In quel distanziamento della prospettiva che si fa disorientante si coglie la vertigine, lo sguardo scavalca lo spazio reale ed effettivo per assurgere a vette basse, collocate in una profondità che si potrà toccare soltanto dopo lo schianto. Vicinanza e lontananza si deformano, creando un doppio sguardo che nella sua dualità bipolare alterna rischio, tentazione, paura e slancio; sintomi di un capogiro che vorticando su se stesso si autoalimenta senza arrestarsi mai. La vertigine, però, non è soltanto l’effetto di una distorsione visuale provocata dal timore dell’altezza, non va quindi ristretta al solo campo ottico, essa incarna anche la tendenza dell’essere a superarsi e a ritrovarsi - o a smarrirsi - in quello sguardo duplicato che, per forza di cose, interroga l’altro, e nella presenza dell’alterità si risolve. Vertigine è dunque quello stato che permette all’identità di rappresentarsi in una forma che richiede incertezza e la continua messa in discussione. Tale concezione della vertigine che si manifesta sia come sintomo psico-fisico che psicologico/ filosofico è ben rappresentata nel film del 1958 di Alfred Hitchcock, Vertigo (o La Donna che visse due volte) e che Andrea Cavalletti ha preso come punto di riferimento per sviluppare le proprie riflessioni inerenti la vertigine e raccolte nel suo ultimissimo libro edito da Bollati Boringhieri: Vertigine. La tentazione dell’identità. Questo libro difatti tratta il fenomeno della vertigine rendendolo strumento necessario per realizzare una vera e propria lettura dell’identità, in cui la perdita e il ritrovo di se stessi giocano ruoli fondamentali. È tale vertigine, dunque, il fulcro essenziale del testo che per l’autore, proprio per la sua natura malferma, incerta e cinetica, serve come supporto per intercettare e spiegare i nodi di un’identità che non trova (e non troverà) mai compimento in una forma definitiva. Tale “tentazione e ricerca” dell’identità è affrontato nel testo da punti di vista che fino ad ora erano stati esplorati in maniera separata e parziale e mai interconnessi tra di loro, cosa che Cavalletti fa, attuando un vero e proprio dialogo tra teorie scientifiche, psicologiche, filosofiche e artistiche; realizzando una mappatura intertestuale in cui il tema della vertigine resuscita in una nuova luce.
Il volume è diviso rispettivamente in sei capitoli, ognuno dei quali affronta l’argomento sotto profili tematici diversi, ma tenuti assieme da un fil rouge che permette una lettura unitaria e quantomai interessante e innovativa. Nel primo capitolo intitolato effetto–vertigo, come già anticipato, Cavalletti per introdurre il fenomeno della vertigine si rifà al film, mettendolo a confronto con i due libri a cui esso è ispirato: ossia D’entre les morts di Boileau e Narcejac del 1954 e Bruges la morte del 1892 a firma di Georges Rodenbach. L’autore non si limita a una semplice comparazione delle opere, ma radica la propria riflessione rintracciando nelle trame intime della storia elementi che superano il piano narrativo, per approdare a campi concettuali di natura prevalentemente filosofica, essenziali per iniziare un’analisi sull’identità e le sue strutture. Vertigo è per eccellenza il racconto in cui l’inganno è espresso da ogni angolatura, e non è un caso, dunque, se nel primo capitolo Cavalletti rimanda al termine Schwindel a cui si associano contemporaneamente sia i significati di inganno e tentazione, sia di malattia e trucco, o di raggiro stando al saggio del 1948 Das Manifest der Kommunistischen partei di Marx ed Engels. Vocaboli che, specialmente nel film, si manifestano sia sotto forma registica attraverso espedienti tecnici, che in forma contenutistica ad esempio tramite l’impersonificazione della defunta Madeleine da parte di Judy.
A proposito Cavalletti ricorda come il famoso effetto vertigo (dolly zoom) sia stato risolto da Hitchcock grazie alla combinazione di uno zoom in avanti e di una carrellata indietro, o di uno zoom all’indietro e una carrellata in avanti, mantenendo invariata la dimensione del soggetto, permettendo così al pubblico di assumere la prospettiva di Scottie, interpretato da James Stewart, e immedesimandosi in lui. Tale meccanismo cinematografico è un trucco inteso per svelare un altro trucco sostanziale: ossia smascherare Judy attraverso un atto di dis-velamento che fa letteralmente “morire” Madeleine. L’artificio insito nella settima arte, sottolinea Cavalletti citando Walter Benjamin, di conseguenza si sporge aldilà dei propri espedienti artigianali per raggiungere il senso intrinseco della storia e la sua trama controversa.
Sempre in questo capitolo, riprendendo gli studi psichiatrici, ad esempio di Max Simon e del neurologo Charcot, Cavalletti descrive come la vertigine, specie nel’800, sia stata vista come una nevrosi, un’anomalia del sistema nervoso o un sintomo di isteria. Un’isteria che secondo La Mettrie, Esquirol e Simone Weil (tutti autori presenti nel testo) è destinata a diventare collettiva, in quanto l’intera società è affetta da un senso di vertigine stimolata da un sentimento di paura e sopraffazione psicologica e, proprio come asseriva la Weil in Réflexions sur les causes de la liberté et de l'oppression sociale: l’avvento della “macchina” cinemaservirà alla macchina sociale come strumento di massa per divulgare ideologie politiche propagandistiche e aizzare le folle. Il panico/vertigine di Scottie, dunque, può anche essere letto come la paura, ma al contempo necessaria volontà, di ribellarsi dei popoli soggiogati contro gli inganni dei loro governanti che in questo caso hanno il volto di Judy. Tale rapporto intersoggettivo rimanda al secondo e terzo capitolo del libro, intitolati Non siamo qui e Abito, maschera.
In questi capitoli entra in scena un concetto filosofico fondamentale per la disquisizione di Cavalletti: l’idea di habitus. Chiamando in causa i contributi, in particolar modo, di Husserl e del teorico dell’arte Robert Klein, all’interno del libro l’autore tessa un’indagine sulla vertigine che si posiziona ad un livello intersoggettivo. Se secondo Husserl l’habitus è ciò che è proprio del soggetto, ossia ciò che si possiede in quanto entità pensante e individuale. È interessante notare come Klein colga nella vertigine la possibilità di riscattare “l’abitudine” attraverso l’instaurazione di unarelazione con un’entità esterna che si frappone, facendogli così raggiungere la dimensione dell’inappropriabile. La vertigine, perciò, secondo Klein provoca una dislocazione dell’io, in quanto lo sguardo altrui ci conquista, sottraendoci alla nostra coscienza riflessiva.
Cavalletti molto intuitivamente e sempre in riferimento a ciò, cita anche il carattere di reversibilità diMerleau-Ponty. Egli ricorda infatti come il filosofo francese in Phénoménologie de laperception e in Le visible et l’invisible precisa come le azioni dell’altro si riflettano in noi, in quanto quando l’essere si manifesta, esso esprime la presenza dell’altro - o dell’altro in me, urtando così la componente soggettiva. E la prospettiva del mondo, intrecciandosi inesorabilmente con quella dell’altro, viene attirata in un vortice in cui il mondo non è più pensato come proprio, perché appunto si viene influenzati da ciò che si verifica esternamente. E tale concezione, volendo, richiama anche alle recenti teorie sui neuroni specchio, in cui il gioco della reversibilità si attua ad un livello neurale. Cavalletti tramite un’analisi che coinvolge i maggiori pensatori della filosofia moderna, pone la vertigine come strumento intersoggettivo, ribadendo come la spinta tentatrice a gettarsi nel vuoto consista in realtà in una doppia percezione che ci fa sentire contemporaneamente qui e là. Facendo intervenire ancora Klein, l’autore nomina l’Eigenheit, ossia il rimbalzo tra rimorso e ricordo che stimola il soggetto a concepire il laggiù come un qui, e il qui come un là. Ricordandoci come sul precipizio si diviene un altro, evocando, così, l’ambivalenza data della presenza di Judy e Madeline che nel momento prima della caduta dalla torre coesistono entrambe.
Sempre attenendosi al contributo dei pensatori moderni, Cavalletti negli ultimi tre capitoli (Un singolare trasporto, Baratro, e Superficie) fa emergere questioni che, come in precedenza, amalgamano l’ambito cinematografico con quello filosofico. Compaiono quindi i concetti di: análogon, lapsus e Sterben (il morire). Seguendo le orme tracciate da Aristotele e successivamente da Hobbes, il lapsus non viene definito come un inganno dell’inconscio – lapsus che in questo particolare caso si esprime nell’atto volontario di Judy di indossare il collier appartenuto alla defunta Madeline – ma come un’azione compiuta in stato di veglia. Una volontà, potremmo dire sintetizzando, che permette alla maschera di cadere, richiamando ancora in causa il fenomeno della vertigine, quale esperienza stessa della messa in causa dell’identità. “L’ego è essenzialmente afflitto dalla vertigine, se questa consiste – nel compiere il passo che non si vorrebbe compiere, in un solecismo, in una contraddizione o in un lapsus dell’intentio(se potessimo non presupporre con questa parola il centro i l’identità che è forse la vertigine stessa a produrre)” (p. 97). Cavalletti in merito fa un ulteriore passo in avanti, portando come esempio l’esperienza attoriale di travestimento e smascheramento citando il famoso caso di Mary Pickford e il suo disorientamento vertiginoso nel guardarsi con gli occhi di un’altra senza essere la stessa, e riconoscendo nell’altro unanálogon senza vita.
“Nella vertigine cinematografica la vertigine dell’identità viene annullata, e l’attrice potrebbe finalmente guardarsi con gli occhi di un’altra senza dover essere la stessa, senza dover aderire alla propria maschera colmandola di vita”(p. 148). Un senza vita che ci rimanda inesorabilmente al tema della morte (Sterben) e del baratro che, stando alla filosofia di Heidegger (autore che domina il capitolo quinto), è inclusa nella questione dell’Essere; in quanto l’essere esiste proprio a partire dalla sua possibilità di morte che non può per nessuna ragione venir rimandata. L’essere, di conseguenza, si determina anche grazie ad un’anticipazione di un non esserci più, perché in tale potenzialità l'esserci sovrasta se stesso, rimandando così al proprio poter-essere più proprio. E proprio in questo anticipo di poter essere che l’esserci, sempre secondo Heidegger, si apre alla sua condizione più estrema: la morte.
Ed è in base ai principi fino ad ora esposti, che Cavalletti ribadisce più spesso, anche durante il suo intervento del 22 Maggio presso la libreria Libre di Verona, quanto sia fondamentale il concetto di fissare la vertigine; fissarla appunto in quanto essa permetterebbe all’essere di rivelarsi nelle sue espressioni più autentiche, concedendo all’identità di formarsi e definirsi proprio in base a tale sbilanciamento vertiginoso. Da questo excursus si intuisce come Vertigine sia un’opera che apra un dialogo in cui le tematiche filosofiche e cinematografiche, congiungendosi tra loro, formano idee e principi che inquadrano il fenomeno della vertigine all’interno di una prospettiva nuova, in cui la spinta alla discussione e all’interrogazione dei vari quesiti non è mai data per scontata, ma sempre stimolata a superarsi e a oltrepassare i propri limiti; esattamente come l’uomo che dall’alto rivolgendo in basso il proprio sguardo si reincontra e si perde nel medesimo istante.
Il rompicapo della realtà. Metafisica, ontologia e filosofia della mente in E. J. Lowe (Mimesis, Milano 2015) di Timothy Tambassi è la prima monografia dedicata interamente al pensiero di Lowe, il quale ha contribuito a impreziosirla seguendone la stesura passo per passo fino alla versione definitiva (la tesi di dottorato dell’autore) senza tuttavia potere assistere alla pubblicazione del volume, avvenuta a poco più di un anno dalla morte dello stesso Lowe. Il sottotitolo rivela il contenuto vero e proprio del libro: non ogni aspetto della ricerca di Lowe, ma quelli considerati più aderenti al suo nucleo teoretico, ossia la metafisica, l’ontologia e la filosofia della mente, a cui corrispondono i tre capitoli del libro. Più in particolare, Tambassi mira a mostrare la stretta connessione sussistente fra questi aspetti della proposta loweiana, la loro costitutiva apertura ai risultati delle scienze e, più in generale, ad altre forme di indagine della realtà. Secondo Lowe, infatti, la riflessione metafisica – focalizzata sui tre concetti cardine di realtà, di sostanza e di risorse esplicative – costituisce lo sfondo concettuale imprescindibile dell’ontologia e della filosofia della mente e conseguentemente, attraverso queste ultime, di ogni altra forma di indagine della realtà. Come vedremo, però, la scelta di presentare una sintesi coerente solo del nucleo essenziale della proposta loweiana, se da un lato abbrevia certamente la via per l’acquisizione di una certa dimestichezza col suo pensiero, dall’altro, però, rischia di contrarre nella pura dimensione dell’implicito la ricchezza di temi e questioni che pure hanno caratterizzato il lavoro filosofico di Lowe e che intrattengono un ruolo di continuo scambio col suo nucleo – e non semplicemente di mera applicazione o conseguenza.
Il primo capitolo del testo di Tambassi è dedicato alla metafisica di Lowe, definita come una disciplina razionale che studia sistematicamente le strutture fondamentali della realtà, intesa a sua volta come unitaria e indipendente dal nostro modo di osservarla, e fa ciò interamente a priori, cercando quindi di chiarire alcuni concetti universalmente applicabili (pp. 19-20). Essa definisce ciò che è possibile, sia specificando la natura stessa della possibilità sia determinando quali siano le entità possibili e che caratteristiche abbiano. Stando a questa definizione, allora, la possibilità metafisica viene qualificata come una possibilità de re, ossia una possibilità reale, che riguarda la natura stessa delle cose di cui è predicata e ciò a prescindere dal modo in cui tali cose vengono concretamente descritte. Il criterio minimale per la possibilità reale, allora, è che tra le proposizioni utilizzate per descrivere le cose sia assente la contraddizione. In questo senso, nella concezione di Lowe la possibilità logica e l’ambito della metafisica risultano coestensivi: ciò che è possibile è, cioè, vero in ogni mondo in cui valgano le leggi della logica. L’orizzonte della pura possibilità logica acquisisce poi una più compiuta determinazione per mezzo delle nozioni trascendentali – quali, per esempio, le nozioni di sostanza, proprietà e stato di cose –, che è compito proprio della metafisica approfondire e che sono alla base dell’articolazione della nostra stessa esperienza della realtà attuale (pp. 25-26). In proposito, il senso del trascendentale loweiano – a differenza di quello kantiano – riguarda sia la realtà in se stessa sia il nostro modo di pensarla. E questo proprio perché, per Lowe, se da un lato non si dà realtà al di fuori dell’esperienza possibile, dall’altro la nostra esperienza e il nostro pensiero sono una parte costitutiva della realtà stessa, e ciò che riguarda essenzialmente il nostro pensiero della realtà riguarda con ciò stesso anche la realtà in quanto tale. Il fatto che Lowe sottolinei l’indipendenza della descrizione della realtà dal nostro modo di pensarla non risulta, però, in contraddizione con quanto appena sottolineato, poiché questa indipendenza è intesa tale non tanto nei confronti del pensiero in generale, quanto piuttosto nei confronti delle particolari prospettive dei soggetti.
Fra le nozioni trascendentali la centralità assoluta spetta alla nozione di sostanza (1.3), in virtù della sua indipendenza ontologica, che comporta la sua priorità ontologica rispetto a ogni altro tipo di entità (p. 28). È qui che il discorso metafisico entra pienamente nel vivo, coinvolgendo infatti le condizioni d’esistenza e d’identità delle sostanze, che a loro volta comportano – come vedremo più avanti – l’approfondimento della natura del tempo. Una certa entità è, allora, ontologicamente indipendente – ossia è una sostanza – se e solo se non dipende per la sua identità da qualche altra entità. Da tale condizione discende anche quella relativa all’esistenza: se una certa entità dipende da un’altra per la sua identità, ne dipende anche per la sua esistenza, ossia esiste solo se esiste anche la seconda. La sostanza è indipendente in entrambi i sensi – e in ciò consiste propriamente la sua indipendenza ontologica: «Così concepita, la sostanza è un particolare (concreto) che non dipende per la sua esistenza da nient’altro oltre che da se stesso, dove la dipendenza esistenziale coinvolta è intesa in termini di dipendenza rispetto all’identità» (pp. 29-30). L’insieme delle condizioni d’identità di una sostanza – ciò che determina l’identità e l’unità di essa – è allora la sua forma, ossia il suo costituirsi come istanza di un certo genere (o tipo). In virtù di questo aspetto fondamentale della forma Lowe ammette poi l’esistenza di sostanze immateriali – quali per esempio i sé (oggetto della filosofia della mente) e le particelle ultime (che sarebbero quindi fisiche e immateriali al tempo stesso; cfr. p. 32) – accanto a quelle materiali, intendendo qui ‘materiale’ nel senso della materia prossima, ossia ciò di cui una cosa risulta immediatamente costituita.
Sempre dalla forma discende poi anche la più importante distinzione relativa alle sostanze: quella fra sostanze composte – tra le quali si annoverano le cose concrete del mondo macroscopico – e sostanze semplici (o prime) – per esempio i sé e alcune particelle subatomiche la cui immaterialità, naturalmente, consegue dalla loro semplicità – che costituiscono il fondamento ultimo dell’esistenza del reale (pp. 33-34). Una sostanza è allora composta, se possiede delle parti – dalle quali non dipende però per la propria identità – ed è invece semplice, se è priva di parti costituenti. A sua volta, la differenza fra i due tipi di sostanze si fonda su una differenza fra criteri d’identità ed è qui che il tempo gioca un ruolo decisivo: se infatti ogni sostanza materiale e ogni sostanza fisica sono necessariamente collocate in modo determinato nello spazio e nel tempo, le sostanze mentali (i sé) esistono necessariamente nel tempo ma solo contingentemente nello spazio – ossia solo nella misura in cui sono legate a sostanze fisiche quali i loro corpi: poiché per Lowe il tempo è reale per ogni tipo di sostanza, esso risulta un riferimento privilegiato. Più in particolare, è in relazione al tempo che emerge una differenza fondamentale nei criteri d’identità delle sostanze: contrariamente a quelle semplici, infatti, le sostanze composte sono dotate di un criterio d’identità diacronica (1.6), che «è fondata a partire dalle relazioni di equivalenza definite sulle loro componenti attuali o possibili […] e consiste nella conservazione di tali relazioni fra le parti costituenti possedute dalle sostanze attraverso il tempo» (pp. 36-37). La sostanza complessa, in somma, è ciò che permane attraverso il mutare delle relazioni, in cui il tempo propriamente consiste. È per questo motivo che l’esistenza stessa del tempo dipende in ultima istanza da quella delle sostanze semplici, «che persistono attraverso il tempo come “continuanti” […] e la cui persistenza è necessariamente primitiva» (p. 40).
Al culmine di queste considerazioni, Tambassi inserisce un’accurata analisi della concezione loweiana del tempo e del contesto in cui si colloca (1.7). Se il dibattito contemporaneo sulla natura del tempo è diviso fra le teorie tensionali (dall’inglese ‘tense’) e quelle atensionali – le prime ritengono essenziali le nozioni di passato, presente e futuro, le seconde si limitando a considerare le nozioni di prima, dopo e simultaneità –, Lowe assume la prima posizione, legandola essenzialmente a una concezione della persistenza (di una sostanza nel tempo) di tipo endurantista, secondo la quale una sostanza è sempre completamente presente in ogni momento in cui esiste – posizione contrapposta a quella perdurantista, secondo cui a differenti momenti dell’esistenza di una sostanza complessa corrispondono differenti parti temporali di essa.
Il secondo capitolo del libro è dedicato all’ontologia, che Tambassi rileva come «la parte più innovativa e originale» (p. 45) degli scritti di Lowe, anche perché giunta alla sua veste definitiva solo con la pubblicazione nel 2006 di The Four-Category Ontology. Dopo una ricostruzione storico-contestuale dell’ontologia analitica e del dibattito contemporaneo (2.1), Tambassi delinea la posizione loweiana sull’ontologia: «quella parte della metafisica che studia nello specifico l’essere in tre sensi fondamentali: esistenza, entità ed essenza» (p. 50). Essa ha il compito di stabilire che cosa esiste (esistenza), di determinare le categorie fondamentali dell’essere nonché le loro interrelazioni (entità) e, infine, di indagare quali siano le caratteristiche necessarie e quali le caratteristiche contingenti di una determinata entità (essenza). L’ontologia si divide inoltre in una parte a priori – quella specifica dell’elaborazione categoriale – e una empirica, che si confronta coi risultati delle altre scienze. In sintesi, allora, se la metafisica si occupa della pura possibilità, l’ontologia si occupa di ciò che esiste e coesiste. In quanto scienza dell’essere, come già osservato, essa è secondo Lowe indissolubilmente connessa alle descrizioni della realtà che emergono dal lavoro di ogni disciplina scientifica, il cui obiettivo è una descrizione vera della porzione di realtà che costituisce il suo specifico oggetto di ricerca, descrizione su cui si innesta conseguentemente anche la capacità di una scienza di fornire adeguati modelli di previsione per i fenomeni coinvolti nel suo oggetto. «L’ontologia ha l’obiettivo di unificare le diverse descrizioni […], in modo da fornire una descrizione unitaria» (p. 50), essendo il suo oggetto la realtà in se stessa e in quanto tale. Tambassi prosegue collocando la posizione di Lowe nel panorama contemporaneo relativo alle categorie ontologiche (2.2), che Lowe definisce come i tipi più generali di cose (categorie dotate di maggiore generalità) che forniscono i criteri d’identità per specifiche classi di oggetti (p. 53). Partendo dalla categoria ontologica di entità – la massima per generalità –, si arriva quindi finalmente al sistema ontologico quadri-categoriale (2.3), ottenuto combinando le suddivisioni di entità in universali/particolari e sostanziali/non sostanziali. Le quattro categorie (cfr. p. 55) sono quelle dei generi (universali sostanziali), degli attributi (universali non sostanziali), degli oggetti (particolari sostanziali, ossia le sostanze di cui si è discusso nel primo capitolo) e dei modi (particolari non sostanziali). Tutto ciò che esiste è incluso in una di queste categorie, il cui studio avviene interamente a priori. Fra le quattro categorie fondamentali, inoltre, sussistono due relazioni metafisiche fondamentali: l’istanziazione (generi e attributi istanziati rispettivamente da oggetti e modi) e la caratterizzazione (generi e oggetti caratterizzati rispettivamente da attributi e modi). A queste due prime relazioni metafisiche Lowe aggiunge poi la relazione di esemplificazione (attributi esemplificati da oggetti). A ognuna delle quattro categorie ontologiche loweiane, che categorizzano entità esistenti (anche nel caso degli universali, come vedremo), Tambassi dedica poi un’analisi specifica (2.4).
Il punto di partenza è ancora la nozione di sostanza, che nel sistema quadri-categoriale è rappresentata dalla categoria degli oggetti (2.4.1): com’era emerso nel capitolo dedicato alla metafisica, questa è la categoria delle entità che per la loro indipendenza e priorità ontologiche sono il fondamento della realtà. Così, relativamente al rapporto fra gli oggetti e i modi che li caratterizzano (proprietà e relazioni degli oggetti), Lowe pone due importanti distinzioni: la prima è che gli oggetti non sono meri sostrati privi di proprietà in se stessi (bare particulars) con la funzione di sostenere proprietà che avrebbero così un ruolo ontologicamente prioritario nelle condizioni d’identità dell’oggetto stesso. Piuttosto, invece, «gli oggetti non dipendono né per la loro esistenza né per la loro identità dai modi che li caratterizzano» (p. 61) trattandosi di due entità differenti, le prime ontologicamente indipendenti, le seconde dipendenti. La seconda distinzione importante, è quella fra oggetti e quasi-oggetti. Questi ultimi sono entità particolari e numerabili, che tuttavia sono costitutivamente privi di condizioni d’identità determinate che ne permettano l’individuazione (tali sono per esempio le particelle atomiche oggetto della meccanica quantistica): «L’indeterminatezza della loro identità è di tipo ontologico e non dipende in alcun modo dal nostro modo di conoscere le entità in questione» (p. 63). Procedendo con le altre categorie, Tambassi considera poi i modi – che si dividono in proprietà particolari (modi monadici) e relazioni particolari (modi poliadici) – e il loro rapporto con la nostra esperienza empirica (2.4.2), rapporto a proposito del quale Lowe considera la differenza fra le nostre percezioni e i fatti stessi (a loro volta distinti in eventi e processi, intesi come cambiamenti e sequenze di cambiamenti nei modi di un oggetto; cfr. p. 67). Che i modi siano delle entità particolari, inoltre, comporta l’unicità di ognuno di essi, mentre la loro dipendenza dagli oggetti implica che nessun modo può dipendere al tempo stesso da oggetti differenti; i modi, inoltre, non possono nemmeno essere considerati alla stregua di parti di un oggetto: queste sono infatti particolari sostanziali, che possono a loro volta possedere degli altri modi, ma non ridurvisi. Dalle considerazioni sui modi, Tambassi prosegue a discutere la concezione loweiana degli attributi (2.4.3.), intesi come il modo di due o più oggetti, o come un’entità portata dal genere che ne viene così caratterizzato (cfr. p. 71; per esempio, si dice che l’attributo della “trasparenza” caratterizza il genere “vetro”, che è un portatore della trasparenza; il vetro particolare (sostanza) della finestra che ho accanto e la sua particolare trasparenza (modo), sono allora rispettivamente istanze del genere “vetro” e dell’attributo “trasparenza”). Comincia qui a profilarsi il particolare realismo “immanente” sugli universali di Lowe, secondo il quale gli universali inclusi nell’inventario dell’esistente sono sia quelli istanziati attualmente sia quelli che hanno avuto istanze e che non sono però più attuali, ma non quelli di cui non si abbiano istanze (p. 70). Tambassi conclude poi il secondo capitolo con la discussione dei generi (2.4.4.) – universali sostanziali –, a cui Lowe «attribuisce un ruolo fondamentale nella descrizione dello statuto ontologico delle leggi naturali» (p. 74). Alle leggi naturali corrispondono i generi naturali da esse necessariamente caratterizzati e, in questo senso, le leggi naturali «determinano tendenze fra i particolari […] a cui si applicano, ma non i loro comportamento attuale […] che è invece il risultato di molteplici interazioni implicanti una molteplicità di leggi» (p. 77).
Infine, il terzo e ultimo capitolo prende in considerazione la filosofia della mente, definita come «la disciplina che si occupa di studiare e analizzare, da un punto di vista filosofico, i soggetti di esperienza, […] di chiarire cosa siano e se e come possano esistere» (p. 83). Con “soggetto di esperienza” s’intende ogni possibile portatore di proprietà mentali (per esempio persone, altri animali, robot e spiriti senza corpo). In gran parte, la filosofia della mente di Lowe mi sembra essere una coerente conseguenza di idee sviluppate su un piano strettamente ontologico e metafisico. Così, Lowe può tradurre il problema del rapporto mente-corpo nella questione del rapporto fra due differenti generi naturali di oggetti, l’uno rispondendo a leggi biologiche – il corpo – l'altro a leggi psicologiche – il sé. La peculiare soluzione di Lowe, chiamata anche dualismo delle sostanze non cartesiano (3.4), afferma infatti che a corpo e mente corrispondono rispettivamente una sostanza complessa e una semplice (il sé, che Tambassi presenta assieme al cosiddetto unity argument (3.5)) senza però che tali sostanze siano necessariamente separabili l’una dall’altra (per questo il dualismo è qui “non cartesiano”) e soprattutto senza che ci sia un rapporto di subalternità fra leggi biologiche e leggi psicologiche, dato che Lowe rivendica per queste ultime «uno specifico ruolo causale ed esplicativo» (p. 102) capace anche di determinare in una certa misura, amplificata dai contesti sociali, la stessa storia evolutiva biologica.
Su questo tema il testo si chiude ed è proprio a questi ultimi argomenti che si rivolge l’unica mia critica al volume. Si tratta di una critica metodologica, e non contenutistica, nei confronti di Tambassi: a mio modo di vedere, l’unica debolezza de Il rompicapo della realtà – debolezza, per altro, conseguente a una consapevole scelta di Tambassi – consiste nell’aver deliberatamente escluso tutti gli studi di Lowe che non riguardino direttamente il tema metafisico. Mi riferisco a quegli studi su Locke che hanno occupato una parte certamente non marginale del lavoro di Lowe e che potrebbero integrare in modo significativo la presentazione della metafisica loweiana proposta da Tambassi fornendo al lettore da un lato interessanti informazioni sul percorso d’indagine che Lowe ha seguito, dall’altro una visione più ampia della genesi della metafisica loweiana: la nozione loweiana di sostanza risente, infatti, del confronto con Locke e, attraverso quest’ultimo, è ampiamente debitrice della cosiddetta Early Modern Philosophy. Anzi, si potrebbe osservare che la concezione loweiana della sostanza sembra a tratti quasi sovrapponibile a quella lockiana, a esclusione di un aspetto decisivo: per Lowe, infatti, la nozione di sostanza non ha affatto una natura ipotetica, ma marcatamente reale – le sostanze, infatti, sono le autentiche componenti della realtà esistente. Questa soluzione parrebbe indirizzare Lowe verso un paradigma leibniziano, tuttvia l’autore smentisce questa apparenza sostenendo che per lui esistono sia le sostanze immateriali (com’erano le monadi leibniziane) sia le sostanze materiali (impensabili nel sistema leibniziano maturo, nel quale materia ha un carattere derivato), e ammette persino l’esistenza di entità numerabili ma non discernibili come i quasi-oggetti (anche questo aspetto è assolutamente escluso dal Leibniz maturo). Un ennesimo elemento indica quanto Lowe sia profondamente legato a Locke: Lowe non esita a definire Le categorie di Aristotele come il testo più importante nella storia dell’ontologia1, rimarcandone al contempo l’influenza sul suo pensiero, ma si discosta poi nettamente dall’idea aristotelica di sostanza prima riconvergendo verso una posizione lockiana.
Da queste rapide osservazioni conclusive – che hanno più la natura di spunti, che di critiche – mi sembra si possa guadagnare una piena prospettiva sulla fecondità di questa monografia: il nucleo teoretico del pensiero di Lowe è tutto qui, esposto in modo chiaro e sintetico. E tuttavia, così come possedere un passepartout non equivale a varcare tutte le soglie che esso ci può aprire, la ricchezza del pensiero di Lowe attende ancora importanti esplorazioni.
1Cfr. E. J. Lowe, The Four-Category Ontology, Oxford University Press, Oxford 2006, p. 58.
In occasione del V Seminario di Teoria politica intitolato Eurotecnocrazia tenutosi a Torino in ottobre ho avuto la possibilità di intervistare l’antropologa ed etnologa Annamaria Rivera. Saggista, scrittrice e attivista da anni si occupa di razzismo e forme della discriminazione. A lei dobbiamo uno dei primi studi in lingua italiana sulla correlazione tra razzismo, sessismo e specismo. Abbiamo affrontato il complesso rapporto tra paura, intolleranza e razzismo in Europa, alla luce degli arrivi in massa di migliaia di migranti sulla costa nord del Mediterraneo, ignari di quel che sarebbe accaduto di lì a poco a Parigi.
La fenomenologia, secondo Lambert Wiesing (Il me della percezione. Un’autopsia, a cura di Tonino Griffero, Christian Marinotti edizioni, 2014), deve diventare – ritornare? - greca, in almeno quattro sensi differenti. Innanzitutto facendo proprio un adagio scettico: la natura delle cose è inesplicabile. Più che lanciarsi in ipotesi metafisiche – poco importa di quale natura – bisogna ritornare, con Husserl, a un più modesto ma efficace approccio descrittivo: “quale sia stata la sua genesi, è una cosa che non ci riguarda”. In secondo luogo, liberandosi da utopie di stampo scientista, la fenomenologia dovrebbe porsi alla stregua di un testo protrettico (p. 78). Descrivere fenomenologicamente una percezione non significa trasporre una serie di proposizioni analitiche dal carattere strettamente logico-scientifico, ma invitare e convincere il lettore a praticare quelle stesse esperienze trascritte dal fenomenologo. La fenomenologia si nutre - come già notava in senso critico Derrida - di un’intuizione, una presenza originaria, impossibile da comunicare per iscritto, ma, nonostante ciò, compiutamente universale in quanto esperibile. In terzo luogo il pensiero fenomenologico dovrebbe dirigersi senza indugi verso la percezione, evento umano primario e inestirpabile. Come già sosteneva Epicuro – e prima di lui i sofisti - le percezioni sono sempre vere. E questo – aggiunge Wiesing – perché non possono mai essere concepite in altro modo, non essendo passibili di alcuna falsificazione
Infine – e questo ci introduce al nodo centrale del libro - una sana fenomenologia deve seguire l’Aristotele della Politica: “il tutto viene prima delle parti”. Nel caso della percezione, a cui Wiesing dedica l’intero libro, si tratta allora di superare la parti – percipiente e percepito – per indirizzarsi primariamente al Tutto – la percezione, intesa come situazione che tiene assieme i due poli del soggetto e dell’oggetto.
E’ questo il nerbo centrale della prospettiva avanzata da Wiesing, che intende capovolgere così il criticismo kantiano: invece di individuare nel soggetto, come nell’Estetica trascendentale della Critica della ragion pura, le condizioni di possibilità della percezione, bisognerebbe piuttosto analizzarne le conseguenze della realtà. Se la situazione percettiva sembra una realtà a tutti gli effetti inemendabile e fenomenologicamente irriducibile, la domanda da porre deve allora essere la seguente: cosa mi accade nel momento in cui vengo a trovarmi in una situazione percettiva? Schivando così sia l’oggettivismo empiristico proprio degli approcci analitici sia il soggettivismo interpretante delle filosofie ermeneutiche, Wiesing riporta al centro un discorso squisitamente fenomenologico, volto a indagare la relazione intenzionale che inequivocabilmente la percezione pone in essere. Il soggetto, da costitutore del reale o specchio di un mondo di oggetti, diventa così a tutti gli effetti il prodotto di una situazione percettiva che gli si impone. Wiesing ripete più volte quanto la percezione sia in definitiva un’imposizione – anche tragica- per il percipiente, che non può fare a meno di prendere parte alla relazione percettiva. La percezione non produce comodi naufragi con spettatore, per dirla alla Blumenberg, quanto un’inevitabile partecipazione al mondo, nell’unica forma – intenzionale - in cui questo può darsi al soggetto.
Nella costellazione ridisegnata da Wiesing, il trittico soggetto/oggetto/percezione si riconfigura, portando in primo piano la percezione come suo centro propulsore, in maniera non dissimile da quanto portato avanti, in un altro contesto, da Gilbert Simondon prima e da Bernard Stiegler oggi: nel passaggio all’individuazione non bisogna concentrarsi né sull’origine né sul termine, ma sul processo trasduttivo e relazionale in grado di articolare i due momenti. Al di qua della sclerotizzazione tra un soggettivismo autoreferenziale e un oggettivismo semplicistico, Simondon, Stiegler e Wiesing, in modi ovviamente differenti, propongono uno sguardo “terzo”, bergsonianamente orientato sui movimenti che riconfigurano le essenze statiche in poli di un processo.
A partire dalla questione percettiva, così reinterpretata, Wiesing deduce, in maniera cartesiana, tutte le possibili conseguenze: il soggetto diventa, come si è detto, un partecipante attivo del mondo, dotato di un corpo-proprio (Leib) a cui la percezione si impone come una causa (pp. 136-140) capace di gettarlo in una dimensione sia pubblica – da qui la possibilità dell’intersoggettività (pp. 140-144) - sia continua – da qui la conferma dell’identità personale (pp.144-150).
Non siamo però sempre e soltanto condannati a percepire: secondo Wiesing lo schema dell’imposizione lascia spazio ad alcune particolari pause dalla partecipazione al mondo. Si tratta della percezione iconica, quando ci si trova di fronte a un’immagine che, presenza “diminuita”, possiede soltanto la caratteristica della visibilità. In questo caso, sebbene si possa provare empatia nei confronti, per esempio, di un film, il percipiente non si sente tuttavia “in gioco”, preso irrevocabilmente in una situazione percettiva. Il naufragio con spettatore, metafora di un a-storico mondo premoderno “a distanza di sicurezza”, ritrova allora per Wiesing pieno senso nell’esperienza compiutamente estetica, che non si impone più al percipiente. Difficile non vedere qui, come bene mostra Tonino Griffero nell’introduzione, una critica ai più entusiastici rappresentanti del cosiddetto visual o pictorial turn, convinti del potere fin troppo immersivo delle immagini estetiche.
A incorniciare la prospettiva di Wiesing corre per tutto il libro una sorta di pars destruens nei confronti delle molte e differenti prospettive filosofiche che hanno affrontato il problema della percezione. Al di là dell’ovvio tributo pagato a Descartes, Husserl e Merleau-Ponty, Wiesing si impegna a decostruire due grandi rami della ricerca filosofica sull’aisthesis: da un parte i sostenitori del “mito del dato”, dall’empirismo secentesco sino alle sue più attuali recrudescenze neuro-analitiche e dall’altra i sostenitori del “mito del mediato”, da Thomas Reid a Gadamer, passando per Nietzsche e Kant. Sia che si pensi alla datità di un oggetto accessibile immediatamente da parte di un soggetto recettivo, sia che si veda nell’attività interpretante del soggetto l’unico possibile aggancio alla percezione, si ha a che fare, per Wiesing solo e soltanto con ipostasi metafisiche, racconti mitici più o meno riusciti e più o meno efficaci, ma pur sempre costruiti sulla base di modelli ipotetici. Se la scienza non può che procedere per modelli o paradigmi, la filosofia non può che farne un uso soltanto funzionale o euristico; un modello non è altro che un metodo e non può mai, per uno sguardo filosofico serio, assumere un valore di verità. Dalla confusione di verità e metodo nascono allora due prospettive che, pur combattendosi alacremente, affondano in un pregiudizio comune.
Ecco allora che Wiesing ripropone una prospettiva strettamente fenomenologica, senza modelli, capace di ritornare a una descrizione genuina della realtà. Arrivati a questo punto non si può fare a meno di chiedersi se la costellazione percettiva configurata da Wiesing – situazione percettiva antecedente a percipiente e percepito – non finisca tuttavia per essere anch’essa un modello, soprattutto quando fa derivare dalla situazione percettiva una serie di deduzioni che potremmo definire contro-trascendentali. Probabilmente è impossibile praticare un pensiero filosofico senza modelli: ciò che si può tentare di fare è allora verificare ogni volta che il modello non si sganci dal reale, ingenerando una mitologia pericolosa soprattutto in quanto inconsapevole. Quando il modello fenomenologico è ampiamento dissezionato nei suoi fondamenti, come fa Wiesing, si schivano le possibilità di una ricaduta nel mito (pseudo)filosofico. E’ questo, in particolare, il caso dell’intenzionalità, che l’autore trasla su un piano unicamente percettivo e ridefinisce nella sua consistenza relazionale. Forse la stessa fenomenologia, come sta accadendo sempre più spesso, per riproporsi oggi efficacemente, ha bisogno di ridiscutere continuamente i propri presupposti.
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Come le recenti dichiarazioni del neuroscienziato Giacomo Rizzolatti sulla precisione del pensiero filosofico in ambito scientifico sembrano confermare, l’attenzione della scienza nei confronti della filosofia, e in particolare della fenomenologia, sembra oggi più vivo che mai. In questo contesto, la prospettiva promossa da Wiesing, umile nel richiamo alla protrettica e insieme ambiziosa nel suo universalismo fenomenologico, può allora, riportando intelligentemente al centro della riflessione filosofica l’auto-evidenza della percezione, aprire qualche nuova strada di indagine sull’uomo, vero e proprio animale percettivo.
La vulgata dice che Freud era maschilista: di questo fu accusato più o meno velatamente, anche nell’ambito della psicoanalisi, e questa accusa ancora oggi ha i suoi echi. Ma che cosa ha apportato Freud intorno alla questione del femminile? Potremmo dire che il lascito maggiore su questo tema è stato aver aperto delle interrogazioni su punti per lui oscuri, e di averle lasciate aperte. Non poco come insegnamento in un mondo dove non c’è più posto per il fallimento, per il dubbio, per la ricerca, ma solo per il risultato e la riuscita performativa. Aveva lasciato queste domande aperte chiedendo esplicitamente alle donne psicoanaliste di provare a trovare delle risposte, perché forse, essendo donne, avrebbero avuto maggiore facilità. Non sono state invece le donne psicoanaliste a far avanzare la faccenda, ma è stato uno psicoanalista francese, Jacques Lacan, colui che ha apportato del nuovo in questo campo.
Tutti sappiamo, dalla nostra stessa esperienza e da quello che ci circonda nel mondo, che l’assunzione dell’identità sessuale non corrisponde all'appartenenza anatomica a un sesso o a un altro. Dunque, Freud si domanda innanzi tutto come si introduce la differenza sessuale. E rileva che questa prende avvio primariamente a partire dall’immagine, dato che è a partire dall’immagine del corpo che un nuovo nato, fin da subito, è inscritto simbolicamente come maschio o femmina. Due corpi differenti, quello maschile e quello femminile, la cui differenza appunto, data da un pezzo di carne presente o assente a livello dell’immagine, si traspone immediatamente su un piano simbolico: maschio o femmina, ce l’ha o non ce l’ha, + o -. E per sottolineare la separazione di ciò di cui si tratta dalla realtà fattuale, cioè dal livello puramente organico, Freud gli ha dato il nome degli antichi misteri: il fallo.
La bambina, dice Freud, manca di qualcosa: manca del fallo. Sarà Lacan, introducendo le categorie di Simbolico, Immaginario e Reale, a permetterci di situare questa mancanza al livello che le è proprio. Infatti, una simile mancanza è tale a livello immaginario e simbolico, ma dato che il nostro mondo è essenzialmente un mondo organizzato dal simbolico, ovvero dal linguaggio, questa mancanza ha la sua incidenza, e la bambina dovrà, volente o nolente, farci i conti. Freud immaginava che la bambina potesse recuperare quella stessa mancanza attraverso un sostituto del fallo (il termine stesso di sostituzione ci dice che siamo in un campo simbolico), ovvero con il bambino che, un giorno, avrebbe potuto avere al posto del fallo. Ne deduceva così che la migliore via d'uscita per la sessualità, dal lato femminile, fosse la maternità. Ma alla fine della sua vita, si è accorto che questa soluzione, la soluzione della sostituzione fallica, non era sufficiente per spiegare completamente la questione del femminile, che per lui resterà “il continente nero”.
Dunque Freud scopre che a livello della rappresentazione simbolica non c’è che un solo simbolo: il fallo. Lacan ci dirà, utilizzando i termini della linguistica, che mentre c’è un significante per rappresentare l’uomo, non ce n’è analogamente uno per la donna. Se c’è l’universale maschile non c’è quello femminile. E non si tratta solo di rappresentazione, ma anche di godimento. La donna può trovare la propria rappresentazione attraverso il fallo, ma non tutta. La donna può godere del fallo (cioè di ciò che ha: il bambino, diceva Freud, ma in quel posto di sostituto si può trovare qualsiasi altro oggetto), ma non tutta. Non tutto del femminile è preso dal versante fallico.
Freud aveva presentito questo, e si domandava infatti: che cosa vuole una donna? Sarà con Lacan che la questione potrà avanzare: se non c’è un universale femminile, le donne si contano solo una per una. Se la donna non gode solo del fallo, c’è un godimento femminile che eccede, che non è dicibile proprio in quanto non rappresentabile e non universalizzabile. Questioni accademiche? Non tanto, se pensiamo alle difficoltà della relazione fra i sessi, che toccano tutti gli esseri parlanti ma che oggi, forse più che un tempo, sfociano nella violenza: violenza che mira ad annientare quella differenza, a rigettarla, di cui non si vuole sapere nulla.
Bibliografia:
S. Freud (1978). Alcune conseguenze psichiche della differenza anatomica fra i sessi. In Id., Opere. Vol. 10. Torino: Bollati Boringhieri.