizione non strettamente limitata agli specialisti del diritto e della filosofia politica.
di Lorenzo Palombini