L’opposizione tra le filosofie della sostanza e quelle del processo si può far risalire ai tempi di Parmenide ed Eraclito. Mentre tra le prime sono comunemente annoverate quelle filosofie che si basano sui concetti di sostanza ed essere, le seconde partono dal riconoscimento del divenire come fondamentale. Sono state considerate processuali delle filosofie molto eterogenee tra loro, quali quelle di Leibniz, Schelling, Hegel e Nietzsche. Tuttavia, è solo dall’inizio del secolo scorso, tra Inghilterra, Francia e Stati Uniti, che si può cominciare più propriamente a parlare di “pensiero processuale” (Process Thought), in riferimento specialmente alla filosofia di Alfred North Whitehead, nonché a quella di pensatori a lui coevi quali Henri Bergson e William James e anche di Charles Sanders Peirce, John Dewey, Samuel Alexander e C. Lloyd Morgan. Al cuore di questa concezione vi è la centralità della temporalità e delle relazioni, intese come elementi primi e imprescindibili per comprendere tanto le strutture della realtà quanto quelle del pensiero, su un piano sia ontologico che epistemologico. Il pensiero processuale cerca infatti di cogliere e descrivere i fenomeni nella loro intrinseca temporalità e relazionalità, superando e abbandonando le dicotomie concettuali che, come quelle di soggetto-oggetto e sostanza-qualità, hanno segnato la storia della metafisica.
Benché resti una linea minoritaria nella storia della filosofia antica e moderna (si veda Ronchi 2017), nel corso del Novecento l’approccio processuale ha esercitato una significativa influenza (più o meno diretta) su diversi autori, da Maurice Merleau-Ponty a Gilbert Simondon, da Gilles Deleuze a Isabelle Stengers e Bruno Latour, ma non solo. È nel nesso con altri campi del sapere che il pensiero processuale ha mostrato la sua peculiare fecondità: si consideri su tutti il caso della biologia, in particolare le ricerche di Joseph Needham, Joseph Woodger e Conrad Waddington (e poi, in filosofia della biologia, Nicholson e Dupré 2018). La filosofia del processo non si esaurisce però nel porre le basi per una nuova “filosofia della natura”. Al centro dell’interesse rinnovato verso la filosofia processuale vi è primariamente la ricerca di categorie e strumenti concettuali che permettano di comprendere nella loro irriducibile complessità fenomeni vecchi e nuovi, in relazione tanto alle scienze umane quanto a quelle naturali: oltre alla filosofia dell’ecologia (Latour 2020, Stengers 2021), si pensi alla filosofia della fisica (Epperson 2004, McHenry 2015), alla filosofia della tecnologia (Hui 2019, Coeckelbergh 2021), alla filosofia dell’educazione (Petrov 2020), ma anche alla psicologia (Stenner 2018) e non solo.
La sfida di questo numero di Philosophy Kitchen è quella di chiarire quali sono i capisaldi dell’approccio processuale, ossia di mettere in luce i punti di forza teoretici di questa impostazione, che risulta oggigiorno così promettente. Sviluppare gli strumenti concettuali, logici, epistemologici e ontologici per pensare il processo è un compito urgente, se si vuole evitare che la dicitura “filosofia del processo” si riduca a un vacuo ritornello indicante una generica e sommaria opposizione alla presunta staticità della metafisica tradizionale.
Come indicato dal sottotitolo, le vie suggerite per giungere a un tale chiarimento sono tre. La prima via (“Storia”) si incentra su un’analisi teorica delle proposte già avanzate da alcuni pensatori del secolo scorso (e non solo). Ad esempio, la possibilità di spingere il pensiero al di là della forma soggetto-predicato e della correlata metafisica della sostanza caratterizza molte delle filosofie sopra menzionate, si veda a tal proposito la logica dei relativi di Peirce (Brioschi 2023). La seconda (“Categorie”) si concentra sull’elaborazione di una logica, epistemologia e teoria delle categorie propriamente processuale, mettendola a confronto con altri indirizzi e orientamenti filosofici. Infine, la terza (“Applicazioni”) mostra la forza di un approccio processuale in atto considerandolo in riferimento a singoli case studies o temi specifici.
I contributi possono essere rivolti alle seguenti questioni, nonché ad altre affini:
- Come collocare dal punto di vista della storia della filosofia i vari tentativi di cogliere la realtà come processo, anziché come sostanza o insieme di sostanze? Quali pensatori o correnti di pensiero non possono essere trascurati a questo fine? Quale il loro apporto teorico specifico?
- Spesso la filosofia del processo è presentata come una filosofia dell’esperienza: come si può definire la sua peculiarità, a confronto con altre tradizioni?
- È possibile comprendere il processo? Se sì, quali sono le “categorie” che meglio permettono di concettualizzarlo? Quale rapporto istituire tra il processo e quegli aspetti dell’esperienza che, almeno apparentemente, si sottraggono ad esso (come le leggi di natura)?
- Quali strumenti formali (ad esempio, la logica delle relazioni) possono sostenere una filosofia di tipo processuale? Quale rapporto intrattengono con il pensiero speculativo?
- Quali sono le possibili applicazioni del processo, da un punto di vista sia epistemologico che ontologico, nei vari ambiti del sapere: dalla biologia all’economia, dalla tecnologia all’educazione?
- Uno dei temi caratteristici della filosofia del processo è quello della creatività. A fronte degli avanzamenti delle ricerche interdisciplinari sul tema, qual è il contributo che un approccio di tipo processuale può avere oggi?
A partire dalle domande sollevate, ecco un elenco non esaustivo dei temi che invitiamo a considerare nelle proposte:
- la filosofia del processo come alternativa a quella della sostanza nella tradizione del pensiero occidentale (e non solo): autori e peculiarità
- i concetti propri della filosofia del processo: categorie e paradigmi
- filosofia del processo e filosofia analitica: quali punti di intersezione?
- relazione possibile tra la filosofia del processo e la centralità della temporalità quale orizzonte ultimo della costituzione tanto delle oggettualità quanto del soggetto conoscente in seno alla tradizione fenomenologica, con particolare riferimento a Husserl e Merleau-Ponty
- approcci formali e logiche del processo
- logica e metafisica delle relazioni
- l’evento come categoria processuale
- creatività e novità
- orientamenti processuali in filosofia della scienza (fisica, biologia, matematica, medicina)
- il pensiero processuale in letteratura e arte, psicologia ed educazione
- il tema del processo in architettura (teorie del progetto, sociologia e teoria dell’architettura, ecc.)
- applicazioni della filosofia processuale (case studies)
Bibliografia:
Brioschi, M.R. (2020). Creativity between Experience and Cosmos: C.S. Peirce and A.N. Whitehead on Novelty. Freiburg/München: Verlag Karl Alber.
Brioschi, M.R. (2023). “The Dismissal of ‘Substance’ and ‘Being’ in Peirce’s Regenerated Logic”, Logic and Logical Philosophy 32, pp. 217-242.
Coeckelbergh, M. (2021). “Time Machines: Artificial Intelligence, Process, and Narrative”, Philosophy & Technology 34, pp. 1623–28.
Epperson, M. (2004). Quantum Mechanics and The Philosophy of Alfred North Whitehead. Fordham: Fordham University Press.
Frigerio, C. (2023). Ricomporre un cosmo in frammenti: Il dibattito sulle relazioni interne ed esterne. Milano: Mimesis.
Hui, Y. (2019). Recursivity and Contingency. London & New York: Rowman & Littlefield.
Latour, B. (2020). La sfida di Gaia: il nuovo regime climatico. Tr. D. Caristina, Milano: Meltemi.
McHenry, L. (2015). The Event Universe: the Revisionary Metaphysics of Alfred North Whitehead. Edinburgh: Edinburgh University Press.
Nicholson, D. & Dupré, J. (2018). Everything Flows: Towards a Processual Philosophy of Biology. Oxford: Oxford University Press.
Petrov, V. (2020). Elements Of Contemporary Process Philosophical Theory of Education and Learning. Louvain-la-Neuve: Les Editions Chromatika.
Rescher, N. (2000). Process Philosophy: A Survey of Basic Issues. Pittsburgh: University of Pittsburgh Press.
Ronchi, R. Il canone minore: verso una filosofia della natura. Milano: Feltrinelli.
Stengers, I. (2021). Nel tempo delle catastrofi: resistere alla barbarie a venire. Tr. N. Manghi, Torino: Rosenberg & Sellier.
Stenner, P. (2018). Liminality and Experience: a Transdisciplinary Approach to the Psychosocial. London: Palgrave Macmillan.
Vanzago, L. (2021). Concrescence and Transition. Whitehead and the process of subjectivation. Milano: Mimesis International.
Whitehead, A.N. (1929). Process and Reality. Corrected Edition. a cura di D.R. Griffin and D.W. Sherburne. New York: Free Press, 1978. Whitehead, A.N. (1938). Modes of Thought. New York: Free Press, 1968.
Procedura:
Per partecipare alla call, inviare all'indirizzo redazione@philosophykitchen.com e a quello dei curatori in cc. mariaregina.brioschi@unimi.it e christian.frigerio1@unimi.it entro il 28 febbraio 2025, un abstract di massimo 4.000 caratteri, indicando il titolo della proposta, illustrando la strutturazione del contributo e i suoi contributi significativi, e inserendo una bibliografia nonché una breve biografia dell’autore o dell’autrice.
L'abstract dovrà essere redatto secondo i criteri scaricabili qui [Template Abstract], pena esclusione.
Le proposte verranno valutate dai curatori e dalla redazione. I contributi selezionati, che saranno sottoposti a double-blind peer review.
Lingue accettate: italiano, inglese.
Calendario:
- 28 febbraio 2025: invio abstract
- 31 marzo 2025: notifica accettazione/rifiuto della proposta
- 30 settembre 2025: invio dell'articolo
- 31 gennaio 2026: comunicazione degli esiti della double-blind peer review
La filosofia sociale del pragmatismo di Matteo Santarelli (Clueb 2021) offre uno spaccato sui temi e problemi della filosofia sociale partendo da una impostazione pragmatista; il perno teorico attorno a cui ruota l’argomentazione del testo si identifica nella critica alle dicotomie. Come specifica l’autore, il problema non sta nelle dicotomie in sé ma sorge quando due termini opposti si irrigidiscono fino a cristallizzarsi e ad acquisire lo statuto di sostanze contrapposte. La struttura del testo si articola in sei nodi dicotomici (fatti/valori, concetti e non-concetti, individuale e sociale, ragione e sentimento, abiti e intelligenza, conflitto e integrazione) che, attraverso le prospettive di filosofe e filosofi pragmatiste/i, vengono via via discussi, sciolti e riarticolati.
Innanzitutto, vorrei soffermarmi un poco sulla seconda parte del titolo, che recita appunto Un’introduzione. Solitamente un’introduzione non è né più né meno di un accenno ad alcuni autori che hanno discusso una tematica specifica. Più che di un’introduzione, credo che questo testo si ponga il compito di un vero e proprio inizio, e questo per due motivi. Il primo motivo è di natura storica e riguarda la relativa giovinezza della filosofia sociale all’interno del più generale sapere filosofico. Il secondo motivo concerne invece una questione teoretica: mentre un’introduzione tende spesso a voler risultare neutra per offrire un resoconto in terza persona di un determinato argomento, qui ci sono invece dei presupposti a partire da cui si domanda: “C’è una filosofia sociale? E più nello specifico, si può parlare di una filosofia sociale del pragmatismo?”. E ovviamente la domanda solca già il terreno della risposta: ‹‹la filosofia sociale pragmatista è una filosofia sperimentale e valutativa, che intende proporre una specifica ontologia sociale›› (p. 19).
Il capitolo introduttivo espone i nuclei teorici che intonano – pur nella varietà delle dissonanze – il coro di voci della filosofia pragmatista. In primo luogo l’idea che il processo scientifico sia orientato in senso fallibilista e che dunque ogni nostra teoria o credenza sia infinitamente correggibile e rivedibile. In secondo luogo la formulazione della massima pragmatica, secondo cui il significato di un concetto risiede nei possibili effetti pratici, nelle pratiche concepibili e nella condotta in futuro. Dicevamo un coro di voci, vicine e lontane. Lontane sono infatti le voci che provengono da quel primo mormorio originatosi attorno al Metaphysical Club – così benraccontato da Louis Menand – di cui facevano parte Chauncey Wright (corifeo del Club e collaboratore di Darwin), Charles Sanders Peirce, William James e altri; c’è poi un coro di voci vicine, che, facendo tesoro dei principi elaborati in quelle prime occasioni, si incarna nelle figure di Jane Addams, Mary Parker Follett, William Du Bois – filosofe e filosofi che godono ancora di scarso interesse in Italia e che hanno sviluppato queste tematiche in chiave sociale –, ma anche di George H. Mead e John Dewey (a cui Santerelli dedica un cospicuo numero di pagine), sino ad arrivare alle soglie della contemporaneità con Hilary Putnam e Richard Rorty.
Soffermarsi nel dettaglio su ognuno dei sei capitoli sarebbe un’operazione che richiederebbe ben più dello spazio concesso a
una recensione. Per questo motivo ho deciso di attraversare più agilmente alcuni capitoli, dando più attenzione ad altri. Occorre tenere a mente che i singoli capitoli non trattano uno specifico autore ma che in ognuno di essi risuona la voce di filosofe e filosofi, rendendo complesso e articolato il ventaglio di variazioni sul tema scelto.
Nel primo capitolo, Fatti/valori, si assiste all’elaborazione di un dibattito che comincia con Humee che si alimenta attraverso la riflessione di Dewey, Mead, e Putnam (solo per fare alcuni nomi). Il capitolo inizia sottoponendo al lettore un avvenimento che accade nelle vite di tutti noi: ‹‹Capita a volte di trovarci di fronte a una situazione in cui non è così facile separare nettamente fatti e valori›› (p. 26). Si parte proprio da qui, e cioè da un’attenzione radicale al piano dell’esperienza, per elaborare una vicenda che non coinvolge solo l’esperienza dei singoli nel rapportarsi a valori, valutazioni e desideri, perché anche il procedere della scienza, come fa emergere Santarelli, con le sue pratiche strumentali sedimentate nel corso di una storia, mostra di essere intessuta di valori che le consentono di seguire determinati percorsi e di effettuare scelte specifiche. Come emerge attraverso la lettura della Teoria della valutazione di Dewey e di Come nascono i valori di Joas, Santarelli chiarisce come i valori non vadano intesi né come mere esperienze soggettive né come entità assolute slegate dal controllo razionale – per questo non possono coincidere con le norme – ma vadano situati all’interno di un processo relazionale che si articola a partire dall’interazione con gli altri, con l’ambiente di cui siamo parte e con la specificità della situazione in cui di volta in volta ci troviamo.
Chicago Philosophy Club, 1896. In piedi: Cora A. Allen, Hermann Charles Henderson, Faith Benita Clark, Louis Grant Whitehead, George Herbert Mead, John Dewey, Amy Eliza Tanner, Kiichi Tanaka, Addison Webster Moore, Jacob Dorsey Forrest. Seduti: unknown, Edward Scribner Ames, Albertina A. Forrest, Simon Fraser MacLennan, James R. Angell, Ella May Flagg, Helen Thompson Wooley. University of Chicago Library, Special Collections (Wikicommons)
Il secondo capitolo, Concetti e non-concetti, ha come protagonista William James e credo sia la chiave di volta di questo testo. Vorrei dire così almeno per due ragioni. La prima è che qui Santarelli prende sul serio alcuni interrogativi che espandono l’orizzonte riguardo a come debba essere intesa la filosofia sociale in un senso ampio. La seconda è che viene introdotto un concetto, quello di articolazione, che si rivelerà essere uno strumento teoretico fondamentale lungo tutto il percorso del testo. A partire da Some Problems of Philosophy di James, l’autore si chiede quale sia lo spessore e lo statuto dell’attività concettuale e offre due possibili paradigmi con cui interpretare la pratica concettuale. Il paradigma della traduzione ritiene che l’attività concettuale sia slegata dall’esperienza e che ne tradisca, traducendola, la continuità. Accanto a questo vi è poi il paradigma dell’articolazione, secondo cui ‹‹i concetti possono aiutarci ad articolare alcuni aspetti ancora parzialmente indeterminati dell’esperienza e del reale›› (p. 62). Il contenuto dei concetti presenta dunque degli elementi vaghi che ci permettono di articolare, in determinate situazioni, alcune possibilità ancora involute dell’esperienza: ‹‹La teoria pragmatista muove dunque da un atto di onestà politica ed epistemologica: il riconoscimento di un livello ineliminabile di vaghezza, e quindi del carattere contingente dei nostri tentativi di articolazione›› (p. 66). Lungi dall’essere elementi disturbanti e sfavorevoli, l’incompletezza, l’indeterminatezza e la contingenza sono il marchio del nostro essere già da sempre presi in una situazione. La prospettiva pragmatista offre un quadro teorico nel quale, da un lato, si contesta la sacralizzazione dei concetti mentre dall’altro si promuove l’aspetto creativo della pratica concettuale, senza che venga intesa come creazione dal nulla, ma piuttosto come sviluppo e articolazione a partire dall’esperienza stessa.
Con il terzo capitolo, Individuale e sociale, si ritorna sul piano più strettamente sociale con la teoria del Sé di George Herbert Mead. Come nei capitoli precedenti, anche qui si assiste allo sfibrarsi progressivo di una dicotomia: quella tra individuo e comunità. Dire questo non significa né attribuire maggiore importanza alla condotta sociale e condivisa (come invece facevano i comportamentisti) né focalizzarsi esclusivamente sull’esperienza soggettiva e introspettiva. Individuale e sociale sono due fasi dell’esperienza che si costituiscono assieme: non ci sono Sé già formati che solo in un secondo momento entrano in relazione condividendo gesti e pratiche comunitarie. Al contrario, ‹‹il Sé non è qualcosa di dato, ma è qualcosa che emerge e che ci costituisce›› (p. 87) attraverso un processo di interiorizzazione che articola, mediante e all’interno di pratiche sociali, una sfera biologica ancora parzialmente indeterminata.
Ragione e sentimento è il titolo del quarto capitolo che mette a tema la questione delle emozioni e dell’affettività. Ma di che cosa parliamo quando parliamo di emozioni? James, Dewey e Mead, pur con diverse sfumature, offrono degli strumenti per chiarire innanzitutto che le emozioni sono un fatto corporeo (non sono l’effetto di uno stato mentale), hanno una struttura triadica (affect, attitudine, oggetto), sono relazionali, intersoggettive e situate. Dopo aver discusso le posizioni dei tre autori, Santarelli si sofferma sul concetto di interesse, come luogo teorico in cui le emozioni giocano un ruolo fondamentale. Gli interessi non sono un tentativo di dare ordine al caos delle passioni quanto piuttosto un modo di incanalarle e organizzarle. In Dewey ‹‹l’interesse integra noi stessi e il nostro ambiente, e allo stesso tempo integra mezzi e fini›› (p. 126): l’interesse è quello strumento che dà forma alla nostra vita pulsionale e che si articola in una pratica. In questo senso, ogni interesse è nello stesso tempo soggettivo e oggettivo. Anche qui la teoria pragmatista ci consente di tenere assieme la situazione particolare in cui di volta in volta ci troviamo e la tonalità emotiva che ci connota, senza che questi aspetti vengano ridotti a un soggettivismo atrofizzato; il valore della contingenza si misura nell’essere-proprio-qui, ed è solo a partire da questa indeterminata determinatezza che diventa possibile articolare la sfera cognitiva, il processo dell’indagine e della ricerca e insieme un’etica della condotta.
Graduation portrait of W.E.B. Du Bois, a member of Harvard College Class of 1890. Photos by Kris Snibbe/Harvard Staff Photographer; courtesy Harvard University Archives
Uno studio sulla filosofia sociale del pragmatismo non poteva certo lasciare fuori dalla sua trattazione il concetto di habit, concetto cardine nel pragmatismo e che negli ultimi tempi è diventato un crocevia tra scienze cognitive, filosofia della mente, semiotica, filosofia politica e sociale. Il quinto capitolo, Abiti e intelligenza, mostra come per i pragmatisti, ‹‹mettere gli abiti al centro della nostra concezione dell’essere umano significa sottolineare l’importanza della dimensione pre-riflessiva del nostro comportamento, senza con ciò sminuire l’importanza della nostra intelligenza e della nostra capacità riflessiva›› (p. 148). Santarelli riprende le pagine di James dedicate al carattere plastico e dinamico degli abiti e le sviluppa integrandole con la prospettiva deweyana. L’abito, come ha detto Peirce, è un general e proprio per questo non può rappresentare un’azione singola ma piuttosto un modo di fare generale. Dewey approfondisce il quadro teorico, aggiungendo che ‹‹l’abito è una modalità relativamente stabile di relazione tra organismo e ambiente, che in alcune specifiche situazioni si articola in un’azione specifica›› (p. 153). Non mancano in questo capitolo alcune note critiche che Santarelli fa emergere in relazione alla dimensione inerziale e conservatrice degli abiti, con le conseguenti ricadute sul piano politico e sociale: accade infatti che alcuni abiti sopravvivano in condizioni in cui siano però sfavorevoli ai nostri attuali bisogni e interessi.
L’ultimo capitolo, intitolato Conflitto e integrazione, sviluppa una possibile critica che si potrebbe rivolgere all’approccio anti-dicotomico pragmatista, nel momento in cui ‹‹sembra mancare il ruolo costitutivo del conflitto all’interno delle nostre vite sociali›› (p. 177). Se così fosse, scrive Santarelli, il progetto di una filosofia sociale del pragmatismo sarebbe destinato a collassare. Per questo motivo, l’autore si sofferma su tre “faglie di conflitto”: la razza, la classe e il genere. La questione della razza e della classe è affidata alle riflessioni di William Du Bois, intellettuale afro-americano, che, nelle Anime del popolo nero, articola il concetto di “doppia coscienza”. Con doppia coscienza Du Bois intende l’interiorizzazione di rotture e contrasti sociali che ‹‹toccano e plasmano l’individuo dall’interno›› (p. 181). La figura di Jane Addams viene ripresa per quanto riguarda l’identità sessuale e di genere, nella consapevolezza che l’attività di Addams non si è limitata a questo. Come sottolinea l’autore, Addams viene spesso identificata con la nascita della Hull House, dove si riunivano le attiviste per dar vita a numerose attività sociali e politiche, sminuendo però in questo modo la portata teorica del pensiero di Addams e il suo rapporto con Dewey e Mead. L’ultima parte del sesto capitolo ha come voce principale Mary Parker Follett. Follett è una teorica sociale che si è occupata di questioni legate all’educazione, al lavoro, al salario minimo e al management ed è proprio qui che nasce il suo interesse per il conflitto. Il conflitto, dice Follett, può attuarsi in tre modalità: dominazione, compromesso e integrazione. Dominazione e compromesso sono polarità opposte che non riescono a risolvere il conflitto se non a un livello superficiale; entrambe presuppongono una logica a somma zero: se guadagno una cosa, la sto togliendo a un altro. L’integrazione ‹‹chiama in causa una soluzione creativa e innovativa, all’interno della quale le due parti non devono necessariamente rinunciare ai propri interessi›› (p. 188). Attraverso l’integrazione, gli interessi e i desideri vengono riorganizzati per farne emergere di nuovi. Questi nuovi interessi non nascono dal nulla, ma vengono articolati a partire da quelli presenti nella situazione di partenza. Gestire il conflitto in maniera integrativa non è una riflessione astratta ma una pratica collettiva ed è solo nel fare assieme, nel fare comune, che vi può essere quell’aggiustamento qualitativo che permette l’articolarsi di nuovi desideri, interessi e valori.
Lungo il suo itinerario, La filosofia sociale del pragmatismo, mostra come per il pragmatismo, ‹‹la verità non sta nel mezzo, ma al di là della stessa rappresentazione dicotomica›› (p. 196).Per concludere, vorrei aggiungere che oltre a essere un testo utile agli studi specialistici – che intendano conoscere e dialogare con il punto di vista pragmatista sul tema del sociale – e a offrire un contributo italiano alla storia del pragmatismo, riesce a non rimanere vincolato a un settore specifico. Santarelli, pur appoggiandosi alle analisi dei pragmatisti classici e contemporanei, scavalca la particolarità dei testi, introducendo concetti come quelli di situazione, novità, articolazione, vaghezza, emergenza, continuità che sono e continuano a essere il punto di forza della filosofia pragmatista.
È arduo elaborare un quadro unitario ed esaustivo degli interrogativi con cui il punto di vista fenomenologico si è confrontato nella sua storia relativamente breve. Il rischio è quello di risultare riduttivi. Le interpretazioni della filosofia husserliana, infatti, si moltiplicano parallelamente alla comparsa di nuovi ambiti applicativi del metodo fenomenologico, spesso tra loro eterogenei: estetica, neuroscienze, filosofia della mente, gli studi sulla natura e sul vivente. La difficoltà del compito di fornire un quadro unitario delle sfide intraprese dalla fenomenologia sembra perciò derivare da un’esigenza più storica e filologica che teorica. Ciononostante, confronti ragionati tra i principi della fenomenologia e altre prospettive teoriche possono non solo allargare il campo di indagine, ma anche gettare nuova luce sui problemi centrali del pensiero di Husserl. È ciò di cui è particolarmente convinto Enzo Paci, uno degli esponenti più noti della fenomenologia italiana del novecento, nonché il principale artefice dell’introduzione delle opere di Husserl in Italia nel secondo dopoguerra. Pur aderendo con grande convinzione al metodo fenomenologico, Paci non ha mai smesso di tentare di avvicinarlo a questioni e prospettive apparentemente distanti quali il pragmatismo, la filosofia di Whitehead, l’antropologia e il materialismo dialettico, spesso attirandosi le critiche e i sospetti di buona parte del mondo accademico.
Parallelamente al suo programma teorico e ai progetti accademici, Paci conduce un ampio lavoro di divulgazione dei contenuti della filosofia e della scienza. Diversi sono i volumi che, secondo un intento propedeutico, spiegano il contesto storico e il significato ancora attuale di correnti di pensiero e scoperte scientifiche succedutesi dall’antichità all’età contemporanea. Con uno stile decisamente inconsueto e originale rispetto ai più classici saggi, il Diario fenomenologico si pone in questo filone. Pubblicato originariamente nel 1961 e fino ad oggi mai più ristampato, il Diario non riporta il semplice resoconto degli eventi vissuti da Paci tra il 1956 e il 1961, ma costituisce anche una ricca fonte di osservazioni utili alla comprensione della speculazione di Paci e della fenomenologia in generale. L’ampiezza dei contesti teorici a cui Paci fa riferimento, inoltre, fa sì che queste osservazioni convergano in un punta di vista complesso e del tutto originale sulla filosofia di Husserl.
A dispetto dell’odierno proliferare di prospettive a impianto fenomenologico, nell’Italia degli anni sessanta buona parte degli studi fenomenologici non è accolta con favore unanime. Se fraintesa come forma di idealismo o soggettivismo, la fenomenologia trascendentale può in effetti essere rimproverata per la scarsa attenzione riservata all’oggettività. Gli sforzi di Paci sono perciò volti in primo luogo a dimostrare l’intima unità delle diverse fasi del pensiero husserliano e a prevenirne le possibili interpretazioni idealiste. Nemmeno le proposte teoriche del fenomenologo italiano, tuttavia, godono di grande consenso. Con la pubblicazione, nel 1963, di Funzione delle scienze e significato dell’uomo,si apre una proficua e mai abbandonata linea di indagine volta a integrare le prospettive filosofiche di Husserl e di Marx. Sia da un punto di vista politico sia da uno filosofico, un simile progetto desta la perplessità di molti studiosi, tra cui quella di Norberto Bobbio, che per gli assunti del materialismo dialettico auspica una verifica scientifica, piuttosto che una fondazione filosofica – strumentale, peraltro, a una rinnovata interpretazione di Husserl.
In linea con i presupposti fondamentali del materialismo dialettico, in ogni caso, le riflessioni di Paci non si limitano alla mera speculazione teorica: al contrario, anche alla luce delle categorie husserliane, mirano a un effettivo cambiamento dei saperi e delle prassi storicamente costituite che stanno alla base dei rapporti sociali. Proprio nel Diario, in una nota del 10 settembre 1958, Paci scrive che il suo «tentativo è quello di influenzare la filosofia e la cultura italiane con la fenomenologia» (p. 75). Questa ambizione si traduce, in primo luogo, in un lavoro di rifondazione fenomenologica delle scienze, in particolare delle scienze umane. Il principio fondamentale di questa rifondazione stabilisce che l’uomo, in quanto soggetto intenzionale, non può essere considerato da alcuna scienza come mero oggetto, poiché misurazioni e analisi quantitative falserebbero il suo vero essere. Il modello delle scienze naturali, anzi, comporterebbe lo stesso effetto di oggettivazione e alienazione implicato dai modi di produzione capitalista. Andando oltre le sole considerazioni epistemologiche, la fenomenologia, nella trattazione di Paci, sembra quasi costituire un imperativo morale per le scienze umane: la psicologia, per esempio, viene riconosciuta come «scienza che ha una sua funzione intenzionale… per la costituzione di una società umana libera dallo sfruttamento» (Paci 1963, p. 313). Quando Paci formula simili considerazioni nel tentativo di tracciare le linee di una sociologia intenzionale, è Pietro Rossi a intervenire criticamente, osservando che considerare l’uomo secondo un approccio contrapposto a quello delle scienze naturali contravverrebbe al metodo analitico-formale husserliano.
Alla luce di tale giudizio, sembra ironico che la nuova ristampa del Diario fenomenologico, edita da Orthotes (https://www.orthotes.com/diario-fenomenologico/), sia dovuta proprio all’iniziativa di un sociologo. In effetti, nonostante certe proposte possano sembrare azzardate, dagli scritti di Paci si possono trarre considerazioni ben diverse da quelle dei suoi interlocutori diretti. Nella Postfazione, Massimo Cerulo mostra così che l’importanza che le note del Diario danno all’interazione sociale e al contesto storico nell’indagare l’individuo umano è in particolare consonanza con le teorie di noti sociologi come Alfred Schutz, Erving Goffman e Pierre Bourdieu. Sebbene il tono dei suoi scritti sia spesso ispirato, Paci medita a fondo problematiche e concetti provenienti da numerosi ambiti teorici, trovando legami e tratti in comune tra teorie solitamente considerate incompatibili. Psicologia, fisica, sociologia, biologia, antropologia: Paci esplora appassionatamente e considera analiticamente i maggiori risultati di tutte queste discipline al fine di spiegare l’uomo nella sua specificità e, al tempo stesso, nelle radici naturali della sua esistenza. La natura e il suo rapporto con l’uomo, in effetti, rappresentano due temi centrali per il pensiero più proprio di Paci, quel relazionismo che, alla luce delle riflessioni più mature, può a buon titolo essere inteso anche come fenomenologia relazionista. Il Diario fenomenologico condensa i nuclei fondamentali di questa complessa proposta filosofica che assume la relazione e il processo come categorie più fondamentali dell’essere, e testimonia del periodo in cui si compie la vera e propria svolta fenomenologica di Paci.
Nonostante l’esplicito rifiuto di ogni ontologia, le prime formulazioni del relazionismo paciano possono essere comprese come una peculiare posizione metafisica. In primo luogo, sono la natura e gli enti naturali di ogni sorta a essere costituiti secondo un principio relazionale e processuale. Ben presto, tuttavia, il concetto di relazione è sempre più spesso impiegato da Paci secondo una prospettiva gnoseologica. È infatti il punto di vista intenzionale della fenomenologia a costituire il miglior alleato nella critica al sostanzialismo, vale a dire l’erronea attribuzione di una realtà fissa e immutabile al mondo fisico e a quello spirituale. A quest’ultima tesi si oppone, appunto, il relazionismo, che propone un’immagine dell’uomo coerente con quella della natura, secondo cui ogni individuo, piuttosto che una sostanza, è essenzialmente un processo costitutivo, un farsi attraverso l’esperienza. Il soggetto non è quindi una posizione assoluta, ma è preso in una stretta relazione di interdipendenza con i propri vissuti. A supporto di tale rivisitazione della soggettività, Paci trova preziosi alleati nello Husserl inedito.
L’incontro con i manoscritti, più volte raccontato nel Diario, segna una fase importante nella speculazione di Paci: come in quelle pagine muta e si approfondisce il pensiero di Husserl, così, nel leggerle, in virtù di una «affinità profonda» (p. 96), muta lo sguardo di Paci sulla filosofia, sul mondo e sull’uomo. Più precisamente, i manoscritti dei gruppi C, D, E e K portano Paci a dare sempre più importanza agli aspetti precategoriali e genetici della vita intenzionale. Ogni conoscere si rivela come il risultato di un atto sintetico che è in prima battuta fondato su un’esperienza che anticipa la riflessione e che è già di per sé sintetica. La relazione come fondamento della conoscenza, quindi, porta Paci a riconoscere un particolare valore ai concetti husserliani riguardanti ciò che precede l’autocoscienza, tra cui la motivazione, la sintesi temporale e l’associazione. Le leggi delle sintesi passive e la fenomenologia genetica in generale approfondiscono il lavoro inaugurato da Husserl con le indagini sul tempo delle Zeitvorlesungen. Con rinnovata radicalità, come anche recentemente non si è mancato di evidenziare, le lezioni sulla sintesi passiva rimettono in questione la presenza del soggetto a sé e, più in generale, l’unità della coscienza. Paci affronta tali problematiche, proseguendo la riflessione sulle dinamiche dell’esperienza che precedono gli atti di coscienza alla luce delle analisi sulla temporalità e sulla natura relative al primo periodo relazionista degli anni cinquanta.
Le considerazioni sul tempo e sulla fenomenologia genetica, insieme all’interpretazione del materialismo, confluiscono nel più profondo nucleo teorico del relazionismo, ovvero quel naturalismo non riduzionista che, attraverso la fenomenologia e, in particolare, il concetto di Lebenswelt, vuole rivelare la coscienza trascendentale nel suo «fondo naturale» (p. 63), cioè come natura vivente e non reificabile. Questo peculiare naturalismo, in buona parte influenzato dal pragmatismo di Dewey e James, oltre che dall’organicismo di Whitehead, si declina in una sorta di prospettiva non egologica per cui «il cogito, alla fine, è l’operazione, la Leistung del cogitare» (p. 69). Porre al centro della speculazione di Paci lo statuto della coscienza, perciò, consente di mettere le riflessioni sul materialismo dialettico in una prospettiva eminentemente teoretica, a dispetto dei rischi di sconfinamento in questioni extra-filosofiche contro cui mette in guardia buona parte dei commentatori. Molte considerazioni che Paci fa a partire dagli studi sul materialismo possono apparire ingenue o superflue, ma non minano la complessità e la coerenza della sua riflessione.
Durante il soggiorno di studio a Lovanio, Paci si dimostra pienamente consapevole dell’originalità della propria interpretazione di Husserl: «Normale incomprensione degli studiosi per la praxis in Husserl. Il conoscere stesso è praxisin quanto costituito di operazioni, di Leistungen che nel loro operare tendono al significato, alla verità» (p. 95). Di qui, si comprende non solo il senso dell’avvicinamento ai temi marxiani, ma anche il significato più generale che Paci attribuisce alla filosofia di Husserl. Come osserva Pier Aldo Rovatti nella Prefazione, l’intento fondamentale del Diario è dare prova della «concretezza dell’esercizio filosofico» (p. 8) come tratto essenziale della fenomenologia. Allo stesso tempo, tuttavia, il testo fornisce una presentazione della vera stoffa di cui è fatto l’io fenomenologizzante. I luoghi, gli incontri e gli eventi che Paci vive innescano complesse meditazioni che portano a riconoscere la natura del soggetto stesso come un intreccio di relazioni.
In ultima analisi, il Diario fenomenologico è l’illustrazione più fedele della fenomenologia come gesto, come costante «invito alla descrizione» (p. 82) di ciò che si presenta all’esperienza. L’intima relazione tra fenomenologia e vita si spiega così nell’immer wieder, il motto husserliano tanto caro a Paci. Sintesi per essenza incompiuta di biografia e riflessione teorica, il Diario contrasta ogni forma di essenzialismo, collocando l’uomo e la filosofia in un orizzonte teleologico aperto, in un processo di «scoperta e riscoperta continua che si pone tra l’oscurità dell’infinito del non percepire e la luce dell’infinito del vero» (p. 64).
di Federico Tosca
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Bibliografia
E. Paci, Funzione delle scienze e significato dell’uomo, Il Saggiatore, Milano 1963.
Jean Wahl, Verso il concreto. Studi di filosofia contemporanea. William James, Whitehead, Gabriel Marcel (Mimesis, Canone Minore, 2020)
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Di Jean Wahl un poeta notava lo spirito mobile e trasparente, la «disinvoltura che era levitazione» (269). Come il levitatore non è colui che si stacca da terra, ma la parte più prona alle mescolanze di un mondo che si accresce, così Wahl è filosofo leggero per la durezza materica del suo sguardo. L’edizione italiana di Verso il concreto. Studi di filosofia contemporanea. William James, Whitehead, Gabriel Marcel, uscito per Mimesis a cura di Giulio Piatti e con una postfazione di Barbara Wahl, è opera di un pensatore ironico e poetico, impegnato nell’ascesi dell’incontro totale con ciò che si propone di pensare. Contro una storia della filosofia come galleria di statue e apologia della grande figura, Verso il concreto è innanzitutto un accostamento tra incontri felici, animato dall’entusiasmo paratattico che prolunga il vivum di altri pensieri. È un libro che contiene altri spiriti, intuiti nel loro splendore fenomenico, e che rivela appieno lo stile filosofico di Jean Wahl, la sua maniera di pensare. Wahl scrive da filosofo di altri filosofi, con una virtù che sarebbe riduttivo definire eclettica. La ricca introduzione del curatore illustra perfettamente in che misura questo libro è un capitolo fondamentale e appassionante della filosofia francese del ‘900, su cui Wahl aveva già iniziato ad esercitare un’influenza profonda con la fortunata opera sui pluralisti americani e inglesi del 1920.
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Étienne Souriau scriveva che quando i filosofi si esprimono sull’uno o sul molteplice, desiderano o l’uno o l’altro. In questa osservazione c’è di più del semplice rilevamento di un moto d’interesse dietro a istanze eterne del pensiero: l’alternativa tra pluralismo e monismo è innervata un investimento magico, un ideal-realismo che scaturisce dalla visione dell’accordo del continuo con il discontinuo. È l’«esperienza» in senso più proprio, l’alliance paradoxale di cui Wahl parlerà, trent’anni più tardi, ne L’expérience métaphysique. James, Whitehead e Marcel sono filosofi speculativi e sperimentatori, quando pensano un mondo fatto di blocchi di durata, di volumi, di eventi, di relazioni primitive, di processi di discretizzazione per confluenza e concrescenza: pluralisti in nome dell’eterogeneità del reale, monisti in nome della sua unità in divenire. A quest’altezza ha luogo, in maniera diversa in ognuno di questi autori, il «suicidio della dialettica» (51), la dialettica hegeliana che nasce proprio squalificando il concreto dell’esperienza, piegandolo a una certa idea di speculazione. Speculativo, sembra dirci Wahl, può esserlo soltanto un realismo; e se non si vuole abbandonare la dialettica sarà più per amore dell’oggetto reale che per sentimento della sua insufficienza.
In William James, primo protagonista di Verso il concreto, una filosofia dell’Abenteuer risponde al temperamento «motore» del filosofo (143), che ricerca la grana della realtà solida, l’universale fattivo. È il ritratto di un James mercuriale, che propugna un pluralismo in costante tensione con un monismo mistico, per cui il mondo si accresce per estasi delle parti. Nel sapiente studio del suo epistolario, Wahl rintraccia quella reciproca evocazione tra vita e filosofia che ha determinato la grandezza di uno dei padri del pragmatismo. Il secondo protagonista del libro, Alfred North Whitehead, è invece rappresentato come un pensatore dell’universo vivente, autore di una grande metafisica della natura. Come un nuovo romantico, Whitehead vede nel reale un humus di percettività cieca, di intenzionalità pure che germinano e concrescono: la realtà crea incessantemente sentendo sé stessa, e il soggetto non vi si riconosce che come una sopravvenienza. Da qui l’attenzione a ciò che nel soggetto è legame con la natura creante, percezione e sentimento. Come il pensiero di James è incontrato nella rappresentazione della sua vita e la filosofia di Whitehead nell’interpretazione complessiva dei suoi scritti, Gabriel Marcel, infine, è studiato con intima confidenza, attraverso il suo diario filosofico (il Journal métaphysique), quasi come in sua compagnia. Wahl, che è stato amico di Marcel, ritrova come principio ermeneutico quella partecipazione emotiva che lo stesso Marcel mette al centro del proprio pensiero – l’amicizia come forma di conoscenza completa.
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Poco meno di cento anni dopo la sua uscita possiamo cominciarne a cogliere la rilevanza di Verso il concreto. Qui Wahl contribuisce ad aprire una traccia che attraversa – più o meno allo scoperto – il Novecento francese e raggiunge il realismo speculativo contemporaneo. Il topos che Wahl utilizza per forzare lo hegelismo è lo stesso dell’Agamben de Il linguaggio e la morte e del Lyotard di Discorso, figura (ma anche, in senso più ampio, del Deleuze di Differenza e ripetizione): il tentativo di dire il “questo”, che all’inizio della Fenomenologia dello Spirito vanificail sapere sensibile, viene recuperato come vero compito della filosofia, verso un’altra concezione dell’assoluto. La rivalutazione dell’esperienza in sé conduce proprio là dove Hegel non era voluto andare, ad una mistica e a una poetica, senza mai lasciare la filosofia. D’altronde, «era forse il destino del pensiero hegeliano quello di negarsi» (227). Tutto ciò che una certa tradizione speculativa ha cercato di fare nel corso del secolo passato è questa critica alla significazione, alla causalità meccanica, alla priorità della conoscenza soggettiva in nome di un pensiero più concreto, che sia monista e pluralista insieme, in quanto «negazione di un mondo già fatto» (136).
Dietro al dire c’è dunque sempre un conatus d’instaurazione, che nell’uomo è esperienza pura, e che sfonda il cerchio della dialettica, per renderla incessante e senza concetto. Bergson, Renouvier, Samuel Alexander e tutte le figure che si avvicendano accanto ai tre filosofi raffigurati da Wahl confluiscono in un mosaico ancora in formazione che andrà a costituire il nerbo della grande avventura continentale del ‘900. Dietro a questo passaggio fondamentale, la penna ariosa di Wahl, quasi a divinarne il corso – in levità.
«Una natura che si fa incessantemente attraverso i suoi incrementi; una natura che si conosce, appunto, solamente accrescendola e accrescendosi […] Se presa sul serio, infatti, la struttura di un anti-paradosso suppone una ‘coerenza’ della parte con il tutto che non si deve temere di definire per quel che è: cosmologica». Si legge in queste dense righe, tratte dall’introduzione del curatore Daniele Poccia all’antologia La superficie assoluta (Textus, L’Aquila 2018), la grande importanza e insieme il nucleo più intimo della filosofia di Raymond Ruyer, decisivo e poliedrico pensatore francese del secolo scorso – semisconosciuto in Italia, e non solo –, cui il volume è dedicato.
È in effetti a una riscoperta della cosmologia, quale antica e nobilissima disciplina filosofica, che ci indirizza Ruyer, a quasi due secoli di distanza dalla fatale interdizione impostale da Kant: i paradossi e le aporie cui l’idea di mondo, se affrontata da un punto di vista filosofico, dovrebbe condurre, si rovesciano nel punto di partenza per un pensiero della natura che si vuole rinnovato e capace di inglobare in sé le rivoluzioni scientifiche avvenute tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento: «Non sono mai stato appassionato da Immanuel Kant o da Auguste Comte. I filosofi critici ispirati dalla scienza newtoniana non possono avere troppa autorità nell’epoca della fisica quantistica» (pp. 68-69).
Ruyer parte da una semplice (ma non banale) constatazione, che lo accompagna dai suoi esordi, sotto il segno di uno strutturalismo meccanicista, e fino alla sua maturità filosofica, originalmente vitalista: nessun essere può vedersi vedere. Non esiste, infatti, un terzo occhio che veda il soggetto osservare il proprio campo visivo, come non esiste un orecchio dell’orecchio o un cervello del cervello, pena la ricaduta in un inarrestabile regresso all’infinito (p. 91). Ciò significa che il soggetto dovrebbe rinunciare alla pretesa di cogliere la realtà così com’è, cedendo a una debole e indefinita ermeneutica? O che, con metodo fenomenologico (o financo gestaltista), la certezza del nostro (seppur limitato) rapporto con la realtà possa essere felicemente sintetizzata nella dinamica intenzionale? Niente affatto, e sta qui il coup de théâtre cui assistiamo nel corso del volume: l’insuperabilità del campo di coscienza impone al contrario, secondo Ruyer, un nuovo approccio, ossia un realismo diretto (p. 19), non così distante – ma molto più metafisicamente fondato – dalla pletora dei realismi che stanno attraversando il dibattito filosofico contemporaneo.
Lo «spettacolo senza spettatore» (p. 186) di cui la visione, per fare un esempio particolarmente calzante, dà conto non oscilla infatti per nulla tra un soggetto che guarda e un oggetto osservato, non è affatto un ‘sguardo su’ o una direzione intenzionale, ma è la realtà stessa, i cui effetti diverranno in seguito soggettivi o oggettivi a seconda del punto di vista che possiamo di volta in volta adottare, ma che il reale, a rigore, in sé non ha e non può avere. L’abitudine tutta umana alla «messa in scena della percezione» (p. 81), centrata a partire da una mitica prospettiva da fuori (tra i portati, non a caso, dell’arte umanista, rinascimentale e proto-cartesiana), censura quanto accade in ogni atto percettivo, ovvero quel «sorvolo senza distanza» (p. 187) che costituisce il campo di coscienza nel suo complesso. Trova qui la sua genesi la più fortunata e influente delle nozioni di Ruyer, ovvero quella di «superficie assoluta» (o «dominio di auto-sorvolo»): l’intento dell’antologia, che raccoglie testi di varia natura – articoli, capitoli di libri, compresa un’eccentrica autobiografia, corredati da un’introduzione completa e originale –, in un arco temporale che va dal 1932 al 1963, è proprio quello di ricostruirne accuratamente l’origine e lo sviluppo. Per dirla molto brevemente, si tratta di uno spazio più topologico che geometrico-euclideo, inevitabilmente bidimensionale, privo di direzione, il quale coincide scricto sensu con la coscienza e, di conseguenza, con l’essere (p. 60). C’è superficie assoluta quando c’è coscienza (p. 188), ovvero quando si costituisce un dominio, un’unità all’interno della massa molare dei fenomeni fisici ‘di folla’; la prospettiva ruyeriana destituisce (e naturalizza) così qualsiasi tipo di antropocentrismo e, il che è più importante, di spiritualismo, allargando la nozione di coscienza alle più differenti esplicazioni della natura.
Impossibile in questa sede elencare le numerosissime implicazioni di una tesi così radicale e, per certi versi, parallela (ma ovviamente non riducibile) ad alcune tra le più recenti intuizioni ‘esternaliste’ avanzate dalle neuroscienze, nonché vicina a certe posizioni maturate nei contesti della cibernetica e dell’epistemologia della complessità (in particolare in relazione alla nozione-chiave di causalità); più utile è forse mostrare come la posizione di Ruyer risulti consonante con una ‘linea di pensiero’ che ha attraversato lateralmente il pensiero filosofico novecentesco, inaugurata intorno alla fine dell’Ottocento dal pensiero bergsoniano (Montebello 2015a; Ronchi 2017). A questo proposito, non si può non notare l’insistenza con cui Ruyer evoca nelle pagine del volume – ancorché spesso in senso critico – proprio Bergson: egli sarebbe infatti al tempo stesso «l’Einstein» del mind-body problem (p. 88), l’anticipatore, da un punto di vista squisitamente temporale, proprio della superficie assoluta (p. 138), un importante studioso della genesi della memoria (p. 261), nonché un capace conciliatore della prospettiva filosofica con quella scientifica (p. 74). Certo, molte delle soluzioni bergsoniane appaiono a Ruyer inadeguate – in primis la presunta svalutazione dell’estensione fisica – ma è un fatto che il punto di partenza della sua indagine affronti problemi posti per la prima volta nella contemporaneità dal filosofo della durée. Meno evidente, ma altrettanto presente (e cronologicamente attendibile) è poi il rapporto del pensiero ruyeriano con Gilbert Simondon e la sua filosofia dell’individuazione, nata negli stessi anni e con intenti in fondo simili (riavvicinamento del perdurante split tra ambito inorganico, organico, psichico e sociale; studio ‘organologico’ della tecnica; analisi della percezione come invenzione di forme potenziali o metastabili): detto con brutale sintesi, la filosofia ‘psicobiologica’ ruyeriana manifesta la medesima esigenza, presente in Simondon, di ripensare e rendere porosi i rapporti tra materia e vita, seguendo in fondo una comune e documentabile radice canguilhemiana (p. 28). Evidenza testuale presentano inoltre i riferimenti alla filosofia dell’organismo di Alfred N. Whitehead, impegnato, una trentina di anni prima, nel ripensare lo iato che la contemporaneità sembrava aver inevitabilmente sancito tra indagine scientifico-quantitativa e analisi filosofico-qualitativa: nella critica whiteheadiana alla «localizzazione semplice» dei fenomeni fisici (p. 84; Whitehead 2018) e, più in generale, nel tentativo di reintegrare la scienza nel pensiero filosofico senza ricadere in uno sterile fisicalismo, Ruyer riconosce un grande alleato. Non deve infine stupire come la nozione di superficie assoluta costituisca – insieme a quella bergsoniana di immagine – la più importante fonte filosofica per la genesi di quel piano di immanenza (o consistenza) cui Deleuze approda, con Guattari, in Millepiani (Deleuze & Guattari 2010, p. 313)e poi, più compiutamente, in Che cos’è la filosofia? (Deleuze & Guattari 1996, pp. 25-49): per Ruyer la superficie assoluta è infatti un «campo di gravitazione iperfisico» in cui siamo immersi (p. 249), un piano che connette l’essere umano al resto della realtà, così come, in Deleuze, questo si costituirà come una superficie sul cui bordo germinano e si intersecano le più differenti singolarità.
I paralleli itinerari filosofici di Ruyer, Bergson, Whitehead, Simondon e Deleuze (ma – si potrebbe aggiungere – anche di altre due figure eterodosse come quelle di William James e Samuel Alexander) si intersecano ovviamente in modi ben più complessi di quanto non sia stato possibile mostrare qui; limitiamoci però in questa sede a evidenziare le principali caratteristiche di questa linea di pensiero, al di là di tutte le pur evidenti differenze:
Potenziale. Si nota innanzitutto un poderoso utilizzo di termini che partecipano di una medesima semantica: «metastabile» (Simondon), «potenziale» (Ruyer), «virtuale» (Deleuze), «processuale» (Whitehead). Il vivo – e genuinamente filosofico – interesse manifestato da Ruyer nei confronti dell’embriologia sperimentale come vettore per cogliere la genesi dell’individuo ci dimostra come egli tenti di riflettere sugli aspetti «mnemici» (p. 66) della realtà senza presupporli come semplicemente attuali. Detto in altri termini, la memoria – o, se si vuole, l’informazione – di un individuo non è né può costituirsi, come già sostenevano pionieristicamente Bergson e Whitehead, alla stregua di una riserva statica e spaziale, ma coincide con l’ingresso di una dimensione potenziale – o «tematica» (p. 64) – all’interno della realtà. L’insufficienza delle psicologie di orientamento esistenzialistico e fenomenologico risiede proprio, per Ruyer, nell’inadeguato spazio riservato alle nozioni di potenziale e di molteplicità, proprie della coscienza (p. 263). Tale potenziale non coincide, come ci ha ricordato a più riprese Bergson, con una semplice possibilità (dynamis) di esplicazione (o di non esplicazione) della realtà, ma si presenta come una dimensione pienamente reale, incistata nell’atto stesso del vivente: sarà non a caso Deleuze a vedere in Bergson e Ruyer i due più grandi studiosi della nozione di virtuale (Deleuze 1997, pp. 279-280).
Vita. In secondo luogo, ma non certo secondariamente, un tale tournant filosofico accorda innegabile preminenza alla dimensione del vivente, svalutando o perlomeno riconsiderando notevolmente la portata dirimente del fenomeno della morte. Dove per larga parte della filosofia continentale novecentesca – si pensi in questo contesto tanto alla filosofia heideggeriana quanto alla decostruzione derridiana o all’esistenzialismo – la morte diventa l’orizzonte (tutto umano!) a partire dal quale (ri)pensare la vita, secondo Ruyer è il vivente, costituito dai differenti domini di auto-sorvolo, a offrire il paradigma adeguato per pensare tanto la consistenza dell’essere quanto l’impossibilità di una morte ‘totale’: a partire da questa prospettiva si può sostenere senza contraddizioni che «‘io non sono ancora mai morto, dal cominciamento del mondo’» poiché «le due cellule germinali da cui ‘io’ provengo si sono fuse insieme senza annientarsi […] L’individualità donde emerge il mio ‘io’ risale senza rotture, di generazione in generazione, alle cellule viventi più primitive, e queste cellule alle molecole previtali, alle individualità fisiche» (p. 42). Di fronte a questa ricomprensione del vivente, il negativo non pare poter trovare spazio di asilo, se non in forma strettamente logica: la domanda che ha inquietato gran parte della storia della filosofia – perché qualcosa piuttosto che il nulla? – appare a Ruyer, per il quale l’essere non ha contrario (p. 183), come sostanzialmente priva di senso.
Scienza-filosofia. Tanto Ruyer quanto Bergson, Whitehead, Simondon e Deleuze paiono poi condividere, con tonalità differenti, un ambizioso progetto di sintesi tra scienza e filosofia: «la corrente centrale della filosofia si è sempre volontariamente mescolata, se non confusa con la corrente della scienza» (p. 75). In fondo, se il meccanicismo aveva costituito la visione del mondo dei moderni, ovvero una cosmologia in grado di dare conto a un tempo della trionfale avanzata della scienza moderna e della conseguente esperienza (non solo scientifica) del mondo, si avverte tra le pagine di questi autori – e in molti punti decisivi della loro opera – il tentativo di rilanciare una metafisica della scienza. È in particolare la «biforcazione della natura» (Whitehead 2018) in qualità primarie-oggettive e secondarie-soggettive a essere criticata prima da Whitehead e poi da Ruyer: se, con gesto democriteo, Galilei aveva saputo liberare una visione scientifica nuova, controllabile intersoggettivamente e finalmente libera dagli antichi finalismi, ciò aveva però al contempo sancito un immediato impoverimento della natura, ridotta alle proprie quantità misurabili e privata dei tratti qualitativi che da quel momento in avanti sarebbero stati di pertinenza esclusivamente soggettiva. Al contrario, secondo Ruyer, le dinamiche della visione o dell’audizione, nel presentarsi come spettacoli senza spettatore (o audizioni senza uditore), danno conto di qualità sensibili che appaiono incastonate nella realtà, presenti lì dove vengono percepite, e che restano invece una misteriosa emergenza per la scienza classica (pp. 197-199). Per dirlo con le parole di Whitehead, l’obiettivo deve essere quello di riunire l’immagine del mondo emersa dalle rivoluzioni scientifiche degli ultimi due secoli con le nostre esperienze etiche ed estetiche (Whitehead 2015).
Cosmologia. Ciò verso cui Ruyer e i suoi ‘colleghi’ sembrano condurci è in definitiva – ci sembra – un cosmological turn, una svolta cosmologica che doppi e accompagni quell’ontological turn che ha saputo scuotere, recentemente, i fondamenti epistemologici dell’antropologia (Viveiros de Castro 2017). Assistiamo, leggendo le pagine di questi autori, a un vero e proprio ritorno del cosmo quale luogo di speculazione. La critica ruyeriana dello schema duale soggetto-oggetto tramite il dispositivo della superficie assoluta permette infatti di naturalizzare il soggetto, rimettendolo nel mondo: con modalità decisamente più radicali rispetto all’essere-nel-mondo heideggeriano (o merleau-pontyano), Ruyer ci invita a pensare l’essere-mondodi ogni entità esistente, a partire dai suoi più elementari atti percettivi. Ciò che l’ascolto, la visione – in una parola la percezione – ci mostrano è così un’esperienza estetica (in senso etimologico) che è insieme anche cosmologica, una «forza legante» (p. 226) che unisce i domini di autosorvolo, incrementandoli indefinitamente e imprevedibilmente (da qui il parallelo con l’improvvisazione musicale rilevata finemente dal curatore nell’introduzione).
In questi quattro punti abbiamo tentato di riassumere brutalmente la posta in gioco di una linea di pensiero che ci pare oggi particolarmente attuale; rigiocata in contesti ‘costruzionisti’ – si pensi ai lavori di Isabelle Stengers (1996-1997; 2015), Didier Debaise (2015), Bruno Latour (2012), Pierre Montebello (2015b) e altri – essa pone le basi per una nuova filosofia della natura in grado di farsi carico di alcune delle più pressanti problematiche della contemporaneità (in primisecologiche). La superficie assoluta di Ruyer – così come la nozione bergsoniana di campo di immagini (Bergson 1996, pp. 13-61), l’ontogenesi preindividuale di Gilbert Simondon, la «prensione» whiteheadiana (Whitehead 2018) e il piano di immanenza di Deleuze – è una nozione che, neutralizzando ogni mediazione (ogni presunto ‘accesso’ al mondo), ci porta direttamente dentro il pianeta che abitiamo, facendocene misurare i problemi nell’orizzonte della consistenza, più che a partire da un punto di vista soltanto umano o, peggio, meramente esteriore.
A parere di chi scrive, non si tratta allora, come sembra mostrare un recente articolo apparso su Not, di opporre al presunto ritorno dei sofisticati biofascismi che infestano il dibattito culturale, un rizomatico canto pluralista del caos. Se l’articolo ha l’indubbio merito di puntare l’attenzione su alcune posizioni estremamente interessanti e originali (in fondo vicine a quelle qui trattate), la dicotomia che avanza non pare presentare una prospettiva davvero inedita. Al contrario, ciò che in modi pur diversi Ruyer, Bergson, Whitehead, Simondon e Deleuze – nonché i loro intercessori contemporanei – ci mostrano non è affatto l’innalzamento di un caos produttivo, quanto una nuova metafisica della consistenza, una cosmologia che riallaccia i singoli esseri (Tsing 2017, Coccia 2018) che abitano il pianeta, nelle loro più profonde differenze, a una radice univoca (secondo la nota formula deleuziana del pluralismo come monismo). Si tratta di una filosofia genuinamente costruzionista che intende le connessioni inter-essere come una realizzazione, uno scopo, un progetto.
Alla luce di questi brevi spunti, l’uscita di un volume antologico dedicato alla filosofia di Ruyer non può dunque che apparirci come una bella notizia: oltre a presentare in modo intelligente al pubblico italiano la riflessione di un importante autore del secolo scorso, esso ha il merito di portare l’attenzione su una nozione, quella di superficie assoluta, dal grande potenziale euristico: in quel sorvolo senza distanza che la caratterizza ci pare di poter vedere la natura nel suo svolgersi, quella natura per cui è sempre più necessario costruire un piano.
di Giulio Piatti
Bibliografia
Bergson H. (1896), Materia e memoria, Laterza, Roma-Bari 1996.
Coccia E (2016), La vita delle piante. Una metafisica della mescolanza, Il Mulino, Bologna 2018.
Debaise D., L’appât des possibles. Reprise de Whitehead, Les presse du réel, Dijon 2015.
Debaise D., Stengers I, (a cura di), Gestes speculatifs, Les presses du réel, Dijon 2015.
Deleuze, G. (1968), Differenza e ripetizione, Raffaello cortina editore, Milano 1997.
Deleuze G, Guattari F. (1980), Mille piani. Capitalismo e schizofrenia, Castelvecchi, Roma 2010.
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Latour, B., Enquêtes sur les modes d’existence. Une antropologie des modernes, La découverte, Paris 2012.
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Id., Métaphysiques cosmomorphes. La fin du monde humaine, Les presses du réel, Dijon 2015.
Ronchi R., Il canone minore. Verso una filosofia della natura, Feltrinelli, Milano 2017.
Simondon G. (2005), L’individuazione alla luce delle nozioni di forma e d’informazione, 2 vol., Mimesis, Milano 2011.
Stengers, I. Cosmopolitiques, 7 voll., La découverte, Paris 1996-1997.
Tsing A. L., The Mushroom at the End of the World. On the Possibility of Life in Capitalist Ruins, Princeton University Press, Princeton 2017.
Viveiros de Castro E. (2009), Metafisiche cannibali. Elementi di antropologia post-strutturale, Ombre corte, Verona 2017.
Whitehead A. N. (1929). Processo e realtà. Saggio di cosmologia, Bompiani, Milano 2018.
La psicologia è ibrida. O tale dovrebbe essere. Da sempre il suo status è meticcio, frutto di una sintesi che miscela elementi filosofici, religiosi, scientifici e occultistici. La deriva presa dal suo insegnamento e dalla relativa pratica terapeutica nel corso del Novecento ne ha però messo in crisi alcuni aspetti basilari: primo fra tutti la commistione col sapere scientifico finalizzata a custodire un insieme di conoscenze che, però, il passare degli anni ha reso sempre più datato. Sembra infatti essersi verificato un progressivo isolamento, che ha reso il sancta sanctorum della psicologia, lo studio terapeutico, un luogo refrattario alle influenze esterne, impermeabile alle contaminazioni disciplinari e, soprattutto, poco avvezzo ad aprirsi alla scienza che, nella Vienna di fin de siècle, aveva non poco influenzato i primi studi dei maestri Freud e Jung. Con il libro Biologia dell’anima (Bollati Boringhieri, 2015), Maurilio Orbecchi si propone di restituire alla psicologia il suo tratto distintivo, la tendenza alla fusione dei saperi, auspicando che tale disciplina si apra a nuovi campi d’indagine di matrice scientifica. Per farlo, l’autore si affida a un riposizionamento concettuale proprio del postumano: riconsiderare l’animalità dell’uomo e abolire ogni pretesa di eccezionalità umana, obsoleto retaggio di secoli di umanesimo. Da dove ripartire dunque, se non da Darwin? La teoria dell’evoluzione – sia nella forma originale ottocentesca sia in quella che il Novecento ha prodotto con la sintesi moderna, conosciuta come neodarwinismo – diventa quindi la bilancia critica dell’opera di Orbecchi, grazie alla quale è possibile tarare la presunta scientificità delle principali scuole psicologiche e al tempo stesso costruire un’architettura di matrice biologica sulla quale innestare altri saperi. L’edificio ottenuto dovrebbe, dopo questa fondamentale operazione di riassestamento e aggiornamento, azzerare gli ultimi ma ancora piuttosto vivi afflati di matrice dualistica presenti nel pensiero e nella terapia odierni.
Non c’è traccia di naturalismo nel procedere critico del saggio: l’autore, non appellandosi esclusivamente alla genetica, evita lo spauracchio del determinismo proprio di alcune scuole di pensiero post-darwiniane (dall’ultradarwinismo di Dawkins alla sociobiologia di Wilson), e propone una definizione di Homo sapiens come «insieme complesso di sistemi psicobiologici egoisti e altruisti sulla cui espressione influisce largamente l’ambiente di sviluppo» (p. 161). Appare chiaro che, in tale cornice, non possono trovare posto il determinismo psichico freudiano e il finalismo junghiano, così come tutti quegli aspetti teorici invalidati da una scorretta lettura della teoria evolutiva, apertamente lamarckiani oppure ampiamente superati dal punto di vista scientifico – come il ricorso alla legge biogenetica di Haeckel, il cui principio (l’ontogenesi riepiloga la filogenesi) non è più considerato valido al giorno d’oggi. In aggiunta ai riferimenti continui a studi contemporanei nel campo delle neuroscienze cognitive e affettive, Orbecchi ricorre alle ricerche effettuate da numerosi etologi, come Frans de Waal, nel campo della psicologia animale e di quella comparata. Alla luce delle recenti scoperte scientifiche relative a questo settore, appare chiaro che la divisione del vivente operata da Freud in esseri umani (animati da pulsioni, Triebe) e animali (schiavi dell’istinto, Instinkt) è quanto mai scorretta e approssimativa. Nonostante ciò, ancora oggi, nelle parole di psicanalisti come Massimo Recalcati riecheggiano superati ritornelli antropocentrici: «Il corpo animale appare governato integralmente e infallibilmente dalle meccaniche naturali dell’istinto; è un corpo totalmente asservito alle esigenze della riproduzione della specie e determinato dalla necessità della propria autoconservazione» (2012, pp. 126-127). Le specie non umane – dalla medusa al gorilla – sono raggruppate in una categoria indistinta, l’Animale, i cui tratti distintivi sono un’infallibile meccanicità di cartesiana memoria e un principio causale che fa invidia ai deterministi più ortodossi. Non c’è spazio alcuno per ciò che sta oltre l’umano, per ciò che gli scienziati osservano ogni anno in numerose specie, dal delfino ai grandi felini, passando per il bonobo (Pan paniscus), specie che sta al centro delle grandi ricerche sulle scimmie antropomorfe odierne, la cui complessa vita sessuale presenta omologie con quella umana tali per cui parlare di “binari istintuali” appare quantomeno riduttivo. Risulta dunque evidente quanto ancora non sia stata assimilata né compresa un’importante lezione darwiniana: le differenze che separano l’uomo dagli animali non umani, siano esse evolutive, strutturali o cognitive, non sono di qualità ma di grado.
La principale accusa mossa agli impianti teorici costruiti da Freud e da Jung (e successivamente ampliati da numerosi epigoni) consiste nell’identificare tutti gli aspetti che promuovono una “psicologia culturalista” all’interno della quale l’uomo, forte delle sue doti eccezionali di natura esclusivamente culturale, si trova a essere fulcro del mondo, entità priva di connessioni con l’Altro non umano e mancante di strutture psicobiologiche condivise con altri mammiferi. Orbecchi smonta pezzo dopo pezzo i fondamenti della psicologia freudiana e junghiana – dall’inconscio alla sincronicità, passando per la sublimazione e il transfert – al fine di rileggerne alcuni da un punto di vista per così dire moderno, interdisciplinare ed evolutivo, e di proporre una psicoterapia libera da scuole dogmatiche, votata all’accrescimento della consapevolezza evoluzionistica in ogni sua corrente, orientata dal racconto e fondata sul buon rapporto (il rapport di Pierre Janet) fra analista e paziente. Obiettivo ultimo è dunque demolire il “muro di Vienna”, restituendo al tempo stesso importanza ad alcuni precursori ormai sprofondati nell’oblio, come William James e Pierre Janet, i cui studi sono forti di intuizioni e teorie ben più valide, in particolare per quanto concerne la scientificità, rispetto a quelle proposte dai mostri sacri del sapere psicologico definiti, in un affondo provocatorio dell’autore, “morti viventi”. Biologia dell’anima non è un pamphlet scientista il cui intento consiste nel distruggere un secolo di sapere, bensì un lavoro che sostiene la creazione di una psicologia multilivello e che pone alla base di tale operazione contaminante il contributo della biologia, non tanto perché senza biologia non si possa comprendere alcunché, ma perché, come scrive Roberto Marchesini in Post-human: «L’uomo non può essere compreso al di fuori del contesto biologico, non perché le leggi della biologia possano da sole spiegare la sua natura, ma perché è proprio la natura biologica a rendere la sua ontogenesi ricorsiva – anche in quella mirabile costruzione che è la cultura – ovvero inspiegabile assumendo un solo punto di vista» (2002, p. 52).
Bibliografia
Marchesini, R. (2002). Post-human. Verso nuovi modelli di esistenza. Torino: Bollati Boringhieri
Recalcati, M. (2012). Ritratti del desiderio. Milano: Raffaello Cortina Editore