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«Un errore fatale ha fatto credere al deputato Menenio che dalla bocca dei plebei uscissero parole, laddove poteva logicamente uscire solo rumore […] Prima di essere un traditore della sua classe, il deputato Menenio, convinto di aver sentito i plebei parlare, è vittima di un’illusione dei sensi» (2007, p. 43). Così ne Il disaccordo Jacques Rancière commenta un episodio risalente al periodo delle secessioni a Roma in cui si palesa lo scandalo estetico di cui è capace la parola politica. L’azione performativa dei plebei «senza-nome» che si arrogano il diritto di parlare consiste nella «ripetizione» rivoluzionaria dell’ordine stabilito della città. Parlando come i patrizi, ripetendo le loro parole, i plebei mettono in scena una ripetizione impossibile che, nel momento stesso in cui si realizza, destituisce l’ordine dato e apre uno spazio di indeterminatezza linguistica e giuridica, politica ed estetica.

Nel solco di Rancière, non potrebbe emergere con più forza lo statuto “politico” della poesia di Paul Celan, secondo l’interpretazione che ne offre Mariaenrica Giannuzzi: Il male della natura. Critica della violenza, letteratura, storia naturale (Mimesis, 2023) è uno studio critico dal respiro militante, che restituisce alla produzione del poeta sopravvissuto allo sterminio nazista tutta la portata radicale di un progetto culturale, personale e politico che trova nella destituzione dell’ordine stabilito e nell’apertura di uno spazio di libertà linguistica l’unica alternativa alla distruzione urbana, fisica e morale cui la Germania assiste nel corso del Dopoguerra. Si tratta della ricostruzione minuziosa e appassionata del progetto di una vera e propria filosofia della natura che non può che essere simultaneamente filosofia politica, di un pensiero politico della distruzione che a sua volta non può che essere compiutamente linguaggio della natura: questo il principio primo di ogni autentica «storia naturale», modello estetico-politico del reale in cui rappresentazione e progetto politico sono due facce della stessa medaglia. Fin dalle prime battute del saggio, l’autrice ci richiama alla specificità del paradigma storico-naturalistico messo in atto dalla poesia di Celan: sarebbe del tutto fuorviante confondere l’esistenza di una tradizione filosofica ben definita che si fonda sulla storia naturale – tradizione di cui Giannuzzi ricostruisce a intermittenza coordinate e personaggi – con la possibilità di individuare un paradigma concettuale univoco. Se è necessario piuttosto parlare di «storie naturali», l’impegno dell’autrice sarà proprio quello di delineare la peculiare «struttura latente ma concretissima» (p. 12) che tiene insieme lingua, storia, tempo e natura nella riflessione poetica di Celan, quella trama concettuale e linguistica con cui la poesia tenta di elaborare la «dispersione dei tempi tipica del ricordo traumatico» (p.14) e di dare forma nuova a un’esperienza segnata da una frattura storica e biografica, dramma individuale e collettivo. Mostrando rigore critico e lucidità estrema nell’evidenziare meriti e storture della critica tradizionale, Giannuzzi intraprende dunque un intenso percorso attraverso la lirica di Celan, in un confronto serrato con il pensiero di autori tra cui W.G. Sebald, T.W. Adorno, Peter Szondi, Osip Mandel'štam e, interlocutore costante, Walter Benjamin. Il raffronto con i contemporanei permette al lettore non solo di riconoscere radici e influenze teoriche pluridirezionali nell’opera celaniana, ma anche di percepire un tessuto latente di inquietudini e motivi ricorrenti che rimandano agli scenari desolati e disincantati dei campi di sterminio e delle distruzioni della bomba atomica, di un’epoca in cui, secondo una nota sentenza di Adorno stesso, nessuna poesia sarebbe più stata possibile. Come narrare questo paesaggio, come ricomporlo a partire dalla narrazione: sulla specificità di questo come si gioca tutta l’originalità della poetica filosofica di Celan, secondo l’autrice, e dunque la distanza sostanziale da parte della tradizione di cui pure fa parte. Se Sebald, ad esempio, affida la ricomposizione del paesaggio distrutto all’oggettività di un modello di narrazione documentaristico capace di testimoniare scientificamente gli eventi storici, se altrove la ricostruzione può avvenire in una forma di redenzione mitica o religiosa – questo il caso di autori menzionati nel corso del primo capitolo, tra cui Gottfried Benn –, a ogni forma di oggettività o escatologia rinuncia la riflessione di Celan: riecheggiano forte qui la critica alla «bufera del progresso» portata avanti nelle Tesi (1942) di Benjamin, citate più volte dall’autrice, la scelta per una messa in discussione di dogmi inamovibili, il rifiuto di un’idea di speranza nel futuro in quanto orizzonte di crescita e miglioramento, e la rottura con l’illusione che la «catastrofe» delle vicende umane sia un tassello che possa essere riassorbito nell’ottica dell’intero e dell’ordine cosmico. Dell’opera di Celan l’autrice rivendica la scelta, al contrario, più che radicale di un’azione politica di attraversamento delle rovine che non cerca consolazione in protesi teologiche, che si fa con e attraverso la parola laica: non il Verbo, parola che dice l’origine e la fonda, parola salvatrice e redenzione, ma parola che dice l’impossibilità di un inizio, che impone al contrario la rinuncia a ogni mito dell’origine. Ma se non c’è inizio, se dunque non c’è apocatastasi alcuna, come la poesia di Celan si fa carico di una ricomposizione delle macerie?

Ed è qui che il saggio mostra a sua volta la propria originalità: pur non rinunciando ad un’ossatura argomentativa di tipo scientifico, che può contare sulla documentazione accumulata in anni di ricerca bibliografica e archivistica, Giannuzzi decide infatti di portarci dentro la lingua di Celan, di farci attraversare come in una galleria le «figure» in cui storia e natura si fanno tutt’uno.

«Una figura non è una metafora, né simbolo, né allegoria. Immaginando le figure come strumenti ottici, esse permettono d’individuare un “angolo d’incidenza” per rifrangere il tempo pluriverso di una espressione, la parola iniziale. Gli oggetti naturali ne sono colpiti come facendo con questi raggi, filamenti, direzioni temporali, forme linguistiche nuove, vacanti, che intagliano vuoti nella lingua, e significano sintesi concrete di oggetto naturale e intensità esistenziale» (p. 65).

Tramite l’esposizione di queste figure l’autrice dunque fa vedere, più che raccontare, mostra più che spiegare, la possibilità concreta di uno spazio alternativo di libertà. Ci mostra, cioè, come nello spostamento semantico operato dalla lingua di Celan sia possibile fuoriuscire dalla necessità binaria del rimando tra significante e significato, specchio linguistico dalla divisione del mondo in atomi e vuoto della fisica democritea. La rilettura etica del Leere di Democrito da parte di Celan, che insieme alla ripresa della nozione di “allegoria” del Dramma barocco tedesco di Benjamin rappresenta uno dei momenti-chiave nella proposta interpretativa di Giannuzzi, rimanda ancora una volta al valore politico della storia naturale: la poesia è politica perché nella figura della paradossale ma concretissima compenetrazione tra natura e storia, tra spazio e tempo, incarna la possibilità di una combinazione inedita, di una riconfigurazione del materiale dato. Questo è ciò che l’autrice definisce, rifacendosi alla rilettura della Destruktion benjaminiana di Gentili, l’«intenzione destruttiva» delle composizioni di Celan.

«L’importanza di questa nozione benjaminiana per comprendere la tendenza, che potremmo definire con Anne Carson tendenza de-creativa della scrittura di Celan, sta nel fatto che il carattere destruttivo segna la differenza tra, da un lato, una forma nichilistica della distruzione, cioè un annientamento matematico, apollineo, che non lascia tracce, come un’estrazione di radice quadrata; e dall’altro, un concetto della distruzione che per Benjamin sarebbe, invece, riverente verso il creato» (p. 161).

Nel quadro del capitolo sull’attualità della storia, l’autrice lavora dunque con insistenza sulla categoria della “distruzione”, concetto-motore del saggio che, ripreso nel corso di tutta la trattazione, può essere problematizzato nelle sue varie accezioni a partire da un confronto puntuale con la lingua tedesca, che permette di distinguere tra gli effetti della distruzione militare (Zerstörung) e l’annientamento dello spazio pubblico (Vernichtung), così come ricostruito da Arendt nelle Origini del Totalitarismo (1951). L’approdo di questa analisi è, come si è visto, l’idea di quella, ben’altra, forma di distruzione di cui sono capaci le composizioni di Celan: non totalitarismo, ma atto rivoluzionario in grado di «operare una destrutturazione del linguaggio costituito come norma» (p. 163), capace cioè di creare degli spazi vuoti in cui la lingua si apre alla variabilità semantica. In questa vocazione alla moltiplicazione dinamica, secondo la ricostruzione di Giannuzzi, la poesia di Celan è figlia della geologia, il cui modello si concretizza nella figura del fossile.

«Se il modello relazionale del simbolo come moneta, conio, calco è tradizionalmente legato alla divisione in due parti e a una rappresentazione binaria del pensiero, ricordando lo specchio, il dialogo e il pegno di un contratto, il fossile presenta una morfologia che solo indirettamente descrive due parti. Se queste sono complementari, la loro complementarità è però funzionale a una forma mancante racchiusa nella pietra. […] Per queste ragioni, il fossile, resta […] un modello relazionale adatto alla poetica di Celan, alla sua anti-parola, soprattutto, un modello capace di rinnovare l’interpretazione di questa scrittura non simbolica, che tende all’emblema e al segno, pochissimo alla metafora» (p. 114).

Lo sforzo di Giannuzzi allora è mostrare al lettore, ancora una volta a partire da un incontro diretto con le parole della natura – parole che finiscono con il contaminare lo stile stesso di chi scrive – il modo in cui questo modello si celi dietro le scelte linguistiche e le strutture delle composizioni di Celan, da Von Schwelle zu Schwelle (1955) a Die Niemandrose (1963), passando per Sprachgitter (1959), a cui l’autrice riserva un’attenzione particolare: è qui che riesce infatti a mostrare la dissoluzione definitiva del mito dell’intero originario, a partire dalla non corrispondenza tra storia della Terra e storia individuale.

«L’interno della Terra non significa l’interno del corpo, la sua interiorità “profonda” come nell’immaginario romantico della Tiefe. Anzi, è disattivata la stessa idea di un interno umano che si esprime nel linguaggio, poiché il tempo è sempre rimesso al quadro di un Raumgitter, di un reticolo morfologico» (p. 164).

Nell’insistere sulla centralità della creatività linguistica (e politica!) della poesia geologica di Celan, Giannuzzi arriva a definire allora alcune posizioni teoriche e interpretative fondamentali. La prima ha a che fare con l’idea di tempo ciclico che si delinea nella filosofia della natura di Celan. Contro una visione del tempo della natura inteso quale cieco ripetersi del sempre uguale, il poeta farebbe spazio ad un tempo della natura quale susseguirsi di ere geologiche, in cui la sedimentazione è variabilità dinamica e la temporalità è multiforme direzionalità. Radicale è, qui, la distanza da autori lontani dall’oggetto di discussione del saggio, che pure si confrontano con la catastrofe postbellica e che, contrariamente, risolvono in una nuova opposizione tra natura e cultura il superamento della distruzione – si pensi alla concezione della “cieca ripetizione della natura” di de Martino che in Italia rielabora gli scenari apocalittici del Dopoguerra negli appunti de La fine del mondo (1977). Lo stesso de Martino che in Morte e pianto rituale (1958) oppone alla ripetizione opprimente e meccanicistica della natura, segnata dalla mortalità, quella forma di ripetizione significativa che costituisce il cuore del rito collettivo funebre, mediatore di un ritorno alla libertà.

Se la «ripetizione» della natura assume un ruolo nella ricostruzione di Giannuzzi della riflessione di Celan, è in senso diametralmente opposto: la ripetizione geologica sembra più aver a che fare con quella “ripetizione impossibile” che poco fa connettevamo al dispiegarsi di possibili variazioni: qui è la ripetizione naturale a favorire, più che inibire, una chance di libertà. È in parte l’insistenza su questa specifica idea di ripetizione geologica a determinare la distanza di Giannuzzi dalla nota interpretazione di Uta Werner che, invece, associa la poesia naturalistica di Celan ai riti funebri della “seconda morte”. Come è possibile, sostiene Giannuzzi, conciliare la questione della «variabilità dinamica del processo sedimentario» (p. 96), la dissoluzione dei corpi nel paesaggio, con la necessità che quei resti biologici assolvano alla funzione sociale di mediazione della memoria? Se i morti ci sono, e ci sono, nella poesia di Celan sono «Singbarer Rest» (“resti cantabili”), voci disperse, frammentate, più che raccolte – scrive Giannuzzi – reintegrate in una forma che è pietra, unità di tempo e spazio che storicizza e, quindi, cristallizza, rimane e rende più stabile, ma che non ha nulla a che fare con la soggettività del ricordo. È questo, forse, il paradosso di cui parla l’autrice quando scrive che «il tempo presente è fatto di discorsi e tracce d’acqua freatica: un paradosso, perché in geologia le tracce riguardano il passaggio di una forma di vita, e l’acqua le rimuove» (p. 178). Eppure non è forse l’acqua che cancella la memoria, l’acqua del Lete, che pure apre l’aldilà alle ombre dei morti?

È una trattazione delle ombre come cifra del vero nella poesia di Celan, nel loro significato «non rituale e tantomeno spettrale, ma gnoseologico» che introduce nella parte finale del saggio a quell’estetica del silenzio che trova in Susan Sontag celebre riferimento e che è, ancora una volta radicale, richiamo alla negazione di un’eternità possibile, ma anche affermazione del desiderio di un lutto taciuto, di una commemorazione impossibile, che accetta di limitarsi a cantare silenziosamente le tracce: SINGBARER REST – der Umriß / dessen, der durch / die Sichelschrift lautos indurchbrach, / abseits, am Schneeort // Quirlend / unter Kometen- / brauen / die Blickmasse, auf / die ver venfisterte winzige / Herztrabant zutreib / mit dem / draußen erjagten Funken. // – Entmündigte Lippe, melde, daß etwas geschiet, noch immer, unweit von dir. [RESTO CANTABILE – il contorno / di chi, attraverso / la scrittura a falce senza rumore aprì il varco / in disparte, al posto della neve. // Vorticante / sotto fabbricare – / Comete / la massa visiva, sospinge a / l’oscurato minuscolo / cuore satellite / con la / scintilla fuori conquistata. // – Labbra interdette, avvisate, / che qualcosa accade, ancor sempre / non lontano da te.]

Maria Serafini

BIBLIOGRAFIA
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Cacciapaglia G. (a cura di), Poesia tedesca contemporanea. Dal 1945 a oggi, Newton Compton Editori, Roma 1980.
Celan P., Poesie, a cura di Giuseppe Bevilacqua, Mondadori, Milano 2023.
De Martino E., Morte e pianto rituale, Einaudi, Torino 2021.
De Martino E., La fine del mondo, Einaudi, Torino 2019.
Moroncini B., Il lavoro del lutto. Materialismo, politica e rivoluzione in Walter Benjamin, Mimesis, Milano 2012.
Szondi P., L’ora che non ha più sorelle. Studi su Paul Celan, Gallio Editori, Ferrara 1990.
Rancière J., Il disaccordo, Meltemi, Roma 2007.

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