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Quale alleanza sono chiamate a stringere la filosofia e il sapere antropologico nel contemporaneo clima apocalittico dell'Antropocene? Il libro Esiste un mondo a venire? Saggio sulle paure della fine dell’antropologo brasiliano Eduardo Viveiros De Castro e della filosofa Déborah Danowski (Nottempo 2017) può essere considerato un tentativo di rispondere a questa domanda. Per Danowski e De Castro, tuttavia, non si tratta solo di porre in correlazione antropologia e filosofia, sebbene sia indubbio che uno scambio reciproco arricchisca lo sguardo di entrambe le discipline. Affini alla postura intellettuale di uno dei numi tutelari del libro, Gilles Deleuze, gli autori aprono la filosofia e l'antropologia ai rispettivi spazi di alterità moltiplicando le filiazioni teoriche, talvolta a scapito, va detto, dell'omogeneità argomentativa e del nitore dell'esposizione: nel paragrafo Metafisica e mitofisica sono numerosi i riferimenti a film come Melancholia di Lars Von Trier o Il cavallo di Torino di Béla Tarr, e non mancano all'appello neppure santi patroni della fantascienza – o come preferiscono chiamarla gli autori, della mitofisica – come Philip K. Dick e Howard Philips Lovecraft, scrittori sempre intenti a percorrere un immaginario innervato da una vera e propria passione per la fine, da un irriducibile Todestrieb fabulatorio. Per la speculative fiction contemporanea è più facile immaginare cupi scenari apocalittici che le magnifiche sorti progressive della specie umana.

Già dalle prime righe del capitolo d'apertura, E quale rozza bestia..., gli autori dichiarano che l'Antropocene – l'epoca geologica nella quale la specie umana si trasmuta da agente biologico in forza geofisica –  costituisce, per dirla con Foucault, «l'ontologia della nostra attualità» e ci conficca tutti, senza resti, nel campo della politica. Se è pur vero che l'obiettivo dichiarato del volume è l'elaborazione di «un bilancio preliminare di alcune delle principali varianti del tema della ‘fine del mondo’, così come si presentano oggi nell'immaginario della cultura mondializzata» (p. 32), in ultima istanza gli autori sono costretti dalla forza stessa dell'argomento a disegnare i contorni possibili di una politica del katéchon, il tempo della fine.

Se il concetto di mondo ci rimanda alla dimensione dello spazio, l'evocazione della sua fine ci proietta nel campo semantico del tempo. Ciò che distingue la crisi climatica da tutti i cataclismi della storia umana si può riassumere in uno scambio di preposizioni: nel paragrafo Gaia e Anthropos gli autori sottolineano che, se le catastrofi precedenti si manifestavano nel tempo e nello spazio, l'Antropocene si presenta ora come la possibilità concreta e minacciosa di una tragica corrosione del tempo e dello spazio nel futuro prossimo. Dopo che l'assassinio delle Idee kantiane di Anima e Dio aveva già macchiato le mani alla modernità, ora è la seconda Idea, quella di Mondo, a portare una spada di Damocle sul proprio capo. Seguendo la lezione dello storico indiano Dipesh Chakrabarty – membro fondamentale della trinità di alleati selezionati dagli autori, insieme a Isabelle Stengers e Bruno Latour – sappiamo che l'Antropocene travalica i confini di ogni storiografia classica per scagliare la specie umana e molti viventi non-umani in un orizzonte temporale nel quale le condizioni materiali della loro esistenza sono a rischio reale di cancellazione.

Nel loro bilancio gli autori presentano le due vie principali imboccate dal pensiero contemporaneo sul tema: il presagio di un mondo-senza-noi e l'accelerazione verso un noi-senza-mondo. Da una parte l'approssimarsi dell'estinzione umana dovrebbe essere assecondato con gioia, dato che a essa viene assegnata ab origine una vocazione ecocida. È il caso del Voluntary Human Extincion Movement di Alan Weisman, descritto nel paragrafo Il mondo prima di noi, che mira, dopo l'estinzione volontaria del genere umano, alla restaurazione della rigogliosa wilderness originaria da parte della natura naturans planetaria, ora soffocata da un'immensa infrastruttura tecnica. La versione più radicale di questo orizzonte di pensiero è presentata da Ray Brassier –  fra i protagonisti del paragrafo La tesi tanatologica e figura di spicco del realismo speculativo – nell'opera Nihil Unbound. Il cupo ritornello che Brassier non fa che scandire è «everything is dead already», tutto è già morto. Nel tempo profondo del cosmo la vita stessa non sarebbe che un evento assurdo e incompatibile con la grandezza colossale della materia inorganica e morta sulla quale essa è cresciuta, e la coscienza che dal vivente emerge non sarebbe nulla più che un banale accidente, un insignificante attimo all'interno di una storia universale inumana e abiotica.

Sull’altro versante – affrontato nel paragrafo Dopo il futuro: la fine come inizio – troviamo radunati sotto un unico stendardo i singolaristi del Breakthrough Institute e gli accelerazionisti marxisti dell'Accelerationist Manifesto. Secondo i singolaristi la potenza dei calcolatori elettronici andrà progressivamente incrementando fino a formare una nuova coscienza macchinica, un hardware immateriale, rendendo possibile la liberazione dal corpo, il wetware organico della specie; una misura, ovviamente, riservata a pochi. La minaccia presentata dall'Antropocene sarebbe così sventata grazie alle nuove, abbondanti risorse naturali rese disponibili dai progressi tecno-scientifici. Gli accelerazionisti invece intendono aumentare la potenza tecnica del capitalismo finanziario globale fino a un punto di crisi irreversibile, superato il quale l'irruzione messianica della rivoluzione risulti inevitabile. Il mondo, in entrambi i casi, è visto esclusivamente come un deposito inerte di risorse, verso il quale non c'è alcuna necessità di assumere particolari attenzioni, poiché sarà sempre possibile fare a meno del nostro wetware per incarnarci nell'immateriale, come vogliono i Transumanisti.

De Castro e Danowski si rifiutano di scegliere fra queste opzioni: per loro l'estinzionismo militante di Brassier così come la «tecnofilia della cornucopia» dei singolaristi e l'angelologia materialista degli accelerazionisti si rifanno ancora a un pensiero eurocentrico traboccante di metafisica, «la fons et origo di ogni colonialismo», come afferma De Castro in Metafisiche Cannibali. Tutte fanno capo – in positivo o in negativo, poco importa – a quello stato d'eccezione ontologico costituito dall'Uomo, al duplicato antropologico empirico-trascendentale dell'episteme moderna, al Dasein come «configuratore di mondi», «pastore dell'essere» e, felice fardello, «luogotenente del nulla». Non è quindi un caso che la ricognizione operata dagli autori fra gli immaginari della fine si concluda fuori dal continente europeo, in Amazzonia. Nel capitolo intitolato Un mondo di persone gli Amerindi, veri e propri «specialisti della fine», vengono identificati come coloro che hanno testimoniato l'avvento dell'apocalisse da almeno cinque secoli con lo sbarco del colonialismo europeo. Il pensiero di questi popoli, il «prospettivismo amerindio», che costituisce il tema principale degli studi di De Castro, viene presentato come il farmaco necessario ai Moderni per espellere dal proprio pensiero ciò che ha consentito la catastrofe in atto. Per esempio, attraverso un mito cosmogonico Yawanawa, una popolazione di lingua Pano dell'Amazzonia occidentale, viene introdotta una variante rispetto alle categorie descritte in precedenza, ovvero un noi-prima-del-mondo, un universo in cui «non c'era niente, ma le persone c'erano già». Singolare inversione del salmo di Brassier: non «tutto è già morto», ma «tutto è già vivo». L'argomento non risulta però del tutto convincente: potremmo infatti domandarci perché nella miriade di ontologie e cosmovisioni indigene si dovrebbe recuperare in senso strategico proprio l'ontologia amerindia, dandole un'illusoria priorità? Gli autori sembrano assegnare agli Amerindi il compito quasi metonimico di rappresentare la totalità dei 370 milioni di indigeni che dimorano sul pianeta. Resta però da determinare se gli amerindi e le altre società preindustriali concordino con gli autori. De Castro sembra tanto propenso a ritornare alla propria rassicurante esperienza etnografica da omettere interi continenti, un gesto teorico piuttosto incauto quando è la totalità del pianeta la posta in gioco.

L'Antropocene è dunque un'epoca di guerra, ma non una guerra di tutti contro tutti, quanto piuttosto una guerra dei mondi, dato che i combattenti in campo lottano per realizzare due cosmovisioni del tutto differenti. Si tratta di un conflitto che, per utilizzare le categorie espresse da Bruno Latour, opporrà gli Umani – coloro che fra i Moderni pensano di poter ancora vivere in un prolungamento dell'Olocene senza dover pagare il prezzo del progresso – e i Terreni – coloro i quali affrontano le sfide dell'Antropocene alla tarda modernità, consci che nulla sarà più come prima e che il futuro richiederà nuove strategie di composizione del mondo comune. Tuttavia, se i nemici Umani sono facilmente identificabili – De Castro e Danowski riportano una lunga lista di “colpevoli”, principalmente grandi multinazionali, nel paragrafo La fine del mondo come evento frattale non è affatto chiaro dove trovare gli alleati Terreni, gli esponenti del popolo a venire che dovrà intraprendere la guerra per poter essere, in futuro, l'artigiano della pace. Il conflitto fra Latour e gli autori si mostra proprio a partire da questa problematica: da una parte Latour non crede che le popolazioni indigene possano assumere un ruolo decisivo nella politica planetaria che viene, preferendo piuttosto investire in un'adesione militante degli scienziati, rappresentanti della Natura nella lotta; dall'altra, Danowski e De Castro affermano invece che le risorse presentate dai «saperi minori» e dalle etnotecnologie indigene saranno essenziali in un futuro caratterizzato dalla scarsità, e che richiederà uno stile di vita improntato a ciò che gli autori chiamano sufficienza intensiva.

Una cosa sola è certa e viene asserita con forza più volte nel corso dell'ultimo capitolo, Il mondo in sospeso: siamo gettati in un conflitto che coinvolge una pluralità incommensurabile di esistenti in una guerra planetaria e, sebbene il “chi” dei Terreni sia indecidibile, questo popolo a venire è più necessario che mai per la possibilità stessa di un futuro per la specie. Si tratta, con Deleuze e Guattari, di «volere la guerra contro le guerre future e passate, l'agonia contro tutte le morti, e la ferita contro tutte le cicatrici, in nome del divenire e non dell'eterno» (p. 233, in esergo).

di Dario Bassani

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