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Il diario di Enzo Paci
Recensioni / Aprile 2021È arduo elaborare un quadro unitario ed esaustivo degli interrogativi con cui il punto di vista fenomenologico si è confrontato nella sua storia relativamente breve. Il rischio è quello di risultare riduttivi. Le interpretazioni della filosofia husserliana, infatti, si moltiplicano parallelamente alla comparsa di nuovi ambiti applicativi del metodo fenomenologico, spesso tra loro eterogenei: estetica, neuroscienze, filosofia della mente, gli studi sulla natura e sul vivente. La difficoltà del compito di fornire un quadro unitario delle sfide intraprese dalla fenomenologia sembra perciò derivare da un’esigenza più storica e filologica che teorica. Ciononostante, confronti ragionati tra i principi della fenomenologia e altre prospettive teoriche possono non solo allargare il campo di indagine, ma anche gettare nuova luce sui problemi centrali del pensiero di Husserl. È ciò di cui è particolarmente convinto Enzo Paci, uno degli esponenti più noti della fenomenologia italiana del novecento, nonché il principale artefice dell’introduzione delle opere di Husserl in Italia nel secondo dopoguerra. Pur aderendo con grande convinzione al metodo fenomenologico, Paci non ha mai smesso di tentare di avvicinarlo a questioni e prospettive apparentemente distanti quali il pragmatismo, la filosofia di Whitehead, l’antropologia e il materialismo dialettico, spesso attirandosi le critiche e i sospetti di buona parte del mondo accademico.
Parallelamente al suo programma teorico e ai progetti accademici, Paci conduce un ampio lavoro di divulgazione dei contenuti della filosofia e della scienza. Diversi sono i volumi che, secondo un intento propedeutico, spiegano il contesto storico e il significato ancora attuale di correnti di pensiero e scoperte scientifiche succedutesi dall’antichità all’età contemporanea. Con uno stile decisamente inconsueto e originale rispetto ai più classici saggi, il Diario fenomenologico si pone in questo filone. Pubblicato originariamente nel 1961 e fino ad oggi mai più ristampato, il Diario non riporta il semplice resoconto degli eventi vissuti da Paci tra il 1956 e il 1961, ma costituisce anche una ricca fonte di osservazioni utili alla comprensione della speculazione di Paci e della fenomenologia in generale. L’ampiezza dei contesti teorici a cui Paci fa riferimento, inoltre, fa sì che queste osservazioni convergano in un punta di vista complesso e del tutto originale sulla filosofia di Husserl.
A dispetto dell’odierno proliferare di prospettive a impianto fenomenologico, nell’Italia degli anni sessanta buona parte degli studi fenomenologici non è accolta con favore unanime. Se fraintesa come forma di idealismo o soggettivismo, la fenomenologia trascendentale può in effetti essere rimproverata per la scarsa attenzione riservata all’oggettività. Gli sforzi di Paci sono perciò volti in primo luogo a dimostrare l’intima unità delle diverse fasi del pensiero husserliano e a prevenirne le possibili interpretazioni idealiste. Nemmeno le proposte teoriche del fenomenologo italiano, tuttavia, godono di grande consenso. Con la pubblicazione, nel 1963, di Funzione delle scienze e significato dell’uomo, si apre una proficua e mai abbandonata linea di indagine volta a integrare le prospettive filosofiche di Husserl e di Marx. Sia da un punto di vista politico sia da uno filosofico, un simile progetto desta la perplessità di molti studiosi, tra cui quella di Norberto Bobbio, che per gli assunti del materialismo dialettico auspica una verifica scientifica, piuttosto che una fondazione filosofica – strumentale, peraltro, a una rinnovata interpretazione di Husserl.
In linea con i presupposti fondamentali del materialismo dialettico, in ogni caso, le riflessioni di Paci non si limitano alla mera speculazione teorica: al contrario, anche alla luce delle categorie husserliane, mirano a un effettivo cambiamento dei saperi e delle prassi storicamente costituite che stanno alla base dei rapporti sociali. Proprio nel Diario, in una nota del 10 settembre 1958, Paci scrive che il suo «tentativo è quello di influenzare la filosofia e la cultura italiane con la fenomenologia» (p. 75). Questa ambizione si traduce, in primo luogo, in un lavoro di rifondazione fenomenologica delle scienze, in particolare delle scienze umane. Il principio fondamentale di questa rifondazione stabilisce che l’uomo, in quanto soggetto intenzionale, non può essere considerato da alcuna scienza come mero oggetto, poiché misurazioni e analisi quantitative falserebbero il suo vero essere. Il modello delle scienze naturali, anzi, comporterebbe lo stesso effetto di oggettivazione e alienazione implicato dai modi di produzione capitalista. Andando oltre le sole considerazioni epistemologiche, la fenomenologia, nella trattazione di Paci, sembra quasi costituire un imperativo morale per le scienze umane: la psicologia, per esempio, viene riconosciuta come «scienza che ha una sua funzione intenzionale… per la costituzione di una società umana libera dallo sfruttamento» (Paci 1963, p. 313). Quando Paci formula simili considerazioni nel tentativo di tracciare le linee di una sociologia intenzionale, è Pietro Rossi a intervenire criticamente, osservando che considerare l’uomo secondo un approccio contrapposto a quello delle scienze naturali contravverrebbe al metodo analitico-formale husserliano.
Alla luce di tale giudizio, sembra ironico che la nuova ristampa del Diario fenomenologico, edita da Orthotes (https://www.orthotes.com/diario-fenomenologico/), sia dovuta proprio all’iniziativa di un sociologo. In effetti, nonostante certe proposte possano sembrare azzardate, dagli scritti di Paci si possono trarre considerazioni ben diverse da quelle dei suoi interlocutori diretti. Nella Postfazione, Massimo Cerulo mostra così che l’importanza che le note del Diario danno all’interazione sociale e al contesto storico nell’indagare l’individuo umano è in particolare consonanza con le teorie di noti sociologi come Alfred Schutz, Erving Goffman e Pierre Bourdieu. Sebbene il tono dei suoi scritti sia spesso ispirato, Paci medita a fondo problematiche e concetti provenienti da numerosi ambiti teorici, trovando legami e tratti in comune tra teorie solitamente considerate incompatibili. Psicologia, fisica, sociologia, biologia, antropologia: Paci esplora appassionatamente e considera analiticamente i maggiori risultati di tutte queste discipline al fine di spiegare l’uomo nella sua specificità e, al tempo stesso, nelle radici naturali della sua esistenza. La natura e il suo rapporto con l’uomo, in effetti, rappresentano due temi centrali per il pensiero più proprio di Paci, quel relazionismo che, alla luce delle riflessioni più mature, può a buon titolo essere inteso anche come fenomenologia relazionista. Il Diario fenomenologico condensa i nuclei fondamentali di questa complessa proposta filosofica che assume la relazione e il processo come categorie più fondamentali dell’essere, e testimonia del periodo in cui si compie la vera e propria svolta fenomenologica di Paci.
Nonostante l’esplicito rifiuto di ogni ontologia, le prime formulazioni del relazionismo paciano possono essere comprese come una peculiare posizione metafisica. In primo luogo, sono la natura e gli enti naturali di ogni sorta a essere costituiti secondo un principio relazionale e processuale. Ben presto, tuttavia, il concetto di relazione è sempre più spesso impiegato da Paci secondo una prospettiva gnoseologica. È infatti il punto di vista intenzionale della fenomenologia a costituire il miglior alleato nella critica al sostanzialismo, vale a dire l’erronea attribuzione di una realtà fissa e immutabile al mondo fisico e a quello spirituale. A quest’ultima tesi si oppone, appunto, il relazionismo, che propone un’immagine dell’uomo coerente con quella della natura, secondo cui ogni individuo, piuttosto che una sostanza, è essenzialmente un processo costitutivo, un farsi attraverso l’esperienza. Il soggetto non è quindi una posizione assoluta, ma è preso in una stretta relazione di interdipendenza con i propri vissuti. A supporto di tale rivisitazione della soggettività, Paci trova preziosi alleati nello Husserl inedito.
L’incontro con i manoscritti, più volte raccontato nel Diario, segna una fase importante nella speculazione di Paci: come in quelle pagine muta e si approfondisce il pensiero di Husserl, così, nel leggerle, in virtù di una «affinità profonda» (p. 96), muta lo sguardo di Paci sulla filosofia, sul mondo e sull’uomo. Più precisamente, i manoscritti dei gruppi C, D, E e K portano Paci a dare sempre più importanza agli aspetti precategoriali e genetici della vita intenzionale. Ogni conoscere si rivela come il risultato di un atto sintetico che è in prima battuta fondato su un’esperienza che anticipa la riflessione e che è già di per sé sintetica. La relazione come fondamento della conoscenza, quindi, porta Paci a riconoscere un particolare valore ai concetti husserliani riguardanti ciò che precede l’autocoscienza, tra cui la motivazione, la sintesi temporale e l’associazione. Le leggi delle sintesi passive e la fenomenologia genetica in generale approfondiscono il lavoro inaugurato da Husserl con le indagini sul tempo delle Zeitvorlesungen. Con rinnovata radicalità, come anche recentemente non si è mancato di evidenziare, le lezioni sulla sintesi passiva rimettono in questione la presenza del soggetto a sé e, più in generale, l’unità della coscienza. Paci affronta tali problematiche, proseguendo la riflessione sulle dinamiche dell’esperienza che precedono gli atti di coscienza alla luce delle analisi sulla temporalità e sulla natura relative al primo periodo relazionista degli anni cinquanta.
Le considerazioni sul tempo e sulla fenomenologia genetica, insieme all’interpretazione del materialismo, confluiscono nel più profondo nucleo teorico del relazionismo, ovvero quel naturalismo non riduzionista che, attraverso la fenomenologia e, in particolare, il concetto di Lebenswelt, vuole rivelare la coscienza trascendentale nel suo «fondo naturale» (p. 63), cioè come natura vivente e non reificabile. Questo peculiare naturalismo, in buona parte influenzato dal pragmatismo di Dewey e James, oltre che dall’organicismo di Whitehead, si declina in una sorta di prospettiva non egologica per cui «il cogito, alla fine, è l’operazione, la Leistung del cogitare» (p. 69). Porre al centro della speculazione di Paci lo statuto della coscienza, perciò, consente di mettere le riflessioni sul materialismo dialettico in una prospettiva eminentemente teoretica, a dispetto dei rischi di sconfinamento in questioni extra-filosofiche contro cui mette in guardia buona parte dei commentatori. Molte considerazioni che Paci fa a partire dagli studi sul materialismo possono apparire ingenue o superflue, ma non minano la complessità e la coerenza della sua riflessione.
Durante il soggiorno di studio a Lovanio, Paci si dimostra pienamente consapevole dell’originalità della propria interpretazione di Husserl: «Normale incomprensione degli studiosi per la praxis in Husserl. Il conoscere stesso è praxisin quanto costituito di operazioni, di Leistungen che nel loro operare tendono al significato, alla verità» (p. 95). Di qui, si comprende non solo il senso dell’avvicinamento ai temi marxiani, ma anche il significato più generale che Paci attribuisce alla filosofia di Husserl. Come osserva Pier Aldo Rovatti nella Prefazione, l’intento fondamentale del Diario è dare prova della «concretezza dell’esercizio filosofico» (p. 8) come tratto essenziale della fenomenologia. Allo stesso tempo, tuttavia, il testo fornisce una presentazione della vera stoffa di cui è fatto l’io fenomenologizzante. I luoghi, gli incontri e gli eventi che Paci vive innescano complesse meditazioni che portano a riconoscere la natura del soggetto stesso come un intreccio di relazioni.
In ultima analisi, il Diario fenomenologico è l’illustrazione più fedele della fenomenologia come gesto, come costante «invito alla descrizione» (p. 82) di ciò che si presenta all’esperienza. L’intima relazione tra fenomenologia e vita si spiega così nell’immer wieder, il motto husserliano tanto caro a Paci. Sintesi per essenza incompiuta di biografia e riflessione teorica, il Diario contrasta ogni forma di essenzialismo, collocando l’uomo e la filosofia in un orizzonte teleologico aperto, in un processo di «scoperta e riscoperta continua che si pone tra l’oscurità dell’infinito del non percepire e la luce dell’infinito del vero» (p. 64).
di Federico Tosca
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Bibliografia
E. Paci, Funzione delle scienze e significato dell’uomo, Il Saggiatore, Milano 1963.
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Jean Wahl in levitazione
Recensioni / Giugno 2020Jean Wahl, Verso il concreto. Studi di filosofia contemporanea. William James, Whitehead, Gabriel Marcel (Mimesis, Canone Minore, 2020)
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Di Jean Wahl un poeta notava lo spirito mobile e trasparente, la «disinvoltura che era levitazione» (269). Come il levitatore non è colui che si stacca da terra, ma la parte più prona alle mescolanze di un mondo che si accresce, così Wahl è filosofo leggero per la durezza materica del suo sguardo. L’edizione italiana di Verso il concreto. Studi di filosofia contemporanea. William James, Whitehead, Gabriel Marcel, uscito per Mimesis a cura di Giulio Piatti e con una postfazione di Barbara Wahl, è opera di un pensatore ironico e poetico, impegnato nell’ascesi dell’incontro totale con ciò che si propone di pensare. Contro una storia della filosofia come galleria di statue e apologia della grande figura, Verso il concreto è innanzitutto un accostamento tra incontri felici, animato dall’entusiasmo paratattico che prolunga il vivum di altri pensieri. È un libro che contiene altri spiriti, intuiti nel loro splendore fenomenico, e che rivela appieno lo stile filosofico di Jean Wahl, la sua maniera di pensare. Wahl scrive da filosofo di altri filosofi, con una virtù che sarebbe riduttivo definire eclettica. La ricca introduzione del curatore illustra perfettamente in che misura questo libro è un capitolo fondamentale e appassionante della filosofia francese del ‘900, su cui Wahl aveva già iniziato ad esercitare un’influenza profonda con la fortunata opera sui pluralisti americani e inglesi del 1920.
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Étienne Souriau scriveva che quando i filosofi si esprimono sull’uno o sul molteplice, desiderano o l’uno o l’altro. In questa osservazione c’è di più del semplice rilevamento di un moto d’interesse dietro a istanze eterne del pensiero: l’alternativa tra pluralismo e monismo è innervata un investimento magico, un ideal-realismo che scaturisce dalla visione dell’accordo del continuo con il discontinuo. È l’«esperienza» in senso più proprio, l’alliance paradoxale di cui Wahl parlerà, trent’anni più tardi, ne L’expérience métaphysique. James, Whitehead e Marcel sono filosofi speculativi e sperimentatori, quando pensano un mondo fatto di blocchi di durata, di volumi, di eventi, di relazioni primitive, di processi di discretizzazione per confluenza e concrescenza: pluralisti in nome dell’eterogeneità del reale, monisti in nome della sua unità in divenire. A quest’altezza ha luogo, in maniera diversa in ognuno di questi autori, il «suicidio della dialettica» (51), la dialettica hegeliana che nasce proprio squalificando il concreto dell’esperienza, piegandolo a una certa idea di speculazione. Speculativo, sembra dirci Wahl, può esserlo soltanto un realismo; e se non si vuole abbandonare la dialettica sarà più per amore dell’oggetto reale che per sentimento della sua insufficienza.
In William James, primo protagonista di Verso il concreto, una filosofia dell’Abenteuer risponde al temperamento «motore» del filosofo (143), che ricerca la grana della realtà solida, l’universale fattivo. È il ritratto di un James mercuriale, che propugna un pluralismo in costante tensione con un monismo mistico, per cui il mondo si accresce per estasi delle parti. Nel sapiente studio del suo epistolario, Wahl rintraccia quella reciproca evocazione tra vita e filosofia che ha determinato la grandezza di uno dei padri del pragmatismo. Il secondo protagonista del libro, Alfred North Whitehead, è invece rappresentato come un pensatore dell’universo vivente, autore di una grande metafisica della natura. Come un nuovo romantico, Whitehead vede nel reale un humus di percettività cieca, di intenzionalità pure che germinano e concrescono: la realtà crea incessantemente sentendo sé stessa, e il soggetto non vi si riconosce che come una sopravvenienza. Da qui l’attenzione a ciò che nel soggetto è legame con la natura creante, percezione e sentimento. Come il pensiero di James è incontrato nella rappresentazione della sua vita e la filosofia di Whitehead nell’interpretazione complessiva dei suoi scritti, Gabriel Marcel, infine, è studiato con intima confidenza, attraverso il suo diario filosofico (il Journal métaphysique), quasi come in sua compagnia. Wahl, che è stato amico di Marcel, ritrova come principio ermeneutico quella partecipazione emotiva che lo stesso Marcel mette al centro del proprio pensiero – l’amicizia come forma di conoscenza completa.
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Poco meno di cento anni dopo la sua uscita possiamo cominciarne a cogliere la rilevanza di Verso il concreto. Qui Wahl contribuisce ad aprire una traccia che attraversa – più o meno allo scoperto – il Novecento francese e raggiunge il realismo speculativo contemporaneo. Il topos che Wahl utilizza per forzare lo hegelismo è lo stesso dell’Agamben de Il linguaggio e la morte e del Lyotard di Discorso, figura (ma anche, in senso più ampio, del Deleuze di Differenza e ripetizione): il tentativo di dire il “questo”, che all’inizio della Fenomenologia dello Spirito vanifica il sapere sensibile, viene recuperato come vero compito della filosofia, verso un’altra concezione dell’assoluto. La rivalutazione dell’esperienza in sé conduce proprio là dove Hegel non era voluto andare, ad una mistica e a una poetica, senza mai lasciare la filosofia. D’altronde, «era forse il destino del pensiero hegeliano quello di negarsi» (227). Tutto ciò che una certa tradizione speculativa ha cercato di fare nel corso del secolo passato è questa critica alla significazione, alla causalità meccanica, alla priorità della conoscenza soggettiva in nome di un pensiero più concreto, che sia monista e pluralista insieme, in quanto «negazione di un mondo già fatto» (136).
Dietro al dire c’è dunque sempre un conatus d’instaurazione, che nell’uomo è esperienza pura, e che sfonda il cerchio della dialettica, per renderla incessante e senza concetto. Bergson, Renouvier, Samuel Alexander e tutte le figure che si avvicendano accanto ai tre filosofi raffigurati da Wahl confluiscono in un mosaico ancora in formazione che andrà a costituire il nerbo della grande avventura continentale del ‘900. Dietro a questo passaggio fondamentale, la penna ariosa di Wahl, quasi a divinarne il corso – in levità.
di Gregorio Tenti
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Maurilio Orbecchi-Biologia dell’anima
Recensioni / Febbraio 2016La psicologia è ibrida. O tale dovrebbe essere. Da sempre il suo status è meticcio, frutto di una sintesi che miscela elementi filosofici, religiosi, scientifici e occultistici. La deriva presa dal suo insegnamento e dalla relativa pratica terapeutica nel corso del Novecento ne ha però messo in crisi alcuni aspetti basilari: primo fra tutti la commistione col sapere scientifico finalizzata a custodire un insieme di conoscenze che, però, il passare degli anni ha reso sempre più datato. Sembra infatti essersi verificato un progressivo isolamento, che ha reso il sancta sanctorum della psicologia, lo studio terapeutico, un luogo refrattario alle influenze esterne, impermeabile alle contaminazioni disciplinari e, soprattutto, poco avvezzo ad aprirsi alla scienza che, nella Vienna di fin de siècle, aveva non poco influenzato i primi studi dei maestri Freud e Jung. Con il libro Biologia dell’anima (Bollati Boringhieri, 2015), Maurilio Orbecchi si propone di restituire alla psicologia il suo tratto distintivo, la tendenza alla fusione dei saperi, auspicando che tale disciplina si apra a nuovi campi d’indagine di matrice scientifica. Per farlo, l’autore si affida a un riposizionamento concettuale proprio del postumano: riconsiderare l’animalità dell’uomo e abolire ogni pretesa di eccezionalità umana, obsoleto retaggio di secoli di umanesimo. Da dove ripartire dunque, se non da Darwin? La teoria dell’evoluzione – sia nella forma originale ottocentesca sia in quella che il Novecento ha prodotto con la sintesi moderna, conosciuta come neodarwinismo – diventa quindi la bilancia critica dell’opera di Orbecchi, grazie alla quale è possibile tarare la presunta scientificità delle principali scuole psicologiche e al tempo stesso costruire un’architettura di matrice biologica sulla quale innestare altri saperi. L’edificio ottenuto dovrebbe, dopo questa fondamentale operazione di riassestamento e aggiornamento, azzerare gli ultimi ma ancora piuttosto vivi afflati di matrice dualistica presenti nel pensiero e nella terapia odierni.
Non c’è traccia di naturalismo nel procedere critico del saggio: l’autore, non appellandosi esclusivamente alla genetica, evita lo spauracchio del determinismo proprio di alcune scuole di pensiero post-darwiniane (dall’ultradarwinismo di Dawkins alla sociobiologia di Wilson), e propone una definizione di Homo sapiens come «insieme complesso di sistemi psicobiologici egoisti e altruisti sulla cui espressione influisce largamente l’ambiente di sviluppo» (p. 161). Appare chiaro che, in tale cornice, non possono trovare posto il determinismo psichico freudiano e il finalismo junghiano, così come tutti quegli aspetti teorici invalidati da una scorretta lettura della teoria evolutiva, apertamente lamarckiani oppure ampiamente superati dal punto di vista scientifico – come il ricorso alla legge biogenetica di Haeckel, il cui principio (l’ontogenesi riepiloga la filogenesi) non è più considerato valido al giorno d’oggi. In aggiunta ai riferimenti continui a studi contemporanei nel campo delle neuroscienze cognitive e affettive, Orbecchi ricorre alle ricerche effettuate da numerosi etologi, come Frans de Waal, nel campo della psicologia animale e di quella comparata. Alla luce delle recenti scoperte scientifiche relative a questo settore, appare chiaro che la divisione del vivente operata da Freud in esseri umani (animati da pulsioni, Triebe) e animali (schiavi dell’istinto, Instinkt) è quanto mai scorretta e approssimativa. Nonostante ciò, ancora oggi, nelle parole di psicanalisti come Massimo Recalcati riecheggiano superati ritornelli antropocentrici: «Il corpo animale appare governato integralmente e infallibilmente dalle meccaniche naturali dell’istinto; è un corpo totalmente asservito alle esigenze della riproduzione della specie e determinato dalla necessità della propria autoconservazione» (2012, pp. 126-127). Le specie non umane – dalla medusa al gorilla – sono raggruppate in una categoria indistinta, l’Animale, i cui tratti distintivi sono un’infallibile meccanicità di cartesiana memoria e un principio causale che fa invidia ai deterministi più ortodossi. Non c’è spazio alcuno per ciò che sta oltre l’umano, per ciò che gli scienziati osservano ogni anno in numerose specie, dal delfino ai grandi felini, passando per il bonobo (Pan paniscus), specie che sta al centro delle grandi ricerche sulle scimmie antropomorfe odierne, la cui complessa vita sessuale presenta omologie con quella umana tali per cui parlare di “binari istintuali” appare quantomeno riduttivo. Risulta dunque evidente quanto ancora non sia stata assimilata né compresa un’importante lezione darwiniana: le differenze che separano l’uomo dagli animali non umani, siano esse evolutive, strutturali o cognitive, non sono di qualità ma di grado.
La principale accusa mossa agli impianti teorici costruiti da Freud e da Jung (e successivamente ampliati da numerosi epigoni) consiste nell’identificare tutti gli aspetti che promuovono una “psicologia culturalista” all’interno della quale l’uomo, forte delle sue doti eccezionali di natura esclusivamente culturale, si trova a essere fulcro del mondo, entità priva di connessioni con l’Altro non umano e mancante di strutture psicobiologiche condivise con altri mammiferi. Orbecchi smonta pezzo dopo pezzo i fondamenti della psicologia freudiana e junghiana – dall’inconscio alla sincronicità, passando per la sublimazione e il transfert – al fine di rileggerne alcuni da un punto di vista per così dire moderno, interdisciplinare ed evolutivo, e di proporre una psicoterapia libera da scuole dogmatiche, votata all’accrescimento della consapevolezza evoluzionistica in ogni sua corrente, orientata dal racconto e fondata sul buon rapporto (il rapport di Pierre Janet) fra analista e paziente. Obiettivo ultimo è dunque demolire il “muro di Vienna”, restituendo al tempo stesso importanza ad alcuni precursori ormai sprofondati nell’oblio, come William James e Pierre Janet, i cui studi sono forti di intuizioni e teorie ben più valide, in particolare per quanto concerne la scientificità, rispetto a quelle proposte dai mostri sacri del sapere psicologico definiti, in un affondo provocatorio dell’autore, “morti viventi”. Biologia dell’anima non è un pamphlet scientista il cui intento consiste nel distruggere un secolo di sapere, bensì un lavoro che sostiene la creazione di una psicologia multilivello e che pone alla base di tale operazione contaminante il contributo della biologia, non tanto perché senza biologia non si possa comprendere alcunché, ma perché, come scrive Roberto Marchesini in Post-human: «L’uomo non può essere compreso al di fuori del contesto biologico, non perché le leggi della biologia possano da sole spiegare la sua natura, ma perché è proprio la natura biologica a rendere la sua ontogenesi ricorsiva – anche in quella mirabile costruzione che è la cultura – ovvero inspiegabile assumendo un solo punto di vista» (2002, p. 52).
Bibliografia
Marchesini, R. (2002). Post-human. Verso nuovi modelli di esistenza. Torino: Bollati Boringhieri
Recalcati, M. (2012). Ritratti del desiderio. Milano: Raffaello Cortina Editore
di Danilo Zagaria