La filosofia sociale del pragmatismo di Matteo Santarelli (Clueb 2021) offre uno spaccato sui temi e problemi della filosofia sociale partendo da una impostazione pragmatista; il perno teorico attorno a cui ruota l’argomentazione del testo si identifica nella critica alle dicotomie. Come specifica l’autore, il problema non sta nelle dicotomie in sé ma sorge quando due termini opposti si irrigidiscono fino a cristallizzarsi e ad acquisire lo statuto di sostanze contrapposte. La struttura del testo si articola in sei nodi dicotomici (fatti/valori, concetti e non-concetti, individuale e sociale, ragione e sentimento, abiti e intelligenza, conflitto e integrazione) che, attraverso le prospettive di filosofe e filosofi pragmatiste/i, vengono via via discussi, sciolti e riarticolati.
Innanzitutto, vorrei soffermarmi un poco sulla seconda parte del titolo, che recita appunto Un’introduzione. Solitamente un’introduzione non è né più né meno di un accenno ad alcuni autori che hanno discusso una tematica specifica. Più che di un’introduzione, credo che questo testo si ponga il compito di un vero e proprio inizio, e questo per due motivi. Il primo motivo è di natura storica e riguarda la relativa giovinezza della filosofia sociale all’interno del più generale sapere filosofico. Il secondo motivo concerne invece una questione teoretica: mentre un’introduzione tende spesso a voler risultare neutra per offrire un resoconto in terza persona di un determinato argomento, qui ci sono invece dei presupposti a partire da cui si domanda: “C’è una filosofia sociale? E più nello specifico, si può parlare di una filosofia sociale del pragmatismo?”. E ovviamente la domanda solca già il terreno della risposta: ‹‹la filosofia sociale pragmatista è una filosofia sperimentale e valutativa, che intende proporre una specifica ontologia sociale›› (p. 19).
Il capitolo introduttivo espone i nuclei teorici che intonano – pur nella varietà delle dissonanze – il coro di voci della filosofia pragmatista. In primo luogo l’idea che il processo scientifico sia orientato in senso fallibilista e che dunque ogni nostra teoria o credenza sia infinitamente correggibile e rivedibile. In secondo luogo la formulazione della massima pragmatica, secondo cui il significato di un concetto risiede nei possibili effetti pratici, nelle pratiche concepibili e nella condotta in futuro. Dicevamo un coro di voci, vicine e lontane. Lontane sono infatti le voci che provengono da quel primo mormorio originatosi attorno al Metaphysical Club – così benraccontato da Louis Menand – di cui facevano parte Chauncey Wright (corifeo del Club e collaboratore di Darwin), Charles Sanders Peirce, William James e altri; c’è poi un coro di voci vicine, che, facendo tesoro dei principi elaborati in quelle prime occasioni, si incarna nelle figure di Jane Addams, Mary Parker Follett, William Du Bois – filosofe e filosofi che godono ancora di scarso interesse in Italia e che hanno sviluppato queste tematiche in chiave sociale –, ma anche di George H. Mead e John Dewey (a cui Santerelli dedica un cospicuo numero di pagine), sino ad arrivare alle soglie della contemporaneità con Hilary Putnam e Richard Rorty.
Soffermarsi nel dettaglio su ognuno dei sei capitoli sarebbe un’operazione che richiederebbe ben più dello spazio concesso a
una recensione. Per questo motivo ho deciso di attraversare più agilmente alcuni capitoli, dando più attenzione ad altri. Occorre tenere a mente che i singoli capitoli non trattano uno specifico autore ma che in ognuno di essi risuona la voce di filosofe e filosofi, rendendo complesso e articolato il ventaglio di variazioni sul tema scelto.
Nel primo capitolo, Fatti/valori, si assiste all’elaborazione di un dibattito che comincia con Humee che si alimenta attraverso la riflessione di Dewey, Mead, e Putnam (solo per fare alcuni nomi). Il capitolo inizia sottoponendo al lettore un avvenimento che accade nelle vite di tutti noi: ‹‹Capita a volte di trovarci di fronte a una situazione in cui non è così facile separare nettamente fatti e valori›› (p. 26). Si parte proprio da qui, e cioè da un’attenzione radicale al piano dell’esperienza, per elaborare una vicenda che non coinvolge solo l’esperienza dei singoli nel rapportarsi a valori, valutazioni e desideri, perché anche il procedere della scienza, come fa emergere Santarelli, con le sue pratiche strumentali sedimentate nel corso di una storia, mostra di essere intessuta di valori che le consentono di seguire determinati percorsi e di effettuare scelte specifiche. Come emerge attraverso la lettura della Teoria della valutazione di Dewey e di Come nascono i valori di Joas, Santarelli chiarisce come i valori non vadano intesi né come mere esperienze soggettive né come entità assolute slegate dal controllo razionale – per questo non possono coincidere con le norme – ma vadano situati all’interno di un processo relazionale che si articola a partire dall’interazione con gli altri, con l’ambiente di cui siamo parte e con la specificità della situazione in cui di volta in volta ci troviamo.
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Il secondo capitolo, Concetti e non-concetti, ha come protagonista William James e credo sia la chiave di volta di questo testo. Vorrei dire così almeno per due ragioni. La prima è che qui Santarelli prende sul serio alcuni interrogativi che espandono l’orizzonte riguardo a come debba essere intesa la filosofia sociale in un senso ampio. La seconda è che viene introdotto un concetto, quello di articolazione, che si rivelerà essere uno strumento teoretico fondamentale lungo tutto il percorso del testo. A partire da Some Problems of Philosophy di James, l’autore si chiede quale sia lo spessore e lo statuto dell’attività concettuale e offre due possibili paradigmi con cui interpretare la pratica concettuale. Il paradigma della traduzione ritiene che l’attività concettuale sia slegata dall’esperienza e che ne tradisca, traducendola, la continuità. Accanto a questo vi è poi il paradigma dell’articolazione, secondo cui ‹‹i concetti possono aiutarci ad articolare alcuni aspetti ancora parzialmente indeterminati dell’esperienza e del reale›› (p. 62). Il contenuto dei concetti presenta dunque degli elementi vaghi che ci permettono di articolare, in determinate situazioni, alcune possibilità ancora involute dell’esperienza: ‹‹La teoria pragmatista muove dunque da un atto di onestà politica ed epistemologica: il riconoscimento di un livello ineliminabile di vaghezza, e quindi del carattere contingente dei nostri tentativi di articolazione›› (p. 66). Lungi dall’essere elementi disturbanti e sfavorevoli, l’incompletezza, l’indeterminatezza e la contingenza sono il marchio del nostro essere già da sempre presi in una situazione. La prospettiva pragmatista offre un quadro teorico nel quale, da un lato, si contesta la sacralizzazione dei concetti mentre dall’altro si promuove l’aspetto creativo della pratica concettuale, senza che venga intesa come creazione dal nulla, ma piuttosto come sviluppo e articolazione a partire dall’esperienza stessa.
Con il terzo capitolo, Individuale e sociale, si ritorna sul piano più strettamente sociale con la teoria del Sé di George Herbert Mead. Come nei capitoli precedenti, anche qui si assiste allo sfibrarsi progressivo di una dicotomia: quella tra individuo e comunità. Dire questo non significa né attribuire maggiore importanza alla condotta sociale e condivisa (come invece facevano i comportamentisti) né focalizzarsi esclusivamente sull’esperienza soggettiva e introspettiva. Individuale e sociale sono due fasi dell’esperienza che si costituiscono assieme: non ci sono Sé già formati che solo in un secondo momento entrano in relazione condividendo gesti e pratiche comunitarie. Al contrario, ‹‹il Sé non è qualcosa di dato, ma è qualcosa che emerge e che ci costituisce›› (p. 87) attraverso un processo di interiorizzazione che articola, mediante e all’interno di pratiche sociali, una sfera biologica ancora parzialmente indeterminata.
Ragione e sentimento è il titolo del quarto capitolo che mette a tema la questione delle emozioni e dell’affettività. Ma di che cosa parliamo quando parliamo di emozioni? James, Dewey e Mead, pur con diverse sfumature, offrono degli strumenti per chiarire innanzitutto che le emozioni sono un fatto corporeo (non sono l’effetto di uno stato mentale), hanno una struttura triadica (affect, attitudine, oggetto), sono relazionali, intersoggettive e situate. Dopo aver discusso le posizioni dei tre autori, Santarelli si sofferma sul concetto di interesse, come luogo teorico in cui le emozioni giocano un ruolo fondamentale. Gli interessi non sono un tentativo di dare ordine al caos delle passioni quanto piuttosto un modo di incanalarle e organizzarle. In Dewey ‹‹l’interesse integra noi stessi e il nostro ambiente, e allo stesso tempo integra mezzi e fini›› (p. 126): l’interesse è quello strumento che dà forma alla nostra vita pulsionale e che si articola in una pratica. In questo senso, ogni interesse è nello stesso tempo soggettivo e oggettivo. Anche qui la teoria pragmatista ci consente di tenere assieme la situazione particolare in cui di volta in volta ci troviamo e la tonalità emotiva che ci connota, senza che questi aspetti vengano ridotti a un soggettivismo atrofizzato; il valore della contingenza si misura nell’essere-proprio-qui, ed è solo a partire da questa indeterminata determinatezza che diventa possibile articolare la sfera cognitiva, il processo dell’indagine e della ricerca e insieme un’etica della condotta.
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