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416qaRgCyUL._SY344_BO1,204,203,200_ (1)La fenomenologia, secondo Lambert Wiesing (Il me della percezione. Un’autopsia, a cura di Tonino Griffero, Christian Marinotti edizioni, 2014), deve diventare – ritornare? - greca, in almeno quattro sensi differenti. Innanzitutto facendo proprio un adagio scettico: la natura delle cose è inesplicabile. Più che lanciarsi in ipotesi metafisiche – poco importa di quale natura – bisogna ritornare, con Husserl, a un più modesto ma efficace approccio descrittivo: “quale sia stata la sua genesi, è una cosa che non ci riguarda”. In secondo luogo, liberandosi da utopie di stampo scientista, la fenomenologia dovrebbe porsi alla stregua di un testo protrettico (p. 78). Descrivere fenomenologicamente una percezione non significa trasporre una serie di proposizioni analitiche dal carattere strettamente logico-scientifico, ma invitare e convincere il lettore a praticare quelle stesse esperienze trascritte dal fenomenologo. La fenomenologia si nutre - come già notava in senso critico Derrida - di un’intuizione, una presenza originaria, impossibile da comunicare per iscritto, ma, nonostante ciò, compiutamente universale in quanto esperibile. In terzo luogo il pensiero fenomenologico dovrebbe dirigersi senza indugi verso la percezione, evento umano primario e inestirpabile. Come già sosteneva Epicuro – e prima di lui i sofisti - le percezioni sono sempre vere. E questo – aggiunge Wiesing – perché non possono mai essere concepite in altro modo, non essendo passibili di alcuna falsificazione

Infine – e questo ci introduce al nodo centrale del libro - una sana fenomenologia deve seguire l’Aristotele della Politica: “il tutto viene prima delle parti”. Nel caso della percezione, a cui Wiesing dedica l’intero libro, si tratta allora di superare la parti – percipiente e percepito – per indirizzarsi primariamente al Tutto – la percezione, intesa come situazione che tiene assieme i due poli del soggetto e dell’oggetto.

E’ questo il nerbo centrale della prospettiva avanzata da Wiesing, che intende capovolgere così il criticismo kantiano: invece di individuare nel soggetto, come nell’Estetica trascendentale della Critica della ragion pura, le condizioni di possibilità della percezione, bisognerebbe piuttosto analizzarne le conseguenze della realtà. Varese-California05Se la situazione percettiva sembra una realtà a tutti gli effetti inemendabile e fenomenologicamente irriducibile, la domanda da porre deve allora essere la seguente: cosa mi accade nel momento in cui vengo a trovarmi in una situazione percettiva? Schivando così sia l’oggettivismo empiristico proprio degli approcci analitici sia il soggettivismo interpretante delle filosofie ermeneutiche, Wiesing riporta al centro un discorso squisitamente fenomenologico, volto a indagare la relazione intenzionale che inequivocabilmente la percezione pone in essere. Il soggetto, da costitutore del reale o specchio di un mondo di oggetti, diventa così a tutti gli effetti il prodotto di una situazione percettiva che gli si impone. Wiesing ripete più volte quanto la percezione sia in definitiva un’imposizione – anche tragica- per il percipiente, che non può fare a meno di prendere parte alla relazione percettiva. La percezione non produce comodi naufragi con spettatore, per dirla alla Blumenberg, quanto un’inevitabile partecipazione al mondo, nell’unica forma – intenzionale - in cui questo può darsi al soggetto.

Nella costellaLambert Wiesingzione ridisegnata da Wiesing, il trittico soggetto/oggetto/percezione si riconfigura, portando in primo piano la percezione come suo centro propulsore, in maniera non dissimile da quanto portato avanti, in un altro contesto, da Gilbert Simondon prima e da Bernard Stiegler oggi: nel passaggio all’individuazione non bisogna concentrarsi né sull’origine né sul termine, ma sul processo trasduttivo e relazionale in grado di articolare i due momenti. Al di qua della sclerotizzazione tra un soggettivismo autoreferenziale e un oggettivismo semplicistico, Simondon, Stiegler e Wiesing, in modi ovviamente differenti, propongono uno sguardo “terzo”, bergsonianamente orientato sui movimenti che riconfigurano le essenze statiche in poli di un processo.

A partire dalla questione percettiva, così reinterpretata, Wiesing deduce, in maniera cartesiana, tutte le possibili conseguenze: il soggetto diventa, come si è detto, un partecipante attivo del mondo, dotato di un corpo-proprio (Leib) a cui la percezione si impone come una causa (pp. 136-140) capace di gettarlo in una dimensione sia pubblica – da qui la possibilità dell’intersoggettività (pp. 140-144) - sia continua – da qui la conferma dell’identità personale (pp.144-150).

Non siamo però sempre e soltanto condannati a percepire: secondo Wiesing lo schema dell’imposizione lascia spazio ad alcune particolari pause dalla partecipazione al mondo. Si tratta della percezione iconica, quando ci si trova di fronte a un’immagine che, presenza “diminuita”, possiede soltanto la caratteristica della visibilità. In questo caso, sebbene si possa provare empatia nei confronti, per esempio, di un film, il percipiente non si sente tuttavia “in gioco”, preso irrevocabilmente in una situazione percettiva. Il naufragio con spettatore, metafora di un a-storico mondo premoderno “a distanza di sicurezza”, ritrova allora per Wiesing pieno senso nell’esperienza compiutamente estetica, che non si impone più al percipiente. Difficile non vedere qui, come bene mostra Tonino Griffero nell’introduzione, una critica ai più entusiastici rappresentanti del cosiddetto visual o pictorial turn, convinti del potere fin troppo immersivo delle immagini estetiche.

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A incorniciare la prospettiva di Wiesing corre per tutto il libro una sorta di pars destruens nei confronti delle molte e differenti prospettive filosofiche che hanno affrontato il problema della percezione. Al di là dell’ovvio tributo pagato a Descartes, Husserl e Merleau-Ponty, Wiesing si impegna a decostruire due grandi rami della ricerca filosofica sull’aisthesis: da un parte i sostenitori del “mito del dato”, dall’empirismo secentesco sino alle sue più attuali recrudescenze neuro-analitiche e dall’altra i sostenitori del “mito del mediato”, da Thomas Reid a Gadamer, passando per Nietzsche e Kant. Sia che si pensi alla datità di un oggetto accessibile immediatamente da parte di un soggetto recettivo, sia che si veda nell’attività interpretante del soggetto l’unico possibile aggancio alla percezione, si ha a che fare, per Wiesing solo e soltanto con ipostasi metafisiche, racconti mitici più o meno riusciti e più o meno efficaci, ma pur sempre costruiti sulla base di modelli ipotetici. Se la scienza non può che procedere per modelli o paradigmi, la filosofia non può che farne un uso soltanto funzionale o euristico; un modello non è altro che un metodo e non può mai, per uno sguardo filosofico serio, assumere un valore di verità. Dalla confusione di verità e metodo nascono allora due prospettive che, pur combattendosi alacremente, affondano in un pregiudizio comune.

Ecco allora che Wiesing ripropone una prospettiva strettamente fenomenologica, senza modelli, capace di ritornare a una descrizione genuina della realtà. Arrivati a questo punto non si può fare a meno di chiedersi se la costellazione percettiva configurata da Wiesing – situazione percettiva antecedente a percipiente e percepito – non finisca tuttavia per essere anch’essa un modello, soprattutto quando fa derivare dalla situazione percettiva una serie di deduzioni che potremmo definire contro-trascendentali. Probabilmente è impossibile praticare un pensiero filosofico senza modelli: ciò che si può tentare di fare è allora verificare ogni volta che il modello non si sganci dal reale, ingenerando una mitologia pericolosa soprattutto in quanto inconsapevole. Quando il modello fenomenologico è ampiamento dissezionato nei suoi fondamenti, come fa Wiesing, si schivano le possibilità di una ricaduta nel mito (pseudo)filosofico. E’ questo, in particolare, il caso dell’intenzionalità, che l’autore trasla su un piano unicamente percettivo e ridefinisce nella sua consistenza relazionale. Forse la stessa fenomenologia, come sta accadendo sempre più spesso, per riproporsi oggi efficacemente, ha bisogno di ridiscutere continuamente i propri presupposti.

 

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Come le recenti dichiarazioni del neuroscienziato Giacomo Rizzolatti sulla precisione del pensiero filosofico in ambito scientifico sembrano confermare, l’attenzione della scienza nei confronti della filosofia, e in particolare della fenomenologia, sembra oggi più vivo che mai. In questo contesto, la prospettiva promossa da Wiesing, umile nel richiamo alla protrettica e insieme ambiziosa nel suo universalismo fenomenologico, può allora, riportando intelligentemente al centro della riflessione filosofica l’auto-evidenza della percezione, aprire qualche nuova strada di indagine sull’uomo, vero e proprio animale percettivo.

 

di Giulio Piatti

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